L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Politics (380)

    Carlotta Caldonazzo

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July 06, 2021

Il  webinar  dedicato alla discussione sul Mediterraneo e sulle possibili direzioni da intraprendere per la costituzione di una Pax Mediterranea è stato organizzato e organizzato da Vision & Global Trends – International Institute of Global Analyses, in collaborazione con la Scuola degli Studi Internazionali dell'Università di Trento . Il Webinar è stato condotto dal Dott. Tiberio Graziani, Chairman di Vision & Global Trends e moderatore dell'incontro, il quale ha commentato acutamente le presentazioni dei relatori, esprimendo posizioni e considerazioni personali legato ai temi esposti.

Paolo Bargiacchi – professore ordinario di Diritto Internazionale all'Università degli Studi di Enna “Kore” e docente di Diritto internazionale ed Europeo della Sicurezza presso la Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia del Ministero dell'Interno – apre la discussione focalizzandosi sulle sfide del diritto internazionale nella costruzione della stabilità mediterranea. Seguendo un approccio prettamente giuridico, egli rimarca la presenza di alcune richieste europee, essenziali nella loro presa in considerazione per la costruzione di una Pax Mediterranea. In modo particolare, si sofferma sulla necessità da parte dell'Unione Europea di esaminare nuovamente alcuni valori fondamentali sui quali essa è fondata. Eccellente esempio per avvalorare tale tesi è la problematica immigratoria che permea le acque del Mediterraneo: vi è, negli ultimi tempi, un mutamento ed ampliamento della tutela dei valori fondamentali dell'uomo, con norme ad applicazione molto più estese (extra-territoriale) e fondate sulla “giurisdizione situazionale.” Tale mutamento porta necessariamente alla necessità di una ridiscussione del concetto di “protezione internazionale” e, di conseguenza, dei diritti stessi dell'uomo. Secondo il Prof. Paolo Bargiacchi, questa revisione si rivela essere una delle principali sfide che i governi europei affrontare nel prossimo futuro: una questione oltre che giuridica di ricalibro delle priorità, che azione basilare la ride dei valori principi dell'Unione Europea, adattandoli a contest situazionali contemporanei prima della stesura di nuove norme atte alla risoluzione di problematiche correnti come, per l'appunto,

L'incontro prosegue con un'accurata contestualizzazione geopolitica del Mediterraneo e del ruolo dell'Europa nel quadro della sicurezza mediterranea a cura dell'Ammiraglio Fabio Agostini – Comandante dell'operazione EUNAVFOR MED SOPHIA nel 2020 e attualmente Comandante dell'operazione EUNAVFOR MED IRINI. L'Ammiraglio sottolinea la centralità del Mediterraneo come crocevia economico e bacino di maggior interesse per la sicurezza e la stabilità nel più ampio scenario internazionale. Esso è un punto d'incontro tra Europa, Nordafrica e Asia occidentale, tre continenti con diversità politiche, economiche, culturali e religiose, che molto frequentemente diventano miccia di conflitto. Il Mediterraneo è un'area ambita anche da attori non regionali – come Cina, Russia, Turchia e Stati Uniti – con mire di espansionismo di influenza e perseguimento di interessi nazionali. La sua sicurezza, quindi, pare cruciale in quello che l'Ammira definisce il “Giardino di casa” del Fronte sud-europeo e della Nato. Da qui l'importanza dell'attivismo dell'Unione Europea attraverso operazioni, prima EUNAVFOR MED SOPHIA (2020) e ora EUNAVFOR MED IRINI (2021), atte al mantenimento della stabilità e della sicurezza nell'ampio Mediterraneo e, più forte, in territorio libico, essendo la Libia il fulcro delle problematiche dell'area mediterranea nell'ultimo conferimento. Pertanto, vi è uno sforzo europeo coeso e sinergico su diversi fronti – economico, militare, umanitario e diplomatico – utile sia nel garantire sicurezza, sia nello sviluppo di “finestre di opportunità”. Riguardante tali finestre di opportunità, un disaccordo tra il relatore e il moderatore emerge a proposito dell'amministrazione Biden. A differenza dell'Ammiraglio Fabio Agostini, ma anche del Prof. Pejman Abdolmohammadi, il Dott. Tiberio Graziani non l'amministrazione americana come un'opportunità di alleanza sfruttabile nuova che, nonostante il Mediterraneo rappresenti un elemento di relativa importanza per il presidente americano, egli sembrerebbe più concentrato sulla relazione del contezioso cinese e, molto probabilmente, anche russo.

In breve, stabilità e sicurezza rappresentano due obiettivi chiave per la creazione di una Pax Mediterranea. Vi è, tuttavia, un terzo elemento – la cultura – non di minor rilevanza. Una Pax Mediterranea, infatti, necessita di trovare un punto di equilibrio tra i popoli che abitano il Mediterraneo e i quali condividono diversi valori. Per far ciò, oltre che a riadattare i valori occidentali, una profonda conoscenza geostorica e geoculturale dell’altro diventa inderogabile.

A tal proposito, il contributo di Pejman Abdolmohammadi – professore di Storia e Politica del Medio Oriente presso la Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento e Ricercatore Associato dell’Istituto Italiano di Politica Estera (ISPI) – sull’Italia e la diplomazia culturale nel Mediterraneo diventa rilevante.

Per poter discutere nuovamente alcuni valori fondamentali dell’Unione Europea nel contesto contemporaneo cruciale è non rimanere intrappolati nei modelli teorici; interessante riflessione condivisa sia dal Prof. Nicola Melis, sia dal Dott. Tiberio Graziani. Concentrandosi sulla teoria della modernizzazione di Samuel P. Huntington, il Prof. Pejman Abdolmohammadi ribadisce la frequenza con la quale personalità governative e istituzionali rimangono soggiogate da modelli teorici che non consentono di ampliare le personali visioni e di migliorare la politica corrente.

Egli definisce la modernizzazione come un fenomeno multidimensionale, composto da una modernizzazione economica, politica e culturale. Allo stesso modo, anche il potere non è univoco, ma articolato in diverse fonti di potere: economico, militare e simbolico. Quest’ultimo aspetto viene spesso ignorato a causa dell’impossibilità della sua misurazione; tuttavia, essenziale nel contesto della diplomazia culturale. La diplomazia culturale viene definita come “bacini comuni e elementi di rispetto reciproco e riconoscenza;” cosa che, negli ultimi anni, in Europa è sostanzialmente diminuita. Secondo il Prof. Pejman Abdolmohammadi, la diplomazia culturale diventa elemento cruciale per la creazione di una Pax Mediterranea, in quanto lo studio e la comprensione di culture differenti consente di trovare punti d’accordo e amicizia con altri attori – nella fattispecie mediterranei -, instaurando un equilibrio tra diversi valori.

In tale ambito l’Italia, a parere del professore, potrebbe svolgere un ruolo principe nel riportare in auge la diplomazia culturale nell’area mediterranea grazie all’inesistenza di una narrativa di colonialismo legata al paese, a differenza di altre nazioni europee, la quale, assieme all’impronta positiva lasciata nel corso della storia, consente all’Italia di costruire legami di fiducia tra i diversi attori del Mediterraneo.

