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Letterato raffinatissimo, Erasmo è stato, per alcuni anni, la figura di intellettuale più stimata a livello internazionale nell’ambito dell’intero clima umanistico-rinascimentale. Un intellettuale sapientemente erudito quanto indipendente, sempre libero e severo nel giudicare e nel denunciare i vizi e le jatture del suo tempo, stracolmo di ipocrisia e di contraddizioni.
Uomo “delicato e debole” (per usare le parole di Stefan Zweig , che molto lo amò), finirà per risultare indigesto ai più, vittima di opposti dogmatismi e fanatismi: la Chiesa di Roma lo considererà un infido e pericoloso sovversivo, arrivando a mettere tutte le sue opere all’Indice dei libri proibiti; i luterani, in seguito al suo rifiuto di sostenerli nella contesa che stava frantumando l’intera cristianità, lo accuseranno di pusillanime incoerenza e codardia.
Ciononostante, le sue opere, per nulla usurate dai secoli, continuano ad apparirci come rari gioielli di eleganza stilistica e di nitore argomentativo. Ne sono uno splendido esempio gli Adagia o Adagi, opera che contiene alcuni saggi, ispirati ad antichi proverbi, alla raccolta dei quali il nostro umanista dedicò laboriosissime fatiche. Il più corposo (nonché il più dolorosamente attuale) di questi saggi, un vero e proprio manifesto ideologico del miglior pacifismo di tutti i tempi, prende il titolo dal proverbio che si prefigge di commentare: “Dulce bellum inexpertis”, ovvero “Chi ama la guerra non l’ha vista in faccia”.
Nel mondo, dice Erasmo, nulla dovrebbe essere evitato e scongiurato più della guerra. Non esiste, infatti, “iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano.” Eppure, continuamente, anche per “le ragioni più futili”, sorgono conflitti caratterizzati da estrema crudeltà, vedendo all’opera non solo pagani, ma anche cristiani, non solo laici, “ma anche sacerdoti e vescovi, non solo giovani senza esperienza, ma anche vecchi sperimentatissimi, non solo gente del popolo, masse anonime e volubili, ma anche e soprattutto principi, che avrebbero il dovere di tener a freno con avvedutezza e discernimento i moti inconsulti della stolta moltitudine.”
E il fenomeno della guerra - aggiunge - risulta circondato da tale considerazione generale che il tentare di metterlo in discussione finisce per apparire perlomeno “stravagante” se non addirittura “irreligioso” e prossimo all’eresia.
Doveroso sarebbe, quindi, secondo Erasmo, domandarsi con grande serietà “qual genio malvagio, quale flagello, quale calamità, quale Furia infernale abbia originariamente immesso un impulso così bestiale nell’animo dell’uomo, abbia indotto questo essere pacifico, che la natura ha preordinato a una solida convivenza – il solo essere predestinato alla salvezza – a farsi promotore e vittima di sterminio, con una frenesia così selvaggia, con tali esplosioni di follia.”
L’essere umano, infatti, secondo il pensatore olandese, è stato creato naturalmente fragile e bisognoso di vivere grazie a spontanei legami di solidarietà e di reciproco aiuto. La natura ha seminato in lui l’odio verso la solitudine e l’amore per la compagnia, in maniera tale che risultasse più debitore del dono della vita “non tanto a lei quanto all’amorevolezza”, facendogli intendere di essere destinato alla gratitudine e al vincolo dell’amicizia, fino al punto di riuscire ad amare ed a praticare il bene in sé e per sé, in maniera del tutto svincolata da calcoli utilitaristici.
Sfortunatamente, però, l’essere umano continua a vivere in una sorta di “guerra perpetua”, che Erasmo riesce a spiegare, in buona parte, come conseguenza del millenario “tirocinio” di violenze esercitato ai danni del regno animale:
“a forza di sterminare animali, s’era capito che anche sopprimere l’uomo non richiedeva un grande sforzo.”
“Pitagora, quel gran savio, - ci dice - aveva senza dubbio previsto questo esito, quando con un espediente filosofico cercava di distogliere la moltitudine ignorante dall’uccidere animali. Egli intuiva che l’uomo abituato a versare, senza la minima provocazione, il sangue d’una bestia innocua, non avrebbe esitato, in balia della collera e sotto lo stimolo della provocazione, a sopprimere il suo simile.”
In questo clima di accecamento generale, non mancano neppure roboanti “sermoni belligeri” di monaci e illustri teologi, nonché sacerdoti ed alti prelati pronti a lanciarsi nella mischia:
“C’è chi plaude, chi esalta, chi chiama santa un’iniziativa superdiabolica e aizza i principi già per conto proprio farneticanti, dando, come si dice, esca al fuoco.”
