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Dal Whitney Museum di New York arrivano al Vittoriano, a Roma, Pollock e la Scuola di New York.
A detta di uno dei curatori, David Breslin, due dei Pollock più importanti, sono in mostra. In particolare l’attenzione è concentrata sul grande dipinto, Number 27 del 1950.
Si può ancora parlare di dipinto? C’è la tela come supporto, ma non è più, da tempo, quella finestra aperta su un mondo altro, ma del tutto simile al reale. Tridimensionalità fittizia, inganno ben costruito e intelligente dell’occhio. Pollock la mette sul pavimento, la tela, per dipingerla. Lo schermo, dal verticale passa all’orizzontale. Il pennello non la tocca più, ma il colore gocciola sulla superficie, è la tecnica del dripping. Il gesto creativo è una danza magica, movimento nello spazio, action painting.
Non c’è danza senza musica o suono e il gocciolìo non è certo silenzioso.
Sono gli anni Cinquanta, la colonna sonora è jazz e il rock è agli albori.
Suoni e musica emergono anche da alcuni titoli, come nella poderosa Orchestral dominance in Yellow (Predominanza orchestrale in giallo) di Hans Hofmann del 1954. O nel brivido e nella rigidità di The Frozen Sounds, Number 1 di Adolph Gottlieb del 1951.
Tutti i sensi sono coinvolti e la pittura è spessa e materica, tanto da diventare un rilievo quasi tridimensionale e sconfinare nella scultura.
Sono più di due i Pollock in mostra, ma anche il confronto con gli altri protagonisti sembra avvenire due a due: due de Kooning, due Kline, due Rothko.
È soprattutto con Rothko che, dall’azione, si passa alla contemplazione e all’immersione del color field. Un campo di colore abbacinante e coinvolgente, dove il movimento è tutto nella vibrazione destabilizzante, sfibrata e smarginata dei toni.
Il percorso si apre, come al solito al Vittoriano, con la saletta dove è proiettato il filmato introduttivo. Segue la cronologia sul muro che conduce al corridoio di realtà immersiva con proiezione di immagini sulle pareti e la versione jazz di My Favorite Things, brano del musical The Sound of music. L’album di John Coltrane con lo stesso titolo del brano esce nel 1961. L’immersione distrae: perché questo brano? Semplicemente una scelta di gusto o anche tematica per i contenuti della storia? Alla ricerca di se stessi e del proprio destino tra regole e voglia di evasione e di libertà e, su tutto, al di sopra di tutto, l’amore. Non quello da favola, ma quello che lotta, tutti i giorni, con una realtà a dir poco ostile, con sacrificio, generosità e slancio.
L’area selfies con divano sdraiante, isola lo spettatore dal contatto reale e fisico con l’opera e con l’artista e la sua ricerca.
Il touch screen che invita a creare la propria opera alla Pollock, di nuovo rende protagonista lo spettatore, di nuovo, in modo fuorviante: non è più l’unione di corpo-occhio-mente-mano a creare, ma la mediazione attraverso la macchina.
Il digitale può essere il nuovo medium della creazione artistica di oggi, ma che c’entra con Pollock e la Scuola di New York? Può sostituire l’opera? È giusto che lo faccia? Almeno lo faccia in modo dichiarato e consapevole, non subdolo.
Pollock muore in un incidente nel 1956, poco prima Andy Warhol si è trasferito a New York, presente anche al Vittoriano con la mostra in corso fino al 3 febbraio 2019.
Pollock e la Scuola di New York
10 ottobre 2018-24 febbraio 2019
Roma, Complesso del Vittoriano
Orario: da lunedì a giovedì 9.30-19.30
Venerdì e sabato 9.30-22.00
Domenica 9.30-20.30
Ingresso: Intero €. 15,00
Ridotto €. 13,00
Info: + 39 06 8715111
Catalogo: Arthemisia Books €.32,00