
L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Su questo argomento, ovvero banche speculative, aste speculative, cittadini deprivati addirittura della loro prima casa, in barba alla Costutuzione, mi ha instradato un caro amico, che si chiama Alfredo Belluco, anche lui Veneto. Per chiunque abbia un mutuo e debiti speculativi con le banche (sioniste?) vi invito a consultarlo. Egli ha vinto anche cause su mutui/aste speculative contro potenti banche.... Lui è esperto in mutui fasulli, banche speculative, cavilli che possono smontare mutui scorretti e prestiti immorali, aste giudiziarie speculative, cartolarizzazioni di deprezzamento dei beni primari e di terreni agricoli e quindi foriere di tragedie familiari che possono portare all'episodio di morte che abbiamo visto il 14 ottobre 2025, nel veronese, presso il paesino di Castel d'Azzano; protagonista è stata la famiglia dei fratelli Ramponi, allevatori-agricoltori e 3 poveri carabinieri. Essi sono morti per difendere uno Stato in declino morale assoluto che non ha provveduto ancora, dall'inizio degli anni 2000 e soprattutto dal 2008 - quando hanno scoperto i mutui subprime delle banche sioniste americane - a cambiare le leggi che riguardino la prima casa, l'immorale cartolarizzazione da parte delle banche con il deprezzamento di case, casali, terreni e poderi con l'uso di aste speculative. Sono gli stessi agricoltori, contadini, proprietari di masserie, casali e terreni che ci nutrono, a noi Popolo Sovrano, le stesse terre e gli stessi casali che poi, con la EU,vera, piovra che sta polverizzando l'agricoltura europea e soprattutto quella italiana, vanno invece nelle mani di società immobiliari-piovre, legate alle stesse banche, che si sono curate dei prestiti - spesso usurai dice il Belluco e le sue sentenze - ai poveri cittadini. CORNUTI E MAZZIATI SONO! Un valzer mortale a circuito chiuso, con cui soprattutto i sionisti sperano di comprare il mondo e creare il loro Grande Israele... fino a Cipro dove stanno comprando "a 4 ganasce" con i soldi sporchi di sangue, come in Sardegna, come in Toscana, in Puglia.
Per non parlare degli "espropri coatti di pubblica utilità" cosiddetta, per sviluppare i campi di agro-voltaico e i campi di pale eoliche, assolutamente del tutto inutili ai fini dell'abbattimento del presunto cambiamento climatico di natura industriale: sempre considerando che il vero cambiamento climatico è soprattutto naturale o dovuto a geo-ingegneria.
Quindi tutte le "cose" che si sono svelate nella Apocalisse Mondiale degli ultimi 5 anni sono molto collegate fra loro: I) la Big Pharma che ha fatto impoverire i cittadini/agricoltori/imprenditori/allevatori, tenendoli chiusi per mesi/anni SENZA PRODURRE e inoculati con un siero-genico-sperimentale-militare, ora sotto processo; II) lo strapotere del capitale delle banche sioniste che si sono organizzate quando scoperte nel 2008; III) la lobby delle armi/BIO-LAB4, che hanno fatto dirottare fondi pubblici verso questi, e quindi hanno impoverito le famiglie lasciandole senza investimenti, costringendole alla bancarotta e a non poter mandare avanti le proprie aziende, anche a causa della devastante bolletta elettrica. Peraltro questa è aumentata a dismisura a causa delle rinnovabili speculative, volute soprattutto da questa Europa assassina.
E a questo punto - molto in avanti verso il disastro TOTALE, ben oltre quello del 2008 - chi ci va a rimettere sono soprattutto i cittadini/imprenditori impoveriti gradualmente negli ultimi 25 anni, destinati a rimanere senza casa/terra, magari ad opera finale di sfortunati carabinieri, ovvero agricoltori/allevatori che sono arrivati al gesto estremo, fino alla tragedia della morte dei poveri 3 carabinieri recentemente e addirittura con 25 feriti del tutto innocenti. Migliaia di cittadini stanno in queste condizioni... attenzione!
A questo punto dell'evoluzione mondiale di tipo nazi-sionista-finanziaria speculativa, ho già detto in un precedente articolo quello che bisogna fare: una legge universale che impegni sia i ragazzi di destra che di sinistra a creare un nuovo mondo più giusto, equilibrato e meno genocida.
