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Subito dopo la strage verificatasi nella notte tra l'11 e il 12 giugno al Pulse di Orlando (Florida), in cui sono state uccise 50 persone e ne sono state ferite altre 53, Amnesty International Usa ha rilasciato la seguente dichiarazione:
"La strage di Orlando è una dimostrazione di totale disprezzo per la vita umana. Al dolore e alla solidarietà per le vittime devono ora seguire azioni concrete per proteggere le persone dalla violenza.
In quanto stato parte del Patto internazionale sui diritti civili e politici e della Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione, il governo degli Usa è obbligato a proteggere le persone dalla violenza delle armi.
Le indagini dovranno essere basate su fatti concreti, più che su speculazioni o faziosità.
Il governo Usa deve rendersi conto che la violenza delle armi sta producendo niente di meno che una crisi dei diritti umani. Occorre modificare le leggi federali, statali e locali per garantire la sicurezza di tutti.
Nessuno dovrebbe morire per il mero fatto che sta camminando in strada, andando a scuola o ballando in un locale".
L’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo ha anch’esso immediatamente diffuso un interessante comunicato in cui, sulla base dei tre gravi episodi avvenuti negli Stati Uniti, nell’arco di 24 ore (la strage nel club gay di Orlando, in Florida; l’omicidio della ventiduenne cantante Christina Grimmie, star di YouTube, sempre a Orlando; l’arresto di James Howell, carico di armi ed esplosivi, a Santa Monica), si mette in rilievo la presenza di un dato comune non adeguatamente preso in considerazione: la disponibilità e la facilità con cui armi piccole e leggere anche da guerra sono reperibili sul territorio nordamericano.
In USA, infatti, “vi sarebbero ben 89 armi ogni 100 abitanti su un totale di 270 milioni di armi in circolazione nel paese. Di fatto, è oltre il 40% maggiore rispetto a quello che si ha in Yemen, secondo solo agli Stati Uniti con 54,8 armi da fuoco ogni 100 abitanti. Il mercato americano è il maggiore in assoluto, quello dove anche i narcotrafficanti latinoamericani si riforniscono oltrepassando la frontiera messicana in uno scambio di droga con armi.”
I dati sono davvero impressionanti:
negli Stati Uniti, ogni anno, oltre 30.000 persone rimangono uccise dalle armi da fuoco, con una media giornaliera di 30 vittime, di cui la metà giovani, di età compresa tra i 18 e i 35 anni e un terzo giovanissimi, di età sotto i 20 anni.
“Il dibattito ora apertosi – si legge, poi, nel comunicato - se i singoli episodi siano ascrivibili al terrorismo, all’omofobia, all’emarginazione sociale o alla follia appare tralasciare il quadro generale nell’ambito del quale la diffusione delle armi piccole e leggere solo nel 2015 ha provocato oltre 12.000 vittime e mass shooting in circa 100 aree metropolitane. Ancora una volta si assiste agli ennesimi massacri in un paese dove sembra che l’unica risposta possibile sia quella di armarsi sempre più alla ricerca di una sicurezza che questi arsenali non sembrano garantire.”
Certamente prezioso il riferimento che viene proposto in merito ad uno studio molto approfondito effettuato dal professor Michael Siegel delle Boston University insieme a due coautori, in grado di riscontrare con molta chiarezza l’esistenza di una diretta correlazione tra diffusione di armi e numero di omicidi perpetrati con armi. Lo studio in questione ha analizzato una serie di dati sugli omicidi con armi da fuoco per tutti i 50 Stati americani, dal 1981 al 2010, cercando di cogliere una eventuale relazione tra cambiamenti nel tasso di possesso di armi e numero di uccisioni con armi. Il risultato emerso dimostra che “ogni 1% di incremento nella proporzione di possesso domestico di armi da fuoco” ha finito per tradursi in un incremento dello 0,9% nel tasso di omicidi.
Un altro dato importante da sottolineare è quello legato al possesso stesso delle armi e alla loro diffusione negli Stati Uniti.
“Secondo un sondaggio effettuato dall’Harvard Injury Control Research Center su un campione di 3.000 intervistati, il 22% ha affermato di possedere armi e il 25% di questi ha dichiarato di possedere cinque o più armi da fuoco. Ne emerge dunque che negli Stati Uniti moltissimi cittadini sono in possesso di un vero e proprio piccolo “arsenale” domestico. Per rendere l’idea, basti pensare che il numero di americani che possiede 10 o più armi da fuoco è maggiore del numero di abitanti della Danimarca”.
Per approfondire:
www.amnesty.it
Non si ferma la campagna di Amnesty International.
Che la situazione in terra egiziana non fosse particolarmente rassicurante lo si sapeva anche da molto prima che ci ritrovassimo feriti dalla vicenda di Giulio Regeni.
Consultando, infatti, il Rapporto annuale di Amnesty International era facilmente possibile apprendere del deterioramento progressivo di una realtà già ampiamente preoccupante sotto il profilo del rispetto dei diritti umani.
Le autorità egiziane, nel corso del 2015, hanno imposto restrizioni sempre più rigide ed arbitrarie ai diritti alla libertà d’espressione, associazione e pacifica riunione.
Ad agosto, il governo ha promulgato la Legge 94, una nuova legislazione antiterrorismo in cui la definizione di “atto terroristico” viene formulata in termini vaghi e oltremodo generici, conferendo al presidente il potere di “adottare le misure necessarie per assicurare l’ordine pubblico e la sicurezza”, consentendo l’istituzione di tribunali speciali e stabilendo pesanti ammende per i giornalisti che avessero pubblicato notizie sul “terrorismo” con contenuto non in piena sintonia con la linea ufficiale del governo.
Sono così state incarcerate (oltre a leader e attivisti politici d’opposizione) numerose persone “colpevoli” di aver osato esprimere giudizi critici verso il governo. Alcune di esse sono state anche sottoposte a sparizione forzata: gruppi per i diritti umani hanno riferito di aver ricevuto decine di denunce riguardanti casi di persone arrestate dalle forze di sicurezza e poi rimaste detenute in incommunicado.
Giornalisti che lavoravano per conto di organi d’informazione critici verso il governo o legati a gruppi dell’opposizione sono stati perseguiti penalmente per aver pubblicato “notizie false” e per altre accuse di ordine politico. In alcuni casi, sono state comminate hanno lunghe pene carcerarie e addirittura una condanna a morte. Alcune persone, per aver esercitato pacificamente il loro diritto alla libertà d’espressione, sono incappate in pesanti procedimenti giudiziari sulla base di accuse come “diffamazione della religione” e offesa alla “morale pubblica”.
Gli apparati; di sicurezza hanno fatto sovente ricorso ad un uso eccessivo della forza contro manifestanti, rifugiati, richiedenti asilo e migranti, mentre detenuti hanno subìto tortura e altre forme di maltrattamenti. In taluni casi, sono state arrestate anche persone accusate di “indecenza”, a causa dei loro supposti orientamenti sessuali.
I tribunali hanno emesso, inoltre, centinaia di condanne a morte e sentenze a lunghi periodi di carcerazione al termine di processi di massa dal carattere palesemente iniquo e arbitrario.
Le forze di sicurezza e dell’intelligence militare hanno torturato i detenuti sotto la loro custodia, con metodi che comprendevano, tra l’altro, scosse elettriche o costrizione a rimanere in posizioni di stress. Numerose anche le segnalazioni di decessi in custodia causati da tortura, da altri maltrattamenti e da mancanza di accesso a cure mediche adeguate
La morte di Giulio Regeni va, pertanto, necessariamente collocata all’interno di questo quadro generale di riferimento, tenendo presente, in particolare, che le sparizioni forzate sono diventate un fenomeno dolorosamente assai diffuso nell’Egitto di oggi.
In base ai dati finora diffusi da due Ong (la Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà», diretta dall’ex ricercatore di Amnesty International Mohamed Lotfy, e del «Centro El Nadim per la riabilitazione delle vittime di violenza» della psichiatra Aida Seif Al Dawla) ritenute assolutamente attendibili da Amnesty International, da agosto 2015 ad oggi, il totale delle persone scomparse sarebbe di ben 533 casi. Su 396 di questi, nulla ci è ancora possibile sapere, anche se è fondatamente possibile ritenere che siano in mano ai servizi di sicurezza dello stato.
Soltanto in aprile 2016 sono sparite forzatamente 86 persone (praticamente tre al giorno!). Sempre nel mese di aprile, invece, quelle uccise nelle prigioni e nei commissariati di polizia sono state nove: otto per mancata fornitura dell’assistenza medica necessaria e uno per tortura.
Secondo El Nadim, nel corso del 2015, si sarebbero verificati 1176 casi di tortura, di cui quasi 500 con esito mortale. Nei luoghi di detenzione la tortura è dilagante e le condizioni terribili: sovraffollamento, mancanza di ventilazione, privazione di cibo, assenza di cure mediche. Il numero di morti per negligenza medica all’interno delle carceri (catalogate impropriamente come “morti naturali”) mette in luce una deliberata privazione di assistenza sanitaria per i detenuti.
Nel paese si lamenta una totale assenza dello stato di diritto. Le forze armate e le forze di sicurezza godono di un’assoluta impunità nell’uccidere e nell’incarcerare. Ci sono anche prigioni segrete e i malcapitati possono passare anni imprigionati ancor prima del processo, senza vedere in faccia il proprio giudice. Il prolungamento della detenzione è rinnovato automaticamente e molti sono i casi anche di esecuzioni extra-giudiziali. L’utilizzo di armi da parte della polizia è senza precedenti: le forze di sicurezza, siano esse esercito o polizia, sapendo di essere costantemente protette, finiscono per attribuirsi e per esercitare una vera e propria “licenza di uccidere”.
