L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Human Rights (219)

Roberto Fantini
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L’attacco sistematico nei confronti delle ultime strutture ospedaliere ancora esistenti e funzionanti ad Aleppo sta tragicamente conseguendo l’obiettivo finale di rendere impossibile qualsiasi loro attività: gli ospedali di Aleppo est sono stati colpiti, dall’inizio dell’assedio a luglio, in più di 30 diversi attacchi e la situazione è oramai diventata insostenibile …

Già nella scorsa primavera, Amnesty International, sulla base dell’analisi dei bombardamenti realizzati dalle forze siriane e russe contro ospedali e strutture mediche della zona nord della provincia di Aleppo, era giunta alla conclusione che non si fosse trattato di “tragici errori”, bensì di attacchi oculatamente deliberati al fine di rendere più agevole l’avanzata delle truppe di terra.

Molto chiare le parole che ebbe a dire, all’epoca, Tirana Hassan, direttrice del programma Risposta alle crisi di Amnesty:

Le forze siriane e russe hanno deliberatamente attaccato strutture mediche in flagrante violazione del diritto umanitario. Ma quello che è davvero oltraggioso è che centrare gli ospedali pare essere diventato parte della loro rrrstrategia militare.”

L’ultima serie di attacchi contro le strutture mediche della zona nord della provincia di Aleppo pare seguire lo stesso schema, in attuazione di una strategia che dall’inizio del conflitto ha distrutto decine di strutture mediche e ucciso centinaia di medici e infermieri.”

Schiaccianti, a questo proposito, le prove raccolte dall’organizzazione umanitaria su almeno sei attacchi lanciati nel corso di ben 12 settimane contro ospedali, ambulatori e altre strutture nell’area nord della provincia. Attacchi che Amnesty non ha esitato a definire veri crimini di guerra.

I numerosi operatori sanitari di Anadan e di Hreitan, due centri a nord-ovest di Aleppo, hanno tutti parlato di una vera e propria strategia del governo siriano di svuotare intere città o villaggi proprio colpendo ospedali e altre vitali infrastrutture.

In particolare, un medico di Anadan ebbe a dichiarare che

Gli ospedali e i servizi per la fornitura di acqua ed elettricità sono i primi a essere attaccati. Dopo, la gente non ha più modo di sopravvivere. (…)

In questo modo, vengono eliminate strutture fondamentali per la vita dei civili nelle zone di guerra. Non rimane altra scelta che andare via” …

In queste ultime settimane, nuovi bombardamenti hanno colpito ospedali presenti nella zona est di Aleppo, provocando enormi danni. E’ stato attaccato, in particolar modo - riferisce Medici senza Frontiere - l’unico ospedale specializzato in pediatria: tre interi piani sono stati distrutti e numerosi sono i feriti, sia fra i pazienti che nello staff medico. Distrutti anche generatori elettrici, pronto soccorso e reparti.

L’organizzazione ha dichiarato di essere di fronte alla “peggiore campagna di bombardamenti degli ultimi anni. Con pochi medici rimasti e le forniture che non possono entrare, il sistema sanitario è in ginocchio …”

Non è solo MSF a condannare gli attacchi indiscriminati contro i civili o le infrastrutture civili come gli ospedali, li condanna il diritto umanitario.” Così ha recentemente detto Teresa Sancristoval, coordinatore dell’emergenza per MSF.

La stessa direzione sanitaria della città e l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riferiscono che tutte le strutture sono fuori servizio, mentre l’Osservatorio siriano per i diritti umani fa sapere che alcune strutture sono ancora funzionanti, ma molti residenti hanno paura a utilizzarle proprio a causa dei bombardamenti!

E, intanto, l’Unicef ci parla di ben due milioni di persone senza acqua corrente ed elettricità a causa dei combattimenti e di 100.000 bambini intrappolati. Mentre continuano gli attacchi contro case e scuole …

“Nel corso della storia l’Essere Umano ha prodotto molteplici rivoluzioni in diversi campi. Questi salti non lineari sono avvenuti quando l’organizzazione sociale e i valori connessi non erano più in grado di dare risposte alle necessità delle comunità umane in via di sviluppo. Attualmente a tutte le latitudini si esprime disagio a causa delle profonde trasformazioni, mentre sorgono nuove esperienze, annunciatrici di possibili domani.”

Questo il testo dell’invito al quinto simposio internazionale di Studi Umanisti che ha avuto come tema “la rivoluzione umana necessaria”.
L’evento viene organizzato ogni due anni e si è tenuto contemporaneamente in due posti: ad Asuncion, in Paraguay, e presso il Parco di Studio e Riflessione ad Attigliano in Italia.

Ad Asuncion le giornate sono iniziate il 28 ottobre nei locali degli Archivi Nazionali con un programma che ha incluso presentazione di libri, conversazioni e testimonianze di persone con idee rivoluzionarie in campo

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"Parchi di studio e riflessione" - Attigliano

politico, sociale, culturale, spirituale e interpersonale. C’è stata anche una sessione di “Teatro spontaneo”, esercitazioni sulle “pratiche trasformatrici” desunte dal campo dell’educazione e della comunicazione. La seconda giornata, sempre ad Assuncion, ha visto diverse tavole rotonde cui hanno partecipato oratori locali e di numerosi Paesi del Continente. Il denominatore comune è stata una ferma convinzione accompagnata dall’azione per arrivare a profonde trasformazioni.

In Italia il simposio si è tenuto ad Attigliano, in provincia di Terni, il 29 e 30 ottobre scorso. Una delle idee da cui nasce l’azione del Centro è quella della “Buona Conoscenza”: studiare per comprendere come migliorare, come rivoluzionare il mondo; lo studio non è inteso come un’attività quieta e fine a sé stessa, ma base della trasformazione; questo mondo in cui gli studi sono sempre più legati alla loro apparente utilità immediata ai relatori del Centro non piace: il modo di vedere il sapere, e la scienza, è un modo direttamente influenzato dall’ideologia dominante, il pragmatismo. In questi dieci anni di esperienza il Centro ha cercato quindi di raccogliere persone che condividono un sapere utilmente diverso allo sviluppo umano.

Il mondo sembra essere pervenuto ad un bivio epocale in cui sembrano aprirsi due cammini, che allegoricamente potrebbero chiamarsi il cammino del sì e quello del no. La catastrofe sembra imminente eppure, studiando le tendenze degli ultimi avvenimenti, si intravede con forza anche un cammino evolutivo che rimette in gioco l’Essere Umano, non come distruttore del pianeta o della natura, ma come essere capace di rigenerarsi e di costruire la propria esistenza, la propria storia: sembra che questa rivoluzione globale, nonviolenta, inclusiva e aperta, tendente alla ricerca di punti in comune, sia già in marcia oggi nel cuore, nell’immaginazione e nell’azione individuale e collettiva. I suoi protagonisti siamo noi, esseri umani in trasformazione. 

Tra i relatori da segnalare Akop Nazaretyan, una delle menti più brillanti di quel gruppo di scienziati che tanto contribuirono nello sviluppo ideologico della perestroika, del Nuovo Pensiero di stampo umanista che ha prodotto la fine della guerra fredda e del regime totalitario sovietico. Vito Correddu, del Centro Studi Umanista Salvatore Puledda, Giorgio Mancuso,esperto di Internet, dell’open source e della sua filosofia,Simone Rosati, dell’associazione Guido Cervati per gli studi sulle proprietà Collettive, Eros Tetti, fondatore del movimento “Salviamo le Apuane”, Olivier Turquet, coordinatore italiano dell’agenzia di stampa Pressenza, Rocco Altieri, studioso del pensiero legato alla non violenza, in particolare delle figure del Mahatma Gandhi e di Aldo Capitini, Gerardo Femina, già presidente della comunità per lo sviluppo umano in Italia, Paolo Trianni, esperto del dialogo interreligioso, non violenza Gandhiana, ecologia e vegetarianesimo, Annabella Coiro, esperta di comunicazione alla nonviolenza, Massimo Stefano Russo, ricercatore presso l’università degli studi di Urbino Carlo Bo del dipartimento di scienze della Comunicazione e discipline Umanistiche, Antonio Drago, già docente di storia della fisica all’università di Napoli, di storia e tecniche della non violenza all’università di Firenze e di difesa non violenta e Peacekeeping all’università di Pisa, Stefano Pischiutta, psicoterapeuta e scrittore. La sessione video è stata curata da Guillermo Alejandro Sullings, dirigente del partito Umanista de Argentina e Juan Espinosa, scrittore umanista spagnolo.

La violenza pervade ogni ambito e i mass media gridano a tutte le ore che l’unica risposta è la vendetta; quella vendetta che non potrà far altro che perpetuare la violenza in eterno. In questo circolo vizioso appare la riconciliazione, come un elemento rivoluzionario, giacché spezza in modo unilaterale la catena della violenza e riporta la questione sul piano etico e spirituale e, appunto, l’intento del Simposio è stato quello di riflettere intorno al tema di questa rivoluzione. L’evento ha permesso lo scambio di idee e di ampliare le reciproche conoscenze in un clima di apertura e disponibilità, indispensabile per maturare la creatività e l’ispirazione necessaria al fine di dare le risposte necessarie all’altezza dei tempi.

Sono stati individuati nella nonviolenza, la libertà e la riconciliazione i nuovi paradigmi di una nuova civiltà. Nel caso non si tratta di nonviolenza come atteggiamento passivo e remissivo, una condizione cioè che aspira all’assenza del conflitto, per una sorta di vigliaccheria. La nonviolenza è in conflitto permanente, permanente nella misura in cui si scontra con la violenza personale e sociale, interna o esterna all’essere umano. L’azione nonviolenta ha come fine la liberazione sia dell’oppresso che dell’oppressore. In questa lotta entrambi i soggetti sono sottomessi alla violenza. Con la nonviolenza uno dei soggetti, il soggetto 20161029 181458apparentemente più debole, rompe la catena e con il suo agire aspira a una trasformazione dei rapporti di forza. Inizia l’opera di umanizzazione.

Ciò produce un avanzamento, un’apertura verso nuovi orizzonti fino a quel momento sconnessi. Si avverte la consapevolezza di una forza che nasce dal Profondo e che oltrepassa gli apparenti limiti consentiti di spazio e di tempo. Ci si riappropria della propria umanità e delle infinite possibilità.

Nella libertà i relatori del Simposio hanno intravisto il secondo pilastro, il bersaglio principe della Rivoluzione Umana. La libertà non intesa come un traguardo da raggiungere, ma come un’aspirazione continua, un’eterna lotta per il superamento del dolore e la sofferenza. Ciò significa lottare contro tutte le forme di oppressione e di discriminazione, in ultimo, contro tutte le forme di violenza.

La specificità tutta umana di ampliare il proprio orizzonte temporale, permette all’essere umano di orientare la propria azione nel mondo, di scegliere e differire le risposte di fronte agli stimoli. È proprio questa libertà di scelta tra condizioni ciò che determina l’umanità stessa. Non c’è libertà senza l’umano ma soprattutto non c’è umano senza libertà. Possiamo quindi parlare dell’essere umano come di un essere-in-libertà da cui discende che aspirare al più alto grado di libertà è in ultima istanza, aspirare all’umano. A questo punto però è necessario configurare un’etica della libertà, cioè una libertà intesa come il superamento delle condizioni di oppressione non solo in se stessi ma anche nell’altro.