Ed intanto che questa rivoluzione va avanti, nell'immediato si può risolvere la situazione innanzitutto non comprando i loro prodotti, togliendo i soldi dalle LORO BANCHE con la nascita di rinnovate casse rurali etiche, attivando un monitoraggio attento delle aste giudiziarie, con l'abolizione di queste nel giro di breve tramite un'apposito Decreto Legge urgente, per fare in modo che un bene/terreno da 100.000 € non venga deprezzato addirittura di 5 volte per essere venduto agli "amici degli amici" magari a 20.000 €, tramite società immobiliari bancarie, che con una mano tolgono i prestiti agli agricoltori/imprenditori e con l'altra ricomprano il bene dietro l'angolo a prezzi irrisori, speculativi, immorali e lo rivendono al loro prezzo originale.... maggiorato.
E questo avviene soprattutto in Italia...il BEL PAESE nel mondo: monitoreremo tutto questo.
Da qualche giorno, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri ha intrapreso una crociata mediatica contro la Regione Lazio, accusandola di voler bloccare la circolazione dei veicoli nel Comune di Roma. Un messaggio ripetuto ovunque, dai comunicati alle interviste, come se la Regione fosse il nuovo “nemico del popolo”. Ma, al netto degli slogan, la verità è un’altra: nessuno in Regione vuole bloccare la città. Gualtieri, invece di governare, ha preferito costruire un comodo capro espiatorio per coprire le proprie mancanze. È la solita storia: quando mancano i risultati, si cerca un colpevole altrove.
E così il sindaco della Capitale, invece di affrontare con serietà il problema della mobilità, racconta bugie, e lo fa con quella disinvoltura che ormai è diventata cifra stilistica della sua amministrazione. Nel vecchio Piano della qualità dell’aria, firmato da Zingaretti e applicato da Gualtieri, l’articolo 21 prevedeva la possibilità di istituire nuove ZTL e introdurre il sistema “Move-In”, un pedaggio urbano che avrebbe obbligato i cittadini a pagare per circolare nella propria città. Con l’arrivo della giunta Rocca, quella impostazione è stata completamente ribaltata: il nuovo piano vieta qualsiasi forma di pagamento per la circolazione. All’articolo 24, invece, si prevedeva un blocco totale dei veicoli fino a Euro 4 benzina ed Euro 5 diesel, senza proroghe oltre novembre 2025. Anche qui, la Regione è intervenuta per aprire la possibilità di rinvii, dando fiato ai cittadini. E allora perché Gualtieri continua a gridare al complotto? Perché gli serve un nemico politico da usare come scudo mediatico.
Intanto, i dati dicono altro che la qualità dell’aria a Roma è migliorata da cinque anni consecutivi. E qui entra in gioco un punto spesso ignorato quello della CO₂, che non dipende solo dalle auto. Infatti, durante il giorno gli alberi, a foglia larga, con la fotosintesi clorofilliana, assorbono anidride carbonica ed emettono ossigeno, ma di notte, senza luce solare, il processo si inverte, e le piante rilasciano CO₂ nell’atmosfera. È un processo naturale, non industriale, e incide sensibilmente sulle rilevazioni ambientali, specialmente nelle ore serali. A questo va aggiunto un altro fattore, troppo spesso trascurato che in autunno, quando gli alberi perdono le foglie, la fotosintesi clorofilliana si riduce quasi del tutto. Peraltro, meno fotosintesi significa meno ossigeno prodotto e, di conseguenza, una concentrazione più elevata di CO₂ nell’aria, non per colpa del traffico, ma per effetto diretto dei cicli naturali. È infatti paradossale che proprio nei mesi autunnali, quando la vegetazione “riposa”, vengano pubblicati i dati più allarmistici sulla qualità dell’aria urbana. Bloccare i veicoli, peraltro, non è la soluzione esatta. Occorre una politica ambientale basata sui dati reali e stagionali, e non sulle ideologie. Servono trasporti pubblici che funzionino davvero e non nuove tasse mascherate da misure ecologiche. Roma non ha bisogno di divieti irrazionali, ma di una visione concreta e onesta con meno slogan, e più fatti. Perché la verità è semplice, l’aria di Roma migliora nonostante l’amministrazione e non grazie ad essa. E se il sindaco Gualtieri smettesse di suonare la grancassa della propaganda ed iniziasse veramente a lavorare, forse, Roma respirerebbe un’aria non solo più pulita, ma anche più libera.
Sono passati due anni esatti dagli attentati che il 7 ottobre 2023 hanno colpito Israele, lasciando una scia di sangue e terrore difficile da dimenticare. Il mondo si è fermato, l’Europa ha osservato, spesso con il fiato corto e il coraggio dimezzato. Ma mentre la diplomazia ufficiale arrancava, la pace è arrivata, o almeno un fragile accordo, grazie ad un attore inaspettato: Donald Trump. È stato lui, con una mediazione silenziosa, ma decisa, a riportare le parti a un tavolo, spiazzando analisti e benpensanti. Una pace concreta, non imposta dalle piazze o dai proclami, ma costruita con la forza della realtà. E, intanto, in Italia, ci si è persi tra le macerie di una protesta senza visione. Mentre a Doha si firmavano accordi, qui si lanciavano slogan e sassi. Le vetrine rotte nelle città italiane non hanno fermato alcuna guerra, ma hanno messo a dura prova la convivenza civile.