Al fine anche di parlare di tutto questo, nell’ambito delle campagne "Stop Tortura" e "Verità per Giulio Regeni", sabato 28 maggio, il Comune di Albano Laziale (Roma) e Amnesty International - Circoscrizione Lazio hanno organizzato una felice iniziativa che ha visto anche un bel coinvolgimento di alcune scolaresche in un flash mob nella piazza principale del paese.
Ad Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, intervenuto nel convegno organizzato presso il palazzo municipale, abbiamo rivolto alcune domande per meglio mettere a fuoco alcuni aspetti del caso Regeni.
- Il caso di Giulio Regeni ha suscitato in tanti non solo indignazione, ma anche parecchio stupore: perché una tale assurda ferocia contro un giovane certamente non pericoloso?
Giulio Regeni era un giovane studioso italiano che svolgeva delle ricerche, nell'ambito di un progetto dell'Università di Cambridge, al Cairo. Nella seconda metà di gennaio è scomparso ed è stato ritrovato morto dopo alcuni giorni con segni inequivocabili di tortura. Sul perché sia stato ucciso per il momento si possono fare solo delle ipotesi. Robert Fisk, un commentatore autorevole, ha ipotizzato che i contatti di Regeni con gli ambienti sindacali egiziani, una spina nel fianco del regime, su cui stava facendo la sua ricerca, gli sarebbero stati fatali. Questa può essere una spiegazione specifica. Forse, però, interessa di più la spiegazione generale: è il contesto che spiega meglio quello che è accaduto. E il contesto è di violazioni diffuse e sistematiche dei diritti umani: sparizioni e tortura non sono una novità di oggi in Egitto, ma, in questo periodo, sono pratiche particolarmente diffuse. E sono diffusissimi anche gli arresti arbitrari e i processi iniqui. Amnesty International ha notizia di 12.000 arresti di manifestanti o oppositori nei primi 10 mesi del 2015!
Un paio di mesi fa, è stato rilasciato, per fortuna, un ventenne che aveva trascorso gli ultimi due anni in carcere per avere indossato una maglietta con una scritta che chiedeva la fine della tortura ("Nation Without Torture"). Molte altre persone, invece, sono attualmente in carcere, tra cui il fotoreporter conosciuto col soprannome Shawkan, arrestato il 14 agosto 2013, mentre stava seguendo, per conto di un'agenzia di stampa inglese, lo sgombero di un sit-in convocato dalla Fratellanza musulmana in un quartiere del Cairo, in occasione del quale le forze di sicurezza hanno ucciso moltissimi manifestanti. E' detenuto in attesa di processo da quasi 1000 giorni. Le imputazioni nei suoi confronti sono state rese note al suo difensore due anni e mezzo dopo l'arresto. Anche Shawkan è stato torturato e non gli viene permesso di curarsi per l'epatite C.
Cito volentieri questo caso particolare anche perché, qualche giorno fa, la famiglia di Giulio Regeni ha voluto firmare, con un bel gesto, un nostro appello per chiedere il suo rilascio.
- Rimane, però, difficile capire i motivi che possano aver indotto ad accanirsi contro uno straniero, con il rischio di suscitare un clamore di portata mondiale.
Quel che a me interessa sottolineare è che alle violazioni diffuse e sistematiche si accompagna di regola una vera e propria cultura dell'impunità. Ciò rende meno strano, meno implausibile l'omicidio di Giulio. Sono molti a chiedermi come sia stato possibile che uno straniero, uno studioso, abbia potuto fare quella fine. Alcuni si chiedono se non fosse più semplice espellerlo. Certamente sì, e qualcosa probabilmente non è andato per il “verso giusto”. Ma, in un paese in cui servizi di sicurezza ed esercito sono abituati da decenni a commettere abusi senza non doverne mai rendere conto, senza mai rischiare di essere puniti, anche uno straniero può essere torturato a morte senza troppi scrupoli e calcoli. Da certi segnali, tra l’altro, si capisce che le autorità egiziane sono rimaste piuttosto stupite dall'entità e dall'estensione della reazione. Proprio perché in piena contraddizione con una antica e consolidata cultura dell'abuso di potere e dell'impunità.
- Dopo tanti vergognosi quanto grotteschi tentativi di occultare la verità, che cosa si riesce a comprendere delle dinamiche di questa triste vicenda?
Nel giro di qualche settimana si è passati dall’incidente d’auto (evidentemente poco compatibile con i segni di tortura trovati sul corpo) alla pista omosessuale ("ragioni private"), a quella della droga, alla vendetta tra spie, alla criminalità comune, fino al traffico di opere d’arte. La versione più incredibile è, a mio avviso, quella della banda di criminali comuni, a quanto pare specializzati in rapimenti di stranieri, con l'abitudine di travestirsi da membri delle forze di sicurezza, tutti e 5 morti in un conflitto a fuoco, anche se i colpi li avevano casualmente raggiunti alla nuca. Il tutto completato dalla messinscena dei documenti di Giulio fotografati su un piatto d'argento (documenti che i sedicenti malviventi avrebbero conservato per settimane, pronti per essere ritrovati). Il regime egiziano, oltre a diffondere in modo ufficiale e semi-ufficiale versioni poco credibili dell'accaduto, da un lato ha preso ad accusare gli attivisti e i social media egiziani di disseminare bugie che creano inimicizie all’Egitto. Dall'altro, a offrire una collaborazione incompleta o, peggio, a fare finta di collaborare con gli investigatori italiani mettendo a disposizione dossier carenti delle informazioni più importanti.
Su quel che è successo davvero, non abbiamo certezze, o meglio non abbiamo prove. Tuttavia, le circostanze e la data della scomparsa (il quinto anniversario della “rivoluzione del 25 gennaio” 2011, con tutti i precedenti segnati da picchi della repressione), i metodi di tortura cui è stato sottoposto (esattamente gli stessi usati dagli apparati di sicurezza in un gran numero di casi), la stessa indisponibilità a collaborare nella ricerca della verità, l’assegnazione iniziale delle indagini a un funzionario di polizia condannato nel 2003 per un caso di morte sotto tortura (in seguito accusato di aver torturato, incriminato per false accuse e ucciso manifestanti nel 2011), l'analogo destino cui sono andati incontro due attivisti egiziani scomparsi negli stessi giorni di gennaio (ufficialmente morti durante uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza, ma il primo aveva le unghie strappate e ferite da arma da taglio, il secondo un foro di proiettile in testa e lividi su tutto il corpo) inducono fortemente a pensare che le forze di sicurezza egiziane siano responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni.
Non sappiamo, nel senso che non abbiamo elementi di prova da portare in giudizio. Ma sappiamo, perché ragioniamo, perché facciamo i collegamenti necessari, nello stesso senso in cui diceva di sapere Pier Paolo Pasolini a proposito delle drammatiche vicende italiane dei primi anni settanta.
- Amnesty International è stata immediatamente in prima linea per mobilitare l’opinione pubblica, e numerose e significative sono certamente state le manifestazioni di solidarietà provenienti da tanti ambienti e settori della società civile, dal mondo dello sport a quello dello spettacolo. Vi aspettavate una risposta così forte e ampia?
L'idea di chiedere a tutti di esporre ovunque un'identica scritta nera su fondo giallo è nata in pochi minuti, e, nel giro di poco tempo, siamo stati letteralmente travolti dalle comunicazioni di adesioni, dall'invio di fotografie, dai messaggi. Cerchiamo di tenere aggiornato l'elenco delle adesioni: ci sono tante università, moltissimi comuni (tra cui quello di Albano Laziale), diverse regioni, molti quotidiani, trasmissioni radiofoniche e televisive. La mobilitazione ha anche rapidamente superato i confini italiani: hanno fatto un bel lavoro, ad esempio, nell'Università di Cambridge, ma abbiamo ricevuto fotografie di classi di studenti di scuole e università da molti paesi: credo che il più distante sia stato l'Australia, con fotografie da Sidney davanti al Teatro dell'Opera che è un po' come il Colosseo per noi.
Infine, è molto incoraggiante la risposta proveniente dal mondo arabo e dallo stesso Egitto. Soprattutto sui social media la richiesta di verità è presente. Al Cairo, in una via importante, che porta a Piazza Tahrir, c'è un murale con le immagini dei martiri della repressione: a questi, tutti egiziani, è stato aggiunto il ritratto di Giulio Regeni. E girano anche magliette con la sua foto e la scritta "Uno di noi". E, richiamando quanto detto a proposito del carattere non isolato del suo caso, e del gran numero di vittime egiziane, non potrebbero essere usate parole più vere.
E non sono certo mancate le risposte istituzionali, sicuramente incoraggiate dalla pressione congiunta dell'opinione pubblica e degli organi di informazione.
- Ma la campagna di Amnesty International non si ferma certo qui. Quali altre iniziative potrebbero essere portate avanti, a livello internazionale per fare luce e per fare giustizia?
Per prima cosa, chiediamo al governo italiano di evitare sbrigative ricuciture sul piano diplomatico. Il nuovo ambasciatore (perché dopo il richiamo c'è stato un avvicendamento) non dovrebbe assolutamente tornare al Cairo fino a che le cose non saranno cambiate significativamente.
