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I fantasmi del genio: quando l’intelligenza artificiale collabora con gli artisti del passato

By Antonella Piliego April 23, 2025 98

 Dipingeranno ancora per noi. Non con pennelli ma con algoritmi che sognano al posto della mano perduta

 

Immagina una galleria silenziosa dove, accanto a un’opera originale di Klimt, appare una tela mai contemplata, eppure misteriosamente familiare.

Non si tratta di un falso, né di una copia ma di una creazione nuova, generata da una rete neurale che ha assorbito lo stile del maestro e lo ha restituito in una forma mai concepita prima. Un’opera che reca la firma invisibile della macchina e l’impronta silente del genio che non smette mai di parlare, al di là delle sue mani, al di là della sua carne.

In questa apparizione, tanto poetica quanto perturbante, si affacciano interrogativi vertiginosi che non attendono una risposta definitiva, quanto uno sguardo rinnovato.

È giusto evocare i maestri del passato per renderli interlocutori di una nuova estetica, in cui la tecnologia diventa medium e complice? Possiamo davvero far parlare ancora quelle mani scomparse, richiamandone stile, ossessioni, imperfezioni, cicatrici, visioni per trasformarle in materia algoritmica e offrendole al mondo in una sembianza che sfugge al tempo?

 

Su questa linea di confine emerge una nozione affascinante: la co-autorship postuma. Una collaborazione attraverso il tempo, dove l’artista vivente diventa interprete e l’algoritmo si fa medium di una memoria ancora pulsante. Non si tratta di un esercizio stilistico ma di un nuovo modo di pensare la creazione.

Qui, il tempo smette di scorrere in linea retta. Il presente riscrive il passato non per replicarlo bensì per interrogarlo. Il maestro scomparso diventa sorgente creativa, l’artista contemporaneo si fa guida e la macchina orchestra connessioni, silenzi e risonanze con la precisione del calcolo.

Non siamo davanti a una rielaborazione nostalgica. Questa non è una commemorazione, bensì una vera alleanza oltre la morte. Una convergenza di intenzioni e possibilità, in cui l’opera prende forma da archivi, intuizioni e dati, generando creazioni che non appartengono a nessuno in particolare. 

Tra le ombre di un passato sospeso e le luci di un presente reinventato, risuona la riflessione di Walter Benjamin quando nel 1936, scriveva che “ciò che con l’opera d’arte si estingue è la sua aura”. Eppure, se la riproduzione tecnica ne indebolisce l’unicità, la generazione algoritmica sembra offrire un paradossale contrappunto: una nuova forma di aura, non più legata all’originale ma all’esperienza singolare che l’opera suscita. L’arte, così trasformata, non si limita a ripetere. Interroga, sovverte, rilancia. 

Il rischio, naturalmente, è quello di una bellezza standardizzata, replicabile all’infinito e priva di anima. Ma come ci ricorda Kant, “è bello ciò che piace universalmente senza concetto”: una bellezza che risiede nella forma e non nell’intenzione, nella capacità di generare piacere senza spiegazioni. Ed è proprio questo che l’arte generativa riesce ancora a fare: emozionare, spiazzare, aprire nuovi orizzonti, indipendentemente dalla mano che l’ha plasmata. 

È in questo spazio sospeso che si muovono alcuni pionieri del presente come Mario Klingemann e Refik Anadol. Le loro opere non inseguono la verosimiglianza ma aprono gallerie dell’inconscio digitale, dove le visioni di Turner, Rembrandt e Monet si fondono con l’architettura dei dati. È un’estetica della metamorfosi, in cui la pittura incontra la rete neurale e l’immaginazione si espande in direzioni non ancora codificate. 

Tuttavia, è nel dialogo con i grandi del passato che l’intelligenza artificiale sfida davvero il tempo. Con il suo aiuto si tenta una resurrezione audace, come i Santi Apostoli di Caravaggio, perduti e ora ricostruiti attraverso la sua luce, la sua drammaturgia, la sua pennellata invisibile. O come la reinterpretazione della Donna che piange di Picasso, dove lo strappo del volto femminile si dilata in una nuova frattura del senso. Qui la memoria non si limita a ricordare: reinventa. 

In questo crocevia di pixel e intuizioni, il passato non è più nostalgia. È materia viva, che pulsa sotto forma di codice. E gli artisti contemporanei, nel dialogo con questi echi, non sono necromanti ma traduttori. Portano in vita ciò che dormiva, spingendolo oltre i confini del già detto. 

Forse, non abbiamo mai davvero lasciato la caverna di Platone: abbiamo solo acceso nuovi fuochi. Non più ombre, piuttosto immagini generate da dati, da soglie neurali, da algoritmi capaci di intuire. Se prima osservavamo le proiezioni del reale, oggi partecipiamo attivamente all’ineffabile incanto. E’ ancora incanto, o siamo immersi in un’illusione più raffinata? 

Restano domande che pungono come spine sotto la pelle. Dove finisce la mano dell’artista e dove inizia l’autonomia della macchina? Chi è l’autore quando la creazione nasce da un modello e non da un tormento? Quale significato possiamo attribuire alla bellezza se la sua genesi non contempla più l’errore, la fatica, la carne? 

Probabilmente Dalì, di fronte a simili dilemmi, avrebbe sorriso sotto i suoi sottili baffi e si sarebbe divertito, eccome se si sarebbe divertito, accogliendo l’intelligenza artificiale come un’estensione del proprio immaginario, un congegno enigmatico attraverso cui deformare la realtà e moltiplicare i miraggi.

Visionario del tempo liquido, maestro dell’ambiguità e della metamorfosi, Dalí non avrebbe intravisto nell’intelligenza artificiale una minaccia ma un’altra dimensione da attraversare, un nuovo specchio in cui rifrangere l’inconscio, deformarlo, renderlo fertile. E non cercherebbe certezze ma fenditure, spiragli, crepe dove insinuare il dubbio e far fiorire l’assurdo. Lì, dove l’intelligenza artificiale disegna apparizioni sospese, Dalí riconoscerebbe il brivido dell’inafferrabile che  abbraccerebbe con l’eleganza di chi sa che tutto, in definitiva, è sogno. 

È in questo sogno che l’arte generativa si rivela, delineando contorni inediti nel vasto paesaggio creativo contemporaneo. Non è un capriccio effimero bensì una rivoluzione sottile e profonda, capace di reinventare l’atto stesso del creare. Pur priva della carne e del tormento che animano l’artista, conserva nel suo codice l’essenza primigenia del gesto creativo, proiettandola verso orizzonti ancora inattingibili. 

In fondo, ogni trasformazione autentica comporta una rinuncia. Lo sapeva bene Picasso quando affermava: “Ogni atto di creazione è prima di tutto un atto di distruzione.” Forse è proprio questo che l’intelligenza artificiale ci sta insegnando: a lasciare andare l’immagine romantica dell’artista solitario e ispirato, per accogliere un nuovo paradigma, più fluido, collettivo, disseminato. Un’arte che non si esaurisce nella mano che l’ha generata ma continua a rifrangersi, a evolversi e a parlare.

Così, quelli che credevamo, allora, fantasmi sono già presenze. O meglio, echi.

 

 

 

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Last modified on Wednesday, 23 April 2025 06:58
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