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LA VIA DELLA COMPRENSIONE COME FONDAMENTO PER I DIRITTI UMANI

By Roberto Fantini May 19, 2018 9832

       L’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani indica esplicitamente le coordinate entro le quali sviluppare una efficace opera educativa indirizzata a costruire un mondo liberato dal cosiddetto “flagello della guerra”:

“ (…) Essa (l’istruzione) deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi …”

Nell’articolo 5, 3 della Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali (Unesco, 1978) ritroviamo una analoga enunciazione delle stesse finalità anche a proposito dei mezzi di comunicazione:

“ I grandi mezzi di informazione e coloro che li controllano o li gestiscono (…) sono chiamati - tenendo nel dovuto conto i principi formulati nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e specialmente il principio della libertà di espressione - a promuovere la comprensione, la tolleranza e l’amicizia tra gli individui ed i gruppi umani, ecc.”

E nella successiva Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (1989), a proposito degli obiettivi fondamentali dell’educazione, inserita in un contesto più ampio e circostanziato, l’articolo 29, 1, afferma:

“ (…) l’educazione del fanciullo deve avere come finalità: (…) d) di preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, ecc.”

Ritenendo evidente il fatto di trovarci di fronte a scelte lessicali di natura non fortuita, al fine di meglio comprendere la filosofia politica di cui sono coerente espressione, sarà utile porsi i seguenti quesiti:

  1. L’ordine dei tre termini ricorrenti (comprensione- tolleranza-amicizia) quale concatenazione teorica sottintende?
  2. Perché, prima ancora della tolleranza e dell’amicizia, viene evidenziata la necessità della comprensione?
  3. Quale/i significato/i dovremmo attribuire a tale termine?

Credo che si sia voluto conferire un’importanza basilare e propedeutica al concetto di comprensione al fine di asserire che ogni discorso in merito a tolleranza e ad amicizia tra i popoli che non presupponesse una adeguata formazione conoscitiva, potrebbe risultare del tutto vano, se non addirittura retorico o ingannevole. Ciò secondo un procedimento logico-argomentativo analogo a quello rintracciabile già nello stesso incipit del Preambolo della Dichiarazione del 1948, relativamente alla inscindibile concatenazione

DIRITTI UMANI - LIBERTA’- GIUSTIZIA - PACE:

Considerato che il riconoscimento della dignità umana inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo …”

Un avvertimento, quindi, un’ esortazione miranti a mettere in luce come, volendo prescindere dalla comprensione, risulterebbe del tutto fallimentare parlare poi di tolleranza e di amicizia.

Perché? Perché altrimenti si potrebbe rischiare di propagandare, troppo semplicisticamente, una sorta di “strategia dei buoni sentimenti” o delle “buone intenzioni”, senza andare minimamente ad intaccare e ad attaccare, sul piano conoscitivo (ma anche psicologico), quelle che sono le barriere, le resistenze, le diffidenze che tanto spesso ci impediscono di relazionarci all’altro con serenità e rispetto, in un’ottica di sincero spirito di uguaglianza.

Si potrebbe affermare, anche, che dietro il rifiuto dell’altro ci sia sempre un deficit di carattere conoscitivo. Guardiamo con perplessità - sospetto - timore ciò che non comprendiamo e il timore è, molto probabilmente, la causa principale di ogni intolleranza. Perché se ci sentiamo in pericolo, se guardiamo con timore colui che non comprendiamo, saremo facilmente indotti ad assumere atteggiamenti ostili, con tutto quello che ne potrebbe conseguire. E se ci troviamo in una condizione di ostilità - rifiuto, ogni appello alla tolleranza, all’accoglienza e all’amicizia è tristemente destinato o ad essere ignorato o ad essere recepito in maniera epidermica se non addirittura infastidita.

In un prezioso lavoro di Paola Tabet (La pelle giusta, Einaudi) di qualche anno fa, ma ancora attualissimo, fra le tante reazioni e risposte fornite da bambine/i di scuola elementare e media inferiore al quesito “Se i miei genitori fossero neri”, possiamo imbatterci in terribili parole come le seguenti:

Ma ogni mattina a vedere due neri in casa passerei paura e a mezzogiorno mangerei vermi anche a cena e ciò farebbe venire il vomito” (Tamara, Ferrara, III elementare);

Se i miei genitori fossero neri io li manderei di casa anche se fossero buoni. Perché io ho paura dei neri perché uccidono i bambini e fanno del male” (Montedoro, Caltanissetta, IV elementare);

I negri rubano per vivere, certi negri invece, per guadagnare molti soldi vendono anche la droga …” (Roma, V elementare).

Di fronte all’altro (in questo caso le persone di pelle scura, ma il discorso potrebbe riproporsi per rom, musulmani, sikh, testimoni di Geova, disabili, ecc…) questi bambini dimostrano di trovarsi culturalmente e psicologicamente impreparati , sprovvisti, cioè, di chiavi di lettura che possano loro consentire di entrare in relazione con esso, avvertito come realtà impenetrabile - indecifrabile. E quindi come realtà irraggiungibile in quanto priva di ogni indispensabile aspetto di affinità con il proprio sé e i propri orizzonti di riferimento.

Nello stesso tempo, però, ecco che a tale mancanza vengono a supplire gli schemi interpretativi socialmente acquisiti e sedimentati nella propria coscienza, i quali riescono a cancellare ogni possibilità alternativa (“… anche se fossero buoni …”). In quanto risultato di un processo di iper-generalizzazione, essi hanno, infatti, la capacità di annullare ogni distinzione, ogni sfumatura, ogni peculiarità individuale, hanno la capacità, cioè, di mettere a tacere la voce dell’esperienza prima ancora che possa esprimersi e prima ancora, quindi, che possa produrre conoscenza. In tal modo, l’altro, che non si è in grado di comprendere, finisce per essere risucchiato nel “noto”, inglobato, cioè, all’interno di ben determinati e collaudati stereotipi (nero=selvaggio=soggetto subumano “naturalmente” capace di ogni “bestialità”), grazie ai quali ogni singolo spezzone di realtà viene ad inserirsi in un tutto dove regnano ordine e chiarezza e dove nulla appare imprevedibile.

Stereotipi dalle radici antiche: antiche, potremmo dire, quanto le paure degli uomini e il loro bisogno di ordine e di sicurezza, filtrate e plasmate, però, sulla base delle disumanizzanti esperienze coloniali. Sarà un caso, mi chiedo, che i neri immaginati dalla nostra bambina ferrarese mangino vermi come i “selvaggi” descritti da certi osservatori europei di qualche secolo fa, approdati sul continente americano?!

Di fronte a ciò, appellarsi semplicemente al dovere di “essere generosi, solidali e antirazzisti”, può ottenere soprattutto (e forse soltanto) il risultato di stendere una patina ottundente sopra un coacervo assai intrigato e stratificato di pregiudizi, ostilità, diffidenze, timori, ecc. Riuscendo, nel migliore dei casi, a creare soltanto qualche fragile argine inibitorio e finendo, molto spesso, nel favorire atteggiamenti ipocriti e contraddittori, sorgenti inesauribili di sventure.

Ma una strategia fondata sulla comprensione cosa dovrebbe comportare?

Innanzitutto, direi che dovrebbe promuovere, in ogni ambito e a tutti i livelli, un atteggiamento di accentuata intonazione socratica, ovvero di umile riconoscimento del proprio “non sapere” e non poter comprendere, del proprio non essere in grado di comprendere fino in fondo l’insondabile misteriosità dell’altro. Se sono consapevole di questo, infatti, se ho il coraggio di non mascherare od occultare la mia condizione di ignoranza, allora qualcosa di importante in me potrebbe davvero accadere. Ma passaggio obbligato sarà quello di prendere le distanze dalle tante risposte già date, dalle tante immagini codificate, nonché dalle innumerevoli e ingombranti etichette pre-confezionate …

Sarà indispensabile, cioè, imparare a guardare dal di fuori gli schemi interpretativi a cui meccanicamente facciamo ricorso, imparare a liberarci delle lenti colorate che ci sono state (e che ci siamo) affibbiate e che noi abbiamo finito per credere parte integrante del nostro io.

Operazione non facile, certo, perché, come ci ha ben spiegato Primo Levi :

“Sradicare un pregiudizio è doloroso come estrarre un nervo”.

Ma operazione irrinunciabile e irrimandabile se vogliamo veramente costruire un mondo in cui regnino il dialogo e la pacifica collaborazione. Come ci insegna il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh, le nostre vite non sarebbero al sicuro dalla violenza e dalla paura neppure se trasportassimo tutte le bombe sulla luna, “perché le radici della guerra e delle bombe sarebbero ancora nella nostra coscienza collettiva”.

Soltanto grazie ad un responsabile e accurato lavoro sul piano del cogito, sul piano, cioè, delle nostre gerarchie valoriali e delle nostre chiavi di lettura della realtà, sarà possibile poter sperare in una liberazione della nostra coscienza personale e collettiva da tutte le tossine (generatrici di bombe) dell’ignoranza camuffata da verità.

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Last modified on Thursday, 24 May 2018 15:54
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