La cosiddetta “Flottilla della pace”, i cortei antagonisti, e le dichiarazioni infiammate di Maurizio Landini hanno aggiunto rumore, ma non soluzioni ed invece di costruire ponti, si sono alzati muri. E a questo punto vale la pena ricordarlo chiaramente che il compito di un sindacato è quello di tutelare i lavoratori, difendere i diritti, migliorare le condizioni nei luoghi di lavoro e non trasformarsi in un partito mascherato, pronto a sindacare ogni mossa del Governo come se fosse un’opposizione politica alternativa. Un sindacato “vero” non si schiera nei giochi di potere, ma resta accanto ai lavoratori, senza agende ideologiche e senza incitare alla ribellione sociale fine a sé stessa. Ecco perché, oggi più che mai, le parole che Oriana Fallaci scrisse su Panorama il 18 aprile 2002 suonano come un colpo alla coscienza collettiva.
Parole che parlavano di libertà, di indifferenza e di pericoli che si annidano nel silenzio colpevole delle società democratiche. Allora molti le giudicarono estreme, ma oggi, a distanza di oltre vent’anni, si rivelano semplicemente lucide. Fallaci non si limitava a commentare, ma avvertiva. Ci chiamava a non ignorare ciò che stava cambiando sotto i nostri occhi. E se oggi l’Italia è attraversata da un senso di smarrimento, da una politica sempre più gridata e da un’informazione polarizzata, è proprio perché troppo spesso si è scelto di non ascoltare. Di ridicolizzare chi invitava alla vigilanza, di confondere la militanza con la rabbia, la protesta con il vandalismo e la critica con il sabotaggio. Oriana Fallaci ci ha lasciato una lezione scomoda, ma fondamentale, che la libertà non si difende con i cortei che devastano le città, né con i sindacati trasformati in tribune ideologiche, ma si difende con la coerenza, il pensiero critico e il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, e senza ambiguità, e senza paura. E se oggi il mondo è un po’ più vicino alla pace, non è merito di chi ha alzato la voce per farsi notare, ma di chi ha avuto la forza di agire in silenzio e con determinazione. Anche questo, in fondo, è un messaggio che la Fallaci avrebbe approvato.
Con un solo voto di scarto, il Parlamento Europeo ha deciso di mantenere l’immunità parlamentare a Ilaria Salis, eurodeputata accusata in Ungheria di gravi reati. Un voto risicato, ma dal peso politico enorme. Ancora una volta, Bruxelles invia un segnale che divide: quello di un’istituzione pronta a difendere la propria struttura più che i principi di giustizia che dice di rappresentare. La decisione arriva in un clima già teso, in cui la fiducia dei cittadini europei verso le istituzioni è ai minimi storici. Eppure, bastano sessanta secondi di votazione per far riaffiorare il sospetto che a prevalere non sia il diritto, ma la politica delle convenienze. Un solo voto, uno soltanto, ha salvato Salis dal rischio di dover rispondere subito davanti ai giudici ungheresi. E quel voto, simbolicamente, pesa come un macigno sull’immagine stessa del Parlamento di Strasburgo.
Certo, la questione non è semplice. Il caso Salis è delicato, intrecciato a diritti civili, garanzie processuali e rapporti complicati con il governo Orbán. Tuttavia ciò che lascia l’amaro in bocca è la sensazione che l’immunità sia diventata uno scudo politico, più che una tutela democratica. Una protezione concessa non per difendere un principio, ma per salvare un simbolo utile a certi equilibri di potere. Il Parlamento europeo appare sempre più come un luogo autoreferenziale, dove le decisioni vengono prese lontano dai cittadini, dai loro problemi reali e dalla loro idea di giustizia. Si parla di “Europa dei valori”, ma questi valori sembrano valere solo quando conviene. Peraltro, invece, di dare un segnale di fermezza, di trasparenza e di responsabilità, prevale il calcolo.
E la distanza tra Bruxelles e la gente comune cresce ancora di più. Molti in Italia, e non solo, si chiedono cosa resti oggi della sovranità morale di un’Europa che difende se stessa, ma non sempre difende i principi che proclama. La vicenda Salis non è solo un fatto giudiziario, ma un termometro politico e simbolico. Misura quanto le istituzioni europee siano ormai percepite come un sistema chiuso, poco disposto a rendere conto, protetto da privilegi e procedure. Non è un invito all’uscita dall’Unione, ma una richiesta di verità. Di trasparenza, di coerenza e di coraggio. Perché se l’Europa vuole restare credibile, deve saper dimostrare che nessuno, nemmeno un suo rappresentante, è al di sopra della Legge. Altrimenti, a furia di proteggere se stessa, rischia di perdere ciò che la fonda: la fiducia dei cittadini. Forse è arrivato il momento di dirlo con chiarezza che serve un’Europa con la schiena dritta e capace di guardare in faccia i propri errori. Perché un solo voto può salvare un politico, ma può anche condannare un’istituzione intera alla perdita della propria credibilità.