L’essenzialità della cultura per la creazione di una Pax Mediterranea e la diffidenza nei confronti di modelli teorici, viene reiterata anche da Nicola Melis – professore associato dell’Università di Cagliari, esperto di storia dell’Impero Ottomano e docente presso l’Università di Cagliari di Storia e Istituzioni dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente e di Storia e Istituzioni dell’Africa – con la sua presentazione intitolata: Conoscenza geopolitica e religiosa in prospettiva storica. Il Prof. Nicola Melis sottolinea come, a suo parere, la Pax Mediterranea dovrebbe fondarsi sullo spirito della Dichiarazione di Barcellona o Partenariato euromediterraneo (1995), permeata da una forte impronta culturale esplicitata dal “rafforzamento del dialogo politico e sulla sicurezza e la cooperazione economica, finanziaria, sociale e culturale” tra i diversi attori mediterranei. Tale impronta culturale, come enfatizzato anche dal Prof. Pejman Abdolmohammadi, viene spesso tradita dai paesi europei, i quali risultano essere eccessivamente legati ai modelli teorici. Evidenza di tale affermazione è l’immagine corrente del mondo musulmano. Riprendendo le teorie di Samuel P. Huntington, con un focus sulla teoria dello scontro delle civiltà, il Prof. Nicola Melis espone come il mondo musulmano sia oggi considerato come una comunità compatta con comunanze etico-culturali, politiche e geopolitiche. In realtà, esistono diversi mondi musulmani, così come diversi mondi arabi, caratterizzati sì da comunanze – esempio il fattore religioso – ma anche da altrettante diversità. Questa erronea immagine viene concepita alla fine del XIX secolo, durante l’epoca imperialista, quando vi è una ripresa geopolitica da parte dei popoli europei del modello darwiniano delle civiltà. Un modello che si traduce in gerarchie di civiltà e che vede l’Europa come portatrice di progresso e, pertanto, superiore rispetto alle altre civiltà. L’immagine della civiltà musulmana viene successivamente imposta e diffusa alle altre popolazioni mediterranee, riadattandosi a contesti geopolitici differenti e creando quindi modelli astorici. Ritorna prepotente perciò l’idea che si debba dubitare dei modelli teorici perché costruiti per specifici momenti storici e necessità geopolitiche che sono differenti da quelle contemporanee. È necessario, quindi, per poter costruire una Pax Mediterranea rivedere i valori occidentali, riscoprire la cultura dei popoli e creare nuove norme pertinenti con l’attuale scenario geopolitico.

July 05, 2021

IL 7 LUGLIO, DATA SIMBOLICA, AL CENTRO DI UNA MOBILITAZIONE INTERNAZIONALE, POSSIAMO PRESENTARE UNA PROPOSTA DI LEGGE PER LA RATIFICA DEL TPAN?

Care e cari amici, che rappresentate il popolo alla Camera dei deputati in consapevole obbedienza ad una Costituzione che ripudia la guerra.

Dal nostro punto di vista di attiviste e attivisti ecopacifisti che guardano ad un mondo multipolare fondato sulla forza del diritto internazionale, nel potenziamento dell'ordinamento ONU, ci sembra molto importante che ci rivolgiamo a voi, firmatari dell'ICAN Pledge: speriamo di trovare presso di voi orecchie particolarmente attente e sensibili per quanto ora vi veniamo esponendo e proponendo di concreto, nell'ottica ideale di chi, come Papa Francesco, ritiene "immorale", oltre che illegale, lo stesso possesso delle armi nucleari.

Consideriamo una data simbolico-politica importante l'anniversario della adozione, con il voto di 122 Stati, del Trattato di proibizione delle armi nucleari (TPAN – TPNW in lingua inglese), da parte di una conferenza ONU, avvenuta appunto il 7 luglio 2017 al Palazzo di Vetro di New York.

La società civile lo ribadiamo ancora, ha partecipato a quei lavori (anche chi vi scrive era presente di persona): un ruolo riconosciuto che ha permesso alla International Campaign to Abol Nuclear Weapons (ICAN) di cui, come Disarmisti Esigenti e WILPF Italia, facciamo parte, di ricevere il Premio Nobel per la Pace 2017.

Anche Sardegna Pulita è della partita in quanto soggetto aderente alla coalizione dei Disarmisti esigenti.

Il 22 gennaio del 2021, dopo la 50esima ratifica da parte di uno Stato, il bando delle armi nucleari proclamato a New York è valutazione in vigore: la nostra è che in questo modo può ricevere impulso un percorso che, riferendosi all'articolo VI del Trattato di non proliferazione, conduca dalla proibizione giuridica all'eliminazione effettiva degli ordini nucleari.

In tutto il mondo la Rete ICAN sotto questa scadenza del 7 luglio si mobilita: anche dall'Italia possiamo dare il nostro contributo perché il nostro Paese riveda le sue posizioni ed entrate nella schiera degli aderenti, nonostante i diktat provenienti dai vertici NATO, l' ultimo del 14 giugno scorso; ed in ogni caso cerchi di giocare un ruolo attivo per fare leva sul TPNW con lo scopo anche di aprire nuovi negoziati disarmo, a partire dall'esigenza prioritaria di evitare la guerra nucleare per errore.

Vi proponiamo di avanzare un passo piccolo ma effettivo per rilanciare l'attenzione di tutto il Parlamento sulla problematica del disarmo nucleare, dimenticata proprio nel momento in cui, ben oltre l'ammodernamento delle B-61, rischiamo di vedere installa nuovi euromissili in Europa ( il Trattato INF è stato disdetto!).

Questo avverrebbe se riusciste a presentare formalmente, magari proprio in questa data simbolica del 7 luglio, una proposta di legge per la ratifica del TPAN*, ( vedi testo redatto dalla IALANA sotto riportato).

Questo vostro gesto istituzionale - la presentazione di una proposta di legge sulla base del testo redatto da IALANA, potrebbe essere accompagnato da una conferenza stampa da tenere, norme antiCOVID permettendo nei locali della Camera dei deputati, invitandoci a presenziare come pacifisti che promuovono la campagna .

Vi informiamo che la presidente al Senato del Gruppo Misto, Loredana De Petris, si è impegnata al Senato a presentare un DDL in questo senso, anche se non si è pronunciata ancora per una scadenza precisa.

La ripresa di interesse nel dibattito pubblico sul disarmo nucleare sì, per vari motivi, realisticamente potrebbe non sortire immediatamente la ratifica del trattato che chiedere. Ma, come risultato subordinato da non scartare, potrebbe comunque convincere il governo italiano ad assumere quella che chiamiamo la “posizione belga” (più avanti da noi spiegata): una delegazione diplomatica italiana, guidata dal Ministro degli Esteri, come “Paese osservatore” potrebbe andare alla prima conferenza degli Stati, attualmente 54, che hanno già ratificato questa norma internazionale contro le armi nucleari e che si terrà a Vienna nel gennaio del 2022.

L'Italia allora nonbbe formalmente subito al bando; ma nemmeno si collocherebbe tra i Paesi che sparano a palle incatenate contro!

(Detto tra noi, forse la denuclearizzazione è la più concreta ed efficace per produrre oggettive che portino a una crisi dell'anacronistico schieramento per blocchi militari).

Attrezziamoci, allora, e diamoci da fare insieme per dare fiato allo schieramento sempre più ampio che, in Europa, presta orecchio all'opinione pubblica che non intende vivere sotto la spada di Damocle nucleare e sprecare risorse economiche per la follia suicida della “deterrenza” !

Saluti con stima augurandoci di intraprendere un proficuo lavoro comune

 

Alfonso Navarra - Disarmisti esigenti 

Antonia Sani e Patrizia Sterpetti - WILPF Italia 

Ennio Cabiddu - Sardegna pulita - 

* DISEGNO DI LEGGE

Arte. 1. (Ratifica del Trattato). 1. Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare il “trattato delle Nazioni Unite relativa al divieto delle armi nucleari”, approvato dalla Conferenza ONU svoltasi a New York il 7 luglio 2017.

Arte. 2. (Ordine di esecuzione). 2. Piena ed intera esecuzione è data al trattato a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, in conformità a quanto previsto dall'articolo 15 del trattato stesso.