Riteniamo poi che, oltre a dichiarare il paese "non sicuro" per i nostri cittadini (azione che potrebbe essere considerata come una forma di boicottaggio del turismo), siano sospesi tutti i trasferimenti di armi. Nel 2013 l'Unione europea ha previsto una sospensione dei trasferimenti di armi all'Egitto dopo che, nell'agosto dello stesso anno, centinaia di manifestanti erano stati uccisi. Ma12 stati dell'Unione europea su 28 sono rimasti, però, tra i principali fornitori di armi ed equipaggiamento di polizia all'Egitto, e tra questi 12 stati c'è anche l'Italia che, insieme a Germania e Regno Unito, ha inviato all'Egitto anche tecnologia e strumentazioni sofisticate per svolgere attività di sorveglianza indirizzata, con ogni probabilità, contro il dissenso pacifico. Ebbene, tutto questo deve cessare, innanzitutto da parte italiana, ma possibilmente da parte di tutti gli stati europei. Perché, se l'Europa risponde in ordine sparso, l'Egitto può tranquillamente ignorare le eventuali sanzioni italiane (tanto le armi continuerebbero ad arrivare da altri stati europei esportatori).
C'è poi, un capitolo più strettamente giuridico. L'Egitto ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, nel 1986, per cui, in base all’art.30, l’Italia, dopo avere seguito preliminarmente la via del negoziato per risolvere la controversia con l'Egitto, seguito da un tentativo di arbitrato, potrebbe infine presentare un ricorso unilaterale alla Corte internazionale di Giustizia.
Infine, c'è il discorso relativo a quanto si potrebbe fare nell'ambito della giustizia penale o civile italiana per affermare la responsabilità civile dello Stato egiziano o quella penale degli individui colpevoli di tortura. La prima possibilità - adire le corti italiane per chiedere la condanna dell’Egitto al risarcimento dei danni causati - non incontra più, se la giurisprudenza Ferrini della Corte di Cassazione verrà confermata, l'ostacolo costituito dall’immunità dello Stato laddove si sia in presenza di crimini internazionali o gravi violazioni dei diritti umani. E' evidentemente molto difficile che si possano raccogliere le prove necessarie a sostenere la richiesta di risarcimento.
Quanto alla responsabilità penale degli individui, la Procura di Roma ha aperto un'indagine e qualche giorno fa inoltrato per via diplomatica una rogatoria internazionale. L'ipotesi è di affermare la giurisdizione italiana sulla base del criterio giurisdizionale della nazionalità passiva (o della vittima). Anche in questo caso rimane il fatto che, per processare qualcuno, occorrono prove e la mancanza di collaborazione dell'Egitto rischia di essere paralizzante da questo punto di vista.
C’è da aggiungere poi che, anche nell'ipotesi che l’indagine fosse coronata da successo e si riuscisse ad individuare e rinviare a giudizio i responsabili, questi non potrebbero comunque essere giudicati e condannati per tortura (nella forma più aggravata della tortura seguita dalla morte della vittima), ma per il solo reato di omicidio aggravato. Perché l'Italia non ha ancora riconosciuto il reato di tortura nel proprio codice penale, continuando infatti ad ostinarsi a non voler chiamare le cose con il loro nome.
In questo caso, si verrebbe a produrre una specie di bizzarro effetto collaterale: non poter punire per "tortura" neppure quando a essere torturato a morte è un nostro cittadino in un altro paese!
Stefan Zweig, durante il secondo conflitto mondiale, ebbe a dire che, ogni volta che sentiva di case crollate sotto i bombardamenti, qualcosa gli crollava dentro l’anima. Nelle anime di noi tutti, dopo le continue notizie provenienti dalla Siria relative a ripetuti (e non certo casuali) bombardamenti su strutture ospedaliere, di macerie dovrebbero essercene a montagne …
Orrore dopo orrore, si oltrepassano di giorno in giorno i confini dell’imbarbarimento più atroce …
Ultimo bersaglio: l’ospedale di Al Quds ad Aleppo, supportato da Medici Senza Frontiere.
Secondo quanto riferito dallo staff operante sul posto, l’ospedale è stato distrutto nella notte del 28 aprile da almeno un attacco aereo che ha colpito direttamente l’edificio, mentre ulteriori attacchi aerei hanno colpito altre aree nei pressi dell’ospedale.
“MSF condanna nel modo più assoluto questo vergognoso attacco, che colpisce un'altra struttura sanitaria in Siria” ha dichiarato Muskilda Zancada, capomissione di MSF in Siria.
“Questo devastante attacco ha distrutto un ospedale vitale per Aleppo, che era anche il principale centro pediatrico dell’area. Dov’è l’indignazione di chi ha il potere e il dovere di fermare questo massacro?”
MSF gestisce sei strutture mediche nel nord della Siria e supporta oltre 150 centri sanitari e ospedali in tutto il paese, di cui molti in aree assediate. Diversi ospedali nel nord e nel sud della Siria sono stati bombardati dall’inizio del 2016, tra cui 7 supportati da MSF, dove sono morte almeno 42 persone di cui almeno 16 tra il personale medico.
In quest’ ultima settimana, diverse altre strutture mediche sono state attaccate e distrutte ad Aleppo e ben cinque soccorritori della Difesa Civile Siriana sono stati uccisi.
Dal 2012, MSF dona forniture mediche all’ospedale di Al Quds, costruendo una stretta collaborazione professionale con il suo staff medico.
“A rafforzare questa tragedia - continua Zancada di MSF - si aggiunge la dedizione e l’impegno dello staff di Al Quds, che lavorava in condizioni inimmaginabili, senza mai vacillare, dall’inizio di questo sanguinoso conflitto”.
L’ospedale, dotato di 34 posti letto, costituiva il principale centro pediatrico dell’intera zona: forniva servizi di pronto soccorso, cure ostetriche e terapia intensiva, disponeva di sala operatoria, un ambulatorio e un reparto di degenza e vi lavoravano a tempo pieno 8 medici e 28 infermieri.
Il bilancio del bombardamento dell'ospedale Al Quds, nel giro di qualche giorno, è salito a oltre 50 vittime, tutte persone che si trovavano nell’ospedale e nelle aree circostanti, dove sono cadute le prime bombe, fra cui pazienti e almeno 6 membri del personale medico.
L’ospedale Al Quds era già stato danneggiato e parzialmente distrutto un certo numero di volte, di cui l'ultima nel 2015.
MSF è estremamente preoccupata per le circa 250.000 persone che rischiano sempre più di essere completamente tagliate fuori dall’assistenza medica.
“Il cielo sopra ad Aleppo sta cadendo. La città, costantemente in prima linea in questa guerra brutale, rischia ora di finire sotto un'offensiva totale, in cui nessun punto viene risparmiato. Gli attacchi contro gli ospedali e il personale medico sono un indicatore devastante di come la guerra in Siria è condotta, uno dei numerosi e brutali modi in cui i civili vengono presi di mira" ha dichiarato ancora Muskilda Zancada, capomissione di MSF in Siria.
"L'attacco all’ospedale Al Quds ha distrutto uno degli ultimi posti rimasti ad Aleppo, in cui si poteva ancora trovare l'umanità. Aleppo è già lo scheletro di ciò che era una volta, e quest’ultimo attacco sembra determinato a eliminare anche quello.
MSF ha sostenuto Al Quds fin dal 2012. E 'stato un onore incredibile per noi essere in grado di lavorare a stretto contatto con queste persone così impegnate. Vediamo giorno dopo giorno il modo in cui rischiano la vita nell’inferno in terra che è la guerra, per garantire l’accesso alle cure mediche alle persone. La loro perdita è la nostra perdita, e ci impegniamo a sostenerli nel riavvio delle attività dell’ospedale”.
Tra le vittime di questo ennesimo attacco criminale c'è anche l'ultimo pediatra di Aleppo, Muhammad Waseem Maaz, di 36 anni.
A lui, il direttore dell'ospedale, il dott. Hatem, ha inteso voler dedicare un breve ma significativo ricordo che riteniamo doveroso diffondere.
Cari amici,
sono il dottor Hatem, il direttore dell'Ospedale pediatrico di Aleppo. La scorsa notte, 27 persone fra personale medico e pazienti sono stati uccisi in un attacco aereo che ha colpito il vicino ospedale di Al Quds. Il mio amico dottor Muhammad Waseem Maaz, il pediatra più qualificato della città, è stato ucciso durante l'attacco. Lui abitualmente lavorava presso l'Ospedale pediatrico durante il giorno, mentre durante la notte prestava servizio presso la struttura di Al Quds, dove si occupava delle emergenze.
Il dottor Maaz e io trascorrevamo sei ore al giorno insieme. Era cordiale, amichevole e aveva l'abitudine di scherzare molto con tutto il personale. Era il medico più amabile del nostro ospedale.
Ora mi trovo in Turchia e anche lui avrebbe dovuto far visita alla sua famiglia qui, dopo il mio ritorno ad Aleppo. Non la vedeva da quattro mesi.
Nonostante tutto, il dottor Maaz è rimasto ad Aleppo, la città più pericolosa del mondo, per devozione verso i suoi pazienti. Gli ospedali sono spesso tra i bersagli dalle forze governative e dalle forze aeree russe.
Giorni prima che un raid aereo ponesse fine alla vita del dottor Maaz, un altro attacco era stato registrato a soli duecento metri dal nostro ospedale. Quando i bombardamenti si intensificano, il personale medico si ripara al piano terra dell'ospedale portando con sé le incubatrici con i neonati al loro interno, per proteggerli.
Come tante altre vittime, il dottor Maaz è stato ucciso per aver salvato delle vite. Oggi vogliamo ricordare la sua umanità e il suo coraggio. Speriamo che questa storia possa essere condivisa, in modo che altri possano sapere che cosa sono costretti ad affrontare i medici ad Aleppo e in tutta la Siria.
Oggi la situazione è critica e Aleppo stessa potrebbe essere presto messa sotto assedio. Abbiamo bisogno che il mondo sappia.
Grazie per la vostra vicinanza
Dr. Hatem
Il prossimo 3 maggio, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sarà chiamato a votare una risoluzione per fermare futuri attacchi contro ospedali, pazienti e civili nelle zone di guerra.