Il terzo pilastro della Rivoluzione Umana è quello della riconciliazione. Questa forse può definirsi come la precondizione per la Rivoluzione e nello stesso tempo una condizione necessaria per una trasformazione profonda. E’ una precondizione perché non si può immaginare il futuro profondamente diverso partendo da un sentimento di rivalsa e risentimento. In quel caso sarebbe il passato a vincere sul futuro. È una condizione necessaria perché il sistema di idee, credenze e aspirazioni in cui viviamo è fortemente impregnato e invaso dalla vendetta. Con la riconciliazione quindi, stiamo mettendo in discussione il trasfondo psicologico in cui questo sistema di valori sta operando.

Superare la vendetta nel vissuto umano sarebbe così una rivoluzione di grande portata.

In sintesi, la Rivoluzione Umana è necessaria, da un lato perché l’attuale condizione umana, intesa nella sua strutturalità, evidenzia sempre più i limiti dell’azione riformatrice d’impostazione pragmatica e dall’altro perché si avverte una carenza temporale-spaziale nell’immaginario collettivo. La Rivoluzione Umana dovrà assumersi l’imperativo di costruire un nuovo assetto sociale che elimini i fattori di oppressione e sfruttamento universalizzando i diritti umani fondamentali, a partire dalla salute e l’istruzione gratuita e per tutti. Una rivoluzione pienamente umana che metterà la libertà come massima aspirazione e accetterà la diversità personale e culturale. Svilupperà una nuova concezione di giustizia che supererà l’idea del colpevole e della vittima. Una giustizia che avrà la missione di riparare l’integrità del tessuto sociale. Immaginerà un’economia che ribalti l’idea che il lavoro sia al servizio del capitale. Un’economia in cui il lavoro non sia il mezzo di sussistenza ma la forma attraverso la quale, in piena libertà, si decide di contribuire al bene comune, svuotandolo quindi dal suo essere mezzo di produzione, merce di scambio o valore esistenziale.

Una rivoluzione che supererà l’istituzione dello Stato nazionale o dello Stato dei gruppi privati oggi in ascesa, e che costruisca le condizioni per la decentralizzazione del potere decisionale verso un modello federativo i cui limiti sono l’intero pianeta.

Una rivoluzione che viva la religiosità a partire dall’esperienza intima dell’essere umano e non da una morale lontana, incomprensibile e convenzionale. Una religiosità che riconcili l’essere umano con il suo passato, per lanciarlo dalla preistoria alla storia pienamente umana.

Una rivoluzione che superi le false antinomie, coscienza e mondo, anima e corpo, mente e materia. È un processo interminabile in cui il protagonista è l’essere umano concreto il cui compito è quello di  umanizzare la terra.

   Secondo le stime del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa) al 2015, più di tredici milioni di ragazze ogni anno nel mondo sono costrette a sposarsi prima dei 18 anni con uomini molto più vecchi di loro. Ogni giorno, pertanto, oltre 37 mila bambine si vedono negare l'infanzia, un'istruzione, condannate ad andare incontro a ripetute gravidanze precoci e a diffuse violenze domestiche.

Milioni di donne e bambine nel mondo sono ridotte in schiavitù attraverso matrimoni forzati, comprate e vendute anche per alimentare il mercato della prostituzione. 

Il matrimonio precoce rappresenta una chiara violazione dei diritti umani. Contravviene, infatti, ai principi della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che sancisce il diritto, per ogni essere umano sotto i 18 anni, ad esprimere liberamente la propria opinione (art. 12) e il diritto a essere protetti da violenze e sfruttamento (art. 19), e alle disposizioni di altri importanti strumenti del diritto internazionale.

Oltre ad essere illegale secondo il diritto internazionale, è anche vietato in molti dei paesi che registrano un alto tasso di matrimoni precoci, ma le leggi esistenti non vengono spesso applicate, oppure offrono eccezioni per ottenere il consenso dei genitori o per le pratiche tradizionali. 
Inoltre, viola i diritti fondamentali delle bambine e delle adolescenti, in quanto le obbliga ad assumersi pensanti responsabilità legate al matrimonio (vita sessuale, maternità, doveri domestici) senza avere la maturità adeguata né la possibilità di operare scelte autonome .

Il 2 luglio 2015, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha adottato la prima Risoluzione sulla prevenzione e l'eliminazione dei matrimoni precoci e forzati. Il testo ribadisce che i matrimoni precoci e forzati rappresentano una violazione dei diritti umani, in particolare delle donne e delle bambine. La Risoluzione si rivolge agli stati e sottolinea l'importanza del coinvolgimento dell'intera società civile per rafforzare il monitoraggio e gli interventi di prevenzione a contrasto di questo fenomeno (United Nations, General Assembly, Resolution A/HRC/29/L.15).

I tassi più elevati di diffusione dei matrimoni precoci si registrano nell'Asia meridionale e nell'Africa subsahariana, non a caso le medesime regioni del globo in cui sono massimamente diffusi altri fenomeni, come la mortalità materna e infantile, la malnutrizione, l'analfabetismo, ecc.

E’ evidente che le radici di questo fenomeno risiedono in norme culturali e sociali legate sia a pregiudizi di genere che a strategie sociali proprie delle economie di sussistenza, in primo luogo l'esigenza di "liberarsi" il prima possibile del peso rappresentato dalle figlie femmine, ritenute meno produttive per l'economia familiare.


Il matrimonio precoce colpisce ogni aspetto della vita delle ragazze: una volta date in sposa, queste ragazze hanno scarsissimo o nessun accesso all'istruzione; corrono un rischio maggiore di subire pericolose complicanze - potenzialmente letali - durante la gravidanza e il parto, di contrarre l'Hiv.

Le gravidanze precoci, infatti, mettono a rischio la loro vita e la loro salute: le ragazze tra i 10 e i 14 anni hanno probabilità cinque volte superiori - rispetto a quelle tra i 20 e 24 - di morire durante la gravidanza e il parto, mentre i bambini nati da matrimoni precoci hanno maggiori probabilità di nascere morti o di morire nel primo mese di vita.

   Con l'obiettivo di bandire la pratica dei matrimoni forzati nel mondo, prevenire e proteggere le bambine e le ragazze sopravvissute alle violenza, e garantire maggiore accesso ai servizi sanitari e alle scelte rispetto al proprio corpo,dal 23 ottobre al 12 novembre, Amnesty International Italia ha recentemente avviato MAI PIÙ SPOSE BAMBINE, unacampagna di sensibilizzazione e di raccolta fondi tramite numero solidale 45523, che sarà online dalle 00.01 di domenica 23 ottobre sul sito www.amnesty.it/sms. 

Amnesty International Italia intende cosìsensibilizzare l'opinione pubblica su questo fenomeno che si radica nella povertà, nella discriminazione e nell'arretratezza culturale;

incrementare l'attenzione dei governinei paesi in cui è presente questa pratica affinché sia bandita;

favorire l'avvio di indagini imparziali, tempestive ed esaurientisu ogni denuncia di violazione dei diritti umani basata sulla discriminazione;

contribuire a far sì che le bambine non subiscano decisioni riguardanti il loro corpoche siano causa di violazioni dei diritti umani e vivano la propria vita senza interferenze da parte di altri. 

Obiettivo di Amnesty International sarà quello di proseguire nel suo lavoro sul territorio per quanto riguarda i matrimoni forzati e precoci. In particolare, grazie all'invio di esperti sul campo attiverà lemissioni di ricerca in Burkina Faso, Mali, Niger e Costa d'Avorio, paesi in cui questa pratica è ancora diffusa. Con i dati e le testimonianze raccolte, Amnesty International cura la redazione di rapporti che mettono in evidenza le violazioni dei diritti umani individuate e le richieste ai governi per porvi fine. I rapporti vengono pubblicati e messi a disposizione dei media così come delle sezioni di Amnesty International e dei suoi attivisti in tutto il mondo.
InBurkina Faso, ad esempio,Amnesty International ha avviato, nel luglio 2015, una campagna per porre fine ai matrimoni forzati e precoci.Grazie alla visibilità ottenuta a livello globale e anche in Italiae alla pressione esercitata da tutto il movimento per i diritti umani,nel dicembre 2015 il governo di questo paese ha adottato una strategia nazionale(2016-2025) e un piano d'azione triennale (2016-2018) per prevenire ed eliminare i matrimoni forzati e precoci. 

Nel febbraio 2016, inoltre,il governo ha annunciato la fornitura di cure gratuite a tutte le donne in stato di gravidanza. Il lavoro di sensibilizzazione e di mobilitazione di Amnesty International non intende fermarsi fino a quando questi impegni non si tradurranno in atti concreti in difesa dei diritti delle bambine e delle ragazze. Oltre ai positivi passi intrapresi a livello politico, è necessario che vengano assicurate le risorse necessarie per la pronta attuazione del piano e per la realizzazione di un cambiamento culturale che sradichi la prassi dei matrimoni tradizionali e religiosi delle bambine e delle ragazze.



La vicenda risale a diversi mesi fa, ma soltanto da qualche giorno i mass media sono stati in grado di farla circolare: Rosalba Giusti, madre di sei figli, si è risvegliata, dopo quattro anni di coma profondo.
Dichiarano i figli che i medici erano stati molto fermi nell’affermare che “non c’erano speranze”.


La neurologa Patrizia Pollicino ammette, molto onestamente, che, in 25 anni di carriera, mai le era capitato un simile caso e che, se fosse stata interrogata un anno fa in merito alla possibilità di un simile evento, la sua risposta sarebbe stata di netto segno negativo.

Paolo Maria Rossini, direttore dell’Unità di Neurologia del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma, in una intervista apparsa su La Stampa (7/09/2016), riconosce che cimentarsi nel cercare di spiegare simili eventi “è come camminare su un campo minato” e che, risvegli analoghi si sono verificati anche dopo 10 anni ed anche più.
Rosalba non ha soltanto ripreso coscienza e ricominciato a parlare, ma dimostra, giorno dopo giorno, di essere padrona delle sue facoltà mentali e anche (cosa che andrebbe meditata con cura) di aver registrato informazioni relativamente a quanto accadeva intorno a lei durante il periodo in cui sembrava priva di vita.
Impressionante quanto dichiarato dai figli a proposito dell’eventualità che la madre fosse dichiarata cerebralmente morta (cosa felicemente non verificatasi): “Non dimenticherò mai la faccia dell’operatore che, dietro le porte della rianimazione, ci chiedeva il consenso per la donazione degli organi.”

