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Gli anni dei manicomi del dolore e della solitudine
ADALGISA CONTI
Il diario di una donna reclusa:
Saggio sulla vita di Adalgisa Conti malata psichiatrica e rinchiusa in manicomio dal 1913 al 1978
Ho conosciuto personalmente la malata che venne internata all'Ospedale Psichiatrico di Arezzo nel 1914, all'età di ventisei anni, struttura nella quale lavorava come infermiera mia madre. Adalgisa Conti fu rinchiusa e ricoverata con violenza in manicomio, dove trascorse tutto il resto della sua vita. La diagnosi medica dell'epoca fu "delirio di persecuzione tendente al suicidio", ma in realtà i maltrattamenti, i tradimenti e la violenza psicologica di suo marito l'avevano resa semplicemente depressa, male che in quei tempi non era riconosciuto come malattia. libro nasce da alcune lettere che la stessa Adalgisa scriveva nello studio del suo psichiatra dove veniva accompagnato sempre da un'infermiera di turno per poi vivere il resto della sua vita in un lungo e doloroso mutismo.
Il dr Luciano Della Mea curò un volume con la storia della malata / degente all'Ospedale Psichiatrico Arezzo:
Manicomio 1914
"Gentilissimo sig.re Dottore, questa è la mia vita"
storia di Adalgisa Conti
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Adalgisa Conti nacque il 28 maggio 1887 e venne ricoverata nell'ospedale psichiatrico di Arezzo il 17 novembre 1913 a soli 26 anni. Ella morirà a 95 anni nello stesso ospedale psichiatrico. Un'intera vita.
Il libro Manicomio 1914 “Gentilissimo dottore, questa è la mia vita” contiene la stessa autobiografia della Conti, una ricostruzione cronologica della degenza della malata dal 1913 al 1977 e cartelle cliniche della stessa Adalgisa Conti. Il libro contiene anche le testimonianze delle varie infermiere che l'hanno avuta in cura, fra le quali mia madre Alda Fabbrini entrata come infermiera professionale nel 1960 e andata in pensione nel 1992.
Adalgisa è entrata in manicomio due anni dopo essersi sposata, donna a detta di chi l'aveva conosciuta prima della degenza, (anche dal sindaco stesso del paese di Anghiari) molto estroversa, comunicativa intelligente ed estrosa. Fu ricoverata dallo stesso marito Probo Palombini (tipografo), la diagnosi fu: "personalità affetta da delirio di persecuzione con tendenza al suicidio".
All’interno dell’ospedale psichiatrico Adalgisa venne chiamata dal medico dell’epoca, il dottor Viviani, in parlatorio, ovviamente accompagnata da un’infermiera per scrivere la propria vita come forse terapia o semplicemente esperimento o intenzione di pubblicare un libro. Scriverà varie pagine e ne verrà fuori una donna sensibile, con una sessualità chiara, ma repressa che per pregiudizi culturali e ignoranza del proprio corpo, sacrificherà alle esigenze di un marito burbero e padrone. Scriverà diverse lettere; nell’ultima, indirizzata al proprio medico curante, racconterà della storia dei 26 anni trascorsi ad Anghiari, prima del ricovero ospedaliero, e dopo quello scritto, tacque per sempre e iniziò il suo viaggio manicomiale fino alla morte.
Un libro denuncia, un caso letterario dove la piaga diventa l’istituzione manicomiale che solo attraverso le terapie a volte non mirate verso alcuni malati, non tenevano conto di quei disturbi che non rasentavano minimamente la pazzia, ma solo problemi a carico di ansie e depressioni oggi curate per fortuna con altri sistemi. Uno strumento letterario, che denuncia ogni tipo di segregazione e violenza psicologica e sociale sulle donne. Un caso umano, una cultura sbagliata, una mentalità chiusa che condannò una donna che aveva solo la colpa di sentirsi in primis sbagliata o contorta per avere pensieri sessuali normali mai accettati.
Nell’introduzione del libro scritta dal giornalista Luciano Della Mea, si legge: «Questo non è il caso di Adalgisa Conti, è la storia di una donna prima della sua vita, raccontata da lei stessa, poi dalla sua “morte” nella regressione istituzionale: anzi si potrebbe dire c’è una storia, poi per 64 anni non c’è più niente se non un tempo vuoto, scandito da annotazioni sempre uguali, da aggettivi stereotipati, gli stessi che si ritrovano in tante cartelle cliniche di lungodegenti che non sono più storia».[1]
Dalla cartella clinica originale* di Adalgisa Conti:
Ha 26 anni, padre bevitore avvelenato per errore di un farmacista, madre vivente e sana.