Arte. 3. (Entrata in vigore). 3. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

 

June 07, 2021

il libro è a cura del Prof. Pejman Abdolmohammadi (PhD) – professore di Storia e Politica del Medio Oriente presso la Scuola di Studi Internazionali dell'Università di Trento e Ricercatore Associato dell'Istituto Italiano di Politica Internazionale (ISPI) – e del Prof Giampiero Cama – professore ordinario all'Università degli Studi di Genova, dove insegna Relazioni Internazionali e Scienza Politica   –.

Lo scopo dell'opera è quello di esaminare la politica interna ed estera dell'Iran, evidenziando il suo ruolo strategico nel Medio Oriente e la sua identità libro complesso e contraddittoria tra tradizione e modernità. L'Iran ha il potenziale per svolgere un ruolo cruciale nella stabilità del Medio Oriente per una serie di ragioni. In primo luogo, l'Iran ha un potenziale significativo per agire come mediatore e ponte tra il Medio Oriente e l'Occidente grazie alla sua posizione geografica strategica, essendo situato tra il Mar Caspio e il Golfo Persico, tra l'Asia el' Europa . In secondo luogo, l'Iran è una delle maggiori potenze mediorientali in termini di risorse economiche e militari.La sua politica estera e il processo decisionale strategico potrebbe essere gli equilibri di potere nella regione. In terzo luogo, in quanto principale stato islamico sciita in Medio Oriente, l'Iran svolge un ruolo importante nelle risorse simboliche e può di conseguenza un'influenza significativa nelle aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti. A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante.influenza importanti in aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti. A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. influenza importanti in aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti.A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. influenza importanti in aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti.A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. influenza importanti in aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti.A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. influenza importanti in aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti.A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. influenza importanti in aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti.A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante.

A livello interno, l'Iran rappresenta un importante laboratorio di innovazioni politiche e di modernizzazione, che in alcune occasioni hanno ispirato movimenti e trasformazioni anche in altre parti della regione. Alcune di queste trasformazioni hanno portato alla democratizzazione e alla liberalizzazione, mentre altre hanno visto l'adozione di nuovi modelli di sistemi autoritari. Ad esempio, la rivoluzione costituzionale iraniana del 1906 {Enghelab-e Mashrouteh) ha rappresentato uno dei primi movimenti sorti dalla base e ha chiesto la liberalizzazione dei sistemi politici in Medio Oriente. Un altro esempio è la rivoluzione islamica del 1979, che ha rappresentato un punto di svolta per tutti i paesi islamici, e può essere paragonata alla rivoluzione russa del 1917.

La Repubblica islamica è diventata una fonte di stimolo e di speranza per molti movimenti politici islamisti. Nel 2009, è stato il Movimento Verde iraniano a scatenare la prima grande protesta pubblica da parte dei giovani in Medio Oriente vista nel ventunesimo secolo. Una nuova generazione iraniana ha chiesto più democrazia, laicità e libertà, utilizzando la tecnologia moderna, in particolare i social media come Twitter e Facebook e la comunicazione satellitare; questo ha in parte ispirato il movimento della "primavera araba" in altre parti della regione. Anche se il Movimento Verde è stato represso, ha presentato le nuove generazioni iraniane come tra le più progressiste del Medio Oriente. È possibile sostenere che nella reazione e nella critica all'uso politico dell'Islam si siano viste in Iran le prime tracce di sostegno a una società post-islamista in Medio Oriente. Il paese stato stato uno dei primi paesi del Medio Oriente a istituire un moderno islamico nel, ma dopo quattro decenni ha iniziato a frequentare una scuola tendenze post-isla, volte a promuovere valori più laici. Per comprendere più in profondità queste tendenze, è importante e rilevante esaminare la società iraniana e le interazioni tra diversi gruppi sociali e culturali all'interno della Repubblica islamica. Questi sviluppi in corso in Iran sono in contrasto con le principali tendenze in molti altri paesi del Medio Oriente. Turchia, Qatar, Marocco e Yemen stanno promuovendo, sia pure con interpretazioni diverse, l'ascesa dell'islam politico.Questo libro ha adottato un approccio multidisciplinare.

 

Politiche interne ed estere contemporanee dell'Iran
Abdolmohammadi, P. & Cama, G.

May 26, 2021

Il comando biblico “Crescete e moltiplicatevi” potrebbe portare l'umanità al punto di non ritorno. Il conseguente pericolo di questo assunto biblico dimostra che nessun principio, nessuna dottrina, nulla di ciò che viene sancito nei testi religiosi, come in ogni legge laica, ha valore imperituro.

Durante l'anno zero, cioè la nascita di Cristo, la popolazione mondiale era di 350 milioni di anime. Si calcola che nel 1800 la popolazione fosse di 700 milioni e che nel giro di un trentennio sia aumenta di un terzo fino a raggiunge un miliardo di unità nel 1830. Un secolo dopo sulla terra si contano 2 miliardi di esseri umani e nel 1975 4 miliardi . Oggi, 2021, la popolazione mondiale è di circa 7,8 miliardi di persone e si prevede che un fine secolo sarà di 100 miliardi. Ma molto prima sarà superato il numero

massimo di esseri umani tollerato dal pianeta.

Thomas Robert Malthus all'inizio dell'800 già affermava che se la moltiplicazione del genere umano non fosse stata regolata sarebbe stata causa di carestie e fame nel mondo ed il motivo della sua stessa rovina.

Anche se l'incremento demografico venisse arrestato e la fertilità umana diminuisse, la tendenza all'affollamento rimarrebbe. Alcuni esperti sono concordi nell'affermare che anche riuscendo a stabilizzare le nascite a livello zero (uguale a quello dei decessi) la popolazione mondiale raggiungerebbe ugualmente 16 miliardi di individui prima di una assestamento definitivo, cioè il doppio della popolazione attuale.

Se in un ascensore per capienza di 4 persone ne entrano 8 tra i gli occupanti si manifestano segni di insofferenza, di ansia, di paura e qualunque incidente degenera in aggressività. Allo stesso modo, se una tavola è imbandita per nutrire 10 persone, a mano a mano che si aggiungono nuovi commensali le porzioni diventano sempre più piccole e quando l'esigua porzione non è più sufficiente a sfamare nessuno dei presenti, si manifestano azioni di forza e di violenza secondo la legge mors tua vita mea. Questo è quanto succederà al genere umano se responsabilmente non si impegnerà a contenere l'incremento demografico.

Il maschio supremo dell'uomo sta nella sua indifferenza verso gli effetti che hanno prodotto le scelte individuali. Mettere al mondo un essere, per realizzare se stesi o appagare il proprio desiderio di essere genitori, è puro egoismo.

Anche quando la procreazione è concepita per la gioia di avere un figlio da amare, è sempre l'egoismo che ci muove. La sola cosa che può giustificare la messa al mondo di un nuovo essere è l'amore per la vita, la volontà di chiamare un nuovo essere al bene dell'esistenza, la volontà di dare al mondo un elemento armonico e positivo per il bene di tutti; non per propria soddisfazione, non per assicurare a se stessi la propria discendenza, non per avere sostegno nella fase della vecchiaia, nè per lasciare il proprio patrimonio  finanziario o immobiliare, ma nell’intento di contribuire a rendere migliore questo mondo.

Donare la vita è l'esperienza più meravigliosa dell'universo (e nello stesso tempo più pericolosa e drammatica), per questo è grande la responsabilità verso chi (forse) non chiede di esistere.

La realtà antropologica mostra che quanto più una popolazione vive nella povertà e nell'ignoranza tanto più tende a moltiplicarsi, mentre quanto più c'è civiltà e benessere economico più si restringe il numero dei componenti familiari. Ma tutto è interconnesso e solo da una volontà politica generale intesa a favorire la prosperità e la cultura anche delle popolazioni indigenti può nascere il vero piano di contenimento delle nascite e scongiurare inquietanti prospettive future.