La Calabria ha scelto la continuità. Con oltre il 57% dei voti, secondo le ultime proiezioni, Roberto Occhiuto si riconferma presidente della Regione, rafforzando la posizione di Forza Italia e dell’intera coalizione di centrodestra. Una vittoria netta, che va oltre le aspettative e che segna un punto fermo nel panorama politico del Sud Italia. Dalle prime ore successive allo spoglio, il clima nel quartier generale di Occhiuto è stato di entusiasmo e gratitudine. I vertici di Forza Italia parlano di un successo costruito “sulla concretezza e sulla vicinanza ai cittadini”. Per il partito fondato da Silvio Berlusconi, il risultato calabrese assume un valore simbolico e politico insieme: conferma la capacità di governare territori complessi con pragmatismo e continuità, in un momento in cui il centrodestra punta a consolidare il proprio radicamento nel Mezzogiorno. “È la vittoria di una Calabria che cresce, che guarda al futuro con fiducia”, ha dichiarato Occhiuto a caldo. “Abbiamo lavorato per risolvere problemi reali, dall’acqua alla sanità, e continueremo a farlo con serietà e senso di responsabilità”. Parole che tracciano la linea per il nuovo mandato: stabilità, infrastrutture, sviluppo e dialogo con le istituzioni nazionali ed europee.
Nel campo opposto, il centrosinistra riconosce il verdetto delle urne ma apre una riflessione profonda. “Il risultato di Occhiuto è chiaro e va rispettato,” affermano alcuni esponenti del Partito Democratico, “ma non possiamo ignorare il dato dell’astensione.” L’affluenza, ancora una volta bassa, conferma una distanza crescente tra cittadini e politica. È su questo terreno, dicono, che l’opposizione dovrà ricostruire la propria credibilità, puntando su proposte concrete e su un linguaggio più vicino alle persone. Il tema dell’unità del centrosinistra torna così al centro del dibattito. Le divisioni interne, la difficoltà nel presentare un fronte coeso e una leadership riconosciuta hanno pesato in maniera evidente sulla campagna elettorale.
Alcuni osservatori sottolineano come la Calabria, regione spesso laboratorio politico, abbia invece ribadito l’importanza del radicamento territoriale e della presenza costante tra la gente, elementi che hanno favorito la riconferma del governatore uscente. Sul piano nazionale, la vittoria di Occhiuto viene letta come un segnale positivo per il centrodestra, che rafforza la propria posizione nelle regioni meridionali e può rivendicare la stabilità dei propri amministratori locali. Forza Italia, in particolare, esce da questa tornata elettorale con un rinnovato slancio: un segnale incoraggiante in vista dei prossimi appuntamenti politici, a partire dalle europee. La Calabria, dunque, resta terreno di confronto ma anche di speranza. Dietro i numeri e le percentuali, resta la sfida più grande: trasformare la fiducia degli elettori in risultati concreti, mantenendo fede alle promesse di sviluppo, lavoro e servizi. Perché, al di là dei colori politici, ciò che i calabresi chiedono è semplice: una regione che funzioni, che ascolti e che finalmente cresca.
Roma sta cambiando volto, ma non nel modo che molti cittadini speravano. Le nuove politiche urbane del Campidoglio, tra “città a 15 minuti”, ZTL ampliate e parcheggi sempre più cari, vengono presentate come passi avanti verso una metropoli moderna e sostenibile. Tuttavia, dietro la facciata ecologista, cresce la sensazione che la Capitale stia imboccando una strada che rischia di comprimere la libertà individuale invece di ampliarla. Le recenti scelte della Giunta comunale mostrano una visione che, più che liberare, tende a imbrigliare. Le strisce blu si moltiplicano, le zone a traffico limitato si estendono, i progetti “green” proliferano, ma la domanda nasce spontanea: chi ne trae davvero beneficio? Non sembra il cittadino comune, quello che ogni giorno attraversa la città per lavorare, accompagnare i figli a scuola o raggiungere un parente anziano. La tanto celebrata “città a 15 minuti” promette prossimità e servizi a portata di mano, ma nella pratica rischia di trasformarsi in una gabbia urbana. L’idea che ogni abitante debba vivere e lavorare entro confini prestabiliti, spostandosi il meno possibile, contrasta con la natura stessa di Roma: una città aperta, vasta, storicamente legata alla mobilità e agli scambi. E dietro il linguaggio della sostenibilità si intravede una forma di controllo sociale mascherata da innovazione ecologica. Limitare la circolazione, aumentare i costi di sosta, restringere gli accessi e tutto questo non favorisce la vita cittadina, ma la complica. Le conseguenze si vedono già.
