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Hermann Hesse parlava dell’ozio come di un’arte di matrice orientale, una pratica perlopiù sconosciuta alla cultura dell’occidente, nella quale – come il nostro autore sottolineava a più riprese – l’industrializzazione e il progresso della tecnica erano le uniche risorse tramite cui l’umanità avrebbe tracciato il proprio cammino. Ebbene, l’efficienza era un principio cardine, imperante, che già ai tempi di Hesse provvedeva sistematicamente nel guidare il singolo nel pensiero e nelle scelte, in cosa fosse più conveniente alla luce di bisogni contingenti, della volontà spersonalizzata delle masse e dei doveri sociali, il tutto in ossequio a un imperativo opportunistico incentrato sulle virtù secolari dell’utile e del necessario.
La particolarità di autori come Hesse risiede in quella lungimiranza che schiude nella mente del lettore contemporaneo la consapevolezza di fenomeni che risentono solo in apparenza dei cambiamenti del tempo e nei quali l’atteggiamento acritico dei molti si è manifestato attraverso varie forme sotto l’egida della normalità. L’ozio concepito da Hesse è in un certo senso una specie di pratica esoterica, appannaggio di quei pochi (coraggiosi) che sanno come andare controcorrente. L’affermazione di una volontà individuale, libera dalle logiche dell’epoca, non era solo l’espressione di uno stile di vita atipico e poco ordinario, bensì un vero e proprio atto di eroismo per sé stessi e per tutti quegli spiriti affini nei quali, al centro delle proprie esistenze, fioriva solitario il sentimento artistico. L’autore ci metteva oltretutto in guardia dalla facile associazione dell’ozio al puro e semplice far niente, o al vizio della procrastinazione che distoglie la persona dalla contemplazione del qui e ora, dall’accettazione più autentica della vita vissuta istante per istante. A tal proposito, vengono in mente le parole del celebre mistico indiano Jiddu Krishnamurti quando alla domanda “Qual è il vero fine della vita?” risponde: “E’, prima d’ogni cosa, ciò che ne fate; è ciò che fate della vostra vita”. Dietro l’apparente semplicità di questa osservazione, Krishnamurti lancia un monito rivolto a chi, invece di vivere con consapevolezza il proprio tempo, si limita a subirlo. Un appello a coloro che ricercano incessantemente risposte eloquenti e definitive senza interpellare prima di tutto se stessi, senza riflettere sulle domande giuste da porsi.
Tuttavia, sarebbe un errore se vedessimo nella pratica dell’ozio un metodo infallibile per adattare – in maniera del tutto personale – il tempo a disposizione ai ritmi della produttività, seppur nobilitata da finalità artistiche; vista come la conquista di un senso, la consapevolezza di sé non implica automaticamente la paura e il disprezzo dei cosiddetti “tempi morti”, dei momenti di pausa nei quali il tempo opera in modo misterioso. L’incubo dell’artista consiste proprio in questo mistero, nell’incomprensibilità racchiusa in istanti di silenziosa inoperosità ai quali si contrappone l’ossessiva esternazione del genio; parliamo di situazioni in cui secondo lo scrittore tedesco “…l’artista stesso viene sorpreso e deluso ogni volta da simili pause, ogni volta egli cade nelle stesse angosce e negli stessi tormenti […]”. Ma nelle esperienze individuali custodite nei suoi racconti, Hesse offriva al pubblico la dimostrazione che non esiste spirito dotato di sensibilità artistica destinato a ristagnare nell’ozio.
Per l’appunto Nell’arte dell’ozio Hermann Hesse riesce a descrivere con forza l’immagine di chi esercita con grazia e spontaneità l’oziare, e del legame che intercorre tra tale pratica e la catarsi spirituale, elemento imprescindibile per la crescita del sé. Viene in mente la novella Il pittore, in cui l’autore raccontava la storia dell’artista Albert, la cui produzione artistica, per quanto ispirata fosse, era fatta di continui insuccessi. Nessun plauso da parte del pubblico; la speranza che le sue opere suscitando forti emozioni sarebbero state un giorno apprezzate rimaneva soltanto un’illusione. Nonostante la delusione, Albert, stanco delle preoccupazioni quotidiane, abbraccia uno stile di vita che lo avrebbe cambiato completamente. Smette di produrre, e comincia ad osservare la natura con le sue bellezze. Cede alla solitudine, accoglie il silenzio; si lascia inebriare senza le interferenze di pensieri e volontà. In quei momenti Albert sente svanire il proprio Io - influenzato dall’approvazione esterna - a favore di una totale simbiosi con la natura. Alla fine, l’artista riprenderà a dipingere, questa volta con più fortuna, eppure continuerà ad “andarsene via di nuovo alla chetichella”, deciso a lavorare solo per trarne piacere personale.
L’artista compie una scelta coraggiosa, ma soprattutto pienamente consapevole. Egli si limita ad osservare e ad accettare le cose nella loro più assoluta semplicità. Ma per farlo, come insegna Hesse attraverso la storia, è stato necessario interrompere l’ordine del tempo. Scelta semplice, non impossibile, nella quale è pur sempre richiesta un’inaspettata dose di coraggio da parte di chi vi si affida interamente. Perché è la sospensione dei nostri pensieri, delle ansie quotidiane e del bisogno morboso di ciò che è al di fuori di noi stessi che rende la mente realmente libera, attenta e ricettiva. La cura dell’ozio è una pratica fondata sulla capacità di abbandonare innanzitutto un “Io” conformato e saturo di conoscenze, seguendo l’appello di Krishnamurti sull’apertura totale alla sensibilità come atto essenziale per una mente non solo libera ma anche creativa. L’ozio non richiede nessun atteggiamento devozionale o fideistico, né rituali a cui adeguarsi per aspirare alla realizzazione di un presunto “stato di benessere”. È semplicemente l’espressione di un animo svincolato dalla pressione del giudizio altrui e dalle continue sollecitazioni di chi non conosce altra verità all’infuori della prestazione e del risultato immediato. Per Hesse, l’ozio – come ogni arte – non era che un atto di gentilezza verso sé stessi, riservato a coloro che riconoscono nell’attesa stessa qualcosa che va oltre l’enigma e l’apparente confusione che inibisce e disorienta. Contrariamente alle leggi che deliberatamente non facciamo altro che seguire al fine di non tradire aspettative, per autori come Hesse in fin dei conti “Non resta quindi altro che aspettare”.