May 19, 2021

Le aggressioni israeliane in corso nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, contestuali alla brutale repressione delle proteste dei cittadini israeliani arabi, mostrano i limiti degli accordi Abramo, che avevano di fatto estromesso la questione palestinese dalla diplomazia; intanto, l’esercitazione a guida USA Defender-Europe, quest’anno particolarmente imponente, aumenta le tensioni con la Russia, aprendo un fronte tra i Balcani, il Mar Nero e l’Asia centrale; sul piano interno, nelle “democrazie neo-liberali” l’emergenza sanitaria globale ha favorito una militarizzazione progressiva delle società, e non solo per via della terminologia caratteristica della narrazione della pandemia

Dejà-vu?

Il riaccendersi del conflitto israelo-palestinese è in apparenza un déja-vu geopolitico. Lancio di razzi dalla Striscia di Gaza, reazione sproporzionata e aggressiva dell’esercito israeliano, i soliti vani inviti della comunità internazionale alla cessazione delle ostilità. In realtà, sono almeno tre gli elementi nuovi di questa crisi: il primo è l’apertura, per Tel Aviv, di un fronte interno in diverse città finora caratterizzate dalla coesistenza pacifica tra arabi ed ebrei, sia pure fondata sulla disponibilità dei primi di godere dei pochi benefici sociali che si potevano trarre da una cittadinanza di serie b. Ora, le proteste mostrano una maggior intraprendenza civile e politica delle giovani generazioni di cittadini arabi dello Stato di Israele, per i quali la crisi sociale innescata dall’emergenza Covid-19 ha solo aggravato una condizione di oppressione già dominata dall’espansionismo dei coloni israeliani e da espulsioni ed espropri forzati. Dinamiche consolidate, negli ultimi quattro anni, dall’ex presidente USA Donald Trump e, soprattutto, dal suo alto consigliere per il Medio Oriente, il genero Jared Kushner. Uomo d’affari del settore immobiliare, storico sostenitore delle campagne elettorali dei democratici, nel 2016 cambiò bandiera, sostenendo l’elezione del suocero sia dal punto di vista finanziario, sia con una febbrile attività di marketing politico attraverso le reti sociali.

Tra Tehran e Ankara: il pendolo di Washington

Premiato con una nomina di profonda sensibilità strategica, Kushner è stato dunque l’artefice della politica mediorientale dell’amministrazione Trump, riassumibile nella linea della massima pressione sull’Iran (fino alle pretese di un cambiamento di regime), mediante il ritiro di Washington dagli accordi denominati Piano di azione congiunto globale (JCPOA) e la creazione di un solido e agguerrito fronte anti-iraniano che aveva tra i suoi pilastri il premier israeliano Benyamin Netanyahu, l’Egitto di Mohamed Abd-al-Fattah a-Sissi e le petro-monarchie del Consiglio di cooperazione del Golfo (ai cui regimi la diplomazia petrolifera frutta sempre meno), in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Un fronte consolidato dagli accordi di Abramo, che hanno favorito l’instaurarsi di una cooperazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Ne è rimasta fuori, invece, l’Arabia Saudita, che, da un lato preferisce non contrariare l’opinione pubblica in gran parte filo-palestinese, dall’altro non ha alcuna necessità di aumentare o rivedere il suo rapporto di collaborazione con Tel Aviv. Gli Accordi di Abramo, insieme ad altri accordi bilaterali di normalizzazione tra Israele, Egitto e Sudan, hanno stabilito un assetto geopolitico diverso da quelli nei quali si erano inserite le precedenti aggressioni israeliane contro i territori palestinesi, in particolare nella Striscia di Gaza. Il secondo elemento nuovo del conflitto in corso, è, appunto, il quadro geopolitico stabilito da questa rete di accordi, che hanno coinvolto, lo scorso anno, anche la Serbia (storicamente alleata del popolo palestinese) e il Kosovo, primo paese musulmano (il cui statuto, peraltro, non è unanimemente riconosciuto dalla comunità internazionale) ad aver aperto un’ambasciata a Gerusalemme.

Un’altra eredità dell’era Kushner, è infatti il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e dal conseguente trasferimento delle sedi diplomatiche dalla capitale amministrativa. Una mossa che ha estromesso la questione palestinese dal dominio della diplomazia, legittimando implicitamente la colonizzazione israeliana e favorendo, così, l’ascesa delle forze politiche più intransigenti. Complessivamente, dunque, durante i quattro anni di mandato di Trump, Washington ha adottato la linea dura nei confronti di Tehran, lasciando, di contro, che gli altri attori regionali, Turchia, Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, accrescessero il proprio peso geopolitico. Al contrario, l’amministrazione di Barack Obama era caratterizzata da un approccio più costruttivo nei confronti dell’Iran, ma più diffidente nei confronti di Ankara. Lo stesso approccio, almeno finora, adottato dall’attuale inquilino della Casa Bianca, con il quale Kushner, nell’editoriale del Wall Street Journal del 14 maggio, si è congratulato per l’astuzia strategica della sua decisione di riaprire il dialogo con l’Iran. In altri termini, quelle che sembrano virate strategiche altro non sono che strumenti per portare avanti la stessa strategia, tipica degli USA in Medio Oriente (e non solo), divenuta particolarmente evidente a partire dalla guerra del Golfo del 1990 e delle sue devastanti conseguenze. Una sua variante, osservabile nell’ex sfera di influenza sovietica, risponde al principio (simile, ma calato in un approccio più interventista da parte di Washington) per cui gli alleati di oggi sono quelli che bombarderemo domani.

Movimenti di truppe tra Oriente e Occidente

In generale, nell’ultimo mese, si sono acuiti gli attriti tra potenze mondiali e regionali nelle zone di maggior frizione tra Russia e Stati Uniti. Meno interessata al fronte mediorientale, Mosca guarda infatti con inquietudine lo svolgimento in corso di Defender-Europe 21, l’esercitazione militare annuale congiunta, condotta dalle forze armate USA in coordinazione con i paesi partner della regione, non necessariamente appartenenti all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico Nord (NATO). Le operazioni previste quest’anno interessano 16 paesi e coinvolgeranno un totale di 28 mila soldati. Tra i paesi partecipanti figurano, a titolo di esempio, l’Italia e il Kosovo, mentre tra le aree maggiormente interessate (dall’esercitazione principale e da altre ad essa correlate) ci sono i Balcani, il Mar Nero, il Baltico e il Maghreb. Per descrivere la portata di questo pantagruelico apparato, la cui grandiosità spicca sullo sfondo del disastro sociale provocato dall’emergenza sanitaria, il generale statunitense Tod Walters, a capo del comando USA in Europa, ha citato il D-Day, lo sbarco degli anglo-americani in Normandia nel 1944. I sospetti russi riguardano in particolar modo due delle regioni che ospiteranno le operazioni: i Balcani, zona di attrito tra Russia e USA dagli anni ‘90 del secolo scorso, e il Mar Nero. Quest’ultimo costituisce per Mosca una minaccia di non poco conto, soprattutto considerando la concomitanza temporale di Defender-Europe 21 con altri due fatti. Primo, il recente riacuirsi, in aprile, del conflitto russo-ucraino, che ha indotto Mosca a schierare truppe vicino al confine con l’Ucraina. Secondo, il progetto folle di Kanal İstanbul, il nuovo canale sul Bosforo, annunciato dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan nel 2011. I lavori, ha dichiarato lo stesso Erdoğan, inizieranno l’estate prossima e si concluderanno, prevedibilmente, nel 2028.

Un nuovo fronte sul Mar Nero?