I negozi di quartiere soffrono, gli artigiani faticano, le famiglie con redditi medi o bassi si trovano sempre più isolate. Peraltro, molti anziani, che dipendono dall’auto per spostarsi, sono di fatto esclusi da intere aree urbane. E a guadagnarci, spesso, sono solo le grandi catene e i progetti immobiliari che si adattano con facilità alle nuove regole. Nessuno mette in dubbio l’importanza dell’ambiente o della riduzione dell’inquinamento (peraltro, ci sarà sempre), ma una politica ecologica efficace deve partire dalle persone, non dai divieti. Servono trasporti pubblici efficienti e non solo restrizioni, ma incentivi concreti per chi adotta comportamenti sostenibili, e non sanzioni continue. Roma non ha bisogno di nuove tasse travestite da “scelte verdi”, ma di un piano urbano che coniughi libertà e responsabilità. La Capitale merita un modello di mobilità equo e realistico, che tenga conto della complessità sociale e territoriale del suo tessuto. La sostenibilità non può significare esclusione ed innovazione non può coincidere con le imposizioni. Roma deve tornare a essere una città per tutti, non solo per chi può permettersi di adattarsi alle nuove regole. Una città viva, libera, accessibile e dove l’ecologia non sia un pretesto, ma una scelta condivisa.
Perché Roma, più di ogni altra, ha bisogno di respirare e non solo in senso ambientale. Ha bisogno di tornare libera!
La fine della CGIL, o quantomeno la fine della sua funzione storica, sembra ormai un fatto compiuto. Il sindacato che un tempo incarnava la voce del lavoro e dei lavoratori italiani, oggi appare come un attore politico smarrito, impegnato più a lanciare proclami che a difendere concretamente i diritti di chi lavora. Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, ha abbandonato il terreno economico e contrattuale per spostarsi su quello ideologico e simbolico, trasformando il sindacato in un soggetto politico di opposizione al governo, più che in uno strumento di rappresentanza sociale. Il recente sciopero “per Gaza” ne è l’ennesima dimostrazione: un gesto tanto mediatico quanto sterile, che penalizza milioni di lavoratori e cittadini senza produrre alcun effetto reale sulla drammatica situazione in Medio Oriente. Dietro la facciata della solidarietà internazionale, si nasconde l’incapacità di affrontare le vere emergenze del lavoro italiano nella precarietà cronica, nel lavoro nero, nella mancanza di tutele nelle piccole imprese e nella desertificazione industriale. È difficile non vedere, in questa metamorfosi, il segno di una crisi strutturale. La CGIL è ormai un sindacato di pensionati, con un corpo militante sempre più anziano e sempre meno presente nei luoghi dove il conflitto sociale è più acceso.
I giovani, i precari, gli autonomi, i lavoratori della logistica e dei servizi digitali, non si riconoscono più in una struttura novecentesca che parla un linguaggio distante dalla realtà contemporanea. La contrattazione collettiva si indebolisce, mentre il sindacato preferisce lo scontro politico alle soluzioni pragmatiche. Landini, da tempo, cerca visibilità attraverso battaglie simboliche e dichiarazioni roboanti. Ha recentemente accusato il presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni di non portare rispetto “a chi paga le tasse e lavora”. Ma il rispetto, semmai, dovrebbe pretenderlo chi, quei lavoratori, li rappresenta con onestà e coerenza, non chi, ne piega la causa a fini di propaganda.
La retorica del “noi contro loro”, governo contro popolo, padroni contro operai, appartiene ai nostalgici di un’altra epoca. Oggi servirebbero strumenti nuovi, idee nuove ed una vera politica del lavoro capace di interpretare la complessità del mercato globale. Invece, la CGIL continua a inseguire fantasmi ideologici e piazze rabbiose, strizzando l’occhio ai soliti facinorosi che trasformano ogni manifestazione in una prova di forza. E a pagare, puntualmente, sono i cittadini: pendolari bloccati, scuole chiuse, servizi paralizzati. Il tutto in nome di un internazionalismo d’accatto che non aiuta né i lavoratori italiani né la popolazione di Gaza. Così muore un sindacato: non per mancanza di iscritti, ma per mancanza di senso. La CGIL, ridotta ad una eco lontana di se stessa, sembra ormai più interessata a fare opposizione politica che a negoziare contratti. E mentre Landini arringa le piazze, il mondo del lavoro reale, frammentato, precario ed invisibile, resta senza voce.
