L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Bahrein: l'esilio permanente degli oppositori del regime

By Carlotta Caldonazzo June 17, 2016 9883

Le organizzazioni non governative denunciano le brutalità del regime di Manama: dagli esili forzati alle torture in carcere, fino alla chiusura del principale partito di opposizione, al-Wefaq; quasi inesistente la reazione della comunità internazionale

Nelle ultime settimane, le autorità del Bahrein hanno inasprito i meccanismi di repressione del dissenso politico, arrestando e costringendo all'esilio diversi esponenti di spicco dell'opposizione. Il culmine si è registrato il 13 giugno, quando il tribunale di Manama ha ordinato la sospensione delle attività e la chiusura delle sedi di al-Wefaq, la più grande forza politica di opposizione, che durante le proteste del 2011 si è fatta portavoce del malcontento della maggioranza sciita emarginata dalla scena politica e, in generale, delle richieste di un vero progresso in direzione della democrazia e dei diritti. Secondo il ministro della giustizia si è trattato di una misura volta a “salvaguardare la sicurezza del regno”, mentre l'unica timida reazione della comunità internazionale sono state le generiche espressioni di “preoccupazione” del Dipartimento di Stato statunitense. Come nel 2011, quando le manifestazioni vennero soffocate dall'intervento saudita, ufficialmente sotto l'egida del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), gli organismi sovranazionali si sono dimostrati ancora una volta inefficaci, sia nel promuovere la democrazia e il rispetto dei diritti umani, sia nel proporre soluzioni valide ai conflitti. Se di quest'ultimo fallimento si possono citare come esempi Libia, Iraq e Siria, per il primo spicca l'impunità di cui godono l'Arabia Saudita e i regimi satelliti nel Golfo, Bahrein e Yemen in primis.

La sentenza del tribunale amministrativo di Manama è in realtà solo l'atto conclusivo di una serie di azioni repressive ai danni di al-Wefaq, che il prossimo 6 ottobre affronterà l'udienza sul suo scioglimento definitivo. Tra i capi d'accusa, “incitamento alla violenza settaria” e coinvolgimento in una “rete politica internazionale”. Un riferimento, quest'ultimo, non troppo velato a presunti tentativi di ingerenza da parte di Tehran, sbandierati dal regime come pretesto per la repressione. Il 13 giugno, il giorno prima della sentenza, la polizia di Manama aveva arrestato Nabil Rajab, attivista per i diritti umani più volte detenuto per il suo impegno civile, recentemente liberato da un provvedimento di grazia “concesso” dal re Hamad bin Isa Al Khalifa. Ufficialmente le autorità vogliono interrogarlo sulla presunta “diffusione di false notizie”, ma il suo arresto, insieme a quello di altri attivisti, immediatamente prima della 32esima sessione del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, lascia intendere che il vero scopo è impedire qualsiasi espressione di dissenso, soprattutto in sedi internazionali. A maggio di quest'anno, Amnesty International aveva denunciato la revoca della cittadinanza e il conseguente rischio di espulsione di Tarimoor Karimi, l'avvocato e attivista che nel 2011 aveva preso parte alle proteste: provvedimenti che violano esplicitamente le leggi internazionali, ma vengono ripetutamente utilizzate contro gli oppositori alla monarchia assoluta. Il meccanismo è quasi sempre lo stesso: revoca della cittadinanza (che rende illegale la permanenza in territorio bahreinita) ed esilio forzato. Negli stessi giorni, la corte d'appello di Manama aveva portato da 4 a 9 anni di reclusione la condanna della guida di a-Wefaq, Ali Salman, accusato di istigazione alla violenza e all'odio contro il governo e tentativo di colpo di stato. Quanto a un'altra attivista, Zainab al-Khawaja, cittadina danese-bahreinita, uscita dal carcere a maggio per motivi umanitari (era stata arrestata a marzo per aver strappato una foto del re), all'inizio di giugno ha scelto di autoesiliarsi in Danimarca: in un'intervista ha spiegato che le autorità di Manama avevano avvertito l'ambasciata danese del rischio di un nuovo arresto.

Che in Bahrein non esistano garanzie di rappresentanza democratica non è una novità. La monarchia assoluta degli Al Khalifa, di religione sunnita (con posizioni simili a quelle della dinastia regnante saudita), governa con il pugno di ferro un paese a maggioranza sciita, in un piccolo ma strategico arcipelago del Golfo Persico. Basti pensare che degli 80 seggi totali del parlamento, i 40 della camera alta sono di nomina regia, mentre il potere legislativo dei 40 della camera bassa, eletti dalla popolazione, è limitato dall'arbitrio del re. Ma per Riyadh la posta in gioco è troppo alta: da un lato considera Manama un prezioso baluardo contro l'influenza iraniana sulle comunità sciite della Penisola Araba, dall'altro teme che eventuali conquiste sul piano dei diritti da parte della popolazione sciita in Bahrein possano incoraggiare la sua minoranza sciita ad avanzare rivendicazioni simili (in Arabia Saudita gli sciiti non possono esercitare professioni come quella di insegnante o magistrato e vivono, di fatto, come cittadini di secondo ordine). D'altro canto, a interessarsi della posizione strategica di questo arcipelago non è solo Riyadh: il porto di Mina Salman ospita un'importante base della marina militare statunitense, la Naval Support Activity, mentre nella capitale Manama si trova il quartier generale della V flotta. Inoltre, nel novembre 2015, la Royal Navy britannica ha avviato i lavori di costruzione di un'importante base, la prima nel Golfo Persico dal 1971, con il compito di “garantire e preservare la sicurezza regionale”.

Rate this item
(0 votes)
© 2022 FlipNews All Rights Reserved