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fratel Jean-Pierre Schumacher |
Se ne è andato anche Jean-Pierre, l'ultimo monaco di Tibhirine, sopravvissuto alla strage del '96. Ci aveva raccontato la convivenza con i musulmani in Algeria, la notte dell'assalto islamista, la sua vocazione.
La settimana scorsa è morto fratel Jean-Pierre Schumacher, l'ultimo sopravvissuto al massacro avvenuto nel 1996 dei trappisti del monastero di Tibhirine, in Algeria, rapiti e poi uccisi da militanti islamici: due mesi dopo - la notizia fece il giro del mondo - le loro teste furono fatte trovare a un crocevia, dei corpi non si seppe più nulla.
Quella tragica notte fratel JeanPierre scampò al sequestro perché era di servizio in portineria, in un edificio adiacente al monastero. Se n'è andato all'età di 97 anni nel monastero di Notre Dame de l'Atlas a Midelt, in Marocco, dove allora dopo la strage: l'unica presenza trappista rimasta da in Nordafrica. Dove lo incontrai. Pubblichiamo parte di quel dialogo.
I sette monaci uccisi sono stati beatificati nel 2018 a Orano, insieme ad altri dodici martiri d'Algeria.
Perché ha scelto di farsi monaco?
«Ho sentito in me una chiamata per questa vocazione. Pensavo che Dio stesso mi chiamava, per dare totalmente a lui la mia vita. Mi piaceva molto vivere in un monastero: una vita di silenzio, di lavoro, di preghiera. Una vita fraterna, di comunità. Un cammino di comunione verso il Signore. Convertirmi a una vita sempre più disponibile verso Dio, e lasciarmi trasformare da Gesù. Sono arrivato a Tibhirine il 19 settembre 1964».
Com’era la vita laggiù all’epoca?
«Ci aveva chiamati il cardinale Duval, per conservare il monastero che stava per essere chiuso. Era dopo l’indipendenza dell’Algeria, l’ambiente era totalmente musulmano, non c’era un solo cristiano nei dintorni. Eravamo in montagna, sull’Atlante, a 1000 metri di altitudine. Questo era il progetto che ci hanno proposto: fare l’esperienza di una piccola comunità povera. In passato possedeva una proprietà di 150 ettari, ma era stata ceduta quasi interamente allo Stato. Erano rimasti una dozzina di ettari, di cui solo cinque coltivabili, e con quello bisognava vivere.
Dovevamo farci accettare come monaci e come francesi in un ambiente totalmente musulmano. Potevamo ispirarci ai documenti del Concilio riguardanti le religioni non cristiane, per poter instaurare un nuovo stile di relazioni.
Non cercavamo di convertire, ma solo una convivialità con la gente per progredire così nella mutua conoscenza, nella stima reciproca, e infine aiutarsi ad andare insieme verso Dio, ognuno con la propria fede. Per essere noi dei cristiani migliori e aiutare loro a essere musulmani migliori»
Qual è la sua idea sull’islam?
«È molto difficile da dire, perché l’Islam è qualcosa di molto vario.
Quello che ci è piaciuto molto a Tibhirine è stata la vicinanza alla gente, e il rapporto con dei Sufi che abbiamo conosciuto nel 1979. Ci incontravamo due volte all’anno da noi al monastero, partecipavamo ad un gruppo di spiritualità che si chiamava “il legame”. Ci avevano chiesto di non parlare di teologia perché non si poteva progredire molto così, dato che le nostre fedi erano differenti. Ci hanno proposto fin dall’inizio di pregare insieme, in silenzio. Eravamo riuniti in una saletta, con tappeti tutt’attorno e un tavolino in mezzo. Stavamo seduti per mezz’ora in comunione con Dio,».
Li chiamavate «i nostri fratelli musulmani».
«Sì perché volevamo che tutti fossero fratelli. Padre De Foucauld voleva essere il fratello di tutti gli uomini, qualunque fosse la loro religione e la loro ideologia. Questa è una meta verso la quale tendiamo incontrandoci con gente totalmente diversa da noi. A Tibhirine si diceva “i fratelli della montagna” e “i fratelli della pianura”: i fratelli della montagna erano i combattenti, che volevano un altro governo; i fratelli della pianura erano i militari. Chiamavamo fratelli sia gli uni che gli altri perché non volevamo prendere posizione nella battaglia che combattevano. Volevamo che tutti fraternizzassero».
Ci racconta il rapimento?
«Era la notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, verso l’una. Io ero portinaio notturno, mi sono svegliato al rumore delle voci davanti al cancello e ho pensato: “Ecco sono qua, sono quelli della montagna, i combattenti. Vorranno senz’altro vedere il dottore e ricevere delle medicine, avranno qualcosa da chiederci”. Toccava a me aprire il cancello, ma erano già entrati, erano vicini.
Allora vado a vedere alla finestra, senza accendere la luce, e ne vedo uno che entra con il suo turbante e il suo fucile in spalla dalla piccola porta del muro di cinta che dava sulla strada. Normalmente non sarebbe potuto entrare, visto che il cancello lo chiudevo tutte le sere con un grosso lucchetto. Fratello Christian, il priore, era uscito e ho pensato che fosse stato lui a farli entrare. Un quarto d’ora dopo sento la piccola porta che si richiude, quindi ho pensato che se ne fossero andati. Poco dopo qualcuno venne a bussare alla mia porta a vetro: apro e vedo padre Amedée che mi ha raccontato subito quanto era successo, e cioè che i padri erano stati rapiti e che eravamo rimasti da soli. Aveva trovato tutte le luci accese, e Frère Luc era sparito. Cristian anche lui era sparito.