A questo proposito, MSF ha lanciato un’azione di mobilitazione sui social mediaper chiedere la protezione di civili, pazienti, medici e ospedali nei conflitti.
Nello specifico, l’organizzazione umanitaria richiede che la risoluzione:
Questo l’appello rivolto a tutti noi per supportare l’iniziativa.
Usa il tuo account Facebook, Twitter o Tumblr per aiutarci a mandare un messaggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il 2 maggio tramite la piattaforma Thunderclap tutti gli iscritti invieranno simultaneamente un messaggio che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sentirà forte e chiaro.
Fai sentire la tua voce e aiutaci a fare pressione sui membri delle Nazioni Unite affinchè votino la versione più efficace possibile di questa risoluzione.
PER SAPERNE DI PIU’
Dall’oramai lontanissimo 15 marzo 2011 (inizio delle proteste antigovernative nel paese), una serie inenarrabile di violazioni dei diritti umani, fra cui crimini di guerra e crimini contro l’umanità, si è abbattuta sulla popolazione siriana.
"I cinque anni trascorsi dall'inizio della rivolta - ha recentemente dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International - sono stati contraddistinti da orrori e bagni di sangue di dimensioni colossali. Dal primo momento in cui le forze governative siriane aprirono il fuoco contro manifestanti pacifici, la brutalità e la sofferenza dei civili sono diventate il tragico emblema della crisi" .
"Le forze governative e i gruppi armati non statali, tra cui quello che si è denominato Stato islamico, hanno esibito una vergognosa indifferenza per i diritti umani e per le leggi di guerra ferendo e uccidendo civili, costringendoli a sfollare e, in alcune aree sotto assedio, riducendoli alla fame" - ha aggiunto Shetty.
"Le forze governative - ha proseguito Shetty - hanno commesso crimini contro l'umanità in modo sfacciato, attuando strategie terrificanti come l'uso incessante dei barili-bomba contro i centri abitati, una campagna di massa di sparizioni e l'uso sistematico e su scala industriale della tortura. Alcuni gruppi armati, soprattutto lo Stato islamico, hanno sfruttato i riflettori dei media internazionali per mostrare cinicamente i loro crimini di guerra, come i sequestri e le uccisioni sommarie di civili siriani e stranieri" .
In questi ultimi giorni, Medici Senza Frontiere, organizzazione da sempre molto attiva sul territorio e sempre fonte di preziose informazioni, ha lanciato un appello alla comunità internazionale al fine di richiamare l’attenzione sulle drammatiche condizioni in cui si stanno trovando ben 100.000 persone intrappolate nel distretto di Azaz, nel governatorato di Aleppo in Siria settentrionale, bloccate tra la linea del fronte del gruppo dello Stato Islamico, i territori controllati dai curdi e la frontiera turca.
La frontiera è stata chiusa, da un anno ormai a questa parte, per tutti, esclusi i malati gravi e alcuni membri del personale umanitario. Gli ultimi violenti combattimenti hanno indotto alla fuga più di 35.000 ed ora più di 100.000 persone sono radunate nelle zone al confine con la Turchia, a soli sette chilometri di distanza dai combattimenti in corso.
Le operazioni belliche in atto hanno inoltre causato la chiusura di numerose strutture sanitarie, mentre, fortunatamente, l’ospedale di MSF (52 posti letto nell’area settentrionale di Azaz) continua ad essere in funzione.
“Vediamo ancora decine di migliaia di persone costrette a fuggire ma senza alcun posto sicuro dove andare, intrappolate in questo sanguinoso, brutale confitto” - ha detto Muskilda Zancada, capo missione di MSF in Siria.
“Le nostre équipes mediche - ha aggiunto - stanno lavorando in condizioni incredibilmente difficili e data la gravità della crisi abbiamo deciso di concentrarci sugli interventi salva-vita di emergenza. Nell’ultima settimana abbiamo visto circa 700 pazienti nel pronto soccorso, tra cui 24 feriti di guerra.”
L’ospedale, inoltre, è riuscito ad assistire 8 partorienti dal 10 aprile, mentre le équipes di MSF hanno distribuito beni di prima necessità, come coperte e teloni, a più di 3.400 nuovi sfollati.
Anche in queste circostanze MSF rinnova alle parti in conflitto la richiesta di rispettare i civili e le strutture sanitarie, anche se, considerando come è stata condotta questa guerra sin dall’inizio, con attacchi deliberati contro i civili, le preoccupazioni per la sicurezza della popolazione non possono che crescere …
MSF ritiene, inoltre, che vi sia una crudele contraddizione tra la situazione nel nord della Siria e le attuali priorità dell’Unione Europea rispetto ai rifugiati siriani.
“È inaccettabile - afferma a questo proposito Loris De Filippi, presidente di MSF - che gli attuali sforzi dell’UE siano concentrati su come riportare i siriani in Turchia, piuttosto che sul garantire sicurezza e protezione a quanti si trovano ammassati al confine tra Siria e Turchia”.
MSF chiede all’Unione Europea e alla Turchia di lavorare insieme per trovare una soluzione umana a questa emergenza, una soluzione che assicuri protezione alle persone che scappano per salvare la propria vita.
In questo penoso scenario vergognosamente favorito dalla crescente dimenticanza generale, particolarmente degna di nota, per chiunque volesse ottenere una informazione adeguatamente ampia e corretta, è la recente iniziativa di Amnesty International che ha condotto alla creazione di un nuovo sito ( #360Syria), capace di mostrare in modo incontrovertibile le devastazioni causate dalle forze armate governative con i continui lanci di barili bomba sulla città assediata di Aleppo.
Il sito, chiamato "Paura dal cielo", è reperibile all'indirizzo Internet www.360Syria.com e offre fotografie a 360 gradi, narrazioni, registrazioni sonore, grafici tridimensionali e video che i media-attivisti siriani hanno realizzato appositamente per Amnesty International.
Il sito ha la straordinaria capacità di catapultare il visitatore fra le macerie delle strade di Aleppo, in una potentissima esperienza di vera e propria "immersione".
II visitatore, infatti, ha la possibilità di navigare intorno a "fotosfere" a tutto schermo che catturano le terribili scene e anche i rumori successivi ad un attacco con barili bomba, nonché i coraggiosi tentativi di soccorso ad opera di civili disarmati (gli "elmetti bianchi") del Syria Civil Defence.
Nel sito, l'attivista siriana Razan Gazzawi - ora rifugiata a Leeds (Regno Unito) - spiega come Aleppo sia stata soggetta a bombardamenti intensivi con migliaia di barili bomba riempiti di munizioni altamente indiscriminate: taniche di benzina o cilindri di gas con imballaggi esplosivi, carburante e frammenti metallici lanciati da elicotteri governativi.
Per la realizzazione del sito, Amnesty International ha lavorato a stretto contatto con un gruppo di media-attivisti siriani di Aleppo, Lambda Media Production (http://lambaproduction.com), i quali hanno visitato numerosi luoghi appena colpiti per creare un sostanzioso archivio di prove. Amnesty International ha aiutato gli attivisti del gruppo Lambda anche dal punto di vista tecnico, fornendo loro macchine da presa Ricoh Thetas 360 gradi.
Nonostante le smentite del presidente siriano Bashar al-Assad, secondo osservatori siriani per i diritti umani, solo negli ultimi due anni, quasi 20.000 barili bomba hanno causato la morte di oltre 8000 civili.
Nel suo Rapporto del 2015, Amnesty International aveva già ampiamente fornito dettagli sugli orribili danni causati dai barili bomba governativi su Aleppo, con decine di persone uccise ogni mese negli attacchi rivolti anche a scuole, ospedali, moschee e mercati affollati.
Tony al Taieb, cofondatore e direttore della Lambda Media Production, ha dichiarato:
"Il lancio di barili bomba su Aleppo è uno dei più grandi crimini del XXI secolo e Lambda è determinata a registrare le devastazioni che queste demoniache armi stanno causando. Più riusciamo a preservare e mostrare le prove, più è probabile che i responsabili di questi terribili crimini siano portati davanti alla giustizia".
Il sito è stato creato in collaborazione con l'agenzia di design e tecnologia di San Francisco Junior (www.junior.io). Zac Rolland, il suo direttore tecnologico, ha spiegato che, usando un A-Frame da Mozilla, è riuscito a permettere di provare un'esperienza di forte empatia ad un grandissimo numero di persone.
"Il livello delle devastazioni in Siria - ha dichiarato Rolland - spezza il cuore. La nostra sfida è stata trovare il mezzo tecnico più efficace e accessibile per aiutare il mondo a capire e a fare esperienza di ciò che sta accadendo lì. E' questo il senso del nostro lavoro" .
Per saperne di più:
www.amnesty.it/siria-terrificanti-testimonianze-video-sulla-vita-sotto-assedio-e-sui-barili-bomba
Interessante iniziativa di Amnesty International e Archivio Disarmo
Alla vigilia del primo anniversario dell'inizio del conflitto dello Yemen, Amnesty International ha chiesto a tutti gli stati (tra cui Usa, Regno Unito e Italia) di interrompere ogni trasferimento di armi destinate a essere usate nello Yemen, in modo da non alimentare ulteriormente le gravi violazioni dei diritti umani che hanno finora avuto conseguenze devastanti per la popolazione civile.
Drammatico, infatti, il bilancio fino ad oggi: oltre 3000 civili - tra cui 700 bambini - sono stati uccisi e almeno due milioni e mezzo di persone sono state costrette a lasciare le loro case. Almeno l'83 per cento della popolazione ha disperato bisogno di aiuti umanitari.
