L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Per arrivare al Teatro di Villa Lazzaroni bisogna immergersi nel suo verde, attraversare i vialetti cosparsi di brecciolino che segnano ogni passo con un delicato e rilassante scricchiolio. Il teatro sembra volutamente nascosto in questa atmosfera bucolica. Uno staff gentile e cortese accoglie gli spettatori prima che entrino in una bella, confortevole e moderna sala.
Una volta varcata la soglia, si viene accolti da una musica che crea una strana atmosfera e che lascia in sospeso fino all’inizio dello spettacolo, quando incontreremo tre donne che ci racconteranno le loro vite.
Sara (Patrizia Casagrande) è una donna gentile e piena di interessi; sempre disponibile con gli altri si dedica al volontariato. Suo marito è un uomo piuttosto premuroso, ossessivo ed eccessivamente geloso e possessivo.
Rebecca (Valeria Zazzaretta) invece è una giovane e gradevole donna. Ha da poco tempo chiuso una relazione con un ragazzo gentile ma alquanto introverso, forse troppo, di quelli che non accettano la fine di una storia…
Romina (Jaqueline Ferry) è la più grande delle tre, è indipendente, una capace donna separata e in carriera. Per lenire la solitudine, ma anche per rimettersi in gioco e sconfiggere l’apatia, ha iniziato una relazione con un uomo più giovane che scoprirà essere dipendente della cocaina e avere un carattere alquanto mutevole ed altalenante.
Le tre donne hanno in comune il peso di un rapporto malato di cui, per amore o per timore, diventano succubi fino a subire mortificazioni, ferite nell’animo e maltrattamenti fisici. Si tratta di un’escalation graduale, un circolo vizioso di cui diventano inconsapevoli vittime a al contempo passive testimoni della loro ineluttabile fine. Camminano incapaci di reagire sul bordo di questo perverso baratro, dove l’amore è uno sbiadito ricordo. È come una flebile e tremolante luce di una candela che non riesce ad illuminare i pericoli insiti nelle loro esistenze. Una luce talmente tenue pronta a spegnersi, come la loro vita, da un momento all’altro. Pongono inconsapevoli la loro esistenza sul filo di un rasoio, accecate dall’illusione. Prendono degli orchi, uomini disadattati, e ne fanno dei compagni ideali che pian piano svelano la loro vera essenza gettando la maschera.
È però ormai troppo tardi per tornare indietro, sono già cadute nella tela del ragno, stritolate dai loro tentacoli.
Il testo è molto complesso e volutamente contorto, ciò dimostra le capacità e l’adattabilità delle tre attrici sul palco, che si avvicendano nei loro racconti con brevi ed intensi monologhi ricchi di pathos, spezzati da dialoghi tra che le uniscono e le dividono.
Prendono poi, come fossero possedute, le sembianze caratteriali e fonetiche dei loro aguzzini, alternandosi freneticamente nelle parti e rendendo ancora più duro e crudo sia il testo che l’argomento.
Ci appaiono come bloccate in un luogo imprecisato e in un tempo indeterminato. Una sorta di purgatorio che non meritano, se non per la superficiale ma umana, anzi femminile mancanza di riguardo e attenzione per loro stesse. Un sacrificio altruistico che sentono di dover fare ma con l’uomo sbagliato.
Sembrano qui per attendere gli eventi, sospese nel tempo mentre con una forte espressività
comunicano rabbia, paura, sofferenza. Indiscutibilmente brave.
Le luci e la musica creano un’atmosfera lugubre, pesante, tetra e pesante, spezzata da luci improvvise che illuminano le tre donne facendone risaltare le espressioni, gli stati d’animo e la recitazione.
La scenografia è inesistente, è e deve essere fatta solo del buio, quello che le circonda e le inghiotte, insieme alle loro storie. Sono scalze, forse per rappresentare il loro stato di donne indifese, di capri espiatori, di vittime sacrificali designate.
Solo più avanti compariranno tre paia di scarpe, che accoppiate e non indossate rappresentano la violenza sulle donne, anche se non sono rosse ma nere, come il colore della morte che le insidia costantemente. Ognuna di loro porta con sé una valigia, che sembra simboleggiare la loro vita, il fardello che portano dietro, la loro condanna, o anche la loro esistenza, le esperienze e il dolore. Sembrano legate alle valigie, le trattano con cura e le portano sempre con loro come con un invisibile cordone ombelicale. Ne estraggono poi degli indumenti che sembrano la pelle che hanno cambiato, la rigenerazione. Ma ne estraggono anche dei capi maschili con cui costruiscono dei feticci, rappresentazioni dei loro uomini, vuoti e sgonfi, inoffensivi con cui parlano, si confidano, si sfogano, condannano, ma che ancora temono.
Alla fine, verso il triste l’epilogo, svuoteranno con rabbia queste valigie come un solenne atto di liberazione. Un grido silenzioso, una sorta di ribellione e senso di rivalsa se non fisica quanto meno psicologica sui loro persecutori.
Un bel testo, intenso, profondo, complesso e difficile, duro, diretto ma anche rispettoso ed attento a non degenerare. La confusione che si avverte in alcuni passaggi è voluta e serve per ricreare lo stato d’animo delle protagoniste, reso chiari dalle capacità delle artiste che raggiungono empaticamente lo spettatore. Le attrici si rivelano all’altezza del testo e ne restituiscono una proposta teatrale emozionante e toccante che lascia letteralmente inchiodati e col fiato sospeso sulle poltrone.
“Tutte le notti sono una”
di Massimo Natale, Ennio Speranza, Mary Griffo
regia di Fabio di Gesto
collaborazione artistica di Massimo Natale
con Patrizia Casagrande, Jacqueline Ferry, Valeria Zazzaretta
musiche di Massimiliano Lazzaretti