Ha avuto 17 tra fratelli e sorelle, ma solo 7 viventi: lei è la secondogenita. Dei 5 fratelli e delle tre sorelle, nessuno è sofferente per malattie nervose. La madre ha avuto tre aborti: cinque sono morti piccini ma dopo paralisi. Ha avuto a dodici anni un’emorragia dalla bocca che fu interpretata come un mestruo vicariante e un’enterorragia rilevante. Carattere sensibile, impressionabile: è nipote della Conti Rosa nei Corsi già ricoverata. Ha cominciato ad amoreggiare a 16 anni ed ha sposato a 24 anni. E’ sempre stata gelosissima e molto affezionata verso il marito. Era affetta da anemia fin da giovanissima i mestrui erano irregolari ed appena accennati. Da circa tre mesi ha cominciato ad accusare dolori al capo, soffriva di insonnia, si è fatta melanconica, ha enunciato idee di persecuzione (non voleva uscire fuori perché tutti la deridevano e la guardavano male). Aveva accessi di pianto frequenti. Tre giorni fa, tornato il marito da caccia alla sera, trovò che già la suocera l’aveva fatta trasportare in casa propria avendo dato segni di alienazione mentale e di avere detto di tentare il suicidio ecc
* Dalla cartella clinica di Adalgisa Conti:ricostruzione a cura di Luciano Della Mea
All’interno della cartella clinica vi è una lettera scritta dalla stessa Conti al medico, lettera scritta all’inizio della degenza (1913)[2]
* Gentilissimo e carissimo dottore,
stamani avevo principiato a scrivere, ma poi presa da un momento di eccitazione nervosa, l’ho strappata. Oggi di bel nuovo, mi ha preso il capriccio di rimettermici.
Sono di carattere un po’ volubile e abbastanza sudicia, faccio come una banderuola messa in cima a un campanile o un faro che si volge verso il vento che tira. Lei tanto buono vorrà compatirmi e perdonarmi se vengo a disturbarlo e a domandargli se in un modo o nell’altro vuole accondiscendere e approvare quanto le chiedo. Se la mia vita dovesse trascorrere sempre fra pene e guai, preferisco benché ancor giovane morire che continuarla. Lei che tutto può, io a lei mi affido perché mi faccia andare a casa o a lavorare perché le assicuro che non mi sarebbe di alcun sacrificio. Le ripeto nuovamente che mi do pienamente nelle sue mani, mi uccida o mi renda felice. Sento attrazione per lei, per il Nenci, e per l’Aretoni come se fossi di vita spensierata. Una donna onesta veramente non dovrebbe fare come faccio io, che a dire il vero mi par d’essere prostituta o mantenuta che è la medesima cosa, senza indovinare da chi e a quale scopo…
Numerose sono le lettere che Adalgisa Conti scrisse al medico, lettere che denotano una continua coerenza di pensiero, ma dove il senso di colpa è sempre presente.
Il dottor Viviani, curante dell’epoca, scrive: «Ebbi ad esaminarla, ella ripeteva di essere convinta che non era una donna come le altre, che era maledetta, che era condannata alla dannazione, che doveva scontare grossi peccati, incapace di fare figli perché non ha mai avuto mestrui, che era insensibile durante il coito con il marito ma che praticava, contro la religione, manovre masturbatorie per avere soddisfazione sessuale, non essendo lei una donna normalmente costituita. Non si è ribellata all’idea di entrare in manicomio. Durante il viaggio però ha tentato di gettarsi sotto al treno e all’Albergo di buttarsi dalla finestra».[3] *
Nella cronologia degli anni passati al manicomio, vi è spesso la voce che sottolinea il desiderio di Adalgisa del perdono da parte del marito Probo. La parte del libro che è la cronologia degli anni comprensivi fra il 1913 al 1977, anno prima della chiusura dei manicomi, sottolinea poi i vari processi della malattia che mai cambiano o sviluppano. I giudizi medici anno per anno, la danno come: Conti laboriosa ma disordinata, Conti sudicia, elemento che ama ornarsi di ciondoli e di trine, Conti Adalgisa che si fa sui capelli meches con i propri escrementi, condizione invariata della malata, personalità inaffettiva, di natura incantata.
Dal 1958 si legge che ha imparato a essere più ordinata, gentile, socievole e che aiuta le altre malate, intontita, e sempre fissata che qualcuno le butti una polverina sulla testa. Adesso ama mettersi carte di caramelle fra i capelli e anellini fatti con fili colorati. Timidamente pronuncia piccoli passi di danza.
