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Dopo giorni e giorni passati a discutere animatamente in merito ad un surreale incontro di pugilato femminile durato meno di un minuto (interrotto, così sembra, perché, come asseriva un tristissimo personaggio interpretato da Vittorio Gassman, “i cazzotti fanno male”), credo che potremmo cogliere l’occasione per riproporre una questione molto dimenticata ma di importanza cruciale:
la boxe merita davvero di essere considerata uno sport o dovrebbe, al contrario, essere abolita?
Umberto Veronesi, qualche anno fa, dopo l’ennesimo pugile morto sul ring (il giovane messicano Francisco Leal), constatava che la boxe è contraddistinta da una ben precisa peculiarità:
l’avere “come finalità quella di far male all’avversario”.
E, ricordando che nel corso del XX secolo sono stati più di 500 gli atleti morti in seguito ai colpi incassati in combattimento, sottolineava che tutti gli altri sport, anche i più pericolosi, sono, invece,
“puntati a un risultato di vittoria che non implica il danno dell’atleta, anzi lo vuole evitare.” 1)
Ma, in ambito medico, la voce dell’illustre oncologo non costituisce certo una posizione isolata. Basti pensare che l’ Assemblea Medica Mondiale, riunitasi a Venezia nell’ottobre 1983 presso la Fondazione Giorgio Cini, presentò una risoluzione auspicante l’interdizione della boxe.
Chiarissime furono, allora, le parole di Bruno Baruchello, capo della delegazione italiana:
“La boxe è l’unico sport nel quale la regola è quella di abbattere l’avversario”;
“I pugni, anche quelli che possono sembrare più innocui, a lungo andare provocano conseguenze croniche.”
Insomma, siccome il pugile sul ring ha come massimo obiettivo (quello più ricercato e, nello stesso tempo, quello più atteso dagli stessi spettatori) il logoramento sistematico dell’ avversario, con lo scopo di abbatterlo, ovvero di metterlo knock-out (K.O.), questo comporta, di fatto e di diritto, la legittimazione di atti aventi la potenzialità di provocare danni gravissimi e permanenti, ivi inclusi traumi cranici violentissimi, dalle conseguenze anche letali. In tutti gli altri sport, invece, sussisterebbe, entro certi limiti, soltanto la mera possibilità di fare male e di farsi male, ma mai come obiettivo desiderato, né tantomeno autorizzato.
E oltre ai casi mortali, tutti gli studi scientifici condotti hanno evidenziato come i pugili siano sottoposti a rischio rilevante di lesioni gravi alla testa, al cuore e allo scheletro, come conseguenze subacute riscontrate successivamente a sintomi accusati dopo gli incontri: mal di testa, problemi di udito, nausea, andatura instabile, perdita della memoria.
Secondo una ricerca dell’American Association of Neurological Surgeons,
a subire lesioni cerebrali sarebbe addirittura il 90% dei pugili.
Pochi si rendono conto, d’altronde, che un colpo diretto alla testa ben assestato corrisponde all’impatto con una palla da bowling di circa 6 kg viaggiante a 30 km/h! 2)
“Oltre ai rischi comuni a ogni trauma cranico del genere, - scriveva Massimo Sandal nel 2019, dopo l’ennesima tragedia – i colpi presi durante un incontro di boxe tendono a far ruotare la testa, mettendo in forte tensione nervi e vasi sanguigni, aumentando il rischio rispetto ad altri sport dove i traumi cranici sono comuni, come il football americano. I colpi durante la boxe inoltre sono ripetuti in un tempo breve. Quando il pugile inizia a essere suonato, rilassa i muscoli del collo, il che significa una accelerazione maggiore della testa al colpo successivo – e quindi più alta probabilità di danni gravi al cervello. (…)
Una percentuale significativa di pugili - fino al 50% - soffre danni neurologici a lungo termine, e di questi il 17-20% presenta segni netti di encefalopatia traumatica cronica. I sintomi vanno dalla perdita dell’equilibrio (con un’andatura simile a quella di un ubriaco – da cui il termine gergale di lingua inglese punch drunk, letteralmente ubriaco di pugni) a tremori, vertigini, sordità, deterioramento cognitivo e dell’umore. 3)
La Chiesa Cattolica, nello scorso secolo, soprattutto intorno agli anni Sessanta (secondo la rivista Ring, solo nel 1962 sarebbero stati ben quattordici i pugili deceduti in seguito alla loro attività sportiva), intervenne più volte, con giudizi di severa condanna.
L’autorevole rivista dei Gesuiti, La Civiltà Cattolica, proprio in quell’anno terribile, pubblicò un articolo, intitolato Il pugilato professionistico e la morale (La Civiltà Cattolica, 1962, II, pp. 160-163 ), in cui si affermava con estrema fermezza che era
“nella natura stessa del pugilato professionistico (ed in misura minore, ma ugualmente grave per le conseguenze pratiche, del pugilato dilettantistico) produrre gravi lesioni al cervello (culminanti talvolta nella morte)”.
In questo modo, venne favorito un acceso dibattito a cui fornirono il loro contributo anche numerosi quotidiani, dal New York Daily Mirror al New York Times, che arrivarono ad avanzare la richiesta di abolire gli incontri di pugilato.