Di fronte a vicende come questa (meno rare, a dire il vero, di quanto spesso si pensi), un pizzico di saggezza dovrebbe imporre a tutti noi una sana dichiarazione di agnosia, ovvero di pubblica ammissione di sapere di non sapere, coerentemente coronata da umilissimo e sapientissimo silenzio. Nello stesso tempo, però, casi del genere dovrebbero essere fatti oggetto di attento esame non solo fra gli addetti ai lavori, ma anche fra tutti quanti nutrono una qualche forma di interesse nei confronti delle tematiche di bioetica relative al confine vita-morte. Primi fra tutti, quindi, politici, giuristi e uomini di Chiesa. Coloro, cioè, che hanno poi voce in capitolo nel deliberare in merito a come la comunità civile dovrebbe porsi e comportarsi di fronte al “fine vita”, in merito a quali siano i confini fra sfera pubblica e sfera privata, fra lecito e illecito, fra bene e male, ecc ...
Ma tutti quanti noi dovremmo sentirci chiamati a riflettere con grande cautela e con grande disponibilità anche a mettere in discussione ed eventualmente a rivedere le nostre categorie interpretative, nonché le nostre (molto pericolose) certezze.

Proviamo a chiederci, ad esempio, cosa sarebbe stato di Rosalba Giusti qualora l’elettroencefalogramma fosse risultato piatto e i familiari avessero concesso l’autorizzazione a procedere alla cosiddetta “donazione” degli organi che, in assenza di autorizzazione convintamente consapevole del soggetto “donatore”, sarebbe indubbiamente più corretto chiamare “predazione”. Il corpo vivo di una persona erroneamente/ipocritamente dichiarata morta sarebbe stato smembrato, e i suoi organi funzionanti (perché vivi) “donati”, qua e là, a pazienti in attesa di trapianto. Con il conseguente puntualissimo tripudio della cagnara mediatica sempre pronta ad esaltare la perizia delle équipes chirurgiche coinvolte, la “provvidenziale” tempestività e l’efficienza di tutto l’ingranaggio ospedaliero, nonché (soprattutto) la toccante “generosità” dei parenti “donatori” di un corpo caldo e respirante, assolutamente non di loro proprietà ...
E quanto possiamo essere sicuri della sostanziale differenza fra la condizione che viene definita di stato vegetativo e quella che da circa mezzo secolo definiamo di morte cerebrale? Anche casi di persone classificate come cerebralmente morte e poi inaspettatamente (!) ridestatesi dal coma non mancano davvero*. In simili casi, i difensori ad oltranza della medicina trapiantistica si difendono chiamando in causa errori di carattere diagnostico. Ma chi ci garantisce che tali errori non siano accaduti in chissà quanti altri casi e che possano continuare a ripetersi? Ed errori di questo tipo possono rappresentare una vera e propria “condanna a morte” per individui ancora in vita e forse recuperabili alla “normalità” ...

Il caso della signora Rosalba, ci dicono, è un caso molto raro. Ma la rarità del fenomeno non ci autorizza affatto a minimizzarne la portata. Il filosofo Karl Popper, uno dei massimi epistemologi del XX secolo, ci ha ampiamente dimostrato che, in ambito scientifico (per quanto concerne il rapporto fra elementi pro ed elementi contro una qualche tesi), vige (e dovrebbe sempre essere rispettato) il principio di “asimmetria logica”. Ovverosia, è sufficiente un oggettivo elemento contro per far crollare le nostre certezze, in maniera del tutto indipendente e indifferente dalla quantità degli elementi pro: basta cioè un cigno nero per mettere fuori uso l’asserzione “tutti i cigni sono bianchi” ...

E quindi? Quindi dovremmo sentirci obbligati a riconsiderare e a ridiscutere (o, meglio, a cominciare - finalmente – a discutere sul serio) concetti come “stato vegetativo” e “morte cerebrale”. In particolar modo, ricordando che quest’ultimo concetto non è scaturito da ricerche/ scoperte scientifiche di chissà quale portata rivoluzionaria, bensì unicamente dalla esplicita volontà della famosa Commissione di Harvard che, nell’agosto 1968, decise, in modo del tutto arbitrario, di cambiare nome a quanto, fino ad allora, veniva denominato “coma dépassé” (coma irreversibile) ... Allo scopo dichiarato di sollevare famiglie e ospedali dal problema di persone in gravissime condizioni mantenute in vita grazie ai sempre più moderni sistemi di rianimazione e di evitare “controversie nel reperimento di organi per i trapianti”, ovvero evitare che i medici trapiantisti potessero essere accusati di omicidio. In pratica, appiccicando un’etichetta massimamente accomodante ad una condizione-limite di cui pochissimo (quasi nulla) sapevamo e continuiamo a sapere.
Ma il dare nomi alle cose non ci dà la conoscenza delle stesse e darne di nuovi non consente di modificare magicamente la loro sostanza ... Maneggiare con disinvoltura etichette lessicali ben lucidate , infatti, non può certo togliere il carattere di inesplorato e forse inesplorabile mistero a determinate condizioni della nostra misteriosa esistenza.

Chiediamoci, perciò, e continuiamo a chiederci, senza soggiacere, per disattenzione e per conformismo, a quanto ci dicono coloro che pretendono di sapere:
- È scientificamente possibile ottenere certezze incontrovertibili in merito all’irreversibilità di una condizione comatosa?
- È scientificamente dimostrabile la totale cancellazione di qualsivoglia forma di coscienza nei pazienti immersi nelle varie condizioni comatose (indipendentemente da come vengano classificate)?
- Il “morto cerebrale” che ha il cuore battente è veramente morto?
- Fino a che punto possiamo essere certi che coloro che classifichiamo come “donatori” di organi non conservino una loro sensibilità, una loro coscienza che noi siamo incapaci di riscontrare?
- Chi potrà mai darci la certezza assoluta che non siano proprio le operazioni di espianto (che non certo a caso vengono accompagnate da accurata sedazione) a determinare la morte (non certamente “naturale”) dei soggetti “cerebralmente morti”?
- Fino a dove può arrivare il nostro umano potere di negare ad un paziente immerso in una condizione a noi ignota e per noi inesplorabile nella sua intima essenza il diritto di continuare a vivere, la possibilità (per quanto remota) di recuperare il suo posto fra noi?

*Si veda, per un’ampia documentazione, il sito www.antipredazione.org

Conversazione con Viviana Isernia, Responsabile di Amnesty International-Lazio


In questi ultimi anni, centinaia di migliaia di rifugiati e di richiedenti asilo in fuga da conflitti e da situazioni di crisi di vario tipo hanno messo a repentaglio le proprie vite alla ricerca di protezione all`interno dei confini europei. Spesso, lungo il percorso effettuato, sono stati anche fatti oggetto  di abusi, estorsioni e violenze di ogni genere.
Tutto questo ha creato grandi difficoltà ai paesi in cui queste persone si sono recate, innescando spesso reazioni tutt`altro che accoglienti, forti preoccupazioni e comportamenti anche di vera e propria ostilità.

Al fine di riflettere con cura sugli aspetti di maggiore criticità della situazione attuale, cercando anche di individuarne gli sviluppi e di intravedere le possibili strategie da adottare, ci siamo rivolti a Viviana Isernia, Responsabile di Amnesty International per il Lazio.


- Amnesty International propone di aprire canali sicuri e legali per i rifugiati, opponendosi, nello stesso tempo, ad accordi che vengono definiti "scellerati" con paesi come Libia e Turchia.
In pratica, quale sarebbe la proposta?

- In breve, Amnesty International con questo appello chiede di garantire a donne, uomini e bambini che arrivano in Italia condizioni di accoglienza quanto più dignitose e umane. Secondo standard di vulnerabilità internazionali, gli stati hanno l’obbligo di supportarsi a vicenda al fine di ospitare i rifugiati e l’obbligo di cooperare provvedendo alla assistenza ai rifugiati di cui necessitano. Amnesty International propone una riforma fondamentale del sistema di responsabilità condivisa. Tale proposta comprende 5 criteri, ovvero un nuovo meccanismo per reinsediare i rifugiati che rientrano nei criteri di vulnerabilità dell’UNHCR, un nuovo meccanismo di trasferimento dei rifugiati da paesi in cui la popolazione di rifugiati ha raggiunto una certa soglia, un sostegno finanziario per i paesi che ospitano un gran numero di rifugiati e poi ancora rafforzare il sistema di determinazione dello status di rifugiato e  mettere in atto da parte di tutti i Paesi coinvolti politiche e sistemi che garantiscano una protezione efficace per i rifugiati e richiedenti asilo e consentire loro di soddisfare le loro esigenze di base in modo coerente con i diritti e la dignità umana.

- Parlare di "responsabilità condivisa"  credo sia, oggi più che mai, estremamente saggio ed opportuno. Forse la cosa davvero massimamente indispensabile.
Ma cosa significa, esattamente,  rivedere i meccanismi relativi
al reinsediamento dei rifugiati  secondo i criteri di vulnerabilità UNHCR?

- Più di un milione di rifugiati è considerato dall’UNHCR vulnerabile e bisognoso di essere reinsediato in altri paesi.
Rientrano nello status di "vulnerabilità" le vittime di tortura e di violenza, donne e bambine a rischio e chi ha gravi problemi di salute.
L’ UNHCR ha il compito di contattare i paesi (circa 30) che offrono posti di reinsediamento, e chiede a questi paesi di reinsediare i rifugiati vulnerabili. Tuttavia, il numero di posti di reinsediamento che questi paesi offrono ogni anno è di gran lunga inferiore al numero di rifugiati vulnerabili.

Il sistema proposto da Amnesty International dovrebbe rispettare e tener conto delle singole vulnerabilità di ogni rifugiato e ciò implica il reinsediamento in paesi che possano garantire un’effettiva protezione (ad esempio rifugiati LGBTI dovrebbero essere reinsediati in paesi dove il loro orientamento o identità sessuale non li esponga a rischi).
L’attuale sistema non incontra il reale bisogno di reinsediamento e viola i diritti umani di queste persone.


-Ma il sostegno finanziario da chi dovrebbe provenire? E come fare a convincere le grandi potenze della doverosità di un simile impegno, certamente difficilmente condivisibile da parte di buona parte dei rispettivi cittadini? Inoltre, Amnesty International ha anche contestato alcuni contributi erogati a determinati paesi di frontiera. Come riuscire, quindi, a fare ordine in una questione così controversa e impopolare, pericolosamente capace di scatenare i peggiori populismi xenofobi?!


- Le attività delle agenzie ONU sono spesso sottofinanziate dagli stati. Amnesty chiede che gli stati aumentino i propri contributi alle agenzie umanitarie, pubblicando annualmente la cifra che si impegnano a dare.
Nel caso dei paesi che ospitano un gran numero di rifugiati, gli stati dovrebbero garantire un’assistenza – finanziaria e tecnica – in base alle necessità del paese, permettendo così al paese ospitante di garantire ai rifugiati e richiedenti asilo le condizioni di base.
Il contributo finanziario agli stati che ospitano un alto numero di rifugiati non dovrebbe essere considerato un sostituto dell’accoglienza dei rifugiati e dovrebbe essere proporzionale alla propria capacità di assistere e ospitare i rifugiati, ovvero tenere conto del benessere economico (ad esempio il PIL), del numero di abitanti o del tasso di disoccupazione per citarne alcuni.
Attualmente, paesi di piccole dimensioni ospitano milioni di rifugiati, altri paesi non offrono nessuna assistenza. Una vera e propria responsabilità condivisa non sarà mai realtà nerofinché non  ci saranno basi consolidate e una struttura atta a guidare gli Stati.

