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Recep Tayyip Erdoğan |
Come sosteneva il filosofo Ernst Cassirer, l’uomo è un animale simbolico, ma a prevalere sono il più delle volte i simboli e le interpretazioni imposte dalla classe dominante; così il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, nell’ultimo decennio, ha imposto gradualmente, con il tacito assenso o con la complicità delle democrazie neoliberali, la sua simbologia imperialista e nazionalista: un miscuglio di espansionismo neo-ottomano e di nazionalismo etnico-confessionale, che gli ha consentito di erodere progressivamente l’eredità del padre della patria Mustafa Kemal
"La Turchia è diventata un potente attore regionale, a un livello mai visto nella sua storia recente. La posizione del nostro paese nel novero delle potenze globali sta crescendo ogni anno. Ora siamo più vicini che mai all’obiettivo di una Turchia grande e forte. Una volta che avremo portato con sicurezza il nostro paese fino al 2023, avremo reso la Turchia una potenza inarrestabile." Queste le parole pronunciate, agli inizio di luglio, dal presidente turco in occasione della cerimonia di inaugurazione della sede del ministero del Tesoro e delle Finanze nel quartiere di Ataşehir, a Istanbul. Un discorso dalla forte connotazione simbolica, che si inscrive da un lato nel quadro della metamorfosi graduale della linea politica di Erdoğan, da esponente di un islam moderato e moderno a portavoce di un neo-ottomanesimo rivisto in chiave islamico-nazionalista sia in politica interna, sia nelle relazioni internazionali. Una doppia narrazione che gli offre diversi strumenti per affermare un potere autocratico sullo scenario politico interno e al contempo a sugli scacchieri geopolitici regionale e mondiale. Infatti, da un lato gli consente di mantenere in una condizione di assedio militare permanente sia la popolazione curda e i suoi rappresentanti del Partito democratico dei popoli (HDP), sia l’opposizione kemalista del Partito repubblicano del popolo (CHP), emarginando al contempo il potere dell’esercito, che Mustafa Kemal Ataürk aveva strutturato sul modello del Comitato di salute pubblica dei rivoluzionari francesi del XVIII secolo; dall’altro gli permette di gestire gli equilibri con i partiti nazionalisti, che a prescindere dai risultati elettorali, godono di una notevole influenza sullo stato profondo: in primo luogo, il Partito di azione nazionalista (MHP, con il suo braccio armato, i Lupi grigi) di Devlet Bahçeli, che, come sottolinea Daniele Santoro di Limes, è l’uomo di collegamento con la CIA; secondo, il Partito del bene di Meral Akşener, l’avanguardia della Super Nato; e infine il Partito della patria (Vatan Partisi) di Doğu Perinçek che garantisce gli interessi russi in Turchia.
Ma è soprattutto nei delicati equilibri di forze regionali e mondiali, che Erdoğan gioca la vera partita, perché è dai risultati ottenuti su questo piano che si aspetta di essere maggiormente apprezzato dall’opinione pubblica turca. Possibilmente ancor più apprezzato del padre della patria Atatürk, che aveva reso grande la Turchia moderna come patria dei Turchi e dei Kurdi (malgrado la brutale repressione delle rivolte kurde, mentre una sorte ben più tragica era toccata agli Armeni) e che aveva fondato un modello di Stato laico con capitale ad Ankara, rompendo anche simbolicamente con tutti e tre gli imperi del passato, quello romano, quello bizantino, e soprattutto quello ottomano, tutti e tre con capitale a İstanbul. Parallelamente alla rivoluzione statale e amministrativa, che includeva l’adozione di leggi ispirate alle moderne democrazie liberali (un esempio fra tutti, un codice civile calcato su quello svizzero), Atatürk diede luogo a una rivoluzione culturale in cui secolarizzazione e modernizzazione sarebbero andate di pari passo, con la supervisione dell’esercito, garante dei valori laici della costituzione della Repubblica di Turchia. In tale contesto, ad esempio, fu adottato l’alfabeto latino invece di quello arabo, fu abolita la sharia (legge islamica), fu sancito il diritto di voto per le donne e furono promulgate leggi come quella che vietava la poligamia o quella che consentiva il consumo di bevande alcoliche. La base per la nuova identità che Mustafa Kemal intendeva edificare per la nuova Turchia era infatti un nazionalismo laico anzitutto culturale, quindi diverso dai nazionalismi coevi arabo e persiano, per cui essere turco significava in linea teorica non appartenere a un determinato gruppo etnico, ma basare la propria coscienza di sé su un orizzonte di pensiero sintetizzato dai valori fondanti della nuova costituzione, in opposizione dialettica con la precedente identità imperiale ottomana. Al contrario, il neo-ottomanesimo di Erdoğan rielabora l’eredità politica di Turgut Özal (https://www.flipnews.org/politics/cronosisma-curdo-turco.html), mediata dalla nozione di profondità strategica dell’ex alleato ed ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, ma con un’idea diversa della proiezione della potenza turca, anzitutto nei territori un tempo appartenuti alla Sublime Porta, ma anche negli equilibri geopolitici regionali e mondiali.
