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IL DHARMAPADA: MESSAGGIO DI SAGGEZZA DI GAUTAMA BUDDHA

By Roberto Fantini November 13, 2021 1972

 

Fra i tanti piccoli e grandi tesori della letteratura filosofico-religiosa di ogni tempo, credo che un posto di particolarissimo rilievo dovrebbe essere riservato al testo del Dharmapada (in lingua sanscrita) o Dhammapada (in lingua pali), presente all’interno di quell’ immenso contenitore che è il Canone Buddhista. Un testo che, nonostante le innumerevoli differenziazioni di correnti e di scuole prodottesi col fluire degli anni (già nel secondo secolo dopo la morte del Buddha si registravano ben 18 varietà dottrinali!), è pressoché universalmente ritenuto una sorta di vero e proprio distillato del pensiero filosofico e del messaggio etico-soteriologico buddhisti. E ciò, nonostante risulti oggettivamente impossibile ricostruire in maniera perfettamente fedele l’autentico pensiero di Gautama: nulla egli scrisse di suo pugno e, prima della stesura scritta delle sue parole, ebbero a trascorrere interi secoli di intensa tradizione orale.

All’interno delle numerose tematiche affrontate nel testo, mi limiterò a soffermarmi soltanto su alcune di esse, dall’ indubbia rilevanza:

  • la centralità del piano mentale non soltanto nell’interpretare e valutare la realtà, ma nella stessa costruzione di questa;
  • la rigorosa correlazione sussistente fra tutto ciò che in noi nasce e si riversa al di fuori di noi e quello che è il fluire della nostra coscienza e della nostra esistenza;
  • il primato di un’ etica “autonoma” (indipendente, cioè, da intercessioni salvifiche, “grazie” e miracoli soprannaturali, mediazioni sacerdotali, ecc.), fondata sulla conoscenza di sé e sulla razionale consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti di tutto ciò che vive.

Già in apertura del testo, ci imbattiamo in alcuni versetti che contengono sinteticamente tutti questi concetti:

1. Gli elementi della realtà hanno la mente come principio, hanno la mente come elemento essenziale e sono costituiti di mente.

Chi parli oppure operi con mente corrotta, lui segue la sventura come la ruota segue il piede (dell’animale che traina il veicolo).

Chi parli oppure operi con mente serena, lui segue la felicità come l’ombra che non si diparte.

(Capitolo primo, Yamaka vagga, Canone Buddhista, a cura di Pio Filippani Ronconi, UTET, Torino 1976)

La mente umana, secondo questa prospettiva, non è destinata ad essere mera spettatrice e osservatrice passiva di un mondo che sussiste in maniera del tutto svincolata rispetto ad essa, ma è chiamata (come ci diranno anche Protagora e Kant), a porsi come centro gravitazionale di una realtà che si modella perennemente in rapporto alle nostre scelte, al nostro essere e al nostro voler essere, e che, proprio da tali scelte, acquisisce senso e valore.

E, al contempo, neppure la realtà è qualcosa di statico. Non è, cioè, oggetto passivo del nostro conoscere e del nostro agire, ma, modellandosi sulla base del nostro pensiero, si relaziona a noi in maniera consequenzialmente coerente, presentandosi a noi certamente come nostra creatura, ma anche come severa forza creatrice dialetticamente incombente sul nostro cammino.

Sta a noi, quindi, decidere in che tipo di mondo vivere.

In un mondo, cioè, dove i nostri pensieri e le nostre azioni colmeranno, goccia dopo goccia, la giara della nostra coscienza e del nostro cammino con marasmi egocentrici impregnati di rivalità, ostilità, odio, desiderio di potenza e di vendetta, oppure in un mondo in cui regnino sovrane le virtù della maitri (amorevole benevolenza), della karuna (compassione), e della mudita (gioiosa letizia).

E a ciascuno di noi spetta la scelta di intraprendere o meno un sentiero di purificazione della propria mente, di progressivo distacco dalla dimensione desiderativa, di apertura del proprio cuore verso tutto ciò che soffre.

A ciascuno di noi spetta di scegliere come modellare il proprio destino: continuare a scivolare sul mondo, come l’uomo “che coglie i fiori” e che viene portato via dal flusso del divenire come un fiume straripante travolge un villaggio addormentato, o rapportarsi alla realtà come l’ape che sa raccogliere il succo dei fiori senza arrecare alcun danno. Come chi vive nella distrazione e nella ricerca mai appagata dei piaceri, o come chi, messi da parte ogni aspro giudizio e ogni risentimento nei confronti dei torti altrui, tutto si concentra sul significato e sulle conseguenze del proprio agire, simile a un fiore magnificamente colorato che diffonde il profumo delle sue virtù anche controvento (Capitolo IV, 47-54).

Come chi, volendo la propria felicità, non si fa scrupolo di colpire esseri che bramano anch’essi la felicità, e che, vivendo come in una bolla d’acqua, si immerge nella sola dimensione dell’avere, oppure come chi, rallegrandosi per la virtù del donare, riesce ad alzarsi in volo come uccello sfuggito alla rete (Capitolo XIII, 170-177).

Dalla lettura del testo (accessibile anche a coloro che non godono di particolare familiarità col mondo culturale dell’antica India), emerge in maniera evidente come l’intento della predicazione del Buddha sia stato, prima di tutto (come ha ben colto il Radhakrishnan), quello di conferire all’impegno etico e al problema della salvezza un posto di assoluta centralità, liberando il territorio della riflessione e della ricerca dalle “pedanti distinzioni delle astruse metafisiche”, “dall’ abitudine del questionare senza posa” e dal “raffinarsi della ragione nelle sottili dispute delle sette” (La filosofia indiana, Einaudi, Torino 1974, p. 360). Facendo in modo che la caoticità dominante in sede di dibattito teoretico non finisse più per adombrare ed inquinare l’ambito della coscienza etica. E ciò affidandosi non certamente al principio di autorità, bensì esortando sempre ad una personalissima assunzione di responsabilità e attingendo forza e sostanza non da formule sacerdotali e magici rituali, ma dall’esame lucido della realtà, dal rigore della logica e dalla acutezza delle conoscenze di natura psicologica.

Il cammino della salvezza, infatti, liberato da superstizioni e scetticismi, è qualcosa che riguarda unicamente il singolo individuo.

La dottrina proposta non si dovrà mai basare su dogmatismi inverificabili: il Buddha a tutti dice di “venire a vedere con i propri occhi”, ponendosi egli non come un Salvatore-Liberatore, ma come chi desidera insegnare il modo per potersi liberare con le proprie forze.

Quando Ananda, il discepolo più vicino al Buddha, gli domandò come comportarsi, in futuro, nell’organizzazione e nella gestione della comunità monastica, ricevette la seguente risposta, che, assai emblematicamente, racchiude lo spirito autentico della saggezza buddhista, efficacemente espressa in tutto il testo del Dharmapada:

“Siate voi stessi la luce che v’illumina;

siate voi stessi il vostro rifugio;

non ricorrete ad alcun rifugio esterno; attenetevi fermamente alla verità come a un rifugio;

non cercate rifugio in nessuno, all’infuori di voi stessi.” (ivi, p. 431)

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