Il concetto di responsabilità condivisa è insito nel diritto internazionale. Gli stati hanno l’obbligo si supportarsi a vicenda al fine di ospitare i rifugiati e l’obbligo di cooperare provvedendo ad assistere i rifugiati. Il lavoro di Amnesty International è soprattutto quello di ricordare ai Governi l’ obbligo di cooperazione così come sancito dal Diritto Internazionale.
Per evitare di scatenare le peggiori azioni xenofobe è importante informarsi sui dati effettivi e condividere le giuste informazioni riguardanti il tema della immigrazione
, mettendo fuori gioco i ricorrenti luoghi comuni del tipo: “ci rubano il lavoro”, “hanno pure i telefonini”, “ci stanno invadendo”, ecc…

-Ma cosa intendi parlando di rafforzamento del sistema di determinazione dello status di rifugiato?

-Ogni Stato dovrebbe garantire l'accesso alle procedure per chiedere lo status di rifugiato a tutti i richiedenti asilo. Quando le persone che chiedono protezione internazionale arrivano sulle nostre coste in numero considerevole, ottenere lo status di rifugiato può diventare impraticabile o inefficace per i singoli individui.

Nella sua proposta, Amnesty International chiede che gli Stati accordino lo status di rifugiato sulla base di informazioni oggettive relative alle circostanze nel loro paese di origine (Paese in guerra, discriminazione razziale, pena di morte). Tale procedura non significa aprire i confini, ma è una soluzione pratica al problema. Ricevendo rifugiati e richiedenti asilo in modo ordinato e organizzato, ridurrebbe i problemi di sicurezza.

Ci sono 20 milioni di rifugiati in tutto il mondo. Si dovrebbe pensare solo al fatto che essi hanno bisogno e hanno il diritto di vivere una vita dignitosa sicura e che ogni Stato dovrebbe garantire che queste persone che hanno perso le loro case (non certo per colpa loro) siano in grado di ricostruire le loro vite in sicurezza altrove.

Queste le richieste di Amnesty International per cui si chiede ai leader mondiali di impegnarsi al vertice ONU di settembre.

-In un corposo articolo apparso domenica 14 agosto sul Corriere della Sera, Milena Gabbanelli sostiene che, per quanto concerne i richiedenti asilo che abbiamo l`obbligo di accogliere, la mano pubblica dovrebbe " riprendersi l`organizzazione, il controllo e la gestione dell`intera filiera, utilizzando cooperative e associazioni per svolgere solo funzioni di supporto" e impiegare, per l`accoglienza, ampi spazi pubblici attualmente inutilizzati (ex ospedali, resort sequestrati alle mafie e, soprattutto, ex caserme), dove poter svolgere "corsi di lingua, di educazione alle regole europee e formazione per 8 ore al giorno".
Ti sembra una proposta valida e, soprattutto, realisticamente attuabile?

-La proposta di Milena Gabbanelli, in effetti, è già in atto in diverse realtà: il controllo e la gestione dei richiedenti asilo è perlopiù in mano a cooperative o associazioni e, in molte realtà, già si utilizzano spazi pubblici attualmente inutilizzati, dove si svolgono corsi di formazione di ogni tipo, anche se mancano corsi di conoscenza dei Diritti Umani. Conosco molte realtà di queste, ma sono anche venuta a conoscenza di altre realtà simili in cui i richiedenti asilo vengono lasciati da soli, senza imparare una sola parola di italiano e senza potersi integrare e, soprattutto, costretti ad alloggiare in spazi senza alcun bene di prima necessità o addirittura in strada, negando loro la dignità di essere umano. 

A mio parere personale, non si può lasciare tutto completamente in gestione alla mano pubblica, ma è bene sempre avere un supervisore e penso che le persone che si occupano/occuperanno dei richiedenti asilo debbano essere dei professionisti del settore, come la stessa Gabbanelli suggerisce nel suddetto articolo: a mio avviso, non ci si può improvvisare medici, psicologi o interpreti!

Inoltre, la sua proposta di "un piano concreto in cambio di finanziamenti, l'impegno di ripartizione delle quote e della supervisione di un commissario europeo" non si discosta molto dal progetto proposto da Amnesty International per "affrontare globalmente e in modo condiviso la crisi dei rifugiati". Tutti gli Stati, difatti, dovrebbero essere proattivi nei loro sforzi per permettere ai rifugiati e richiedenti asilo di soddisfare i loro bisogni di base, e vivere con dignità e sapersi integrare nelle società ospitanti, attraverso il sostegno internazionale.

Papa Francesco nella sua visita ad Auschwitz ha dimostrato, ancora una volta, di essere un papa speciale.
Si è coraggiosamente posto, infatti, l’interrogativo più scomodo e scabroso per chi vive nella fede, interrogativo che è anche il più doveroso per chi, alla propria fede, voglia garantire il crisma dell’onestà.
“Dov’è Dio - si è chiesto il pontefice - se nel mondo c’è il male, se ci sono uomini affamati, assetati, senzatetto, profughi, rifugiati? Dov’è Dio, quando persone innocenti muoiono a causa della violenza, del terrorismo, delle guerre? Dov’è Dio, quando malattie spietate rompono legami di vita e di affetto? O quando i bambini vengono sfruttati, umiliati, e anch’essi soffrono a causa di gravi patologie? Dov’è Dio, di fronte all’inquietudine dei dubbiosi e degli afflitti nell’anima?”

In una delle pagine più straordinarie della Notte di Elie Wiesel, nel corso di una impiccagione all’interno di un lager nazista, di fronte all’interminabile agonia di un povero fanciullo, dai prigionieri costretti ad assistere, si leva una voce che con insistenza si domanda dove sia il “Buon Dio”... E l’unica risposta che le viene offerta è la seguente:
“Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca ...” *
Parole raggelanti dai molteplici possibili significati, fra cui:
- In una umanità disumanizzata non c’è più tempo e non c’è più spazio per qualsiasi pensiero intorno a Dio.
- Dio è nostra vittima ingiuriata e sconfitta, una vittima che muore mille volte e in mille modi, per mano dell’uomo che tortura e macella i suoi fratelli.
- Eliminato il Dio trascendente, creatore e padre provvidenziale (da cui ci sentiamo traditi e abbandonati), l’unico Dio di cui è lecito ancora parlare è l’essere umano oggetto di oppressione e di tortura ... perché soltanto la vittima innocente può apparirci totalmente degna della nostra attenzione, delle nostre cure, della nostra mai sufficientemente espressa capacità di amare.
Francesco ci dice, però, che una simile domanda apparterrebbe a quelle per le quali non possono darsi “risposte umane”. Ma, nello stesso tempo, dice che l’unica cosa che possiamo fare è “guardare a Gesù” e che questa sarebbe la sua risposta:
“ ‘Dio è in loro’, soffre in loro, profondamente identificato con ciascuno. Egli è così unito ad essi, quasi da formare ‘un solo corpo’”.
Ma dire che Dio è in loro e che soffre con loro ci obbliga a mettere in soffitta millenni di speculazioni teologiche, ci obbliga a non parlare più di perfezione, di onnipotenza e di onniscienza e a liberarci pertanto dagli infiniti ingorghi logico-dialettici relativi a tali concetti. Ci obbliga a dire che l’unico dio che noi, oggi, sulla base della nostra sensibilità etica più matura, siamo disposti a concepire e a tollerare è il dio irreversibilmente sceso dall’Empireo e privato delle sue sfolgoranti nuvolaglie di angeli svolazzanti nei cieli ...

Possiamo, cioè, comprendere e “sentire” come “dio” soltanto un Essere che viva nella maniera più ampia ed autentica la capacità di abbracciare quelli che, con delicata affettuosità, Aldo Capitini denominava “ gl’infelici, i malati, i moribondi, gli stanchi, i deboli, gli sfiniti, i languenti, gli esauriti, i piagati, i paralizzati, i dimezzati, gli stolti, i pazzi, gli oppressi, gli sfruttati, i vinti, gli sconfitti, gli annullati” .**
Ma, allora, tutto questo avrebbe ancora qualcosa a che fare con la fede (che però il pontefice continua a raccomandare), con gli altari, con le dottrine confessionali, con qualche possibile gerarchia ecclesiastica?
Tutto ciò sembrerebbe avere a che vedere soltanto con la capacità dell’uomo di liberarsi dalle asfissianti architetture teologiche per lasciare spazio al sentimento sincero della compassione che ci induce a ritenere “divino” soltanto l’interesse puro e incondizionato verso la creatura sofferente, soltanto la capacità di aprire il nostro cuore e le nostre braccia al dolore del mondo. Oltre ogni separatività ... immersi in una fraternità senza confini ... Dopo millenni di conflitti feroci (non ancora dimenticati né tantomeno conclusi) in nome del proprio credo e del proprio dio (l’unico vero) ...
Ancora una volta, papa Francesco si trova di fronte ad un’impresa titanica, forse impossibile: cercare di conciliare il cattolicesimo della tradizione (con tutti i suoi dogmatismi astrusi, la sua sconfinata presunzione di eccezionalità e la sua prepotente arroganza clericale) con una sensibilità religiosamente aperta incentrata sui valori assoluti della pietas e della misericordia ...
Francesco, nel suo dire e nel suo fare, sembra voler sempre più dare peso a questa seconda istanza. Ma quanto a lungo dovrà/potrà trascinarsi il fardello della prima?
E potrebbe mai (ammesso che lo desideri davvero) riuscire a disfarsene?

*Elie Wiesel, La notte, Giuntina, Firenze 1986, pp.66-7.
**Norberto Bobbio, Introduzione a Aldo Capitini, Il potere di tutti, Guerra edizioni, Perugia 1999, p.19.

Fin dall’inizio degli anni ‘90, chiunque si sia occupato di diritti umani in Italia ha avuto numerose occasioni per conoscere ed apprezzare Antigone*, un’associazione politico-culturale impegnata

- a promuovere elaborazioni e dibattiti sul modello di legalità penale e processuale del nostro Paese e sulla sua evoluzione;

- a raccogliere e divulgare informazioni sulla realtà carceraria;

- a curare la predisposizione di proposte di legge e la definizione di eventuali linee emendative di proposte in corso di approvazione;

- a promuovere campagne di informazione e di sensibilizzazione su temi o aspetti particolari attinenti all’innalzamento del modello di civiltà giuridica del nostro Paese.

Da alcuni giorni, l’associazione ha aperto una nuova campagna dedicata a favorire in maniera sempre più intelligente, civile e costruttiva il ricorso alle misure alternative alla detenzione carceraria.

"Dobbiamo dare forza alla parte più moderna ed efficace del nostro sistema penale, quella delle alternative alla detenzione" ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione..  