A parte le mire neo-ottomane di Erdoğan, Mosca guarda con inquietudine a questi sviluppi, in particolare da quando si sono acuite le tensioni con l’Ucraina. Queste ultime, infatti, hanno fatto riemergere la questione storica della Crimea, e più in generale del Mar Nero, che da secoli costituisce un fronte caldo tra Russia e Turchia. Infatti, lo scorso gennaio, il presidente turco ha dichiarato che il nuovo canale non sarà vincolato ai termini della Convenzione di Montreux, firmata nel 1936 da Francia, Bulgaria, Grecia, Romania, Jugoslavia, Turchia, Regno Unito, Unione Sovietica, Giappone e Australia per regolamentare il transito di navi da guerra attraverso gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, la cui gestione fu affidata alla Turchia. Il trattato prevede, in tempo di pace, la libera circolazione delle imbarcazioni civili e restrizioni per le navi da guerra dei paesiche non si affacciano sul Mar Nero. Norme, quindi, che garantiscono la sicurezza non solo della Russia, ma anche della stessa Turchia: escludere Kanal İstanbul dalla giurisdizione della convenzione di Montreux sarebbe dunque un azzardo, soprattutto con la crisi delle relazioni russo-ucraine non ancora risolta. Ankara, infatti, si è schierata con Kiev, muovendo un ulteriore passo verso il deterioramento delle relazioni con Mosca, già messe a dura prova dal conflitto libico (nel quale le due potenze sono rivali).

C’è il rischio di un cesarismo regressivo

Contro il progetto folle di Erdoğan, si sono espressi, all’inizio di aprile, anche 104 ammiragli turchi in pensione, con una dichiarazione pubblica firmata costata a dieci di loro l’arresto con l’accusa di “attentato all’ordine costituzionale”. Le loro critiche, secondo il presidente turco, sono “allusioni a un golpe”, anche se la loro posizione è simile a quella manifestata qualche giorno prima da 126 ambasciatori: la Convenzione di Montreux protegge gli interessi turchi. L’arresto dei dieci ammiragli sarebbe, pertanto, l’ennesimo atto dello scontro tra Erdoğan e i militari kemalisti (laici), oppure il tentativo di Ankara di gestire gli equilibri tra le componenti del suo stato profondo, in particolare tra quella più allineata con la NATO e quella cosiddetta “eurasiatica”, cui appartiene Cem Gurdeniz, uno dei militari fermati e l’ideologo della teoria della “Patria blu” (Mavi Vatan).

È forse possibile che la militarizzazione della narrazione (e, in alcuni paesi, della gestione) dell’emergenza sanitaria, diffusa attraverso l’omnipervasiva Rete (in particolare mediante le reti sociali), abbia mutato la percezione che le opinioni pubbliche delle democrazie neoliberali hanno delle guerre vere e proprie e degli apparati militari? Sarebbe prematuro dirlo, ma in due paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Francia e USA, le forze armate hanno recentemente, per così dire, esortato i rispettivi presidenti a prendere le redini delle rispettive società, prima che le tensioni sociali diventino incontrollabili senza l’indispensabile intervento degli eserciti. In Francia, peraltro, l’appello firmato da 20 generali in pensione conteneva il riferimento a un potenziale di pericolo nelle minoranze musulmane. Inoltre, vale la pena osservare che il testo è stato  pubblicato dal settimanale di destra Valeurs actuelles lo scorso 21 aprile, anniversario del tentato golpe messo in atto ad Algeri contro il generale Charles De Gaulle. Negli USA, invece, più di 100 generali in pensione hanno indirizzato una lettera aperta al presidente Biden, accusandolo di cercare di instaurare “una forma marxista di governo tirannico”. Due episodi che, se isolati, dimostrano l’emergere di forze (nelle società civili e negli apparati istituzionali) che guadagnano consensi strumentalizzando il timore e la collera di tessuti sociali dissestati dalla tirannide del mercato. E degli imperi.

April 21, 2021

A pochi giorni dalle elezioni presidenziali in Albania, tra le tensioni tra Russia e Stati Uniti e il nuovo pericoloso riemergere della questione kosovara, le indiscrezioni su un documento non ufficiale che il presidente del governo sloveno Janez Janša avrebbe inviato al presidente del Consiglio europeo Charles Michel per la ridefinizione dei confini dei Balcani hanno destato preoccupazioni nella regione; Washington, dopo aver tentato di rinvigorire in Asia il Dialogo quadrilaterale per la sicurezza, si prepara dunque ad affrontare Mosca su due fronti: Balcani e Mar Nero; con l’incognita (almeno apparente) di Ankara

Non esiste alcun documento ufficiale che preveda la dissoluzione della Bosnia ed Erzegovnia (BiH). Questa la sostanza delle rassicurazioni che, lo scorso 16 aprile, il presidente del governo sloveno Janez Janša ha rivolto a Šefik Džaferović, esponente bosniaco della presidenza della Repubblica di Bosnia ed Erzegovnia. Durante lo stesso colloquio telefonico, Janša ha espresso il suo sostegno alla sovranità, all’integrità territoriale e al cammino euro-atlantico bosniaci, nel rispetto degli accordi di Dayton del 1995. Nondimeno, il non-documento (1) diplomatico non-ufficiale diffuso qualche giorno prima dai siti di informazione sloveni politicki.ba e necenzurirano.si, ha suscitato interrogativi e timori, per almeno due ordini di motivi: la mancanza di una reazione univoca da parte delle istituzioni europee ufficiali e il fatto che il prossimo primo luglio sarà Ljubljana ad assumere la presidenza del consiglio dell’Unione europea. Secca (benché tardiva), invece, è stata la smentita da parte di Janša, secondo il quale la Slovenia sta veramente cercando soluzioni per lo sviluppo della regione e per la sua integrazione nell’Unione europea (UE), ma che queste affermazioni cercano di impedire tale obiettivo. Negli stessi giorni, il membro croato della Presidenza bosniaca Željko Komšić ha convocato l’ambasciatrice slovena a Sarajevo, ricordando che il presidente della Repubblica sloveno Borut Pahor, durante la visita dello scorso marzo, aveva domandato ai tre componenti della Presidenza bosniaca un parere su una possibile separazione pacifica del territorio, ricevendo un parere positivo solo dal membro serbo Milorad Dodik, che successivamente ha portato la questione in parlamento. Peraltro, non è stata questa la prima volta che Ljubljana avanza l’ipotesi di una divisione della Bosnia ed Erzegovina: già nel 2010, quando era a capo del governo, Pahor inviò in Bosnia l’ex presidente della Repubblica Milan Kučan, che, una volta tornato, sottolineò l’impossibilità di dialogo tra le tre componenti, serba, croata e bosniaco-musulmana, tale da rendere preferibile una separazione consensuale a una coesistenza forzata.

Una linea simile, dunque, a quella emersa dal controverso non-documento che Janša avrebbe inviato a febbraio al presidente del Consiglio europeo Charles Michel, intitolato “Balcani occidentali, la via da seguire”: la bozza di un piano per ridisegnare su base etnica i confini della regione, che comporta l’unificazione di Albania e Kosovo (che nel 2008 ha proclamato unilateralmente la sua indipendenza, ma ancora non ha ottenuto un pieno riconoscimento internazionale, come dimostrano le ultime vicende della nazionale di calcio kosovara in Spagna - 2) e lo smembramento della Bosnia ed Erzegovina, buona parte della quale dovrebbe essere suddivisa tra Serbia e Croazia. I bosniaci in tal modo guadagneranno uno Stato che funziona in modo indipendente e se ne assumeranno la piena responsabilità. Si organizza un referendum per far scegliere il popolo tra un futuro UE o non-UE (Turchia). Si ventila, inoltre, l’ipotesi di negoziati accelerati per l’accesso dei paesi della regione nell’UE e nell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (NATO), ma nessun provvedimento verrà preso prima di aver consultato i governi per vagliarne la disponibilità a realizzare il piano, né prima di aver lanciato un programma completo di comunicazione per presentarlo. E di aver attuato un controllo silenzioso nella regione e in seno alla comunità internazionale, per accertarne la fattibilità. Nondimeno, Komšić, che ultimamente ha espresso in via ufficiale a Bruxelles i propri timori per l’integrità territoriale bosniaca, messa a rischio da ingerenze straniere, ha dichiarato di aver sentito da Pahor che nel vecchio continente si ipotizza un processo di integrazione dei Balcani occidentali nella UE che parta dal completamento della dissoluzione della Jugoslavia. D’altro canto, la scorsa settimana il presidente del Consiglio albanese Edi Rama ha confermato di aver avuto per le mani un documento non ufficiale contenente una carta con alcuni confini modificati nella regione dei Balcani occidentali. L’ho visto prima che me lo mostrasse il mio collega Janša e ne abbiamo discusso di recente, ha aggiunto Rama, precisando di aver visto anche un documento pubblico sul tema, ma di non poter rilasciare commenti al riguardo. Il che lascerebbe intendere che non si tratti di un documento sloveno, come dicono da Bruxelles.

