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La ricerca di “terre nuove” è il principale determinante della deforestazione, della degradazione forestale e dei dislocamenti produttivi, come l’acquisto di terre all’estero. Quando questi ultimi avvengono in condizioni non trasparenti e in violazione dei diritti umani e delle popolazioni locali alimentano il fenomeno noto come Land Grabbing.
L’appropriazione di terreni agricoli è un fenomeno internazionale in continua espansione, incominciato tra il 2008-2009 a seguito dell’aumento dei prezzi dei beni agricoli e della conseguente crisi alimentare globale, dovuta all’incremento dei prezzi dei cereali e della domanda di cibo, di agro-energie e di nuovi materiali grezzi. Coincidente alla crisi finanziaria globale, la crisi alimentare ha permesso agli investitori (multinazionali, investitori privati, Stati) di identificare nella terra un bene di prima necessità e nei prodotti agricoli asset finanziari su cui speculare, per questo il terreno agricolo è stato rinominato “l’oro verde”.
I protagonisti di questo fenomeno sono i Paesi poveri perché ricchi di materie prime a basso costo e i molti Stati industrializzati privi o quasi di terreno coltivabile. Questi ultimi hanno riscoperto nell’investimento off-shore in terre arabili uno dei pochi modi per garantirsi l’autosufficienza alimentare e assicurarsi la food security. Le suddette pratiche non sono per nulla nuove, di converso lo sono l’istituzionalizzazione, la dimensione e le modalità che l’esercizio di questa attività sta assumendo in un’epoca non più coloniale. Attualmente i principali Paesi acquirenti sono: Arabia Saudita, Emirati Arabi e Paesi del Golfo, Cina, Giappone, Corea del Sud, Libia, Siria, Giordania, ma anche Germania, Usa, Gran Bretagna, e Svezia. Non è difficile immaginare invece quali siano i Paesi che consentono e subiscono queste ingerenze; di fatto l’asse portante degli investimenti in terre è il Sud del mondo. Nella maggior parte dei casi, si tratta di Paesi che rientrano nella fascia con il più elevato rischio di fame e povertà come ad esempio l’Etiopia, la Tanzania, la Cambogia e il Mali. In generale, quindi, ad essere il più colpito è il Continente africano, il che però non risparmia in alcun modo l’America latina e alcuni Stati dell’Asia come le Filippine e l’India.
In ragione del legame tra fertilità di un terreno e disponibilità di risorse idriche, la questione del land grabbing è ormai diventata anche di interesse strettamente geopolitico, in quanto dal controllo e dalla sicurezza idrica di un Paese discende la possibilità di garantire la disponibilità di acqua per usi agricoli. Questo fenomeno, quindi, riveste grande rilevanza per i futuri equilibri geopolitici su scala macro-regionale di tipo sud-sud in relazione ai singoli contesti; inoltre, acquista maggiore importanza anche su scala globale rispetto alle rappresentazioni di nuove relazioni geopolitiche.
Un punto e al contempo una conseguenza su cui oggi si sta dibattendo, con toni alquanto accesi, è la fase della trattativa e della definizione dei contratti tra un Paese e l’altro nell’acquisto di un territorio. La discussione e l’interesse ricadono sulla non trasparenza degli accordi, sulla loro ambiguità, sul non coinvolgimento delle popolazioni autoctone e quindi sull’assenza di tutele. Basti pensare che in Africa il prezzo di acquisto o di affitto a lungo termine (da 50 a 99 anni) per un ettaro di terreno varia da 3 a 10 dollari. Tutto ciò in un sistema di gestione della terra basato su regole informali e tradizionali, riconosciute localmente ma non dagli accordi internazionali, e senza certezza dei diritti fondiari così da non permettere alla maggioranza dei contadini del Corno d’Africa di dimostrare il possesso di una terra.
Contando sulla debolezza dei diritti consuetudinari di chi usa i campi nei Paesi in via di sviluppo, spesso si considerano inutilizzate terre abitate, coltivate e usate come pascolo da più generazioni. Talvolta, si opera su terreni il cui uso è da tempo oggetto di un delicato equilibrio fra etnie, e questo comporta instabilità culturali molto gravi. È necessario che gli attori internazionali di questo great game del land grabbing siano consapevoli del fatto che il cambiamento di sistemi di accesso e di uso della terra significhi dover affrontare questioni e rivendicazioni non solo economiche (come il riconoscimento di indennizzi agli agricoltori locali), ma anche sociali e antropologiche.
Chi tenta oggi di riportare all’ordine questa situazione è indubbiamente la FAO, la quale grazie alla sua posizione centrale, ha annunciato l’adozione di un codice di condotta, attraverso la definizione di un quadro di norme internazionali per regolare le azioni di acquisto secondo linee di trasparenza e nel rispetto dei diritti dei più deboli. Ma le preoccupazioni non si limitano alla dimensione sociale poiché coinvolgono anche l’aspetto ambientale che sempre più preme e tenta di essere preso in considerazione nella conduzione delle politiche dei vari governi. Ricordiamo quindi che i sistemi alimentari sono attualmente i maggior determinanti della perdita di biodiversità globale e locale, principale causa di distruzione degli habitat, e sono anche responsabili di elevatissime quote di emissioni di gas serra e dei connessi cambiamenti climatici.
Il Land Grabbing tuttora lascia molti punti interrogativi, in quanto è assente un documento ufficiale riguardante il codice etico di condotta, già richiesto dalle Nazioni Unite, e che più̀ volte è stato promesso nelle varie dichiarazioni. Le condotte non rispettose dei diritti umani e delle realtà̀ territoriali non possono essere condannabili de jure da alcuna istituzione internazionale, ma le ripercussioni sul territorio e sulle comunità che lo occupano sono un campanello d’allarme che non dovrebbe essere più ignorato. Tale pratica, difficilmente accettabile nel quadro del palcoscenico internazionale immerso nel mare della globalizzazione, rischia di inasprire i divari non solo tra il Nord e il Sud del mondo, ma anche all’interno dei Paesi in via di sviluppo.
per gentile concessione di - Vision & Global Trends.