Erano dicono 300.000 persone oggi 3 ottobre 2025, in piazza, partendo dal presidio eroico di Piazza Gaza, rinominata così la Stazione Termini a Roma, in uno sciopero paradossalmente indetto anche dalla CGIL sulla questione Palestina-Gaza; ovvero una CGIL che quando gli fa comodo si accoda al piccolo e coraggioso sindacato USB (Unione Sindacato di Base), soprattutto perché solo quest'ultimo sembra che avesse rispettato i tempi per indire lo sciopero stesso, mentre la CGIL non lo aveva fatto. E questa cariatide di sinistra, spesso silente sui veri temi costituzionali, si è accodata in cerca di giovani consensi, soprattutto avendo capito che i ragazzi di "sinistra" in piazza, per la maggior parte, certo non votano più PD e quindi la CGIL ha bisogno di rifocillare le proprie file ormai anziane con dei nuovi ragazzi e ragazze giovani. Si, i giovani... spesso anche loro silenti quando è stata violata la Costituzione in tempi recenti! Ne ho già parlato in un altro articolo (https://www.flipnews.org/index.php/life-styles-2/technology-3/item/4591-ma-tutti-questi-ragazzetti-progressisti-giusti-su-gaza-dove-erano-e-sono-sui-vaccini-killer-o-sul-5g-una-cronaca-dalla-festa-de-il-fatto-quotidiano-a-roma.html ).
Si sono però ora "messi in gioco" i ragazzi e per la prima volta ho apprezzato oggi le parole di Monica Maggioni a #farwest, su Rai 3 in serata, che ha proprio detto: "... questi ragazzi si sono messi in gioco...non sono rimasti a casa...".
Ora questi ragazzi, che supportano una flottiglia di circa 500 attivisti da circa 50 paesi in navigazione ed in arrivo a Gaza sono schermiti e definiti "terroristi" dallo squallido ministro israeliano Smotrich, che li ha illegalmente incarcerati, partendo da acque internazionali, che per il "diritto internazionale" (ormai morto per mano occidentale!) erano invece libere ed inviolabili.
Adesso questi ragazzi, prevalentemente etichettati "a sinistra", certo più a sinistra dell'"anziana CGIL", devono urgentemente sedersi a tavolino, in una serie di almeno 20 assemblee aperte a tema, con i ragazzi "di destra", ovvero quella simil-destra, tanto diversa da quella di potere, ovvero una "destra" giovanile sovranista e democratica. Ragazzi non etichettati "a sinistra", che invece sono scesi in piazza ben prima di loro, fin dal 2020, quando con tutta la pseudo-pandemia in corso, orchestrata dal Deep-State, presuntivamente con sede simil-sionista alla City di Londra, sono stati iniettati con un siero sperimentale ignoto, proveniente da un brevetto militare, prodotto in fretta per centinaia di milioni di persone nel mondo. Tra esse ancora dopo 5 anni, molte sono morte o con effetti collaterali devastanti o lentamente indebolite nel loro quadro immunitario.
Dove era allora la CGIL come sindacato mentre i lavoratori venivano sospesi dal posto di lavoro se non si inoculavano? Dov'era anche la USB? Noi del "gruppo di controllo incontaminato" resistente, in piazza, tra i sindacati abbiamo visto solo quelli della FISI, quelli del SINDACATO D'AZIONE (con sede principale a Parma) e quelli delle valorose forze dell'ordine del sindacato OSA "incontaminato", ora impegnati ad aiutare i colleghi "fregati" per eccesso di senso del dovere omertoso. Siano tutti risarciti!
Ora basta però! Si faccia amnistia sugli errori del passato ed i giovani "di destra" e "di sinistra", colorati, allegri, coraggiosi, vivi, etici, lungimiranti, dialoganti, critici, danzanti, festosi, si uniscano in un'unica forza democratica e sovranista, ovvero di una Italia libera ed in mano al Popolo Sovrano, come citato dalla Costituzione.
Non esiste più "destra" e "sinistra', ma esiste un "SOPRA" (Finanza speculativa, suprematismo, militarismo sionista contro ebrei-cristiani-palestinesi ecc..., giornalisti prezzolati, medici al soldo della Big-Pharma e quanto altro) ed esiste un "SOTTO" (giovani precari, donne sottopagate, pre-pensionati coraggiosi che perdono il lavoro per le denunce fatte nella pubblica amministrazione, come whistleblower, piccoli sindacati coraggiosi, partite IVA vessate, giornalisti non prezzolati, medici con in mente solo il Giuramento di Ippocrate, etc...).