A complicare il quadro, l’esistenza di un altro non-documento (3), firmato da Croazia, Slovenia, Ungheria, Bulgaria, Grecia e Cipro, e presentato lo scorso 22 marzo dal ministro degli Esteri Gordan Grlić Radman a Bruxelles. In esso, il partito croato di governo (Unione democratica croata, HDZ, fondata nel 1989 dal signore della guerra ed esponente nazionalista Franjo Tuđman) sostiene gli sforzi del suo omologo bosniaco, il partito fratello HDZ BiH, per modificare la legge elettorale in modo tale da assegnare una posizione di preminenza alla componente croata nel controllo dei processi legislativi e, più un generale, delle decisioni che interessano la Bosnia. In altri termini, anziché lo smembramento, il testo propone di affidare a un elemento egemone il controllo di un territorio tradizionalmente caratterizzato dal pluralismo e situato in una posizione strategica, in cui si intrecciano quasi tutte le vie commerciali in senso lato, dalle nuove vie della seta cinesi (la Belt and Road initiative, BRI), ai traffici illeciti, fino al reclutamento di mercenari. In tal modo, come in passato, si accresce l’esposizione dei Balcani (e non solo della Bosnia) alla tendenza delle potenze rivali a considerarlo come terra di conquista e teatro di conflitti per procura. Ciò priva la multietnicità del suo potenziale costruttivo, rendendo vano qualsiasi tentativo di autentica pacificazione: un meccanismo detto balcanizzazione e riprodotto mutatis mutandis in altre regioni strategiche, come l’Asia centrale (Afghanistan in testa), il Medio Oriente, il Maghreb o il Sahel. Per citare qualche esempio, si pensi in primo luogo a come queste regioni finiscano per diventare terre di nessuno, ridotte a zone di sfruttamento ambientale intensivo o a sacche di reclutamento di manodopera a basso costo (ai limiti della schiavitù) e, di conseguenza, regioni spopolate e dipendenti da paesi più ricchi. Nel giugno 2018, il mensile francese Le Monde Diplomatique ha pubblicato un reportage (4) eloquente sulla crisi democrafica che affligge i Balcani, dove, persa ogni speranza di cambiamento, alle generazioni più giovani non resta che aspirare a un lavoro all’estero, in particolare in Germania.

In secondo luogo, dopo la dissoluzione della Jugoslavia e la transizione all’economia di mercato, i Balcani si sono tristemente trasformati (secondo modalità che ricordano le tratte degli schiavi delle epoche coloniali) in un bacino di reclutamento di mercenari per vari schieramenti e sui fronti più disparati. Come nel caso dei combattenti stranieri (per lo più tra le comunità musulmane locali) per i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico. Viceversa, durante i conflitti degli anni ‘90 del secolo scorso, Bosnia e Kosovo avevano assistito a un considerevole afflusso da un lato di moudjaheddine provenienti da vari paesi accorsi a sostenere i fratelli musulmani, dall’altro di combattenti anti-musulmani, come i mercenari greci che gravitavano attorno al gruppo di estrema destra Alba Dorata (in un numero stimato tra 150 e 300 nel 1995). Nel primo caso si possono citare i 1500 (5)soprattutto Turchi, ma anche Egiziani, Algerini, Tunisini e Sudanesi, che si erano stabiliti in Bosnia anche dopo il conflitto, ottenendo la cittadinanza. Una parte non insignificante dei quattro o cinquemila moudjaheddine arabo-musulmani che, in base agli accordi di Dayton, avrebbero dovuto lasciare il paese. Una clausola comprensibile, visto che nel 1992 il loro arrivo (6) era stato gestito da organizzazioni non governative (ONG) islamiche, a partire dalla Croazia, mentre nel 1993 è avvenuta la loro integrazione nell’esercito bosniaco, ad opera del generale Rasim Delić. La loro parabola sembrava parzialmente conclusa nel 2007, quando il nemico numero uno era non più il sistema sovietico, ma il fondamentalismo islamico, e questi nuovi cittadini divennero indesiderabili. Il parlamento bosniaco adottò pertanto una legge per la revisione delle loro naturalizzazioni. Quanto ai serbo-bosniaci e ai serbi del Kosovo, uno scambio simile si è avuto con la Russia, in particolare dallo scoppio della crisi ucraina (e conseguente crisi crimea), nel 2014. Da allora, infatti, molti mercenari sono stati e sono reclutati, soprattutto in Serbia e nella Republika Srpska, da organizzazioni (7) come Kosovo Front, Balkan Cossack Army, che oltre alla remunerazione, promettono impunità e la narrazione gloriosa della fratellanza tra popoli slavi. Tanto più che molti sono stati i volontari russi partiti per i fronti balcanici a sostegno dei serbi.

Oltre alle mire di Ankara e di Mosca, a capotavola al banchetto balcanico siedono, dall’ultimo decennio del XX secolo, gli Stati Uniti, che al hard power degli interventi militari, presentati ovviamente come umanitari (in difesa della libertà e della democrazia e contro i regimi autoritari), hanno affiancato un soft power che si è tradotto soprattutto nel sostegno-controllo di organizzazioni non governative locali, spesso fondate da personalità che si lanciavano sullo scenario politico come difensori dei diritti umani e civili. Una di esse, Otpor! (“resistenza”), divenuta un importante attore politico, è stata un trampolino di lancio per Srđa Popović e Slobodan Đinović, i due fondatori del Centro per le azioni e le strategie non violente applicate (Canvas - 8), una sorta di centro di formazione che attualmente mette a disposizione i propri consulenti in una cinquantina di paesi, tra i quali la Georgia, l’Ucraina, la Bielorussia, la Russia, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Libano, l’Egitto, l’Albania e il Kosovo. Regione, quest’ultima il cui statuto innesca ancora dibattiti accesi tra chi ne riconosce l’indipendenza (117 paesi) e chi rifiuta di farlo, come la Cina, la Spagna o la Russia, il cui rappresentante, nella video-conferenza (9) sul Kosovo del Consiglio di Sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) del 13 aprile, ha chiesto, invano, che ne fosse rimossa la bandiera che campeggiava dietro il suo rappresentante, argomentando che otto paesi su quindici… non lo riconoscono come paese. Tale mancanza di riconoscimento internazionale, peraltro, lo pone al di fuori di qualsiasi giurisdizione, ivi inclusa quella del Consiglio d’Europa, il cui Comitato contro la Tortura (CPT) ha chiesto di avere accesso a Camp Bondsteel (10), base militare della NATO installata, vicino la città di Ferizaj / Uroševac, nel 1999, dai soldati statunitensi, immediatamente dopo il conflitto kosovaro. A fine 2005, l’inviato speciale del Consiglio d’Europa per i diritti umani descrisse il centro di detenzione all’interno della base come una versione ridotta di Guantanamo. Qui Washington teneva reclusi molti prigionieri catturati durante le guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq. Dopo anni di vane richieste, nel 2008 la proclamazione unilaterale di indipendenza da parte di Priština, ne ha escluso il territorio dalle competenze della Convenzione europea contro la tortura.