Sempre nello stesso anno, dopo la morte del pugile Benny Kid Paret, L’Osservatore Romano sollevò nuovamente la questione della liceità o illiceità del pugilato, con un articolo intitolato: Massacrare è sportivo?
In seguito, poi, alla morte in diretta televisiva del pugile Davey Moore (21 marzo 1963), in un incontro con Sugar Ramos, sempre L’Osservatore Romano intervenne perentorio, sottolineando
l’ “immoralità di uno sport che attenta all’integrità della persona fisica degli atleti gratuitamente e stoltamente e nella triste cornice della passionalità scatenata del pubblico”,
e concludendo col mettere in luce l’inconsistenza dell’argomentazione più ricorrente usata dai difensori della boxe:
“Non si dica che anche gli altri sport, auto, ciclismo, alpinismo, calcio, possono provocare tragedie e costare vittime. In quegli sport la disgrazia non può essere che accidentale e, del resto, anche per essi vale l’obbligo del limite ragionevole e della prudenza cristiana. Ma nel pugilato l’essenza è l’offesa fisica contro l’avversario. Fissare un punto limite o stabilire una sicurezza certa nell’impetuoso gioco, alla luce dell’esperienza sembra pura illusione. E la persona umana va salvaguardata, non distrutta. Va educata non abbrutita” (Ribalta dei fatti: Lo stadio o il circo? in “Osservatore Romano”, 27 marzo 1963, p. 2).
In passato, quindi, la Chiesa (riprendendo le note riflessioni di Agostino contro le pratiche gladiatorie) ha in più circostanze espresso una chiara condanna della boxe, essenzialmente per due ragioni:
- la sua caratteristica di mirare a colpire con la massima forza possibile l’avversario, fino al punto di metterne in pericolo l’incolumità;
- il clima infernale di degradazione morale che circonda gli incontri e che viene ad essere stimolato proprio dall’esibizione feroce della violenza sul ring.
In base a tali constatazioni, la campagna stampa vaticana arrivò a sostenere l’impossibilità di attribuire al pugilato
“il valore di sport, poiché, se il fine di questo è il raggiungimento della perfezione umana, direttamente sotto l’aspetto fisico, ma con ripercussioni anche sul piano spirituale, non può certo dirsi sport una lotta, il cui normale risultato è di stroncare fisicamente e rovinare spiritualmente il suo protagonista.”4)
Posizioni queste che, dal pontificato di Paolo VI fino a papa Bergoglio, sono andate lentamente attenuandosi, fino ad essere oramai del tutto accantonate, probabilmente nella prospettiva di rendere un po’
Umberto Veronesi |
meno impopolare ed intransigente l’etica cristiana (si veda, in particolare, il cordiale incontro di papa Francesco con le delegazioni pugilistiche di Italia e Argentina, nell’ottobre 2019).
Quali le tesi sostenute dai difensori della boxe, a cui anche il mondo cattolico ha finito gradualmente per avvicinarsi?
Direi che siamo di fronte a tentativi goffi e fastidiosamente retorici di relativizzare i contro (“ci sono tanti altri sport molto pericolosi”; “chi accetta di fare pugilato esercita consapevolmente il proprio libero arbitrio”; “la vera violenza è quella fuori dagli stadi”, ecc.) e di esaltare i (presunti) pro: la boxe sarebbe formativa per quanto riguarda il rafforzamento del carattere; svolgerebbe una preziosa funzione di educazione all’autocontrollo e al rispetto dell’avversario; in tanti casi, la pratica pugilistica ha allontanato giovani sbandati dalla via del crimine, ecc.
A conti fatti, ben poco di razionale e di ragionevole.
Insomma, una volta tanto che teologia e scienza appaiono in piena sintonia, credo che sarebbe oltremodo auspicabile che la questione venisse affrontata senza pregiudizi di sorta, trasferendola, però, sul piano di un laicissimo dibattito etico-civile.
Ciò al fine di poter esaminare, in chiave rigorosamente filosofica, la compatibilità dell’ideologia sottostante alla pratica pugilistica con i valori fondativi della cultura dei diritti umani (come quello di solidarietà e di fraternità), e, in particolare, con il principio dell’inviolabilità dell’integrità fisica individuale e della dignità morale della persona, nonché con la teoria e la prassi dell’educazione alla pace e alla nonviolenza.
Bandire la boxe dalla grande famiglia dello sport non costituirebbe certo una “rivoluzione copernicana”, né potrebbe certo renderci immediatamente tutti più pacifici e meno aggressivi, ma potrebbe rappresentare, però, una significativa scelta dalla forte valenza simbolica e dall’efficace messaggio educativo.
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NOTE
- Ma perché si permette che la boxe uccida l’avversario? | Fondazione Umberto Veronesi (fondazioneveronesi.it)
- Gli infortuni più probabili nella boxe | DAZN News IT
- Dovremmo abolire la boxe? | Wired Italia
- Boxe e morale cattolica: da «omicidio legalizzato» a strumento di promozione umana (rivistadirittosportivo.it)