Mai più si costruiscano decine di bio laboratori militari di livello 3 o 4 che producono la morte, con sieri sperimentali, zanzare killer, armi ad energia diretta, geoingegneria top-secret, 5G killer, alberi tagliati per far posto alle loro onde elettromagnetiche inutili alla telefonia o quant'altro: saranno tutti portati in galera o al silenzio come membri del mondo di "SOPRA" e prevarrà per sempre il Popolo Sovrano di "SOTTO", in un mondo multipolare in evoluzione rapida.
Basterà una sola nuova Legge Universale per tutti gli Stati aderenti all’ONU, compresa la neo-Palestina sovrana vicino al vecchio primordiale Israele laico e con veri ebrei pacifici, come prima del 1917.
Cari vecchi giornalisti a questi giovani di "destra" e di "sinistra" ormai non li fregate più: sono un fluido in ebollizione che scorre come una lava che seppellirà tutta la "vecchia rogna".
Nel cuore delle istituzioni europee, tra corridoi parlamentari e think tank specializzati, si muove da anni una rete che lavora con discrezione ma grande efficacia: quella dei gruppi di pressione filo-israeliani. Non si tratta di un tema relegato a teorie complottistiche, ma di un dato politico che emerge chiaramente dalle attività pubbliche e dai registri ufficiali delle lobby. Dal 2005, a Bruxelles opera l’AJC Transatlantic Institute (TAI), filiale europea dell’American Jewish Committee, una delle organizzazioni ebraiche più influenti degli Stati Uniti. Con un budget di circa 700 mila euro l’anno, provenienti da un’associazione madre dal patrimonio miliardario, il TAI si è dato una missione dichiaratamente politica: rafforzare i rapporti tra Europa, Israele e Stati Uniti, promuovere valori democratici e contrastare l’antisemitismo. Alla guida, oggi, c’è Benedetta Buttiglione, figlia dell’ex leader democristiano Rocco Buttiglione. Uno degli strumenti più efficaci è la rete dei Transatlantic Friends of Israel (TFI), gruppo interparlamentare che raccoglie 148 deputati ed eurodeputati, 33 dei quali italiani. Dal 2009, la TFI ha costruito legami trasversali che vanno da Fratelli d’Italia al Partito Democratico, passando per Forza Italia, Italia Viva e Azione. Nel febbraio 2024, in piena crisi a Gaza, lo stesso gruppo organizzava al Senato una tavola rotonda per celebrare i 75 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Israele: un segnale di sostegno bipartisan che non è passato inosservato.
Tra i nomi più attivi spiccano Marco Scurria (FdI), presidente della sezione italiana, Mariastella Gelmini (Azione), Stefania Craxi (FI) ed Enrico Borghi (IV). In Europa, invece, un ruolo di primo piano è quello di Fulvio Martusciello (FI), a lungo presidente del Comitato UE-Israele. Nonostante in passato sia finito al centro di controversie legate a rapporti con lobbisti indagati, è stato riconfermato nel 2024 capo delegazione di Forza Italia con oltre centomila preferenze personali. Un capitolo a parte merita l’attuale ministro degli Esteri Antonio Tajani. Già nel 2007 figurava tra i promotori della European Friends of Israel, organizzazione che allora contava più di mille parlamentari. Da commissario europeo ha spinto per una forte integrazione economica e tecnologica con Israele: basti pensare che tra il 2000 e il 2011 le importazioni europee da Tel Aviv sono più che raddoppiate, arrivando a 17,6 miliardi di euro. Tajani ha inoltre favorito la partecipazione israeliana a programmi strategici come Copernicus per la navigazione satellitare e i progetti UE sulla sicurezza, dove Israele è oggi il partner non europeo più attivo. Dalla cooperazione industriale alle conferenze internazionali – come la Go4Europe del 2011, in cui Tajani condivise il palco con esponenti del governo israeliano e grandi fondi d’investimento – emerge con chiarezza come l’asse tra Bruxelles, Roma e Tel Aviv non sia un fenomeno episodico, ma un dato strutturale della politica europea. La narrativa ufficiale parla di valori condivisi e alleanza contro minacce comuni, ma dietro questo linguaggio istituzionale c’è anche la concretezza di interessi economici, tecnologici e militari. L’attività delle lobby filo-israeliane, trasparente nei registri ufficiali e visibile negli eventi pubblici, solleva così una domanda che va oltre le simpatie politiche: “…quanto pesa realmente Israele nelle scelte delle istituzioni europee e nazionali?…”
La polizia sotto assedio alla stazione di Milano Centrale |