Alla campagna hanno finora aderito numerose associazioni e organizzazioni operanti nell’ambito dei diritti umani:

A Buon Diritto, Arci, Associazione 21 luglio, Gruppo Abele, Cittadinanza Attiva, Conferenza nazionale volontariato giustizia, Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, Forum Droghe, Funzione Pubblica Cgil, Medici Contro la Tortura, Naga, Progetto Diritti, Ristretti Orizzonti, Società della Ragione, Società Italiana di Psicologia Penitenziaria, VIC/Volontari In Carcere

Al fine di meglio comprendere gli obiettivi di quest’ultima campagna ci siamo rivolti ad Alessio Scandurra, responsabile dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione.

-       Da qualche giorno, state portando avanti una nuova campagna, denominata  `20x20`.
Di cosa si tratta esattamente?

L'idea è chiaramente quella di promuovere il ricorso alle misure alternative.

L'obiettivo è che, entro il 2020, il 20% del bilancio dell'Amministrazione penitenziaria venga speso per il sistema delle misure alternative.  

Oggi ci sono oltre 53.000 persone che stanno scontando la propria pena nelle nostre carceri. Nello stesso momento, circa 23.000 persone la scontano fuori dal carcere, in misura alternativa. Ad esse vanno aggiunte, poi, le oltre 8.000 che usufruiscono della nuova misura della messa alla prova.  

Ora però, per queste misure l'amministrazione penitenziaria spende meno del 5% del proprio bilancio. La parte più avanzata del nostro sistema di esecuzione delle pene, dunque, è anche di gran lunga quella con minori risorse. Quasi tutti i soldi servono per il carcere.

Riuscire ad arrivare al 20% del bilancio potrà rappresentare un primo atto concreto per dimostrare che l'Italia vuole puntare su un nuovo modello penale, nel quale il carcere non sia il metro di paragone di ogni possibile pena, bensì venga riconosciuto per quello che è, un'invenzione che è nata in un momento ben preciso della storia dell'umanità e che non ha alcuna necessità di restare eternamente tale.  

hgfdh- In questi ultimi anni, dopo le tante denunce e promesse, si sono verificati progressi tangibili all`interno del nostro sistema penitenziario?

Sicuramente.

-       Innanzitutto, dopo la legge approvata nel dicembre 2014, è stato recentemente nominato il Garante Nazionale delle Persone detenute nella persona di Mauro Palma. Una nota positiva verso le garanzie nel sistema penitenziario.

-       Il 30 giugno del 2010 i detenuti erano 68.258. In sei anni i detenuti sono diminuiti di 14.763 unità (anche se, purtroppo però, sono cresciuti nel corso di quest’ultimo anno).

-       Sono 23.000 le persone che stanno scontando la pena detentiva non in carcere. Di questi più di un terzo sono in detenzione domiciliare, per la precisione 10.182. 12.910 sono in affidamento in prova al servizio sociale, 758 in semilibertà. Rispetto al 2009, c’ è stato un raddoppiamento dell’ uso della detenzione domiciliare solo in parte confortato dalla possibilità di uso di braccialetti elettronici e un aumento significativo di persone affidate al servizio sociale (5 mila in più in sette anni).

-       C’ è stata una vera e propria esplosione nei numeri della messa alla prova, misura prevista nel 2014 che è un’ alternativa al processo per le persone che hanno commesso un reato non grave, ovvero punito con pena detentiva inferiore ai quattro anni. Sono 8.560 le persone adulte che ne hanno fruito. Altre 10.733 sono sotto indagine dei servizi sociali prima della decisione giudiziaria. Si tratta di una misura che ha impedito una nuova ondata di ingressi penitenziari. Solo 2 persone ne avevano usufruito nel 2014.

-       Nel 2015 sono stati poco meno di 7.000 gli episodi di auto-lesionismo. 43 i suicidi. 79 i decessi definiti per cause naturali. Si sono dunque ammazzati 8,2 detenuti ogni 10 mila mediamente presenti. Nel 2009, quando i detenuti erano 15 mila in più, la percentuale di suicidi fu di 9,2 detenuti morti suicidi ogni 10 mila detenuti mediamente presenti. Anche la percentuale di decessi naturali è scesa dal 15,9 al 13,6. Il maggiore spazio, il minore affollamento incide sulle prospettive di vita probabilmente grazie a un controllo socio-sanitario maggiore. E migliora anche la vita degli agenti di polizia penitenziaria. Nel 2015 2 suicidi contro gli 11 del 2014.

Evidentemente, conviene a tutti un carcere più umano.


- Quali possono essere considerati i maggiori problemi irrisolti?

Menzionerei certamente:

- l'accesso alla salute, molto problematico soprattutto in alcune regioni. In particolare, è molto difficile la situazione rispetto alla salute mentale. Il disagio psichico in carcere è diffusissimo;

- i contatti ed i rapporti con la famiglia, limitati da regole spesso anacronistiche;

- la mancanza di opportunità di formazione e di lavoro, nonostante il calo del numero dei detenuti;

- il sovraffollamento. I detenuti sono molti meno di prima, ma restano più dei posti disponibili per legge. E stanno tornando a crescere. 


- Quando parlate di misure alternative, a cosa vi riferite in particolar modo?

Misure che il giudice può adottare sia durante il processo, sia al momento della sentenza di condanna, sia durante l'esecuzione della pena detentiva, che prevedono, invece del carcere, altre restrizioni della libertà personale.


- Quali sarebbero i vantaggi principali di queste misure?

Il vantaggio è duplice. Da un lato si evitano (o si limitano) i danni prodotti dal carcere in termini di rafforzamento dei processi di esclusione e dell'identità e della carriera criminale. 

Dall'altro si rende possibile quel reinserimento sociale che, per la nostra Costituzione, è il fine imprescindibile di ogni pena. Che il carcere possa essere la migliore e più efficace "palestra" per una vita libera, produttiva e responsabile è un'idea improbabile e negata dai fatti. E' semmai l'opposto. 


- Mi potresti indicare alcuni casi particolarmente felici, in cui e` stato possibile riscontrare, in maniera indiscutibile, risultati soddisfacenti e incoraggianti?

Non saprei. Casi particolarmente felici si possono incontrare in ogni ambito, in carcere come in misura alternativa. Ma sono i grandi numeri che contano e nei grandi numeri il carcere genera una recidiva elevatissima. Più della metà dei detenuti è già stato in carcere una o più volte. I pochi dati disponibili in materia di misure alternative ci dicono che, in questi casi, la recidiva è più bassa, cosa della quale mi pare non ci si possa sorprendere. Un dato che abbiamo è quello delle revoche delle misure alternative per commissione di reati durante la misura. Nel corso del 2015 il fenomeno ha riguardato lo 0,79% dei casi. 

*Dal 1998, Antigone è autorizzata dal Ministero della Giustizia a visitare gli oltre 200 gli Istituti di pena italiani.

Le attività dell’Osservatorio sono realizzate con il contributo della fondazione Compagnia di San Paolo di Torino e con i fondi dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese - Unione delle Chiese metodiste e valdesi.

Per ulteriori informazioni:

http://www.associazioneantigone.it/news/antigone-news/2962-partiamo-da-20x20-la-nuova-campagna-di-antigone-che-promuove-le-misure-alternative-al-carcere


 Nel giro di pochi giorni, due fra le principali associazioni umanitarie internazionali (Amnesty International e Medici Senza Frontiere) hanno usato parole di fuoco contro le scelte attuate o progettate dall’Unione europea a proposito del problema migranti.

Ma, come spesso accade, le loro denunce e le loro raccomandazioni non sembrano aver goduto di adeguata attenzione e considerazione.


Amnesty International, in particolare, ha definito assai preoccupante l'intenzione dell’Unione europea di estendere per un altro anno l'operazione navale di contrasto ai trafficanti di esseri umani denominata "Sofia" e di offrire, su richiesta del nuovo governo di Tripoli, formazione e informazioni alla guardia costiera libica.


E ulteriori preoccupazioni sono state suscitate dall’annuncio del 7 giugno in merito a ulteriori piani per rafforzare la cooperazione con paesi terzi della zona nordafricana (tra cui la Libia) considerati strategici per arrestare il fenomeno migratorio.


Amnesty International ha prontamente dichiarato che il progetto dell'Unione europea di cooperare più strettamente con la Libia in materia d'immigrazione rischia di favorire i maltrattamenti e la detenzione in condizioni terribili e a tempo indeterminato di migliaia di migranti e di rifugiati.

jjLa Libia, infatti, nonostante l’ assenza della legge e il dominio della violenza, continua a essere la meta di centinaia di migliaia di migranti e di rifugiati diretti in Europa, provenienti soprattutto dall'Africa sub-sahariana, persone che fuggono a causa della guerra, della persecuzione o della povertà estrema, da paesi come Eritrea, Etiopia, Gambia, Nigeria e Somalia.

Altre persone, inoltre, si trovano in Libia da anni, ma cercano di lasciare il paese perché, prive di protezione da parte di qualsiasi autorità, vivono nel costante timore di essere fermate, picchiate e rapinate da bande armate o dalla polizia.


"L'Europa - ha dichiarato Magdalena Mughrabi, vicedirettrice ad interim del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International - non dovrebbe neanche ipotizzare accordi con la Libia in tema d'immigrazione di fronte a queste conseguenze, dirette o indirette, sul piano delle violazioni dei diritti umani. L'Unione europea ha più volte mostrato l'intenzione di impedire le partenze di migranti e rifugiati quasi a ogni costo e trascurando l'aspetto dei diritti umani".

"Mentre – ha aggiunto la Mughrabi - è ovviamente necessario migliorare la capacità della guardia costiera libica di cercare e soccorrere vite umane in mare, quello che ora accade è che la guardia costiera intercetta migliaia di persone in mare e le riporta nei centri di detenzione dove subiscono la tortura e altre violazioni. È indispensabile che qualunque forma di assistenza da parte dell'Unione europea non alimenti e perpetui le orribili violazioni dei diritti umani ai danni di cittadini stranieri in Libia dalle quali questi ultimi cercano disperatamente di mettersi al riparo".

Agghiaccianti sono le violenze e gli abusi anche di natura sessualeall’interno dei centri di detenzione libici documentati negli ultimi anni dall’organizzazione e le testimonianze più recenti confermano che le cose non accennino a migliorare.


Solitamente,i detenuti stranieri rimangono nei centri per mesi senza poter incontrare familiari e avvocati e senza vedere un giudice. Non possono contestare la legittimità della loro detenzione né chiedere protezione, data l'assenza di un sistema nazionale d'asilo. Leespulsionisono eseguite senza alcuna tutela,né esame individuale.

Ex detenuti - tra cui persone intercettate in mare e cittadini stranieri fermati in strada - hanno riferito che venivanopicchiati ogni giorno con bastoni di legno, tubi di gomma e cavi elettricie venivanosottoposti anche a scariche elettriche


I detenuti venivano inoltre obbligati adormire all'aperto senza alcun riparo dalle temperature estreme, e le guardie spargevano anche acqua sul pavimento per costringerli a dormire sul bagnato.