Con efficace gioco dialettico, Erasmo mette a confronto i beni prodotti dalla pace (“madre e nutrice di ogni bene”) con gli innumerevoli mali prodotti dalla guerra, sia sul piano materiale sia su quello spirituale, con l’obiettivo di farci apparire la pratica bellica come qualcosa di visceralmente in contrasto con l’indole naturalmente docile e pacifica dell’essere umano e, quindi, con lo stesso progetto della creazione divina.
Il saggio di Rotterdam, inoltre, con sincero fervore, mette in luce che:
- I più grandi mali, primo fra tutti il culto delle armi e l’esercizio della violenza bellica, “si sono sempre infiltrati nella vita degli uomini sotto la fallace apparenza del bene”.
- La cultura e la pratica della guerra vengono, di conseguenza, subite acriticamente come qualcosa di ineluttabile o addirittura di nobilitante e i suoi oppositori trattati, con rozza sufficienza, come sciocchi sognatori.
- La guerra, in realtà, spogliata delle sue vesti ingannevoli, non risulta altro che un “omicidio collettivo”, “una forma di brigantaggio tanto più infame quanto più estesa”.
- La guerra mette il cristiano contro l’uomo. E, in molti casi, mette cristiano contro cristiano.
- “Cristo vien coinvolto in un’impresa demoniaca”. Eserciti nemici si scontrano portando l’uno e l’altro l’insegna della croce.
- “Chi uccide il fratello è un fratricida. Ma fra cristiano e cristiano esiste un legame più stretto che fra qualsivoglia coppia di fratelli, se i vincoli di natura non sono più saldi dei vincoli di Cristo”.
- “Un solo precetto Cristo enunciò come proprio: quello della carità” e il suo insegnamento fu tutto improntato alla mansuetudine e all’amore.
- I cristiani prendono ad esempio i “pagani” soltanto per le cose peggiori, uguagliandoli e superandoli in avidità, superbia e dispotismo, arrivando, con grande abilità, a trasformare ogni inezia in pretesto di guerra.
- “Da quando Cristo dette l’ordine di riporre la spada, al cristiano - invece - non è lecito combattere che la più gloriosa delle guerre, diretta contro i più spietati nemici della chiesa: la cupidigia, l’ira, l’ambizione, la paura della morte.”
- Il messaggio evangelico ci prescrive di non rispondere a chi ci insulta, di fare il bene a chi ci fa il male e di pregare anche per coloro che vogliono la nostra morte.
- Come può, quindi, essere considerato un “atto cristiano” il massacro di esseri umani?
- I cristiani che vomitano ingiurie contro i Turchi (l’età rinascimentale è ancora epoca di crociate) non si rendono conto di risultare, al cospetto di Dio, ben più abominevoli di essi, forse “più vicini al vero cristianesimo della maggior parte di noi”.
- Non è certo irragionevole il sospetto che, dietro le ingannevoli giustificazioni di ordine religioso, alla base delle campagne militari contro gli “infedeli” ci sia, da parte delle potenze europee, il progetto di estendere la sfera d’influenza e di accaparrarsi le loro ricchezze.
- Non meno ragionevole va considerato, inoltre, il sospetto “che le voci di guerra contro i Turchi vengano messe in giro apposta per avere il pretesto di spremere il popolo di Cristo, per opprimerlo, per fiaccarlo in tutti i modi e indurlo così a sottostare più servilmente alla tirannide dei principi secolari e non secolari”.
- In molti casi, infatti, le guerre vengono create dagli uomini al potere essenzialmente perché, in questo modo, è assai più facile riuscire ad imporre la propria tirannide: “In tempo di pace l’autorità del parlamento, la dignità dei magistrati, la forza delle leggi non consentono al principe di fare lecito il libito. Ma quando il paese è in stato di guerra, tutto il potere viene gestito ad arbitrio di pochi: chi è nelle grazie del principe sale, chi non è nelle grazie del principe scende, non c’è limite all’estorsione delle tasse.”
In mezzo a fiumi di sangue, il sommo umanista rimase solitario a fustigare il potere politico (“il popolo erige città insigni, i principi le radono al suolo; l’industriosità dei cittadini arricchisce lo stato, la rapacità dei principi lo depaupera; i magistrati popolari elaborano buone leggi, i principi le violano; il popolo cerca la pace, i principi scatenano la guerra”) e quello ecclesiastico (“capi della chiesa cristiana impegnati nell’accumulazione della ricchezza, cupidi di piaceri, coinvolti nel lusso, in guerre spietate e in quasi tutti gli altri vizi”), odiato e vilipeso dalle opposte fazioni. Ma sia nel suo tempo, come negli anni terribili della Controriforma, le sue radiose parole intrise di tolleranza e di sano equilibrio, capaci di coniugare il meglio della classicità con il meglio della cristianità, resteranno a rappresentare (fino ai nostri giorni) una piccola ma viva luce di fiduciosa saggezza, resistente agli inganni dei potenti e alle ipocrisie della falsa fede.