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La secolare storia della mafia e la sua identificazione territoriale nonché la mancanza di individuazione degli scopi evolutivi: questi i punti emersi nell’apertura del dibattito.
“Mafia” dunque un marchio che entra a far parte del linguaggio corrente e negli atti giudiziari a partire dal 1863 ma bisogna aspettare ancora due anni per capire (se capire si può) cosa fosse e come operasse.
Era il 1865 quando il prefetto di Palermo Filippo Antonio Gualterio definì con il termine “mafia” l’associazione malandrinesca che si caratterizzava per gli “stretti collegamenti che aveva stabilito con alcuni partiti politici”.
Un disegno chiaro sin dai suoi primi esordi.
Un disegno che, nell’ipocrisia critica comune, ha trovato quell’humus favorevole all’attecchimento dei nuovi Fiori del Male.
Già nel 1890/5 si può vedere nella pratica dello “scrocco” l’antesignana della moderna estorsione.
E’ nel 1893 il primo vero eccellente omicidio di mafia, quello di Emanuele Notarbartolo, prestigioso Direttore Generale del Banco di Sicilia.
E’ il paradosso “Fiero di essere mafioso”, quell’intervento raccontato su “L’Ora” del 28 luglio 1925 dove Vittorio Emanuele Orlando al cinema di Via Ruggero Settimo, in sintesi traduce la parola mafia con quelle caratteristiche imprescindibili dell’essere siciliano, con una “strizzatina d’occhio” ad un potere riconosciuto.
E così fu! Da Rizzotto in poi.
Inosservanti neanche del loro credo, della loro morale, del loro codice (che non tocca donne e bambini), non ci si è fermati laddove necessità ha richiesto il sacrificio di innocenti.
108 ad oggi la stima circa le piccole vittime della mafia.
Alcune ancora in grembo.
In un contesto in cui la carenza di strumenti interpretativi di un fenomeno tangibile e, nel contempo, sconosciuto, induce il Cardinale Ernesto Ruffini, nella sua pastorale che porta data 1964, a negare l’esistenza della mafia.
Ma le stragi del dopoguerra sono la netta ed evidente negazione di ciò.
“Portella della Ginestra” definita dal Pubblico Ministero Scaglione, nel 1953, un “delitto infame” perpetrato verso i contadini intuendo la natura anticomunista dell’eccidio e dove accreditò come principali moventi “la difesa del latifondo e dei latifondisti”, la lotta ad oltranza contro il comunismo che Salvatore Giuliano mostrò sempre di odiare ed osteggiare.
I banditi si presentavano dapprima come “debellatori del comunismo” per poi usurpare i poteri dello Stato.
Già dalla seconda metà del XIX secolo, nonostante le apparenti novità apportate dall’unificazione, in Sicilia continuò a mantenersi il sistema feudale che vedeva le grandi proprietà nelle mani di pochi baroni e la nascita di una nuova classe emergente, quella dei “burgisi”.
E la mafia nasce come mediatrice di un rapporto conflittuale e travagliato signore-bracciante.
La mafia nasce in un contesto di assoluta povertà ma presto si espande al Nord e poi addirittura negli Stati Uniti.
Ma l’America ce la riporta a casa con i suoi carri armati quando nel dopoguerra gli Americani misero i mafiosi a capo delle amministrazioni locali considerandoli sicuri antifascisti.
Necessità storica vuole che siamo i figli (orfani) della seconda guerra.
E ancora ne paghiamo il prezzo.
E così, mentre cosa nostra conferma la sua struttura verticistica, lo Stato non dispone di mezzi adeguati a fronteggiare il fenomeno.
La Palermo degli anni ’60-’70 è una città insanguinata: Impastato, Ievolella, Mattarella, Lo Russo, La Torre, De Mauro, solo alcuni di tanti nomi, di un lungo triste elenco.
Già lo storico Francesco Renda, a proposito degli omicidi Scaglione e Lo Russo parlò di terrorismo politico- mafioso contro la magistratura e la stampa.
Nel 1962 a Palermo esplode la prima guerra di mafia fra i due clan Ciaculli-La Barbera, nell’inconsapevole ironia giornalistica che ha assimilato Palermo alla Chicago anni ’20. Epilogo di questa feroce, suburbana lotta il terribile 30 giugno di Palermo che vide la morte di 7 uomini delle Forze Armate e sancì il passaggio dalla lupara al tritolo. Si ipotizza che i boss possano avere utilizzato artificieri esperti dell’OAS reduci dalla stagione di attentati in Algeria.
Dopo Ciaculli la repressione. Arrestato Luciano Liggio della cosca dei corleonesi.
A suo carico l’omicidio Rizzotto che gli valse la latitanza.
Dicembre 1969 strage di Viale Lazio che pone fine alla vita del boss Michele Cavataro detto “il cobra”. Imputati Riina e Provenzano. La vicenda sancisce l’ascesa dei corleonesi all’interno di cosa nostra. Ma l’errore umano, pur non contemplato, si verifica provocando la morte di Calogero Bagarella, cognato di Riina, scomparso nel nulla.
Settembre 1970 omicidio del giornalista De Mauro.
1982 Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
29 luglio 1983 il turno del giudice Chinnici, padre del pool antimafia Falcone e Borsellino.
Il lungo martirologio che chiude una fase della triste cronaca nera.
Per un periodo l’azione punitiva di cosa nostra nei confronti dello Stato si arresta.
Si arriva poi al primo grande pentito della storia, Tommaso Buscetta, che permise di svelare per la prima volta i meccanismi dell’organizzazione mafiosa dopo l’altra sanguinosa guerra tra le cosche, a cavallo degli anni ’70-’80.