Nondimeno, l’attuale presidente turco ha voluto segnare un punto di svolta anche rispetto a queste due figure politiche, che, se di fatto hanno minato alla radice la Repubblica kemalista, non avrebbero mai espresso esplicitamente il proprio disprezzo nei confronti della memoria del padre della patria. L’annuncio di Erdoğan degli inizi di questo mese, in merito alla riconversione della basilica di Santa Sofia, patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco, in moschea a partire dal prossimo 24 luglio (giusto in tempo per la preghiera collettiva del venerdì), è da considerarsi dunque un gesto simbolico, che richiama alla memoria due eventi storici dotati di una connotazione altrettanto forte: la conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani nel 1453, quando la basilica divenne moschea per la prima volta, e la sua apertura come museo nel 1934, per volere di Atatürk, che intendeva in tal modo aprirla all’umanità. Inoltre, con tale decisione, Erdoğan, dopo la sostanziale sconfitta alle ultime amministrative e la vittoria del CHP ad Ankara e İstanbul, mira ad attrarre i consensi dell’elettorato nazionalista (negli ultimi decenni, la destra turca ha promesso a più riprese tale cambiamento), in nome di un sovranismo condito in salsa islamica, ossia che considera l’islam come base dell’identità della nuova nazione turca. Un gesto significativo, in piena rottura con l’identità kemalista, ma non un insulto esplicito nei confronto di Atatürk, come quello pronunciato nel maggio 2013, in difesa della legge che imponeva restrizioni sulla vendita e sul consumo di alcolici, fatta approvare dal Parlamento dopo un lungo dibattito e tra le polemiche. Durante le discussioni parlamentari, Erdoğan si domandò infatti: “una legge fatta da due ubriachi è rispettabile? E allora perché non dovrebbe esserlo anche una ispirata alla religione?”. Ora, i due ubriachi in questione sono, appunto, Atatürk e il suo vice e successore İsmet İnönü, che il presidente non ha citato esplicitamente, lasciando alla “libera” immaginazione degli uditori il gusto di cogliere il sottile riferimento. Nondimeno, se l’islamizzazione socio-culturale in esplicita rottura con l’eredità kemalista costituisce uno dei pilastri della linea politica di Erdoğan, alle prese con la difficile situazione socio-economica del suo paese e con la spinosa gestione dei profughi siriani (https://www.monde-diplomatique.fr/2020/05/BONZON/61783), è la politica estera che gli offre attualmente l’occasione più ghiotta di rifondare lo status della nazione turca.
Diversi sono i fronti da lui aperti negli ultimi anni, ciascuno dei quali rappresenta una porta (niente affatto sublime) aperta su una linea di proiezione della potenza turca, che non sempre avviene attraverso il soft power. Inoltre, ciascuno di questi vettori è il risultato degli ampi spazi scientemente lasciati ad Ankara dalle democrazie neo-liberali e in particolare dall’Alleanza atlantica (NATO) in funzione prima anti-sovietica, poi, di volta in volta, anti-russa, anti-cinese o anti-iraniana. In altri termini, la Turchia approfitta da decenni della vantaggiosa posizione di utile nemico del nemico, al punto da poter essere annoverata tra le forze che il capitalismo globalizzato ha evocato e che ora rischia di non essere più in grado di gestire. Il primo di questi fronti è la direttrice occidentale, che conduce ai Balcani, antica linea di faglia al tempo della cortina di ferro, e all’Africa settentrionale e che ha i suoi cardini ideali nella capacità di orientare le comunità islamiche balcaniche e nel controllo territoriale di almeno parte della Libia, dove Ankara sta conducendo un intervento militare a sostegno del governo onusiano di Tripoli di Fayez al-Sarraj (il Governo di accordo nazionale, GNA). Come avamposto strategico permanente sul Mediterraneo, la Turchia ha individuato la base di al-Watiya, recentemente sottratta alle forze del generale cirenaico Khalifa Haftar, ma attaccata nella notte tra 4 e 5 luglio da aerei Dassault Mirage di provenienza sconosciuta, ma verosimilmente emiratini. D’altronde, Abu Dhabi, schierata con Haftar, come, fra gli altri, Russia, Francia ed Egitto (cui l’Esercito di liberazione nazionale ha chiesto recentemente di intervenire in armi per arginare l’avanzata turca), ha recentemente lanciato un appello a Washington perché dispieghi il suo arsenale militare in Libia contro il GNA e il suo alleato turco. Il 10 giugno, peraltro, l’espansionismo di Ankara nel Maghreb ha creato una (nuova) frattura all’interno della NATO, quando la fregata turca Oruçreis ha attaccato la fregata francese Courbet, che, durante un pattugliamento del Mediterraneo sotto il comando NATO, aveva intercettato la nave cargo turca Cerkin sospetta di portare armi in Libia, in violazione dell’embargo. La Turchia ha negato qualsiasi intenzione aggressiva, accusando a sua volta la fregata francese di manovra pericolosa. Timide e divergenti le reazioni internazionali, almeno finora, ma è significativo che la Francia, dopo aver combattuto in prima linea con Gran Bretagna e Stati Uniti contro il defunto colonnello Muammar Gheddafi nel 2011, abbia perso la sua posizione di forza in Libia. Sul campo, intanto, si assiste a una sirianizzazione del conflitto, dovuta all’arruolamento, soprattutto da parte di Russia e Turchia, di mercenari, molti dei quali provenienti proprio dalla Siria (ma anche dall’Africa subsahariana o dalle aree investite dal conflitto russo-ucraino), attratti da paghe più cospicue di quelle proposte dall’esercito siriano o dalle milizie levantine.