 Charles, 35 anni, proveniente dalla Nigeria, ha denunciato di essere stato fermato in una strada di Tripoli, nell'agosto 2015, e di essere stato trasferito in cinque centri di detenzione:

"Ci picchiavano tutti, sempre, ogni giorno. Una volta mi hanno rotto il braccio a bastonate, mi hanno portato in un ospedale ma non ho ricevuto alcuna medicazione. Per colpirci usavano bastoni e pistole, a volte anche la corrente elettrica".

Quando le guardie hanno minacciato di espellerlo, ha urlato:"Qualunque cosa sarà meglio di questo inferno!"

Un uomo di 28 anni originario dell'Etiopia, arrestato insieme alla moglie a un posto di blocco, ha trascorso quattro mesi in un centro di detenzione di Kufra, nel sud-est della Libia. Ha denunciato di essere stato picchiato regolarmente, chiuso in un box, frustato e ustionato con acqua bollente. Stessa sorte per la moglie, picchiata insieme ad altre detenute dal direttore del centro. Alla fine la coppia ha pagato una somma di denaro ed è stata rilasciata.

Questa è la testimonianza di un diciannovenne eritreo detenuto a Kufra:

"Se dicevamo che avevamo fame, le guardie venivano a picchiarci. Ci costringevano a stare a pancia in giù e ci picchiavano coi tubi di gomma. Una volta hanno sparato a un detenuto del Ciad, senza alcun motivo. Lo hanno portato in ospedale, poi di nuovo in cella ed è morto. Ufficialmente, è morto a seguito di un incidente d'auto. Lo so, perché mi facevano lavorare, gratis, nella stanza degli archivi".

Ex detenuti hanno anche denunciato l'assenza di cibo e di acqua potabile, le scarse cure mediche e lo squallore delle celle, così come la mancanza d'igiene, causa della diffusione di malattie della pelle.


"L'Unione europea non può ignorare questi racconti di orrore puro sullo scioccante trattamento inflitto ogni giorno ai cittadini stranieri in Libia. Prima di delineare qualsiasi piano o politica, dovrebbero esserci solide garanzie sul pieno rispetto dei diritti dei migranti e dei rifugiati in Libia: cosa estremamente improbabile nel breve termine"- ha commentato Mughrabi.

Le testimonianze raccolte hanno portato Amnesty International a concludere che l'unica speranza che i detenuti hanno di essere rilasciati risiederebbe nella fuga, nel pagamento di una somma di denaro o nella cessione ai trafficanti. Molti subiscono estorsioni, vengono sfruttati o costretti a lavorare gratuitamente, all'interno di centri di detenzione o all'esterno, da persone che pagano le guardie. 

In alcuni casi, i detenuti sono fuggiti o sono stati rilasciati dalle persone per cui lavoravano all'esterno, che li hanno anche aiutati a imbarcarsi in cambio del loro lavoro gratuito. In altri casi, i trafficanti hanno negoziato il rilascio di detenuti - spesso corrompendo le guardie - così da avere altre persone da imbarcare al costo di circa 1000 dollari ciascuno. In un caso, i trafficanti si sono presentati alla guardie con "automobili zeppe di prodotti" in cambio dei detenuti. 

"L'Europa non può continuare ad abdicare alle sue responsabilità in questa crisi globale dei rifugiati senza precedenti. Per evitare di rendersi complice del ciclo di abominevoli violenze che stanno subendo migranti e rifugiati in Libia, l'Unione europea dovrebbe concentrare i suoi sforzi nell'ottenimento di garanzie che la guardia costiera libica porti avanti le sue attività nel rispetto dei diritti umani, che nessun rifugiato o migrante sia sottoposto a detenzione illegale e che, soprattutto, vi siano alternative ai viaggi pericolosi. Questo significa aumentare enormemente il numero degli insediamenti in Europa e garantire visti e ammissioni per motivi umanitari" - ha concluso Mughrabi.

Medici Senza Frontiere, invece, qualche giorno fa ha annunciato che, a livello internazionale, rifiuterà fondi da parte dell'Unione Europea e dei suoi stati membri. Ciò come atto di protesta contro le loro dannose politiche di deterrenza sulla migrazione e i sempre maggiori tentativi di allontanare le persone e le loro sofferenze dalle frontiere. Questa decisione avrà effetto immediato e si applicherà ai progetti di MSF in tutto il mondo.*

A tre mesi dall'accordo tra UE e Turchia, salutato come un successo dai governi europei, le persone bisognose di protezione ne starebbero pesantemente pagando i costi. Più di 8.000 persone, tra cui centinaia di minori non accompagnati, sono bloccate sulle isole greche come diretta conseguenza dell’accordo. Hanno vissuto in condizioni disastrose, in campi sovraffollati, a volte per mesi e, essendo ancora prive di assistenza legale (loro unica difesa contro un’espulsione collettiva), ora temono un ritorno forzato in Turchia. La maggior parte di queste famiglie, che l'Europa ha stabilito di tenere fuori dal proprio campo visivo, sta fuggendo dai conflitti in Siria, Iraq e Afghanistan.

Per mesi MSF ha denunciato la vergognosa risposta europea, concentrata sulla deterrenza invece che sulla necessità di fornire alle persone l’assistenza e la protezione di cui hanno bisogno”, dichiara Jerome Oberreit, segretario generale internazionale di Medici Senza Frontiere. “L'accordo UE-Turchia è un passo avanti in questa direzione e ha messo in pericolo il concetto stesso di ‘rifugiato’ e la protezione che offre”.

All’inizio del mese, la Commissione europea ha presentato una nuova proposta per replicare la logica dell’intesa UE-Turchia in oltre 16 paesi in Africa e Medio Oriente. Gli accordi imporrebbero tagli commerciali e agli aiuti allo sviluppo per quei paesi che non si impegneranno ad arginare la migrazione verso l'Europa o che non faciliteranno i rimpatri forzati, premiando invece quelli che, al contrario, lo faranno. Tra questi potenziali partner ci sono la Somalia, l'Eritrea, il Sudan e l'Afghanistan - quattro dei primi dieci paesi di origine dei rifugiati.

Tutto ciò che l’Europa ha da offrire ai rifugiati è costringerli a restare nei paesi da cui cercano disperatamente di fuggire? Ancora una volta, l'obiettivo principale dell’Europa non è proteggere le persone, ma tenerle lontane nel modo più efficace”, prosegue Jerome Oberreit.

L’organizzazione umanitaria sottolinea con grande preoccupazione che l'accordo UE-Turchia potrebbe rappresentare un pericoloso precedente per altri Paesi che ospitano rifugiati, inducendo a ritenere che prendersi cura di chi è costretto ad abbandonare la propria casa è cosa facoltativa e che sarà possibile “comprarsi” un’alternativa al fornire asilo. Si veda, a questo proposito, quanto verificatosi in Kenia il mese scorso, dove il governo ha citato la politica europea sulla migrazione per giustificare la decisione di chiudere il più grande campo profughi del mondo, Dadaab, rimandando in Somalia chi ci vive. Allo stesso modo, l’accordo UE-Turchia non fa nulla per incoraggiare i paesi che confinano con la Siria, che già ospitano milioni di rifugiati, ad aprire le frontiere a chi ne ha bisogno.

Il tentativo dell'Europa di esternalizzare il controllo della migrazione sta avendo un effetto domino, con frontiere chiuse lungo tutto il tragitto fino in Siria. Le persone non hanno più alcun posto dove andare e questa situazione peggiora sempre di più”, aggiunge Jerome Oberreit.

"La situazione di oggi ad Azaz, dove 100.000 persone sono bloccate tra il confine chiuso e la linea del fronte, diventerà la regola invece che una pericolosa eccezione?

Ciò che MSF trova inaccettabile è l’uso strumentale che viene fatto degli aiuti umanitari. Il pacchetto finanziario dell’accordo UE-Turchia, infatti, che prevede un sostegno economico di ben un miliardo di euro, rischia di diventare una sorta di ricompensa per l’impegno nel controllo delle frontiere, piuttosto che rappresentare uno strumento efficace e coerente per affrontare positivamente le reali esigenze delle persone.

Le politiche di deterrenza vendute al pubblico come risposta umanitaria hanno solo esacerbato la sofferenza delle persone in stato di bisogno. Non c'è nulla di lontanamente umanitario in queste politiche. Non possono diventare la norma e devono essere messe in discussione”, conclude Jerome Oberreit.

MSF non prenderà più finanziamenti da istituzioni e governi le cui politiche nuocciono così tanto alle persone. Chiediamo ai governi europei di rivedere le priorità: invece di massimizzare il numero di persone da respingere devono massimizzare il numero di quelle che accolgono e proteggono”. 


NOTE

* MSF fornisce assistenza alle persone che attraversano il Mediterraneo verso l'Europa dal 2002. Solo negli ultimi 18 mesi i medici di MSF hanno assistito circa 200.000 uomini, donne e bambini in Europa e nel Mar Mediterraneo. L’organizzazione si sta attualmente prendendo cura di rifugiati e migranti in Grecia, Serbia, Francia, Italia e nel Mediterraneo, così come in decine di paesi in Africa, Asia e Medio Oriente.

Le attività di MSF sono finanziate per il 92% da fondi privati. Tuttavia per programmi specifici l'organizzazione ha anche alcune partnership finanziarie con donatori istituzionali. Nel 2015, MSF ha ricevuto 19 milioni di euro dalle istituzioni comunitarie e 37 milioni di euro dagli Stati membri. MSF ha inoltre utilizzato 6,8 milioni di euro ricevuti dal governo norvegese. Nel 2016, oltre ad ECHO, MSF aveva avviato delle partnership con nove paesi membri dell’Europa: Belgio, Danimarca, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Spagna, Svezia e Regno Unito. In Italia MSF non accetta fondi istituzionali e raccoglie esclusivamente fondi privati da individui, fondazioni o imprese.

PER APPROFONDIRE:

www.amnesty.it

www.medicisenzafrontiere.it

Subito dopo la strage verificatasi nella notte tra l'11 e il 12 giugno al Pulse di Orlando (Florida), in cui sono state uccise 50 persone e ne sono state ferite altre 53, Amnesty International Usa ha rilasciato la seguente dichiarazione:

"La strage di Orlando è una dimostrazione di totale disprezzo per la vita umana. Al dolore e alla solidarietà per le vittime devono ora seguire azioni concrete per proteggere le persone dalla violenza.

In quanto stato parte del Patto internazionale sui diritti civili e politici e della Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione, il governo degli Usa è obbligato a proteggere le persone dalla violenza delle armi.

Le indagini dovranno essere basate su fatti concreti, più che su speculazioni o faziosità. 

Il governo Usa deve rendersi conto che la violenza delle armi sta producendo niente di meno che una crisi dei diritti umani. Occorre modificare le leggi federali, statali e locali per garantire la sicurezza di tutti.
Nessuno dovrebbe morire per il mero fatto che sta camminando in strada, andando a scuola o ballando in un locale".