Da questo momento, grazie alle confessioni del “boss dei due mondi” si comincia a parlare di cupola mafiosa.
I segreti rivelati a Falcone permisero l’istruzione del processo simbolo dei rapporti tra cosche e palazzo.
Immagine simbolo di tale collusione il misterioso incontro fra l’ex leader dc, Andreotti, e il boss dei boss, Riina. Il maxiprocesso di Palermo, svoltosi nell’Aula bunker del Carcere Ucciardone di Palermo tra il 1986 e il 1987 fu la prima, vera reazione dello Stato italiano a cosa nostra, conclusosi con 19 ergastoli e 396 rinvii a giudizio.
Purtroppo la risposta arriva il 23 maggio 1992 a Capaci e il 12 luglio 1992 a via D’Amelio.
E questa è storia nota anche oltreoceano.
Tuttavia la legge Rognoni-La Torre n°646 del 13 settembre 1982 introduce per la prima volta nel codice penale la previsione del reato di “associazione” di tipo mafioso (art.416 bis) e la conseguente previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione illecita di capitali.
Dalla mafia arcaica a quella moderna (includendo sotto quest’ultima dicitura un arco temporale molto più vasto che quello dell’oggi).
Dalla divisione degli appalti a tavolino, al traffico di stupefacenti, alle strategie stragiste.
Da quella che fu la cabina di regia, ossia S.Giuseppe Iato, oggi la mafia è in rete avendo individuato i tortuosi meandri della globalizzazione in cui incanalare il traffico di armi.
Meno intimidazioni quindi e la conseguente percezione di una diminuita presenza sul territorio (solo il 38% della popolazione ritiene la mafia un fatto preoccupante) che è solo illusoria. Perché la mafia è una piovra che alterna momenti di potenti efferate esternazioni a momenti di apparente regressione.
Per dirlo con Dalla Chiesa:”la mafia è cauta, lenta, ti misura”.
E ancora con Falcone: un fenomeno sempre diverso e sempre uguale a se stesso che unisce valori arcaici alle esigenze del presente.
Una profezia già sentita in quell’icona di sicilianità che è il Gattopardo.
E in quel lungo lasso di tempo che fu quello della Prima Repubblica la mafia divenne un cancro pervasivo capace di insediarsi in ogni forma di attività sociale.
Del 2013 la legge sul riciclaggio di denaro.
Il 2017 rappresenta un ribaltamento per la vicenda storica mafiosa: da mafia export made in Italy (più precisamente made in Sud) si trasforma in mafia import. Sudamericani, cinesi, nigeriani, albanesi ad alimentare la già lunga schiera di “cattolici perplessi”.
Narcotraffico, prostituzione, riciclaggio nel nome di una comune, ritrovata non belligeranza: questo lo scenario in cui si trovano ad operare le piovre d’oltralpe.
L’emergenza terrorismo e criminalità organizzata ha imposto la ricerca di nuove risposte: Trattato di Lisbona.
Dal locale al globale.
Dal 2013 si parla di crimine transnazionale.
Ora la mafia ha nuovamente cambiato volto (e qui la metafora si fa più reale).
L’ultimo grande affare delle mafie di oggi: la tratta degli esseri umani che presenta un ulteriore, enorme vantaggio rispetto agli affari precedenti, l’eventuale perdita della merce non comporta danno economico.
Quando a morire sono vite umane che, con mille impossibilità, hanno già comunque pagato un viaggio che esso vada a buon fine oppure no.
E sempre in Sicilia, in questa terra vessata, diffamata e violentata, terra di conquista, ieri come oggi, preda di vecchi e nuovi barbari, bacino di voti per il Sud come per il Nord, si rifugiano le nuove vittime sacrificali di un dio onnisciente.
Quella Sicilia che ha pianto il sangue dei “picciotti”, “carusi” e picconieri nella vicenda delle preistoriche miniere baronali, ogni “Rosso Malpelo” di verghiana memoria.
Un fosco passato e un presente negato.
E l’organizzazione dell’evento di oggi nel tentativo di dare una risposta a quella domanda posta in essere dalla dott.ssa Imbergamo: “Perché ancora se ne parla?”
Nel clima di agitazione di questi giorni che pone il dubbio su eventuali depistaggi sull’attentato di via D’Amelio, la risposta emerge sottesa, in quell’Aula dove lo spirito di Falcone è una presenza e non un ricordo, una risposta che tante altre apre e in se’ racchiude: “Perché ancora non è stata resa giustizia”.
In nome di Falcone, Borsellino e di tutti gli altri morti forse meno “eclatanti” ma sicuramente non meno “eccellenti”, nel giorno del 36° anniversario dell’omicidio del capitano D’Aleo a Monreale, alla presenza dei familiari di alcune delle vittime, si è tenuto il 13 giugno scorso a Palermo, presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia, il Convegno: “L’evoluzione criminale di cosa nostra”.
Presenti il dott. Matteo Frasca, Presidente Corte d’Appello, il dott. Salvatore Di Vitale, Presidente del Tribunale, alte cariche militari, è stato osservato un momento di silenzio in memoria del già citato omicidio D’Aleo dietro suggerimento del moderatore dott. Antonio Scaglione, già Vice Presidente del consiglio della magistratura militare.
Relatori il dott. Fabio Iadeluca, sociologo e criminologo, la dott.ssa Franca Imbergamo, della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, la dott.ssa Francesca Mazzocco, Sost. Proc. della Repubblica, il dott. Calogero Ferrara, Procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo.