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Se l’utopia muore - Riflessioni su disincanto giovanile e diritti umani.

By Roberto Fantini June 09, 2018 10155

      

Chiunque abbia avuto occasione di colloquiare con i giovani di questo nostro complicato tempo, intorno a questioni di attualità e, soprattutto, in merito alle prospettive per il futuro (loro e del mondo), si sarà sicuramente imbattuto in atteggiamenti molto diffusi caratterizzati da quello che potremmo definire rifiuto dell’utopia.

Di fronte a problemi come la violenza in tutte le sue più efferate declinazioni, i conflitti sempre presenti, l’inquinamento ambientale, le innumerevoli forme di ingiustizia socio-economica, ecc., assai frequentemente, infatti, i giovani (ancor più dei meno giovani) si trovano ad esprimere ferme convinzioni a sostegno del cosiddetto carattere “naturale” (e, dunque, incorreggibile e ineliminabile) della malvagità umana e della consequenziale impossibilità di cambiare il corso della storia, presentandoci pertanto, in maniera più o meno amara e rassegnata, una sorta di “filosofia di vita” in cui il mondo risulterebbe dominato dal “Male”, a causa della natura malvagia, egoista e violenta dell’uomo, cosa questa che renderebbe irrealizzabile qualsiasi sogno di trasformazione radicale della nostra storia. E’ evidente che, qualora non si riuscisse a mettere in crisi questo tipo di visione del mondo (aprendovi almeno qualche breccia), evidenziandone i punti deboli, le contraddizioni, gli apriorismi poco razionali e molto dogmatici, se non si riuscisse a immettere nella coscienza giovanile i necessari anticorpi psicologici, etici e conoscitivi, sarebbe impresa assai ardua, se non proibitiva, riuscire a portare avanti qualsiasi discorso ed iniziativa incentrati sul valore universale e costruttivo dei Diritti Umani e sulla concreta possibilità di liberare veramente il mondo dal “flagello della guerra”.

Di fronte a un simile disincanto, credo che tutti noi adulti, insegnanti, educatori, professionisti dell’informazione, politici, ecc., non dovremmo limitarci ad esprimere amarezza e delusione, bensì sentirci chiamati a mobilitarci per far sì che non venga a spegnersi del tutto la capacità di sognare un “mondo più umano”. Ma, prima di ogni altra cosa, non dovremmo, però, mai eludere i seguenti interrogativi:

-          Questi giovani così poveri di speranza in che rapporto stanno con la società adulta? Ne sono l’insolita negazione o la coerente oggettivazione? E noi tutti cosa abbiamo fatto per riempire il loro vuoto, cosa stiamo facendo e cosa, soprattutto, non abbiamo fatto e dovremmo invece cominciare a fare?

Chi ha operato la non semplice scelta di lavorare per un futuro in cui sia sempre più solido e rispettato il valore della dignità umana, sa bene che le dolenti rampogne e i mea culpa di rito dovrebbero lasciare il campo ad un impegno senza sosta, in ogni ambito, volto a favorire un effettivo rinnovamento delle coordinate teorico-pratiche del comune pensare e sentire, e che, per fare questo, non potrà certo bastare ricorrere enfaticamente alle tanto a lungo (e invano) sbandierate “magnifiche sorti e progressive”.

Ma, soprattutto, la domanda che non possiamo assolutamente pretendere di non porci è quella relativa al come siamo diventati noi, a quanto veramente possiamo dichiararci non soggiogati anche noi stessi da una visione cupa e disillusa della vita. Perché, per poterci ritenere “buoni maestri” è indispensabile che il nostro pensiero e il nostro cuore continuino a credere, in maniera quanto più possibilmente razionale, equilibrata e critica, nell’uomo e nei suoi diritti, nonché nelle sue infinite possibilità di crescita. Altrimenti, non potremmo essere credibili, non potremmo essere di alcuno aiuto nel cercare di tener in vita (o di far rinascere) la speranza. Se anche la nostra anima fosse invasa dalle macerie dei nostri ideali, e se noi stessi non sapessimo più sognare un mondo rigenerato, se fossimo diventati incapaci di progettare un mondo bonificato dai muri e dai fili spinati, dalle urla dei torturati, dalla disperazione dei ragazzi di strada, dalle fosse comuni, dai patiboli e dagli arsenali, ecc., come potremmo efficacemente spingere i nostri giovani verso una scelta socialmente e autenticamente impegnata?

Chiediamoci e richiediamoci se, per caso, la resistenza dei nostri ragazzi ad aprirsi ad una visione della realtà fondata sulla fiducia non dipenda in buona dose dal fatto che siamo stati tutti noi i primi a lasciarla fuori dal recinto delle mura in cui ci siamo barricati … Perché abbiamo finito, troppe volte, per sentirci scavalcati e sconfitti dalle ipocrisie di tutti i poteri, dalla brutalità ammaliante dell’”avere”, dalla vacuità dei chiacchiericci politichesi, dall’insaziabile capacità corruttiva del denaro, ecc … Perché abbiamo finito per non sentirci più in grado di poter contare e di poter fare granché, abbiamo finito per credere che il grande compito di costruzione di giustizia e di pace indicatoci dai grandi documenti ONU, UNESCO, UNICEF fossero diventati nobili feticci da riporre in bacheca o, ancor peggio, in soffitta …

Diceva perentoriamente Adolphe Ferrière che non è possibile che ci sia vera educazione in assenza di gioia, e che, di conseguenza, coloro che si venissero a scoprire privi di “gioia nel cuore” dovrebbero immediatamente smettere di fare gli educatori (o di far finta di esserlo). E che gioia mai potrebbe davvero esserci nei nostri cuori senza più la capacità di immaginare/ di desiderare/ di volere un mondo incommensurabilmente lontano dal nostro?

Soltanto se riusciremo a meditare a lungo e con il massimo senso di responsabilità sui pericoli insiti nella morte dell’utopia (ma anche nel suo letargo), la nostra presenza in mezzo ai giovani potrà risultare in grado di aprire squarci preziosi in cieli spesso tanto grigi e desolati.

Altrimenti, se   “le oasi dell’utopia” arrivassero a seccarsi, rischieremmo tutti di ritrovarci smarriti in “un deserto di banalità e confusione” (Habermas).

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