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C’è chi ha scritto che l’ultimo film di Woody Allen, Un giorno di pioggia a New York sarebbe “un film stupefacente” che “si srotola con la cadenza adorabile di un gatto che fa le fusa”, (Simona Santoni, https://www.panorama.it/cinema/giorno-pioggia-new-york-woody-allen-recensione/), oppure che, in esso, saremo chiamati a sperimentare l’ incommensurabile gioia di trovare “una sceneggiatura destinata a fare scuola”, con un “cast di giovani, seducenti nuove icone”, nonché, sopra ogni altra cosa, “un cineasta ultraottantenne che ha trovato la formula per un nuovo incanto”, ritornando alle origini “senza ripetere sé stesso” (Marta Zoe Poretti, https://www.lascimmiapensa.com/2019/11/23/un-giorno-di-pioggia-a-new-york-recensione-woody-allen/).
Ecco, in simili circostanze, vorrei poter intingere la penna (o la tastiera) nel curaro e cimentarmi in stroncature di una ferocia schopenhaueriana … Perché fa una tristezza immensa - e anche tanta rabbia - essere costretti a constatare come un regista del calibro di Allen non riesca ancora a capire che il suo voler continuare a produrre film a raffica, senza ispirazione e senza idee, semplicemente appellandosi alla bellezza dei luoghi, alla capacità degli attori e all’eleganza formale, possa sì svolgere una qualche funzione lenitiva nei confronti delle proprie ansie esistenziali, ma non sia certo operazione artisticamente degna, e neppure eticamente onesta nei confronti di quanti lo hanno amato e ancora, nonostante tutto, continuano ad amarlo.
Insomma, di quest’ultimo film, cosa dire?
A voler essere magnanimi (e col vecchio adorato Woody, come non esserlo?), si potrebbe parlare di estrema fragilità del soggetto, di una sceneggiatura inzeppata di una lunga serie di banali luoghi comuni, di personaggi goffi e poco credibili: il tutto sfociante in un film di mesta scialbezza e di mal sopportabile noiosità …
Un film, soprattutto, desolatamente senza una battuta folgorante, senza un sorriso, senza una forte vera emozione …