Questa mossa, fortemente caldeggiata dagli USA, è stato un precedente di sostegno al separatismo in quanto esercizio del diritto di autodeterminazione dei popoli: così la Russia post-sovietica del presidente Vladimir Putin ha giustificato il suo sostegno alle repubbliche georgiane separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud nel 2008, e l’annessione della Crimea nel 2014. Tuttavia, per il Kosovo sembra non ci sia nulla da fare, almeno nel breve termine, visto che sia Priština, sia Tirana negli ultimi anni hanno contato in misura crescente sul sostegno di Washington. Al punto da accettare la presenza di Camp Bondsteel o, per quanto riguarda l’Albania, da accogliere un gruppo islamico-marxista iraniano dissidente, installato fino a una decina di anni fa nella base di Ashraf in Iraq. Viceversa, le diaspore albanese e kosovara negli USA hanno accresciuto progressivamente il loro peso nei paesi di origine, fino a costituire forze politiche influenti negli scenari locali, dall’Esercito di liberazione del Kosovo fino ai nuovi democratici albanesi. Specularmente, questi gruppi rappresentano sostanzialmente gli interessi statunitensi nella regione, anzitutto conquistare il potere di alzare i toni dello scontro con Mosca e arginare le velleità neo-ottomane di Ankara, che sembra attenersi sempre meno alla linea atlantista per perseguire obiettivi propri. Il Kosovo, appunto, rappresentava, con la Bosnia, un significativo punto di appoggio nel mezzo dei Balcani occidentali. Almeno finché Priština non ha aperto una sua rappresentanza diplomatica a Gerusalemme, ottenendo così il riconoscimento da parte di Israele (117esimo paese), ma al contempo scatenando le ire della Turchia, che per mesi ha esercitato pressioni per indurre i fratelli kosovari a tornare sulla retta via. Oltretutto, il 14 aprile il ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Maliki ha inviato un appello ufficiale al Segretario generale dell’Organizzazione della conferenza islamica di interrompere le relazioni con il Kosovo. Un retaggio dell’era Trump o il preludio all’era del presidente globalista Joe Biden?

 

 

 

(1) - https://necenzurirano.si/clanek/aktualno/objavljamo-slovenski-dokument-o-razdelitvi-bih-ki-ga-isce-ves-balkan-865692

(2) - https://www.repubblica.it/sport/calcio/esteri/2021/03/31/news/spagna_kosovo_politica_indipendenza-294469124/

(3) - https://www.dw.com/hr/neslu%C5%BEbeni-papiri-prave-kaos-na-balkanu/a-57243246

(4) - https://www.monde-diplomatique.fr/2018/06/DERENS/58727

(5) - https://www.liberation.fr/planete/2007/05/17/la-bosnie-expulse-ses-moudjahidin_93331/

(6) - https://www.cairn.info/revue-strategique-2013-2-page-219.htm

(7) - https://balkaninsight.com/2021/04/16/as-ukraine-conflict-intensifies-serb-volunteers-prepare-for-battle/

(8) - https://www.monde-diplomatique.fr/2019/12/OTASEVIC/61096

(9) - https://www.lefigaro.fr/flash-actu/incident-a-l-onu-lie-au-kosovo-de-l-importance-de-l-arriere-plan-lors-des-visioconferences-20210413

(10) - https://www.theguardian.com/world/2009/jan/23/secret-prisons-closure-obama-cia

April 16, 2021

Nei primi cento giorni dall'insediamento si delineano le linee guida che una nuova amministrazione seguirà. Biden sembra voglia continuare la politica aggressiva nei confronti della Russia e dei suoi protetti, prova ne è che in Ucraina si continui ad ammassare truppe a ridosso del Dombas, territorio abitato da popolazione russa. Questa politica nei confronti di Putin, tesa forse a costruire un nemico esterno teso a deviare l'attenzione pubblica da problemi interni, ci sembra essere più una teoria propagantistica che una concreta deduzione suffragata da fatti. Ne parliamo con il Presidente della Vision & Global Trends , Istituto Internazionale di Analisi Globale, Tiberio Graziani.

 

Come spiegherebbe la decisione dell'amministrazione Biden di imporre sanzioni alla Russia subito dopo aver offerto un incontro a Putin?  Qual è il messaggio?

 

Le nuove sanzioni contro la Russia e l'espulsione dei diplomatici ci dicono che tra gli USA e la Federazione russa è in atto una guerra ibrida. L'Amministrazione Biden fa tesoro delle precedenti guerre commerciali promosse da Trump, e al ventaglio delle azioni offensive ne aggiunge nuove che investono anche il dominio della diplomazia ed altre di tipo economico-finanziario. In particolare, per quanto riguarda i diplomatici russi espulsi, il messaggio di Biden è rivolto principalmente agli alleati di Washington ai quali dice chiaramente: diffidate della diplomazia del Cremlino e dei canali diplomatici e seguite il nostro esempio. Il Regno Unito si è subito accodato all'iniziativa statunitense, il governo Johnson si è affrettato a convocare l'ambasciatore russo!

 

Si aspetta che le ultime sanzioni si traducano in un annullamento del vertice?  Quali sarebbero le conseguenze di questo?

 

Queste ultime azioni riducono, al momento, i margini delle manovre diplomatiche. Dovranno passare alcune settimane prima che si possa riparlare di un dialogo tra Biden e Putin. Settimane che Biden utilizzerà al meglio per: - consolidare i rapporti con i suoi alleati, in particolare, per quanto riguarda l'Europa, con la Germania in funzione antirussa; - amministrazioneare al centro del sistema occidentale la NATO, che l'attuale ritiene importante tassello della sua strategia in Europa orientale e nel Mediterraneo allargato.- perfezionare il sistema di sicurezza QUAD nel quadrante dell'indo-pacifico.

 

Il rapporto tra le due nazioni può ulteriormente degradarsi a seguito di questi sviluppi? Quali sono i rischi?

 

I rischi ci sono, eccome! Tuttavia, al momento mi sembra che l'opzione militare sia molto lontana. Uno scontro di tipo militare anche mediante una guerra per procura, ad esempio ai confini dell'Ucraina, non conviene a nessuno dei due contendenti.

 

Se il vertice avrà ancora luogo, quali sono le sue aspettative da un simile incontro? Potrebbe cambiare qualitativamente il rapporto tra i due leader ei loro paesi? O è probabile che sia un fallimento, viste tutte le differenze tra le due parti?

 

Non credo che si terrà a breve un summit, soprattutto non penso che gli USA cambieranno il loro approccio nei confronti della Federazione russa. Fondamentalmente i rapporti tra Washington e Mosca, come quelli tra Biden e Putin, dipendono dalle contraddizioni interne all'amministrazione USA e dalla sua difficoltà ad accettare la perdita del ruolo egemonico che Washington ha esercitato negli ultimi trent'anni. Comunque, va sottolineato che per quanto riguarda la sicurezza globale, Stati uniti e Russia hanno trovato un punto di equilibrio, volenti o nolenti che siano.

 

 

 

April 08, 2021

Manlio Dinucci analizza tutti i segnali che dimostrano l'intenzione della Nato di provocare la Russia fino al punto da generare una escalation dai risvolti imprevedibili: "Con l'arrivo di Biden alla Casa Bianca, in Siria e in Ucraina si sono subito riaccesi focolai di guerra. L'Italia non deve farsi trascinare in un conflitto senza senso contro la Russia, che non ha intenzione di minacciare nessuno "


Guerra fredda infinita o guerra fredda 2.0? Contenimento senza fine o neo-contenimento? In quali termini dovrebbe essere descritto ed esplicato l'attuale clima di scontro tra  Russia  e  Occidente : il frutto e il legato di  Euromaidan , ergo un fenomeno contingente e destinato a evaporare nel tempo, o il risveglio dal dormiveglia di un'antica ostilità?