"Trascorso un anno, la risposta della comunità internazionale al conflitto dello Yemen è stata profondamente cinica e del tutto vergognosa" - ha dichiarato James Lynch, vicedirettore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
Al fine di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su questa guerra, tanto tremenda quanto ignorata, la sezione italiana di Amnesty International e l’Archivio Disarmo, nel pomeriggio del 31 marzo, hanno promosso una tavola rotonda di straordinario interesse, presso la sede del Maxxi di Roma.
Di grosso spessore tutti gli interventi e ricco e quasi interminabile il successivo dibattito, grazie anche ad un pubblico particolarmente numeroso, attento ed informato.
Il direttore dell’ufficio nazionale di Amnesty, Gianni Ruffini, si è soffermato soprattutto su due aspetti di questo conflitto:
- la partecipazione del nostro Paese in qualità di puntuale e solerte fornitore di ordigni esplosivi all’Arabia Saudita (stato che guida la coalizione che conduce le operazioni belliche in territorio yemenita;
- l’ interminabile ed osceno elenco di riconoscimenti/apprezzamenti espressi dalle grandi potenze nei confronti della stessa Arabia Saudita (dalla Francia all’India, dall’Inghilterra agli USA, dalla Spagna alla Cina). Fatto questo spiegabile unicamente facendo riferimento ai colossali interessi di carattere economico in gioco.
La parte centrale della serata è stata poi occupata dalla testimonianza di Donatella Rovera, consulente principale della ricerca sulle aree di crisi di Amnesty International, impegnata, nell’arco di 20 anni, in numerosissime ricerche, soprattutto in Africa del Nord e Medio Oriente.
Negli ultimi sei mesi, ha trascorso molto tempo in Siria, anche nelle città sotto assedio, investigando direttamente sul campo la situazione dei diritti umani.
Molte e di grande pregio le informazioni contenute nelle sue parole, informazioni frutto di osservazioni, rilevamenti e riscontri operati sul campo in primissima persona.
Il quadro complessivo dello Yemen – ci ha detto – è particolarmente grave e sconcertante: il Paese più ricco della regione sta attaccando quello più povero. Il risultato più evidente e allarmante è che il fenomeno della malnutrizione si sta progressivamente espandendo, interessando soprattutto l’infanzia.
La situazione attuale viene disegnata in termini più che drammatici:
L’intervento conclusivo è stato quello di Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Archivio Disarmo, il quale ha ben sottolineato come l’Italia si trovi ai primissimi posti nelle classifiche mondiali di esportazioni di armi, soprattutto per quanto concerne le armi piccole e leggere (non certo meno devastanti delle altre). Simoncelli si è poi soffermato a lungo nell’evidenziare come il nostro Paese, benché non potrebbe, secondo le leggi vigenti (185/90, art.1), neppure prendere in considerazione di vendere armi all’Arabia Saudita (trattandosi di nazione coinvolta in conflitto armato e sistematicamente responsabile di numerose quanto gravi violazioni dei diritti umani), abbia operato ripetuti e documentati invii di armi durante l’intero conflitto.
Inoltre, il nostro Governo avrebbe anche consentito il transito di armi (aerei in particolare) vendute da altri Paesi all’Arabia Saudita.
Ma è oltremodo imbarazzante il comportamento dell’intera comunità internazionale, nonostante, qua e là, qualche segnale di speranza.
Il 25 febbraio il Parlamento europeo ha chiesto all'Unione europea d'imporre un embargo nei confronti dell'Arabia Saudita. Il 15 marzo il parlamento olandese ha chiesto al governo di porre fine ai trasferimenti di armi all'Arabia Saudita.
Intanto, in assenza di un embargo decretato dal Consiglio di sicurezza, Amnesty International ha chiesto e continua a chiedere a tutti gli stati di assicurare che nessuna parte coinvolta nel conflitto dello Yemen riceva, direttamente o indirettamente, armi, munizioni, equipaggiamento o tecnologia militare che potrebbero essere usati nel conflitto. Tale assicurazione deve comprendere anche il sostegno logistico e finanziario a tali trasferimenti.
Per approfondimenti:
http://www.amnesty.it/mena/Yemen
http://www.amnesty.it/yemen-la-guerra-dimenticata
http://www.amnesty.it/Due-incontri-di-approfondimento-sulla-situazione-in-Yemen
http://appelli.amnesty.it/conflitto-yemen/
Della guerra in Siria, da molto tempo oramai, sentiamo parlare quotidianamente, ma assai raramente ci viene ricordato che ben quattro su cinque membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite stanno svolgendo azioni belliche di bombardamento aereo, entrando cosi`palesemente in contraddizione con gli impegni assunti relativi al compito di protezione dei civili.
A ricordarci questa tragica e disperante verita` sono i comunicati di Medici Senza Frontiere, un`organizzazione che, oltre a soccorrere le popolazioni piu` in pericolo, costituisce spesso, anche una preziosa fonte di informazione.
Nel Rapporto 2015, l`organizzazione umanitaria stima in 154.647 i feriti e in 7.009 le vittime della guerra in corso, una guerra che non solo si abbatte sistematicamente sulla popolazione civile (si calcola che tra il 30-40 % delle vittime sia costituito da donne e bambini), ma che sembra aver scelto di accanirsi anche contro coloro che cercano di portare soccorso.
Apprendiamo, infatti, che, nello scorso anno, in media e` stata attaccata o bombardata una struttura supportata da MSF ogni settimana.
Ovvero, 63 strutture colpite (di cui 12 completamente distrutte) in 94 attacchi aerei o di terra. Ben 23 medici siriani supportati da MSF hanno perso la vita, 58 sono rimasti feriti e 16 ambulanze sono state colpite.
Inoltre, e qui travalichiamo ampiamente le fantasie piu` perverse di qualsiasi scrittore dell`orrore, sono stati documentati anche alcuni casi (almeno quattro) di attacchi doppi: operatori e strutture sanitarie accorsi sul luogo di attacchi gia`accaduti, impegnati nel portare soccorso, vengono fatti oggetto di un attacco successivo, oppure si colpiscono i feriti appena trasportati "al sicuro" all`interno di una struttura ospedaliera.
Nel corso del 2016, poi, gia` 17 strutture sono state bombardate, di cui 6 supportate da MSF.
Particolarmente gravi sono risultati gli effetti dei bombardamenti del 15 febbraio ai danni dell`ospedale di Ma'arrat al-Nu'man, in provincia di Idlib, distrutto da attacchi multipli. Il bilancio finale parla di 25 morti, fra cui 9 dello staff medico.
Si trattava di un ospedale pienamente funzionante, con 30 posti letto, che ogni mese riusciva a prendersi cura di migliaia di persone.
Attualmente, in Siria, circa due milioni di individui vivono in condizioni di estrema difficolta` e sofferenza, con assistenza medica bloccata o negata, privati degli elementi di base indispensabili per la sopravvivenza.
Davvero significativa la testimonianza di un medico operante in un sobborgo di Damasco.
"Lavoravo - dice - principalmente in due ospedali. Il primo, dopo aver subito numerosi attacchi, e` stato chiuso. Ci siamo trasferiti in un secondo ospedale di fortuna, anche questo poi colpito molte volte."
La situazione e` talmente assurdamente disumana che i pazienti oramai, preda della paura, chiedono di non essere ricoverati ...
"In ospedale - prosegue il medico (laureato nel 1995) - vediamo ogni tipo di ferita (...) pazienti che hanno perso una gamba, decapitati, con le mani mozzate ...
In futuro, i medici in zone come questa saranno considerati i piu` famosi del mondo per le cose straordinarie che sono costretti a fare. (...) Siamo tutti affaticati dalla paura e dalla guerra.
Tutti volevano la liberta`, la rivoluzione, ma ora hanno raggiunto il limite e vogliono solo che finisca la violenza.
Ogni giorno qualcuno dice addio a un suo familiare."
Qui da noi, intanto, ancora a chiederci, perplessi e preoccupati, perche` tanta gente rischi la vita per sbarcare sulle coste europee ...
PER APPROFONDIRE:
www.medicisenzafrontiere.it
Una campagna lanciata da Amnesty International Italia per non permettere che l'omicidio del giovane ricercatore italiano finisca per essere dimenticato, per essere catalogato tra le tante "inchieste in corso" opeggio, per essere collocato nel passato da una "versione ufficiale" delgoverno del Cairo. Qualsiasi esito distante da una verità accertata e riconosciuta in modo indipendente, da raggiungere anche col preziosocontributo delle donne e degli uomini che in Egitto provano ancora aoccuparsi di diritti umani, nonostante la forte repressione cui sonosottoposti, dev'essere respinto.
"Dobbiamo tenere alta l'attenzione affinché questa vicenda non vengarimossa dall'agenda politica. È una cosa che non possiamo permetterci, per
Giulio, i suoi familiari, per la libertà di ciascuno, ma anche per la dignità del nostro paese" ha dichiarato Antonio Marchesi, presidente diAmnesty International Italia.
In un rapporto pubblicato già nel giugno del 2015, Amnesty Internationalha dichiarato che la continua repressione delle autorità egiziane contro i
giovani attivisti rappresenta il chiaro tentativo di schiacciare le mentipiù coraggiose e brillanti del paese ed eliminare qualunque minacciaembrionale al potere.
"Generazione carcere: la gioventù egiziana dalle proteste alla prigione"
si concentra sui casi di 14 delle migliaia di giovani arrestati in modoarbitrario, detenuti e incarcerati in Egitto negli ultimi due anni inrelazione alleproteste.