L’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo ha anch’esso immediatamente diffuso un interessante comunicato in cui, sulla base dei tre gravi episodi avvenuti negli Stati Uniti, nell’arco di 24 ore (la strage nel club gay di Orlando, in Florida; l’omicidio della ventiduenne cantante Christina Grimmie, star di YouTube, sempre a Orlando; l’arresto di James Howell, carico di armi ed esplosivi, a Santa Monica), si mette in rilievo la presenza di un dato comune non adeguatamente preso in considerazione: la disponibilità e la facilità con cui armi piccole e leggere anche da guerra sono reperibili sul territorio nordamericano.

In USA, infatti, “vi sarebbero ben 89 armi ogni 100 abitanti su un totale di 270 milioni di armi in circolazione nel paese. Di fatto, è oltre il 40% maggiore rispetto a quello che si ha in Yemen, secondo solo agli Stati Uniti con 54,8 armi da fuoco ogni 100 abitanti. Il mercato americano è il maggiore in assoluto, quello dove anche i narcotrafficanti latinoamericani si riforniscono oltrepassando la frontiera messicana in uno scambio di droga con armi.”

I dati sono davvero impressionanti:

negli Stati Uniti, ogni anno, oltre 30.000 persone rimangono uccise dalle armi da fuoco, con una media giornaliera di 30 vittime, di cui la metà giovani, di età compresa tra i 18 e i 35 anni e un terzo giovanissimi, di età sotto i 20 anni.

Il dibattito ora apertosi – si legge, poi, nel comunicato - se i singoli episodi siano ascrivibili al terrorismo, all’omofobia, all’emarginazione sociale o alla follia appare tralasciare il quadro generale nell’ambito del quale la diffusione delle armi piccole e leggere solo nel 2015 ha provocato oltre 12.000 vittime e mass shooting in circa 100 aree metropolitane. Ancora una volta si assiste agli ennesimi massacri in un paese dove sembra che l’unica risposta possibile sia quella di armarsi sempre più alla ricerca di una sicurezza che questi arsenali non sembrano garantire.”

Certamente prezioso il riferimento che viene proposto in merito ad uno studio molto approfondito effettuato dal professor Michael Siegel delle Boston University insieme a due coautori, in grado di riscontrare con molta chiarezza l’esistenza di una diretta correlazione tra diffusione di armi e numero di omicidi perpetrati con armi. Lo studio in questione ha analizzato una serie di dati sugli omicidi con armi da fuoco per tutti i 50 Stati americani, dal 1981 al 2010, cercando di cogliere una eventuale relazione tra cambiamenti nel tasso di possesso di armi e numero di uccisioni con armi. Il risultato emerso dimostra che “ogni 1% di incremento nella proporzione di possesso domestico di armi da fuoco” ha finito per tradursi in un incremento dello 0,9% nel tasso di omicidi.

Un altro dato importante da sottolineare è quello legato al possesso stesso delle armi e alla loro diffusione negli Stati Uniti.

“Secondo un sondaggio effettuato dall’Harvard Injury Control Research Center su un campione di 3.000 intervistati, il 22% ha affermato di possedere armi e il 25% di questi ha dichiarato di possedere cinque o più armi da fuoco. Ne emerge dunque che negli Stati Uniti moltissimi cittadini sono in possesso di un vero e proprio piccolo “arsenale” domestico. Per rendere l’idea, basti pensare che il numero di americani che possiede 10 o più armi da fuoco è maggiore del numero di abitanti della Danimarca”.

Per approfondire:

www.amnesty.it

www.archiviodisarmo.it

Non si ferma la campagna di Amnesty International.

Che la situazione in terra egiziana non fosse particolarmente rassicurante lo si sapeva anche da molto prima che ci ritrovassimo feriti dalla vicenda di Giulio Regeni.

Consultando, infatti, il Rapporto annuale di Amnesty International era facilmente possibile apprendere del deterioramento progressivo di una realtà già ampiamente preoccupante sotto il profilo del rispetto dei diritti umani.

Le autorità egiziane, nel corso del 2015, hanno imposto restrizioni sempre più rigide ed arbitrarie ai diritti alla libertà d’espressione, associazione e pacifica riunione.

Ad agosto, il governo ha promulgato la Legge 94, una nuova legislazione antiterrorismo in cui la definizione di “atto terroristico” viene formulata in termini vaghi e oltremodo generici, conferendo al presidente il potere di “adottare le misure necessarie per assicurare l’ordine pubblico e la sicurezza”, consentendo l’istituzione di tribunali speciali e stabilendo pesanti ammende per i giornalisti che avessero pubblicato notizie sul “terrorismo” con contenuto non in piena sintonia con la linea ufficiale del governo.

Sono così state incarcerate (oltre a leader e attivisti politici d’opposizione) numerose persone “colpevoli” di aver osato esprimere giudizi critici verso il governo. Alcune di esse sono state anche sottoposte a sparizione forzata: gruppi per i diritti umani hanno riferito di aver ricevuto decine di denunce riguardanti casi di persone arrestate dalle forze di sicurezza e poi rimaste detenute in incommunicado.

Giornalisti che lavoravano per conto di organi d’informazione critici verso il governo o legati a gruppi dell’opposizione sono stati perseguiti penalmente per aver pubblicato “notizie false” e per altre accuse di ordine politico. In alcuni casi, sono state comminate hanno lunghe pene carcerarie e addirittura una condanna a morte. Alcune persone, per aver esercitato pacificamente il loro diritto alla libertà d’espressione, sono incappate in pesanti procedimenti giudiziari sulla base di accuse come “diffamazione della religione” e offesa alla “morale pubblica”.

Gli apparati; di sicurezza hanno fatto sovente ricorso ad un uso eccessivo della forza contro manifestanti, rifugiati, richiedenti asilo e migranti, mentre detenuti hanno subìto tortura e altre forme di maltrattamenti. In taluni casi, sono state arrestate anche persone accusate di “indecenza”, a causa dei loro supposti orientamenti sessuali.

I tribunali hanno emesso, inoltre, centinaia di condanne a morte e sentenze a lunghi periodi di carcerazione al termine di processi di massa dal carattere palesemente iniquo e arbitrario.

Le forze di sicurezza e dell’intelligence militare hanno torturato i detenuti sotto la loro custodia, con metodi che comprendevano, tra l’altro, scosse elettriche o costrizione a rimanere in posizioni di stress. Numerose anche le segnalazioni di decessi in custodia causati da tortura, da altri maltrattamenti e da mancanza di accesso a cure mediche adeguate

La morte di Giulio Regeni va, pertanto, necessariamente collocata all’interno di questo quadro generale di riferimento, tenendo presente, in particolare, che le sparizioni forzate sono diventate un fenomeno dolorosamente assai diffuso nell’Egitto di oggi.

In base ai dati finora diffusi da due Ong (la Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà», diretta dall’ex ricercatore di Amnesty International Mohamed Lotfy, e del «Centro El Nadim per la riabilitazione delle vittime di violenza» della psichiatra Aida Seif Al Dawla) ritenute assolutamente attendibili da Amnesty International, da agosto 2015 ad oggi, il totale delle persone scomparse sarebbe di ben 533 casi. Su 396 di questi, nulla ci è ancora possibile sapere, anche se è fondatamente possibile ritenere che siano in mano ai servizi di sicurezza dello stato.

Soltanto in aprile 2016 sono sparite forzatamente 86 persone (praticamente tre al giorno!). Sempre nel mese di aprile, invece, quelle uccise nelle prigioni e nei commissariati di polizia sono state nove: otto per mancata fornitura dell’assistenza medica necessaria e uno per tortura.

Secondo El Nadim, nel corso del 2015, si sarebbero verificati 1176 casi di tortura, di cui quasi 500 con esito mortale. Nei luoghi di detenzione la tortura è dilagante e le condizioni terribili: sovraffollamento, mancanza di ventilazione, privazione di cibo, assenza di cure mediche. Il numero di morti per negligenza medica all’interno delle carceri (catalogate impropriamente come “morti naturali”) mette in luce una deliberata privazione di assistenza sanitaria per i detenuti.

Nel paese si lamenta una totale assenza dello stato di diritto. Le forze armate e le forze di sicurezza godono di un’assoluta impunità nell’uccidere e nell’incarcerare. Ci sono anche prigioni segrete e i malcapitati possono passare anni imprigionati ancor prima del processo, senza vedere in faccia il proprio giudice. Il prolungamento della detenzione è rinnovato automaticamente e molti sono i casi anche di esecuzioni extra-giudiziali. L’utilizzo di armi da parte della polizia è senza precedenti: le forze di sicurezza, siano esse esercito o polizia, sapendo di essere costantemente protette, finiscono per attribuirsi e per esercitare una vera e propria “licenza di uccidere”.

Al fine anche di parlare di tutto questo, nell’ambito delle campagne "Stop Tortura" e "Verità per Giulio Regeni", sabato 28 maggio, il Comune di Albano Laziale (Roma) e Amnesty International - Circoscrizione Lazio hanno organizzato una felice iniziativa che ha visto anche un bel coinvolgimento di alcune scolaresche in un flash mob nella piazza principale del paese.

Ad Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, intervenuto nel convegno organizzato presso il palazzo municipale, abbiamo rivolto alcune domande per meglio mettere a fuoco alcuni aspetti del caso Regeni.

-   hjfj   Il caso di Giulio Regeni ha suscitato in tanti non solo indignazione, ma anche parecchio stupore: perché una tale assurda ferocia contro un giovane certamente non pericoloso?

Giulio Regeni era un giovane studioso italiano che svolgeva delle ricerche, nell'ambito di un progetto dell'Università di Cambridge, al Cairo. Nella seconda metà di gennaio è scomparso ed è stato ritrovato morto dopo alcuni giorni con segni inequivocabili di tortura. Sul perché sia stato ucciso per il momento si possono fare solo delle ipotesi. Robert Fisk, un commentatore autorevole, ha ipotizzato che i contatti di Regeni con gli ambienti sindacali egiziani, una spina nel fianco del regime, su cui stava facendo la sua ricerca, gli sarebbero stati fatali. Questa può essere una spiegazione specifica. Forse, però, interessa di più la spiegazione generale: è il contesto che spiega meglio quello che è accaduto. E il contesto è di violazioni diffuse e sistematiche dei diritti umani: sparizioni e tortura non sono una novità di oggi in Egitto, ma, in questo periodo, sono pratiche particolarmente diffuse. E sono diffusissimi anche gli arresti arbitrari e i processi iniqui. Amnesty International ha notizia di 12.000 arresti di manifestanti o oppositori nei primi 10 mesi del 2015!

Un paio di mesi fa, è stato rilasciato, per fortuna, un ventenne che aveva trascorso gli ultimi due anni in carcere per avere indossato una maglietta con una scritta che chiedeva la fine della tortura ("Nation Without Torture"). Molte altre persone, invece, sono attualmente in carcere, tra cui il fotoreporter conosciuto col soprannome Shawkan, arrestato il 14 agosto 2013, mentre stava seguendo, per conto di un'agenzia di stampa inglese, lo sgombero di un sit-in convocato dalla Fratellanza musulmana in un quartiere del Cairo, in occasione del quale le forze di sicurezza hanno ucciso moltissimi manifestanti. E' detenuto in attesa di processo da quasi 1000 giorni. Le imputazioni nei suoi confronti sono state rese note al suo difensore due anni e mezzo dopo l'arresto. Anche Shawkan è stato torturato e non gli viene permesso di curarsi per l'epatite C.