La parte finale del libro contiene le varie testimonianze delle infermiere che giustificano la Conti e che parlano di lei come le migliori conoscitrici dell’internata stessa. Le infermiere che hanno visto in lei la donna e non solo la malata, la reclusa, la creduta pazza solo perché in un periodo d’ignoranza e impreparazione anche medica verso la malattia mentale, si credeva di ogni problema psicologico una forma di alienazione da curare con il trattamento carcerario/ospedaliero e una farmacologia inadeguata.
Personalmente condivido quanto espresso da Luciano Della Mea nella sua prefazione e alle sue considerazioni mi piace aggiungere il mio ricordo di Adalgisa Conti quando andavo a fare visita a mia madre infermiera, ricordo Adalgisa Conti a sedere nelle panche del grande manicomio di Arezzo, Adalgisa magrissima con un grande grembiulone e con candidi capelli bianchi. Adalgisa che alla fine, molto anziana, dormiva dentro un lettino a cancelli perché fragile, anziana, e prossima alla morte, Adalgisa che poteva cadere, farsi male e restare inerme nei suoi lunghi silenzi.
Negli anni ’70 Franco Basaglia s’impegnò nella battaglia per la chiusura dei manicomi diventando testo di legge il 13 maggio del 1978 con la famosa legge 180 una legge dalle basi certamente legittime sui principi generali, ma anche teoricamente estremizzata e elargita ad ogni forma psichiatrica, anche nei casi di forti e irriducibili manie. Ciò creò molte associazioni pro e a sfavore di tale legge, questo perché , si dovevano prima creare strutture e organizzazioni tali da sopperire i bisogni che poi i malati hanno necessitato in seguito. TSO (Terapie Speciali Ospedaliere), centri di ricovero di cura ed altro. Spesso le famiglie con parenti di gravi patologie hanno dovuto sostenere, presso la propria abitazione, i parenti come meglio potevano. Ci sono stati gravi incidenti, situazioni scomode, vere e proprie difficoltà a carico di chi non aveva certamente le facoltà e le possibilità a sopperire e gestire certi gravi disagi. In seguito furono costruite quelle che vennero chiamate “case famiglia” dove i malati con patologie curabili con terapie farmacologiche, hanno con il tempo imparato una certa autogestione sotto una sorveglianza infermieristica. Con gli anni si sono creati all’interno di vari ospedali civili, reparti psichiatrici dove s’interviene (in genere con T.S.O.) sul degente con farmaci e incontri psichiatrici.
La malattia mentale un tempo era estesa anche a chi soffriva di gravi depressioni, demenze, persone abuliche, elementi apatici, a chi soffriva di manie, di autismo, molti i casi di sindrome di down, omosessuali ecc. Negli anni, dopo esperimenti sugli umani, fra i quali farmacologie errate, elettrochoc, camicie di forza, terapie invalidanti , coercizioni varie, siamo arrivati finalmente a comprendere molto di più su questo mondo di follia dove spesso l’essere umano è solamente un uomo da curare . La psichiatria ha notevolmente raggiunto una preparazione maggiore e un’attenzione importante ai fabbisogni del malato che è seguito fin dai primi disturbi e curato in modalità diverse da caso a caso. E’ fondamentale che all’interno di ogni famiglia vengano notati i vari atteggiamenti inusuali di figli, parenti e altri componenti e non sottovalutare mai le depressioni, le eccessive fobie e manie di chi abbiamo intorno. Non esiste vergogna e non deve esserci alcun tabù per chiedere aiuto, prima che i danni siano irreparabili e irreversibili. Adalgisa Conti sarebbe forse guarita dalla sua depressione e insicurezza se chi la prese in cura avesse cercato di guardare oltre . Adalgisa che entrata in manicomio a soli 26 anni, quando ancora aveva la voglia di dialogare, di raccontare della propria vita, di esprimersi e di confessarsi. Adalgisa che parlava del suo amore al medico, della propria sessualità che credeva anormale, dei suoi giorni trascorsi con il marito.
Adalgisa che dopo avere scritto lettere / confessioni al proprio psichiatra, credendo di essere ascoltata e forse compresa, si accorse forse che tutto era inutile, smise così di parlare per sempre ed entrò in quel mutismo che l'accompagnò fino alla morte all'età di 90 anni passati interamente tra le mura della follia.
* IL presente saggio fu inserito nell'occasione di un evento “disagio e letteratura e pubblicato in seguito da TPLM nell'antologia omonima nell'anno 2014
Marzia Carocci
[2] * Da una lettera scritta da Adalgisa Conti nello studio del dottore curante.
[3] * Appunti del dottor Viviani (psichiatra), sul comportamento della malata Adalgisa Conti