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La pena di morte non è soltanto la morte di qualche uomo e neanche quella di tanti uomini. La pena di morte è la morte dell’uomo.
Con la pena di morte si attua la negazione istituzionalizzata della sacralità della vita umana. Si celebra la negazione del valore della dignità della persona, del suo diritto intangibile a non essere abbassata alla dimensione animale, a cosa, a mero fenomeno da eliminare.
La pena di morte è il naufragio della ragione. La ragione, infatti, viene arrogantemente e dogmaticamente ritenuta in grado di comprendere l’uomo, di leggere il suo cuore, di comprendere la genesi del male, di saper individuare per il male la giusta, necessaria, efficace terapia. E’ il trionfo di una ragione che si attribuisce poteri illimitati, che sconfina nel metafisico, che crede illimitatamente in se stessa, nella sua capacità di giudizio, nella sua capacità di darsi criteri di valutazione infallibili, di saperli applicare con altrettanta infallibilità. E’ la tragedia della presunzione metafisica che pretende di far assurgere la ragione dell’uomo al rango della divinità.
E’, altresì, il naufragio del pensiero etico che fa dell’essere umano un soggetto chiamato a dare a se stesso un’identità e un destino. Chi dice sì alla pena di morte nega che l’uomo sia un soggetto in divenire, nega che sia perennemente chiamato a scegliere di sé, dei cammini che vorrà intraprendere. Nega, in definitiva, l’unica cosa che è possibile affermare della natura umana: che sia una realtà dinamica, plastica, modellabile e rimodellabile all’infinito, che sia realtà gravida di insondabili potenzialità, che sia realtà votata (condannata) a ripensarsi e a riprogettarsi, che sia, cioè, realtà aperta, un crescere inarrestabile e imprevedibile.
Chi dice sì alla pena di morte staticizza il cuore dell’uomo che pretende di poter pienamente comprendere.
Chi dice sì alla pena di morte pensa che la ragione dell’uomo sia in grado e in diritto di tracciare un confine netto e irrevocabile fra coloro che possono continuare a vivere e chi no. Fra coloro che meritano la vita e coloro che meritano la morte. Pensa che la ragione dell’uomo sappia scovare le incarnazioni del male nel mondo e le possa e le debba circoscrivere come cancrene infettanti, come metastasi impazzite, isolandole e recidendole affinché l’organismo sociale sia difeso, sia salvato.
Chi dice sì alla pena di morte non comprende che, in questo modo, si colpisce, si infrange il legame basilare della solidarietà umana, si spacca l’umanità, si frantuma il sentimento di una comune appartenenza, il sentimento di essere un’unica cosa.
Si recide, in particolar modo, come afferma Albert Camus, il legame di solidarietà di fronte alla morte. Non ci sentiamo più uguali e fratelli di fronte al comune, universale destino del morire che su noi tutti incombe, ma proiettiamo una parte di umanità nel ruolo di Natura selezionatrice o nel ruolo di Dio giustiziere e vendicatore. La morte, che dovrebbe costituire il fattore maggiormente capace di avvicinarci gli uni agli altri, diventa una mannaia che separa l’umanità in coloro che vivranno ancora e in coloro che più non dovranno vivere ...
Chi dice sì alla pena di morte dimostra di non comprendere gli effetti devastanti della violenza che dichiara di voler combattere.
Non comprende nulla della genesi della violenza, non comprende la complessità del fenomeno, non comprende nulla dell’intreccio fittissimo di elementi che concorrono nella produzione della violenza. Della violenza si fa un’immagine banalizzata, ben delimitata. Di fronte ad un oggetto così sfuggente e così presente, almeno nelle sue potenzialità, nelle viscere dell’universale natura dell’uomo, reagisce con la logica e con la prassi dell’ipersemplificazione del reale: la violenza che voglio combattere, il male che debbo/dobbiamo estirpare sei tu che hai commesso il crimine. Non c’è altro da indagare, non c’è altro da sapere. Posso mettermi al riparo dal dubbio, dal sospetto che la violenza abbia radici più profonde, più sottili, più estese, soprattutto, aggrovigliate assieme alle mille cose del nostro vivere comune da noi chiamato “sano”. Mi rifugio nella certezza che la causa è rintracciata: il vero, l’unico responsabile è scoperto. Lo consegno nelle mani del boia (che, se fossi davvero coerente, dovrei considerare vero “ministro della volontà popolare” o, addirittura, “ministro di Dio”) e sono liberato dal problema. Il capitolo, la questione sono chiusi. Inutile perdere tempo in quisquilie oziosamente concettose: chi ha sbagliato deve pagare, la collettività deve difendersi.
Chi dice sì alla pena di morte sceglie una civiltà che, per salvarci dall’incubo della paura del male e della violenza che l’uomo può esercitare sull’uomo, innalza la violenza (gelida, pianificata, ponderata) di un’intera società nei confronti dei singoli a strumento di salvezza collettiva.
Il peggior ottimismo e il peggior pessimismo si fondono insieme: fede cieca nel potere umano di compiere giustizia, e sfiducia assoluta nel potere umano di porre rimedio all’ingiustizia, di rinnegare l’ingiustizia. Si teme il singolo, gli si nega ogni possibilità di progresso, di metamorfosi interiore, di redenzione dal male. Si enfatizzano fino all’estremo limite il potere conoscitivo e le capacità operative di un insieme composto da tanti singoli, da quegli stessi singoli individui verso cui ci si mostra radicalmente privi di fiducia e di speranza.
Come possono convivere due cose tanto contrastanti?