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È degenerata in violenza la manifestazione pro-Palestina tenutasi ieri nei pressi della stazione centrale di Milano. Un corteo partito con intenti dichiaratamente pacifici si è trasformato in una vera e propria guerriglia urbana. Il bilancio parla chiaro con oltre 10 manifestanti fermati, 60 agenti delle Forze dell’Ordine feriti, danni a infrastrutture pubbliche con pesanti disagi nel trasporto ferroviario e locale. Una scena che ha lasciato sgomento il Paese e scatenato immediate reazioni politiche. Le immagini di scontri e devastazioni sono rimbalzate sui media nazionali, suscitando la ferma condanna del premier Giorgia Meloni asserendo: “Quanto accaduto a Milano è indegno di un Paese civile. Nessuna causa giustifica la violenza. Mi aspetto una condanna unanime”. Il vicepremier Antonio Tajani ha parlato di “violenza deprecabile” e ha sottolineato che “strumentalizzare il conflitto in Medio Oriente per attaccare le istituzioni italiane è irresponsabile e pericoloso”. Anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha denunciato la “preparazione deliberata di un attacco contro la Polizia”, ipotizzando una regìa organizzata dietro i disordini. Il vicepremier Matteo Salvini è andato oltre, proponendo una misura drastica: “D’ora in poi chi organizza cortei dovrà versare una cauzione. Basta tollerare che pochi delinquenti mettano a ferro e fuoco le città”. Dalle prime ricostruzioni, pare che parte dei manifestanti più violenti sia riconducibile a realtà antagoniste ben note sul territorio milanese, in particolare al centro sociale Leoncavallo, da anni crocevia di frange estremiste ed incubatore di proteste radicalizzate. Peraltro, non è la prima volta che simili ambienti fungono da base logistica ed ideologica per manifestazioni sfociate in scontri con le Forze dell’Ordine. Il clima che si respira attorno a queste realtà è tutt’altro che pacifico, e spesso agisce da detonatore per tensioni premeditate.
Anche il confronto con quanto accaduto in altre città d’Italia negli ultimi giorni, si evince il carattere straordinariamente violento dell’evento milanese. Nelle città di Roma, di Bologna, di Torino e di Napoli, infatti, le manifestazioni pro-Palestina si sono svolte con toni accesi ma, salvo episodi isolati, senza degenerare in scontri organizzati. Anche nei casi di blocchi stradali e contestazioni pubbliche, il dialogo con le Forze dell’Ordine ha evitato l’escalation, dimostrando che è possibile manifestare senza trasformare le città in campi di battaglia. Milano, al contrario, è diventata il simbolo di un degrado militante che prende in ostaggio le piazze per obiettivi politici oscuri, ben lontani da qualunque istanza di solidarietà internazionale. Dal centrosinistra, la segretaria del PD Elly Schlein ha preso le distanze dalla violenza, dichiarando che “…i fatti di Milano sono gravi e mai giustificabili…”.
Ma le reazioni dell’opposizione non sono bastate a smorzare le polemiche, soprattutto dopo le dichiarazioni ambigue del Movimento 5 Stelle: “Noi stiamo dalla parte di chi è sceso in piazza”, ha dichiarato un esponente grillino, scatenando un’ondata di critiche. Nel caos del dibattito, emerge anche la posizione discutibile di alcuni sindacati, in particolare l’USB, che nelle ore successive agli scontri ha difeso i manifestanti, accusando il Governo di “repressione autoritaria”. Una presa di posizione che richiama vecchie retoriche e crea un clima pericolosamente simile a quello alimentato storicamente dai sindacati della cosiddetta “triplice”, oggi apparentemente più silenziosi, ma già pronti, secondo alcuni osservatori dell’Intelligence e della Digos, a cavalcare l’onda del dissenso per scopi politici. Le critiche verso l’esecutivo sembrano, infatti, più mirate a destabilizzare l’attuale maggioranza che a difendere i diritti concreti. In un momento in cui servirebbe responsabilità e moderazione, alcuni sindacati preferiscono gettare benzina sul fuoco. Secondo me, siamo lontani dall’essere un atto isolato e quello di Milano sembra inserirsi in una strategia più ampia di pressione contro il Governo, fatta di tensioni create ad arte, rivendicazioni pretestuose ed una narrazione tossica. Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, pur vicino a certe istanze, ha preso le distanze dagli eccessi: “Il vandalismo non aiuta la causa palestinese e chi trasforma le piazze in teatri di scontro danneggia tutti”. Nel frattempo, i cittadini hanno pagato il prezzo più alto con i trasporti pubblici paralizzati, i treni in ritardo o cancellati ed una città nel caos. È il momento che Istituzioni, forze politiche e sociali, ma soprattutto i sindacati, facciano un passo indietro e restituiscano alla protesta il suo valore autentico, lontano da derive violente e strumentalizzazioni.