Cito volentieri questo caso particolare anche perché, qualche giorno fa, la famiglia di Giulio Regeni ha voluto firmare, con un bel gesto, un nostro appello per chiedere il suo rilascio.

-      Rimane, però, difficile capire i motivi che possano aver indotto ad accanirsi contro uno straniero, con il rischio di suscitare un clamore di portata mondiale.

Quel che a me interessa sottolineare è che alle violazioni diffuse e sistematiche si accompagna di regola una vera e propria cultura dell'impunità. Ciò rende meno strano, meno implausibile l'omicidio di Giulio. Sono molti a chiedermi come sia stato possibile che uno straniero, uno studioso, abbia potuto fare quella fine. Alcuni si chiedono se non fosse più semplice espellerlo. Certamente sì, e qualcosa probabilmente non è andato per il “verso giusto”. Ma, in un paese in cui servizi di sicurezza ed esercito sono abituati da decenni a commettere abusi senza non doverne mai rendere conto, senza mai rischiare di essere puniti, anche uno straniero può essere torturato a morte senza troppi scrupoli e calcoli. Da certi segnali, tra l’altro, si capisce che le autorità egiziane sono rimaste piuttosto stupite dall'entità e dall'estensione della reazione. Proprio perché in piena contraddizione con una antica e consolidata cultura dell'abuso di potere e dell'impunità.

-      Dopo tanti vergognosi quanto grotteschi tentativi di occultare la verità, che cosa si riesce a comprendere delle dinamiche di questa triste vicenda?

Nel giro di qualche settimana si è passati dall’incidente d’auto (evidentemente poco compatibile con i segni di tortura trovati sul corpo) alla pista omosessuale ("ragioni private"), a quella della droga, alla vendetta tra spie, alla criminalità comune, fino al traffico di opere d’arte. La versione più incredibile è, a mio avviso, quella della banda di criminali comuni, a quanto pare specializzati in rapimenti di stranieri, con l'abitudine di travestirsi da membri delle forze di sicurezza, tutti e 5 morti in un conflitto a fuoco, anche se i colpi li avevano casualmente raggiunti alla nuca. Il tutto completato dalla messinscena dei documenti di Giulio fotografati su un piatto d'argento (documenti che i sedicenti malviventi avrebbero conservato per settimane, pronti per essere ritrovati). Il regime egiziano, oltre a diffondere in modo ufficiale e semi-ufficiale versioni poco credibili dell'accaduto, da un lato ha preso ad accusare gli attivisti e i social media egiziani di disseminare bugie che creano inimicizie all’Egitto. Dall'altro, a offrire una collaborazione incompleta o, peggio, a fare finta di collaborare con gli investigatori italiani mettendo a disposizione dossier carenti delle informazioni più importanti.

Su quel che è successo davvero, non abbiamo certezze, o meglio non abbiamo prove. Tuttavia, le circostanze e la data della scomparsa (il quinto anniversario della “rivoluzione del 25 gennaio” 2011, con tutti i precedenti segnati da picchi della repressione), i metodi di tortura cui è stato sottoposto (esattamente gli stessi usati dagli apparati di sicurezza in un gran numero di casi), la stessa indisponibilità a collaborare nella ricerca della verità, l’assegnazione iniziale delle indagini a un funzionario di polizia condannato nel 2003 per un caso di morte sotto tortura (in seguito accusato di aver torturato, incriminato per false accuse e ucciso manifestanti nel 2011), l'analogo destino cui sono andati incontro due attivisti egiziani scomparsi negli stessi giorni di gennaio (ufficialmente morti durante uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza, ma il primo aveva le unghie strappate e ferite da arma da taglio, il secondo un foro di proiettile in testa e lividi su tutto il corpo) inducono fortemente a pensare che le forze di sicurezza egiziane siano responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni.

Non sappiamo, nel senso che non abbiamo elementi di prova da portare in giudizio. Ma sappiamo, perché ragioniamo, perché facciamo i collegamenti necessari, nello stesso senso in cui diceva di sapere Pier Paolo Pasolini a proposito delle drammatiche vicende italiane dei primi anni settanta.

-      Amnesty International è stata immediatamente in prima linea per mobilitare l’opinione pubblica, e numerose e significative sono certamente state le manifestazioni di solidarietà provenienti da tanti ambienti e settori della società civile, dal mondo dello sport a quello dello spettacolo. Vi aspettavate una risposta così forte e ampia?

L'idea di chiedere a tutti di esporre ovunque un'identica scritta nera su fondo giallo è nata in pochi minuti, e, nel giro di poco tempo, siamo stati letteralmente travolti dalle comunicazioni di adesioni, dall'invio di fotografie, dai messaggi. Cerchiamo di tenere aggiornato l'elenco delle adesioni: ci sono tante università, moltissimi comuni (tra cui quello di Albano Laziale), diverse regioni, molti quotidiani, trasmissioni radiofoniche e televisive. La mobilitazione ha anche rapidamente superato i confini italiani: hanno fatto un bel lavoro, ad esempio, nell'Università di Cambridge, ma abbiamo ricevuto fotografie di classi di studenti di scuole e università da molti paesi: credo che il più distante sia stato l'Australia, con fotografie da Sidney davanti al Teatro dell'Opera che è un po' come il Colosseo per noi.

Infine, è molto incoraggiante la risposta proveniente dal mondo arabo e dallo stesso Egitto. Soprattutto sui social media la richiesta di verità è presente. Al Cairo, in una via importante, che porta a Piazza Tahrir, c'è un murale con le immagini dei martiri della repressione: a questi, tutti egiziani, è stato aggiunto il ritratto di Giulio Regeni. E girano anche magliette con la sua foto e la scritta "Uno di noi". E, richiamando quanto detto a proposito del carattere non isolato del suo caso, e del gran numero di vittime egiziane, non potrebbero essere usate parole più vere.

E non sono certo mancate le risposte istituzionali, sicuramente incoraggiate dalla pressione congiunta dell'opinione pubblica e degli organi di informazione.

-      Ma la campagna di Amnesty International non si ferma certo qui. Quali altre iniziative potrebbero essere portate avanti, a livello internazionale per fare luce e per fare giustizia?

Per prima cosa, chiediamo al governo italiano di evitare sbrigative ricuciture sul piano diplomatico. Il nuovo ambasciatore (perché dopo il richiamo c'è stato un avvicendamento) non dovrebbe assolutamente tornare al Cairo fino a che le cose non saranno cambiate significativamente.

Riteniamo poi che, oltre a dichiarare il paese "non sicuro" per i nostri cittadini (azione che potrebbe essere considerata come una forma di boicottaggio del turismo), siano sospesi tutti i trasferimenti di armi. Nel 2013 l'Unione europea ha previsto una sospensione dei trasferimenti di armi all'Egitto dopo che, nell'agosto dello stesso anno, centinaia di manifestanti erano stati uccisi. Ma12 stati dell'Unione europea su 28 sono rimasti, però, tra i principali fornitori di armi ed equipaggiamento di polizia all'Egitto, e tra questi 12 stati c'è anche l'Italia che, insieme a Germania e Regno Unito, ha inviato all'Egitto anche tecnologia e strumentazioni sofisticate per svolgere attività di sorveglianza indirizzata, con ogni probabilità, contro il dissenso pacifico. Ebbene, tutto questo deve cessare, innanzitutto da parte italiana, ma possibilmente da parte di tutti gli stati europei. Perché, se l'Europa risponde in ordine sparso, l'Egitto può tranquillamente ignorare le eventuali sanzioni italiane (tanto le armi continuerebbero ad arrivare da altri stati europei esportatori).

C'è poi, un capitolo più strettamente giuridico. L'Egitto ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, nel 1986, per cui, in base all’art.30, l’Italia, dopo avere seguito preliminarmente la via del negoziato per risolvere la controversia con l'Egitto, seguito da un tentativo di arbitrato, potrebbe infine presentare un ricorso unilaterale alla Corte internazionale di Giustizia.

Infine, c'è il discorso relativo a quanto si potrebbe fare nell'ambito della giustizia penale o civile italiana per affermare la responsabilità civile dello Stato egiziano o quella penale degli individui colpevoli di tortura. La prima possibilità - adire le corti italiane per chiedere la condanna dell’Egitto al risarcimento dei danni causati - non incontra più, se la giurisprudenza Ferrini della Corte di Cassazione verrà confermata, l'ostacolo costituito dall’immunità dello Stato laddove si sia in presenza di crimini internazionali o gravi violazioni dei diritti umani. E' evidentemente molto difficile che si possano raccogliere le prove necessarie a sostenere la richiesta di risarcimento.

Quanto alla responsabilità penale degli individui, la Procura di Roma ha aperto un'indagine e qualche giorno fa inoltrato per via diplomatica una rogatoria internazionale. L'ipotesi è di affermare la giurisdizione italiana sulla base del criterio giurisdizionale della nazionalità passiva (o della vittima). Anche in questo caso rimane il fatto che, per processare qualcuno, occorrono prove e la mancanza di collaborazione dell'Egitto rischia di essere paralizzante da questo punto di vista.

C’è da aggiungere poi che, anche nell'ipotesi che l’indagine fosse coronata da successo e si riuscisse ad individuare e rinviare a giudizio i responsabili, questi non potrebbero comunque essere giudicati e condannati per tortura (nella forma più aggravata della tortura seguita dalla morte della vittima), ma per il solo reato di omicidio aggravato. Perché l'Italia non ha ancora riconosciuto il reato di tortura nel proprio codice penale, continuando infatti ad ostinarsi a non voler chiamare le cose con il loro nome.

In questo caso, si verrebbe a produrre una specie di bizzarro effetto collaterale: non poter punire per "tortura" neppure quando a essere torturato a morte è un nostro cittadino in un altro paese!

  • Secondo il diciassettesimo rapporto annuale dell'Unione Europea,nel 2014l'Italia ha emesso21 autorizzazioniper un valore di33,9 milioni di eurodi attrezzature militari verso Egitto, di cui oltre 15 milioni di euro di armi leggere.Nel 2015, l'Italia ha inviato in Egitto3.661 fucili e accessoriper un valore di oltre 4 milioni di euro;66 pistoleo rivoltelle del valore di 26.520 euro insieme a965.557 euro di parti ed accessoriper pistole e rivoltelle.Nel 2016, l'Italia ha già registrato l'esportazione di73.391 euro di esportazioni di pistole e rivoltelle all'Egitto. Secondo Privacy International, l'azienda italianaHacking team ha fornito ai servizi segreti egiziani sofisticatetecnologie di sorveglianza. L'azienda ha dichiarato che il trasferimento è stato autorizzato dal governo italiano.
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