I cassetti erano aperti, la stanza sottosopra; c’erano carte dappertutto per terra, e i fili del telefono erano tagliati. È salito al primo piano per vedere se c’era ancora qualcuno che non fosse stato preso, ma lì vede la stessa scena: le cinque stanze vuote e i cinque frati scomparsi. Padre Amedée e io abbiamo subito capito che i rapitori erano i combattenti islamici».
Cosa sente nei confronti di queste persone?
«Non so, è difficile per me giudicare, perché non so chi è responsabile. Da anni si indaga per sapere del rapimento dei fratelli e dove sono stati portati, come sono stati uccisi, chi li ha uccisi...Ancora non si sa. Le persone che hanno portato via i padri possono essere state utilizzate da altri. È difficile dare un giudizio. Noi ci aspettavamo che da un giorno all’altro succedesse qualcosa, dal 1993 vivevamo in una situazione di pericolo. Poteva accadere qualsiasi cosa in qualsiasi momento, e c’era talmente tanta gente nelle nostre stesse condizioni in tutta l’Algeria... Sono morte migliaia di persone».
Perché siete rimasti?
«Non eravamo unanimi all’inizio. Penso che la ragione principale sia la ragione stessa della nostra vocazione. Siamo stati mandati in Algeria per stabilire un contatto con l’Islam, per vivere con la gente una vita di convivialità e progredire in uno spirito di mutua fraternità. E la nostra vocazione, la nostra missione non era terminata nonostante quella situazione di pericolo. Nostro Signore è il nostro maestro, quello che ci ha mandati qua, ed è a lui che obbediamo. Penso che per noi andarsene sarebbe stato come per un soldato al fronte disertare. C’era una sola ragione che ci poteva far partire: la gente che viveva attorno a noi. Se loro ci avessero detto: “Dovete andarvene, perché la vostra presenza rappresenta un pericolo per noi” saremmo partiti. Ma era tutto l’opposto: volevano che noi rimanessimo, la nostra presenza era una sicurezza per loro, che erano in pericolo come noi. Uno ci disse: ”Se partite che cosa ci succederà? Siamo come l’uccello sul ramo: se si taglia il ramo dove si poserà?”. È stato un impegno nei confronti dell’Algeria e della popolazione locale, una sorta di matrimonio. Non eravamo lì per essere martiri, non era il nostro obiettivo. Il nostro obiettivo era rimanere con la gente, anche se si sapeva benissimo che si poteva finire uccisi».
Carlo Carretto si chiedeva: «Perché la fede è così amara?».
«Bisogna guardare alla vita di Gesù: è lì che si trova la risposta. Gesù ha vissuto una morte molto crudele e la ragione per la quale ha dato la sua vita liberamente si vede il Giovedì santo, quando ha preso il pane e ha detto: “Questo è il mio corpo offerto per voi, questo è il mio sangue versato per voi”. Ha dato la sua vita affinché noi avessimo la vita, la vita di Dio. Non ha esitato. Sapeva che poteva andare incontro a momenti molto difficili, ma non ha indietreggiato. Aveva paura della morte e delle sofferenze che lo attendevano; ha enormemente sofferto durante l’agonia ma alla fine ha detto: “Sia fatta la Tua volontà”. Allora, perché la fede è così amara? È a causa del male che c’è nel mondo».
Cosa può dire ai giovani?
«Oggi tanti giovani sono molto generosi, ma sono attratti da ogni sorta di oggetti in fondo inutili. E rischiano di dimenticare l’essenziale. L’essenziale è far sbocciare quello che c’è di meglio in noi, come dice Guy Gilbert, un educatore degli emarginati: “C’è in ogni uomo, nel suo profondo, qualcosa di intatto, che non è mai stato rovinato”. E questa parte, che abbiamo tutti, ognuno deve cercare di svilupparla. Ma per riuscire a farla sbocciare non è solo, c’è lo Spirito Santo che parla al suo cuore, lo può incontrare nella preghiera e gli indica il cammino. Ma ci sono anche le buone compagnie, ci sono le associazioni, i movimenti di giovani. Voglio usare un’immagine che mi ha offerto un Sufi: “Quando la farfalla batte le ali – mi diceva - produce delle onde che si ripercuotono fino in capo al mondo”. Chi cerca il bene, chi cerca di far sbocciare il meglio di se stesso è come questa farfalla: produce delle onde che vanno in capo al mondo, la sua vita non è inutile, partecipa a far salire il livello del bene e dell’amore. Nessuno è inutile con il Signore, non c’è disoccupazione, sia quando si è piccoli sia quando si è anziani: il cantiere è immenso e tutti sono invitati a lavorarci».
L'amore vince su tutto?
«Qualsiasi siano le difficoltà, le sofferenze, il male che c'è nel mondo, è l'amore che avrà l'ultima parola. Questo è un atto di fede; siamo fatti per l'amore; l'amore vincerà il maschio. Non con la forza, con le armi, l'amore trionfa sul male perché è più forte. Ma non basta la persona umana: l'amore è una relazione con Colui che è la sorgente dell'amore. Gesù ha patito sofferenze indicibili sulla croce, per ore e ore, ma le ha vinte restando amore. È così che ha trionfato sul male, è rimasto amore fino alla fine»