Nel suo rapporto, Amnesty International denuncia come il paese sia tornatocompletamente a essere uno stato di polizia. Due anni dopo l'estromissione
del presidente Mohamed Morsi, alle proteste di massa sono subentratiarresti di massa. Attaccando senza sosta i giovani attivisti egiziani, leautorità stanno spezzando le speranze in un futuro migliore di un'interagenerazione.
Per maggiori informazioni sulla campagna di Amnesty International "Verità
per Giulio Regeni" e l'elenco delle adesioni in continuo aggiornamento:
Le denunce e le iniziative di AMNESTY INTERNATIONAL
Quando si esamina criticamente il modo in cui la macchina dell'informazione affronta i vari aspetti problematici del mondo contemporaneo, si finisce assai
spesso per trovarsi amaramente costretti a parlare di evidenti quanto irritanti fenomeni di "strabismo" e di "doppiopesismo". Solo ad alcune cose, cioè, si concede massimo rilievo, mentre altre restano ignorate, solo alcune vengono percepite come degne di discussione, di mobilitazione e di intervento, altre restano in un angolo, senza il privilegio della luce dei riflettori ...
Il caso della guerra in Yemen è, a questo proposito, uno dei casi più emblematicamente macroscopici.
Dal primo attacco aereo dell'Arabia Saudita contro il gruppo armato huthi (25 marzo 2015), è oramai trascorso un intero anno. Da allora, si è sviluppato un conflitto in cui tutte le parti coinvolte hanno commesso numerose violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, compresi anche possibili crimini di guerra.
In questo terribile anno di guerra, sono stati uccisi più di 3.000 civili, fra cui ben 700 bambini, e almeno due milioni e mezzo di individui sono stati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni.
Tutto ciò mentre USA e Regno Unito - principali fornitori di armi all'Arabia Saudita, paese guida della coalizione - nonché altri stati, fra cui lItalia, hanno proseguito ad autorizzare trasferimenti delle armi che hanno reso possibile produrre una gravissima crisi umanitaria, nella quale almeno l' 83 per cento della popolazione si e' venuta a trovare in una condizione di disperato bisogno di aiuti umanitari.
Dall'inizio del conflitto, Amnesty International ha potuto documentare almeno 32 attacchi aerei da parte della coalizione diretta dall'Arabia Saudita, attacchi che, oltre che uccidere numerosi civili, fra cui sicuramente più di cento bambini, hanno colpito ospedali, scuole, mercati e moschee.
"I partner internazionali dell'Arabia Saudita hanno gettato benzina sul fuoco - ha affermato James Lynch, vicedirettore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International - sommergendo la regione di armi nonostante fosse sempre più evidente che quelle armi stavano facilitando il compimento di crimini agghiaccianti e che successive forniture avrebbero potuto essere usate per commetterne altri. Ma non solo: quei paesi non hanno neanche saputo istituire una commissione d'indagine indipendente e internazionale sulle violazioni che hanno devastato migliaia di vite di civili."
"Ora - ha aggiunto Lynch - è il momento che i leader mondiali la smettano di mettere gli interessi economici al primo posto e che il Consiglio di Sicurezza imponga un embargo totale ai trasferimenti di armi destinate ad essere usate nello Yemen."
In occasione del doloroso anniversario dell' inizio del conflitto, Amnesty International Italia, al fine di tentare di richiamare l'attenzione su una tragedia tanto generalmente ignorata, ha promosso a Roma due incontri pubblici di approfondimento, avvalendosi, in particolar modo, della presenza di Donatella Rovera, ricercatrice internazionale che negli ultimi venti anni ha guidato missioni di ricerca, documentando violazioni dei diritti umani in numerose situazioni di crisi nelle aree di conflitto piu' pericolose al mondo.
Questi gli appuntamenti:
GIOVEDI' 31 MARZO, ALLE ORE 18,30, PRESSO IL MAXXI -MUSEO NAZIONALE DELLE ARTI DEL XXI SECOLO (CORNER D, VIA GUIDO RENI, 4 A), si terra' l'incontro
"Un anno di guerra nello Yemen: le responsabilita' della comunita' internazionale";
VENERDI' 1 APRILE, ALLE ORE 10.15, PRESSO L'UNIVERSITA' DEGLI STUDI ROMA TRE (SALA DEL CONSIGLIO DEL DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA, VIA OSTIENSE,159)
Donatella Rovera terra' la conferenza "Human rights analisys in crisis countries: methodology and stories by Amnesty International".
La campagna promossa da Amnesty International (in collaborazione con Repubblica) per richiedere in tempi rapidi e con procedure corrette e trasparenti piena chiarezza in merito all'omicidio di Giulio Regeni continua a raccogliere numerose adesioni, fra cui quella della nostra Free Lance International Press.
Quello che si teme è che ci si possa accontentare di accomodanti “verità di Stato” confezionate con il palese obiettivo di spegnere il prima possibile i riflettori, facendo precipitare la dolorosa vicenda negli archivi del passato. Per impedire che ciò possa verificarsi, l'Associazione umanitaria si sta rivolgendo a enti locali, comuni, università, centri di cultura, associazioni della società civile e singoli cittadini, allo scopo di promuovere un vasto movimento di opinione volto al raggiungimento di una verità accertata e riconosciuta in maniera indipendente.
Fra le tante adesioni, oltre ai numerosi messaggi di sostegno sui social network, da parte di singoli cittadini e di personalità del mondo della cultura e della politica: RAI “Uno Mattina” Il Manifesto, Rai Radio 2 “Caterpillar”, le sigle sindacali CGIL, CISL, UIL unitariamente e la Federazione Nazionale Stampa Italiana.
Dopo raffiche di ipotesi balorde (incidente stradale, delitto a sfondo sessuale, ecc.), anche le ultime ipotesi proposte continuano a non convincere nessuno. Non convince né quella che fa riferimento a mere “attività criminali”, né quella lumeggiata dal ministero dellInterno egiziano tramite l'agenzia di stampa di Stato Mena, secondo cui, tra le varie possibilità, ci potrebbe essere quella di un “desiderio di vendetta per motivi personali, soprattutto perché litaliano aveva avuto legami con persone vicino a dove viveva e studiava.” Né convince maggiormente la tesi del presidente Abdel Fattah Al Sisi, secondo cui la morte del ricercatore sarebbe nata dal desiderio di “colpire le relazioni tra Egitto e Italia.”
Hanno tutte il sapore nauseabondo ed irritante degli innumerevoli tentativi di depistaggio già tante volte registrati nella storia lontana e recente (anche in quella delle nostre “mura di casa”) ...
Un saporaccio tale da indurre lo stesso ministro Gentiloni a parlare di “ipotesi improbabili”.
Intanto, dall'Egitto, arrivano altre pessime notizie: il 17 febbraio le forze di sicurezza hanno imposto la chiusura della sede del Centro EL NADEEM per la riabilitazione delle vittime della violenza, nella capitale Il Cairo. Il Centro, riconosciuto nel 1993, ha potuto fornire assistenza legale e consulenza psicologica fondamentali a centinaia di vittime di tortura. Imporne pertanto la chiusura non può che apparire come un'ulteriore fase della repressione contro le attiviste e gli attivisti per i diritti umani.
“Il Centro El Nadeem per la riabilitazione delle vittime della violenza ha costituito un'ancora di salvezza per centinaia di vittime della tortura e per le famiglie di coloro che sono stati sottoposti a sparizione forzata. Siamo di fronte al tentativo di chiudere un'organizzazione che e' stata un bastione della difesa dei diritti umani e una spina nel fianco delle autorità per oltre 20 anni” - ha dichiarato Said Boumedouha, vicedirettore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. “Le autorità devono sospendere l'ordine di chiusura del Centro e fornire un'esauriente spiegazione delle ragioni che lo hanno determinato. Il Centro deve avere l'opportunità di contestare l'ordine di chiusura di fronte a un tribunale” - ha aggiunto Boumedouha.
Sempre più disumano il conflitto nello Yemen.
La guerra in Yemen continua, nella disattenzione quasi generale, a produrre vittime ed atrocità. E continua anche a colpire chi le vittime cerca di soccorrerle.
In Yemen, Medici Senza Frontiere sta lavorando nei governatorati di Aden, Al- Dhale, Taiz, Saada, Amran, Hajjah, Ibb e Sana'a. Sin dall'inizio della crisi in corso, nel marzo 2015, le équipes di MSF hanno curato più di 20.000 feriti di guerra, inviando più di 790 tonnellate di materiale medico e riuscendo a gestire 11 ospedali e centri sanitari, supportandone regolarmente diciotto. In questo modo, con un sistema sanitario alquanto deficitario, MSF fornisce, di fatto, anche servizi sanitari non di semplice emergenza.
Ma il conflitto in Yemen, che si sta combattendo con un sempre più evidente disprezzo per le regole di guerra previste a livello internazionale, ha finito per attaccare le attività mediche di MSF in Yemen ben quattro volte in meno di tre mesi, con conseguenze di crescente gravità.
“Il modo in cui si combatte in Yemen sta arrecando enormi sofferenze e dimostra che le parti in conflitto non riconoscono e non rispettano lo status protetto di ospedali e strutture sanitarie. Ne vediamo le conseguenze devastanti ogni giorno sulle persone intrappolate nelle zone di conflitto”, dichiaraRaquel Ayora, direttore delle operazioni di MSF. Da quando è scoppiato il conflitto,infatti, i luoghi pubblici vengono colpiti e bombardati su vasta scala. Nulla viene risparmiato, nemmeno gli ospedali, anche se le strutture mediche sono esplicitamente protette dal diritto internazionale umanitario e nonostante le puntuali e circostanziate comunicazioni relative alle coordinate della loro.ubicazione.