A differenza della politica zero nemici di Davutoğlu e dall’indirizzo europeista di Özal, Erdoğan sta mettendo in atto una politica di conflitti di intensità variabile con i principali attori geopolitici attuali. A parte le tensioni crescenti degli ultimi anni con la Francia (incluso un affare di spionaggio riportato lo scorso giugno dal quotidiano turco Sabah), la postura aggressiva di Ankara nei confronti della Grecia, altro paese membro della NATO e dell’Unione europea scarsamente difeso dagli alleati, è indicativa di mire espansionistiche che affondano le loro radici negli interessi strategici delle potenze occidentali, Stati Uniti in primis. La minaccia costante di Ankara di lasciar passare i rifugiati siriani in viaggio verso l’Europa (analoga a quella di Gheddafi di lasciar passare i migranti africani) e i piani di difesa per l’Egeo che preoccupano Atene costituiscono altrettanti indizi dell’atteggiamento turco, viste anche le reazioni della chiesa ortodossa greca alla riconversione di Santa Sofia in moschea. Procedendo verso Oriente, inoltre, la Turchia punta da tempo a un ruolo egemone non solo sull’islam sunnita balcanico e centro-asiatico, ma anche su quello arabo, insidiando le due potenze regionali tradizionali, Egitto (linea laico-militarista) e Arabia Saudita (islam politico wahhabita). Lo dimostrano le numerose prese di posizione di Erdoğan sulla questione israelo-palestinese, sul piano di pace elaborato dal presidente statunitense Donald Trump nel gennaio 2020, e sugli esiti delle rivolte egiziane che hanno portato al potere prima Mohamed Morsi, dei Fratelli Musulmani, esplicitamente sostenuti da Ankara al pari di Hamas. Parimenti, il presidente turco intende sfruttare vantaggiosamente le carte del conflitto armeno-azero (anch’esso originatosi dopo il crollo sovietico e centrato sull’enclave del Nagorno Karabagh) e del malcontento delle popolazioni turcofone del Caucaso, del Tatarstan e, più generalmente, dell’Asia Centrale, fino al Myanmar e alla provincia cinese del Xinjiang. In queste regioni, l’influenza di Ankara si dipana attraverso le repubbliche turche nate dall’implosione dell’Unione sovietica, ancora una volta con il beneplacito delle democrazie neo-liberali, che, avendo permesso alla Turchia di conquistare una posizione di forza, l’hanno resa capace di ricattare due potenze globali del calibro di Russia e Cina, oltre che di trattare alla pari con Washington.
Se il liberalismo di ispirazione reaganiana e thatcheriana di Özal coltivava l’illusione occidentale di una pacificazione perpetua delle relazioni internazionali basata sul libero scambio e sul capitalismo globalizzato a guida statunitense, l’islamo-nazionalismo di Erdoğan e dei suoi predecessori degli anni ‘90 ha trovato terreno fertile a causa dell’altra illusione, altrettanto nefasta, di poter mettere a tacere il malcontento provocato dall’ingiustizia sociale attraverso il richiamo a improbabili e discutibili fasti nazionali passati. In tal modo, la Turchia, seconda potenza militare della NATO, ha potuto conquistare il suo seggio ideale tra le potenze mondiali, che a turno hanno erroneamente creduto di poterla utilizzare come baluardo contro il nemico del momento.