Il primo attacco verificatosi in questi ultimi mesi ha avuto luogo il 26 ottobre, quando gli aerei della Coalizione guidata dall’Arabia Saudita hanno ripetutamente bombardato un ospedale nel distretto di Haydan, nella Provincia di Saada, lasciando almeno 200.000 persone prive di cure mediche salvavita.
Successivamente, una clinica mobile di MSF è stata colpita il 2 dicembre, nel quartiere Al Houban di Taiz, ferendo otto persone (tra cui due membri del personale) e uccidendo una persona nelle vicinanze.
Il 10 gennaio, l'ospedale supportato da MSF a Shiara è stato attaccato in un incidente che ha ucciso sei persone e ferito almeno sette (la maggior parte di loro personale medico e pazienti), mentre il 21 gennaio un’ambulanza di MSF è stata colpita e il suo conducente ucciso in una serie di attacchi aerei che hanno ferito decine di persone, uccidendone almeno sei nel governatorato di Saada.
MSF ha deciso di appellarsi alla Commissione d’Inchiesta Umanitaria Internazionale (unico organo d'inchiesta internazionale permanente con un mandato specifico per indagare potenziali violazioni del diritto umanitario internazionale, ai sensi delle Convenzioni di Ginevra), richiedendo un'indagine indipendente sull’attacco all’ospedale di Shiara.
MSF si era già rivolta alla Commissione in seguito al bombardamento del proprio ospedale traumatologico a Kunduz, in Afghanistan, da parte dell'esercito degli Stati Uniti, che ancora non si sono espressi in merito alla richiesta di indagini.
“Quattro nostre strutture sanitarie sono state attaccate in quattro mesi in Yemen e in Afghanistan”, dichiara la dott.ssa Joanne Liu, presidente internazionale di MSF. “E’ questa la nuova prassi: un ospedale di MSF bombardato al mese? Quanti altri ospedali sono attaccati in Yemen e in altre zone di conflitto, gestiti da personale medico che non ha la stessa forza di MSF per denunciare all’opinione pubblica quanto sta accadendo? Ci rifiutiamo di accettare che questa tendenza prosegua con una totale assenza di responsabilità. Abbiamo urgente bisogno di garanzie dalle parti in guerra che gli ospedali funzionanti non diventino mai un obiettivo legittimo”.
L’ospedale di Shiara supportato da MSF è soltanto l’ultimo di più di cento centri sanitari e ospedali colpiti da bombardamenti e attacchi aerei durante il conflitto internazionale che sta devastando il Paese ormai da dieci mesi.
Juan Prieto, coordinatore generale dei progetti MSF in Yemen, a proposito della situazione venutasi a delineare nel distretto e nel Paese, ha recentemente affermato che
“Le persone continuano a considerare gli ospedali un bersaglio e provano il più possibile a evitarli. Gli unici casi che stiamo ricevendo sono emergenze e vittime degli attacchi. Finora siamo stati in grado di ripristinare il pronto soccorso e i servizi di trasferimento e di stabilizzazione e ci stiamo sforzando di far tornare operativo il reparto maternità. Stiamo lavorando con uno staff ridotto, concentrandoci solo sui bisogni medici urgenti. La struttura è considerata un luogo pericoloso, non dimenticate che è stata colpita tre volte lo scorso anno. Ciò nonostante, i membri del nostro staff sono tornati ai propri ruoli anche se con apprensione. Sono più determinati che mai, vista la situazione del Paese e gli specifici bisogni nel Razeh, a continuare a lavorare per la popolazione.”
Anche in periodo natalizio, fra i tanti filmini e filmetti in circolazione, ineluttabilmente convergenti nell`indurre al rimpianto del denaro sborsato, puo` capitare di imbattersi in espressioni importanti di cinema vero. E` questo il caso di "Ponte delle spie" di Spielberg. Un film che ricostruisce una pagina ignota quanto avvincente del periodo convenzionalmente denominato "guerra fredda" (pagina relativa ad uno scambio di prigionieri fra USA e URSS) e che, oltre a fornirci un quadro indubbiamente efficace di quel terribile periodo, riesce ad inviarci anche messaggi attualissimi.
Ci dice, infatti, che, sempre e in ogni caso, i principi di umanita` possono essere difesi e salvati e addirittura imposti alla prepotenza delle varie "Ragioni di Stato"; che ci puo` essere sempre spazio per uno slancio empatico, per tendere una mano, per sentirsi responsabili della vita di chi non puo` difendersi; che ci puo` essere sempre una via inesplorata da percorrere, una strategia scompaginante da adottare, per far si` che la fantasia e l`intelligenza riescano ad imporre la prassi del dialogo e del negoziato a quella fin troppo collaudata delle clave e delle bombe.
'Ponte delle spie" e` un film magnificamente realizzato, che ci lascia dentro il sapore denso delle cose ben fatte e il sorriso carezzevole della ragione umana che non sa e che non vuole arrendersi agli schemi reificanti inventati da uomini miopi e stolti per potersi etichettare, maledire e uccidere gli uni con gli altri ...
Da quando, nell’ormai lontano 30 settembre, la Russia ha annunciato formalmente di intervenire nel conflitto armato in Siria, risultano essersi verificati migliaia di attacchi.
Mentre le autorità russe continuano ad affermare (cosa tristemente ricorrente in situazioni di questo genere) che l’aviazione si starebbe limitando a colpire obiettivi legati alle forze dei "terroristi", dal recentissimo rapporto di Amnesty International (https://www.amnesty.org/en/documents/mde24/3113/2015/en/) gli attacchi russi risultano aver provocato centinaia di vittime civili, di aver distrutto o gravemente danneggiato decine di abitazioni e, addirittura, un ospedale.
Il rapporto dell’organizzazione umanitaria, infatti (intitolato Non sono stati colpiti obiettivi civili. Smascherate le dichiarazioni della Russia sui suoi attacchi in Siria), illustra, con riferimenti schiaccianti, quanto alto sia il prezzo che la popolazione siriana sta pagando a seguito degli attacchi condotti sul proprio territorio, mettendo anche in luce come le autorità russe abbiano fatto ricorso alla menzogna, al fine di occultare gli attacchi effettuati contro una moschea e una struttura ospedaliera da campo.
Inoltre, il rapporto ci informa che si starebbe facendo uso di munizioni vietate dal diritto internazionale, nonché di bombe prive di sistemi di guida, in attacchi contro zone densamente popolate, prive, tra l’altro, di obiettivi militari
A questo proposito, Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International, è stato categorico:
“Attacchi del genere costituiscono crimini di guerra. E’ fondamentale che queste violazioni siano oggetto di indagini indipendenti e imparziali”.
In uno dei bombardamenti più rovinosi descritti nel rapporto, ben tre missili hanno centrato il mercato centrale di Ariha (provincia di Idlib), provocando 49 vittime civili.
Un testimoni oculare racconta che
"Nel giro di pochi attimi la gente urlava, c'era puzza di bruciato nell'aria e tutto intorno il caos. C'era una scuola elementare lì vicino e i bambini scappavano terrorizzati... c'erano corpi ovunque, decapitati e mutilati" .
Il testimone racconta anche di aver visto una donna seduta in lacrime davanti a una fila di 40 salme, dopo aver appena perso suo marito e tre figli.
Un altro testimone, invece, riferendosi all’attacco del 7 ottobre, in cui sono stati distrutti numerosi edifici civili a Darat Izza (provincia di Aleppo), ha affermato:
"Era diverso dagli altri attacchi aerei. La terra ha tremato come se ci fosse stato un terremoto... è stata la peggiore distruzione che abbia visto... Una madre e i suoi due figli sono stati uccisi in un'abitazione, una giovane coppia in un'altra: si erano sposati la settimana prima..."
Amnesty International ha anche raccolto prove che attestano l’impiego di armi vietate a livello internazionale, come le bombe a grappolo, bombe che sprigionano piccoli ordigni che si diffondono su un’area di una ampiezza simile a quella di un campo di calcio, molti dei quali, non esplodendo al momento, si trasformano in una minaccia per la popolazione per gli anni successivi.
Secondo le organizzazioni siriane in difesa dei diritti umani, inoltre, i raid aerei russi sulla Siria avrebbero provocato la morte di centinaia di civili che non partecipavano direttamente agli scontri. Dall'inizio delle operazioni fino al 15 novembre, i civili uccisi sarebbero almeno 526, tra i quali 137 bambini e 71 donne. Altre fonti (sempre in ambito umanitario) parlano di 570 civili morti tra il 30 settembre e il 1 dicembre. I bombardamenti dell'aviazione russa, inoltre, avrebbero distrutto o seriamente danneggiato ospedali (dieci solo nel mese di ottobre), decine di case e altri obiettivi civili.
Putin |
Alla fine del rapporto, Amnesty osserva che la Russia, in quanto parte del conflitto armato in Siria, è tenuta, come le altre parti, ad assicurarsi che il suo esercito rispetti la legislazione internazionale in materia di diritti umani e le leggi che regolano la condotta in guerra, come previsto dai trattati ratificati, incluse le quattro convenzioni di Ginevra del 1949 e il relativo protocollo aggiuntivo. Il principio di distinzione che prevede che tutte le parti in causa distinguano obiettivi militari e civili, dirigendo i propri attacchi solo contro i primi, ha, infatti, come coerente corollario il divieto esplicito di condurre attacchi indiscriminati.
L’autorevole Associazione umanitaria invita pertanto le autorità russe a rispettare le leggi internazionali, assicurandosi che i civili non siano danneggiati, o, almeno, a prendere le dovute precauzioni per ridurre al minimo le vittime civili e la distruzione di case, ospedali, scuole e altri edifici non utilizzati nel conflitto.
Amnesty International chiede inoltre che siano condotte inchieste indipendenti e imparziali sui sospetti casi di violazioni della legislazione internazionale in materia di diritti umani.
Lo scorso anno, durante uno dei miei tanti bellissimi incontri con gli studenti (nelle vesti di attivista di Amnesty International), una bimba di scuola media, alla richiesta di fornire una definizione del concetto di "diritti umani", in maniera immediatissima ha risposto:
"I diritti umani sono la vita!"
La sua risposta mi piacque subito e, ripensandoci, ho deciso che dovrebbe meritare di essere apprezzata almeno quanto quelle, certamente più dotte, donateci dai nostri migliori "addetti ai lavori".
Perché va subito al cuore del problema. Perché centra il bersaglio e coglie perfettamente la sostanza centrale della questione.
Dire, infatti, che i diritti umani coincidono con la vita stessa vuol dire che, senza di essi, la vita sarebbe una non-vita. Che, senza di essi, la vita che ci resterebbe (anzi: che ci verrebbe lasciata) sarebbe un sacco vuoto, un feticcio senza sorriso.
Che, senza di essi, cioè, non sarebbe possibile vivere una vita vera, una vita che sappia davvero di vita, che possa essere ritenuta meritevole di essere, pertanto, desiderata, difesa, amata ...
Che senza di essi, tutte le cose di questo mondo che potremmo avere non riuscirebbero a riempire l'abisso di nulla e di infelicità che si verrebbe ad aprire nella nostra anima ...
Perché i diritti umani sono figli dell'universalmente umana esperienza del dolore. Perché i diritti umani sono creature ribelli della nostra vulnerabilità e della nostra paura. Sono il tentativo di portarci per mano oltre i fiumi di sangue e di lacrime sgorgati dai nostri animi vulnerabili e impauriti. Sono il tentativo di portarci oltre i confini ingabbiati da fossi, da trincee, da muraglie e da chilometriche matasse di filo spinato ...
Sono il tentativo più luminoso costruito nella storia per ricordarci, come afferma Erasmo da Rotterdam, che le nostre fragili mani sono fatte per donare carezze e non per colpire. Per ricordarci, come insegna Aldo Capitini, che la condizione in cui ci troviamo ad esistere oggi, così straripantemente intossicata da ingiustizie ed orrori, è una realtà che non merita di durare, è una realtà semplicemente "provvisoria", è una realtà che possiamo aprire ad orizzonti impensabilmente più luminosi, a patto di fare profondamente nostra "la convinzione che non è necessario che il dolore esista"...
Conversazione con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia
Amnesty International, a metà di agosto, con un suo dettagliatissimo rapporto (intitolato Nessun luogo è sicuro per i civili: attacchi dal cielo e da terra nello Yemen), ha accusato le forze della coalizione a guida saudita e i gruppi armati favorevoli e contrari agli houti di aver ucciso centinaia di civili, tra cui decine di bambini, in azioni militari a Ta'iz e Aden equivalenti a crimini di guerra.*
Nel rapporto si illustrano le rovinose conseguenze dei bombardamenti contro zone residenziali densamente abitate e degli attacchi da terra, indiscriminati e sproporzionati, compiuti dalle forze pro-houti e da quelle anti-houti, evidenziando una strategia di bombardamenti su aree densamente popolate, nei pressi delle quali, nella maggior parte dei casi, non è stato possibile rinvenire alcun obiettivo militare.
"Le forze della coalizione - ha affermato Donatella Rovera, alta consulente per le crisi di Amnesty International - sono del tutto venute meno all'obbligo, previsto dal diritto internazionale umanitario, di prendere le misure necessarie per ridurre al minimo le perdite civili. Gli attacchi indiscriminati che provocano morti e feriti tra i civili costituiscono crimini di guerra".
A fine ottobre, poi, Amnesty International Italia, unitamente alla Rete Italiana per il Disarmo e all'Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Difesa e Sicurezza (OPAL) di Brescia, ha fatto richiesta al Governo italiano di sospendere l'invio di bombe e armamenti a tutti i paesi militarmente impegnati nel conflitto in Yemen, dichiarando inaccettabile che, mentre l'Unione Europea attua la scelta di assegnare il Premio Sakharov al blogger saudita incarcerato Raif Badawi (condannato a subire 1.000 frustate), dall'Italia siano partite nuove bombe destinate all'Arabia Saudita, principale responsabile dei bombardamenti che - senza alcun mandato internazionale - da sette mesi stanno causando migliaia di morti (e indicibili sofferenze) tra i civili della popolazione yemenita.
In questi ultimi giorni, poi, a seguito delle sconcertanti dichiarazioni del Ministro della Difesa, Roberta Pinotti, secondo cui le forniture italiane di bombe aeree all'Arabia Saudita sarebbero "regolari" e "nel rispetto della legge", le suddette organizzazioni hanno fatto richiesta di un incontro urgente con il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, per chiarire la posizione del Governo italiano sulle esportazioni di armamenti.
A Riccardo Noury, portavoce ufficiale di Amnesty Italia, abbiamo chiesto di provare a fare il punto della questione.
- Quali richieste sono state avanzate al Governo italiano e che tipo di risposte, al momento, sono state rilasciate?
- Abbiamo chiesto, ormai diverse volte negli ultimi mesi, al governo di sospendere ogni trasferimento di armi verso l'Arabia Saudita. Al momento queste richieste non risultano accolte e, rispetto al silenzio imbarazzato delle scorse settimane, ora il governo - attraverso il ministro della Difesa - rivendica la legittimità dell'invio di bombe alle forze armate saudite.
- Quanto incide la nostra fornitura militare sull’apparato bellico dell’Arabia Saudita? E quali sono gli altri grandi fornitori internazionali?
- Ha la sua parte rilevante, anche se i principali fornitori sono gli Usa, che hanno trasferito armi per un valore di 1 miliardo e 300 milioni di dollari. Per quanto riguarda l'Italia, solo l'azienda coinvolta nei recenti invii, la RWM, ha spedito negli ultimi tre anni forniture all'Arabia Saudita per oltre 60 milioni di euro.
- La condizione dei diritti umani, in Arabia Saudita, stando a quanto si evince dal Rapporto 2014-2015 ** di Amnesty International, appare tutt’altro che felice. Si parla, infatti, di discriminazioni sessuali e religiose, di arresti e detenzioni arbitrari, di torture, maltrattamenti, di numerose condanne a morte. In esso leggiamo, tra l’altro, che
“Il governo ha imposto rigide restrizioni alle libertà d’espressione, associazione e riunione e ha represso duramente il dissenso, arrestando e incarcerando persone che lo avevano criticato, compresi difensori dei diritti umani. Molti hanno affrontato procedimenti giudiziari iniqui, celebrati da tribunali che non hanno rispettato le procedure dovute”, equiparando al terrorismo le critiche nei confronti del governo e altre attività del tutto pacifiche.
Certamente, il caso di Raif Badawi*** ha goduto, a livello mediatico, di una qualche visibilità. Quante situazioni analoghe, assai meno note, sono state recentemente registrate?
- Di prigionieri di coscienza, condannati per reati di opinione, ne contiamo almeno 10, tra cui lo stesso avvocato di Raif. I principali fondatori e dirigenti della più importante organizzazione per i diritti umani, l'Associazione saudita per i diritti civili e politici, stanno scontando pesanti condanne. Ci sono poi i casi dei due al-Nimr, zio e nipote, sceicco il primo, attivista il secondo della minoranza religiosa sciita, entrambi condannati a morte. Da ultimo, c'è il caso di un poeta palestinese condannato a morte a metà novembre per aver messo in dubbio l'esistenza di Dio ...
- In questi ultimi anni, le ricerche condotte da Amnesty International sono state in grado di constatare qualche significativo miglioramento della salute dei diritti umani in Arabia Saudita?
- Al contrario, abbiamo assistito a un peggioramento. Le leggi antiterrorismo emanate di recente hanno prodotto già i primi danni, con arresti arbitrari e processi irregolari. Il numero delle condanne a morte eseguite fin qui nel 2015 è arrivato a 150, un record negativo. C'è poi sempre la questione della discriminazione nei confronti delle donne, cui, come è noto, è impedito di guidare da sole e di prendere importanti decisioni sulla loro vita (sposarsi, viaggiare all'estero, intraprendere una carriera universitaria o professionale, persino sottoporsi ad alcuni interventi chirurgici) senza l'autorizzazione di un "tutore", di solito un parente maschio.
- Molti commentatori e opinionisti, in questi ultimi giorni, indicano spesso l’Arabia Saudita fra i massimi finanziatori dell’Isis: ipotesi azzardate o degne di essere prese in considerazione?
- Si è molto speculato su questa ipotesi. Che l'Isis abbia ricevuto almeno inizialmente sostegno dalle monarchie sunnite del Golfo, Arabia Saudita inclusa, è indubbio. Fondazioni private (che però in paesi del genere possono operare solo col consenso o con l'autorizzazione dei governi), in Arabia Saudita e in Kuwait, hanno finanziato l'Isis. Addirittura uomini delle forze di sicurezza del Bahrein sono stati scoperti tra le fila del gruppo armato. A un certo punto, gli obiettivi delle monarchie sunnite e dell'Isis non sono più coincisi e l'Isis, da strumento da armare per rovesciare il presidente siriano Assad, è diventato una minaccia per i regimi dell'area. Ufficialmente, il flusso di aiuti e armi è terminato. Sottolineo l'avverbio ufficialmente...
*http://www.amnesty.it/Bombe-italiane-ad-Arabia-Saudita-inaccettabile-che-per-ministro-Pinotti-sia-tutto-regolare
**http://rapportoannuale.amnesty.it/2014-2015
***https://appelli.amnesty.it/raif-badawi/