La  realpolitik  suggerisce che non esistano rivalità imperiture, perché l'interesse per natura è prevalere sull'ideologia, ma la storia sembra provare il contrario sin dall'età delle guerre egemoniche tra Atene e Sparta per il controllo del mondo ellenico. E che fra Russia e Occidente sia guerra fredda infinita lo dimostrano secoli di rapporti conflittuali, stereotipi duri a morire e scontri egemonici in ogni parte del mondo.

Guerra fredda infinita?

Un diplomatico a stretto contatto con la Russia viene a conoscenza di un piano per il dominio globale ordinato nelle stanze dei bottoni del Cremlino. Ha urgenza di mettere su carta quanto ha saputo e di trasmettere il messaggio con urgenza alle cancellerie delle grandi potenze europee. Il contenuto della lettera è altamente confidenziale e gli argomenti trattati dall'utilizzo di chiunque venga colto a diffonderli, perciò il diplomatico chiede di rimanere anonimo: in gioco, secondo quanto si scrive, v'è il destino dell'Europa, o meglio la preservazione della sua integrità territoriale e della sua sovranità.

Il diplomatico sostiene che Mosca voglia espandersi sull'intero Vecchio Continente, infettandolo con la propria ideologia e sottomettendone i popoli, perciò chiede a chi lo legge la massima serietà: il disegno egemonico va fermato a ogni costo e v'è una sola maniera di impedirne la messa in atto, ritenuta prossima e inevitabile, cioè un'azione in contropiede. I russi, in sintesi, vanno colpiti prima che attacchino e, soprattutto, urge un loro accerchiamento contenitivo. Il suggerimento del diplomatico sarebbe stato accolto, perché i suoi timori reputati fondati, ed è così che nel 1812 avrebbe avuto inizio la campagna napoleonica di Russia.

Sorpresi che non stessimo raccontando la genesi del celebre  Lungo Telegramma  di George Kennan del 1946? Non dovreste: la storia è ciclica e tende a riproporre gli stessi eventi a cadenza regolare e periodica, un'alternanza eterna di guerre, farse e tragedie che riesce sempre e comunque a ingannare le masse. Le vicende (vere) ivi raccontate riguardano " Aperçu sur la Russie " di  Michał Sokolnicki , inoltre noto come " La volontà di Pietro il Grande ", uno dei più celebri falsi storici dell'Ottocento, nonché uno dei principali strumenti che Napoleone avrebbe impiegato per legittimare la guerra alla Russia.

Alcuni anni più tardi, nel 1828, le elezioni presidenziali degli Stati Uniti sarebbero state infiammate dallo scoppio di un Russiagate  ante litteram . La prestazione elettorale e l'immagine del presidente uscente,  John Quincy Adams , sono state danneggiate irreparabilmente da accuse diffamanti (e infondate), provenienti dai Democratici e rilanciate dalla grande stampa, inerenti la sua presunta collusione con l'impero russo. Adams, ribattezzato “il magnaccia dello zar” (familiare?), Avrebbe perduto le elezioni in favore del rivale  Andrew Jackson , uomo di punta del Partito democratico.

A sette anni di distanza da quel tesissimo e quanto mai attuale appuntamento elettorale - impregnato di un'antesignana “paura rossa” e costellato da disordini strade nelle - il pensatore  Alexis de Tocqueville  diede alle stampe un'opera senza tempo, “ La democrazia in America “, Ivi preconizzando l'eluttabilità di un futuro scontro tra Russia e Stati Uniti; due stati-civiltà, secondo lui, condannati dal destino a rivaleggiare eternamente a causa delle loro dimensioni geografiche, delle loro ambizioni globali e, soprattutto, delle loro identità intrinsecamente antipodiche.

La storia avrebbe dato rapidamente ragione a Tocqueville: nel 1853 le grandi potenze del sistema-Europa misero da parte secoli di ostilità e antagonismi nazionali unendosi in una grande coalizione avente come obiettivo l'indebolimento dell'orma russa su Balcani orientali e Mar Nero. Quell'inusuale “ bellum omnium  contra unum “, al quale partecipò anche la Casa Savoia, sarebbe passato alla storia come “guerra di Crimea” ed è considerabile, a tutti gli effetti, the precursore e ispiratore della successiva dottrina del contenimento formulata dalla presidenza Truman su suggerimento di Kennan.

Nuova guerra fredda, quindi? Historia homines docet  che quello fra Occidente e Russia sembra essere un confronto egemonico eterno. Non si tratterebbe, dunque, di una guerra fredda 2.0, e neanche di un neo-contenimento, ma del risveglio di una rivalità diluviana che, entrata in dormiveglia con la dissoluzione dell'Unione Sovietica  e proseguita in maniera silente e morbida durante l'era Bush e la prima amministrazione Obama con l'allargamento a levante dell'Alleanza Atlantica e le rivoluzioni colorate nello spazio postsovietico, ha riaperto gli occhi e le fauci a partire da Euromaidan.

Il parere dell'esperto

Per capire se fra Stati Uniti e Russia è guerra fredda 2.0, o se come crediamo noi è una “guerra fredda infinita”, e per dare una spiegazione e fornire una contestualizzazione alle  recenti dichiarazioni di Joe Biden su Vladimir Putin , abbiamo raggiunto e intervistato  Tiberio Graziani , noto politologo e presidente del think tank  Vision and Global Trends .

Dottor Graziani, che cosa ne pensa delle dichiarazioni di Biden? Siamo davanti ad una gaffe o ad una minaccia pianificata e congeniata?

Le dichiarazioni di Biden possono sembrare strane, estemporanee, persino goffe. Ma non è questo il caso. Esse esprimono da un lato la difficoltà dell'establishment statunitense che, alle prese con gravi problemi interni d'ordine sociale, economico e politico - si pensi alla questione degli scontri interetnici, alla persistenza della criminalità nelle grandi città, all'impoverimento della classe media accentuato dalla pandemia, allo sfaldamento del sistema di potere operato da Trump - reagisce distraendo l'opinione pubblica con il timore di un pericolo esterno, identificato, nel caso specifico, nella Federazione russa.La creazione del nemico esterno è un modello classico di "distrazione di massa", adottato dal potere per consolidare ed ampliare - attorno al proprio ceto dirigente - il consenso nei momenti di crisi nazionale. La scelta del pericolo russo, incarnato attualmente da Putin, risulta essere quella più facile, dopo anni di continua demonizzazione del presidente russo, attuata dai principali mezzi di comunicazione statunitensi e dei Paesi del cosiddetto “campo occidentale”. La Russia, nell'immaginario statunitense, sembra rappresentare un vero e proprio incubo che viene ciclicamente riproposto all'opinione pubblica americana: il maccartismo, l'impero del maschio di Reagan, ed ora il killer russo, tanto per fare pochi esempi.

Per un altro verso, le dichiarazioni del presidente Biden esplicitano nervosamente la profonda crisi che Washington sta attraversando, ormai da alcuni anni, riguardo al proprio ruolo nell'ambito internazionale. Si tratta di una vera e propria crisi d'identità che potrebbe sfociare in esiti disastrosi per la sicurezza mondiale. Gli Usa, abituati ad esercitare un ruolo egemone su scala mondiale da circa ottanta anni, peraltro in parte condiviso, tra alti e bassi, proprio con la Russia quando questa era sovietica, mal digeriscono la presenza di nuovi attori globali come la  Cina , la resilienza della Russia e, soprattutto, la sua riconquista di un ruolo di grande potenza dopo il collasso sovietico;una riconquista, va sottolineato, dovuta proprio alla guida di Putin e del suo gruppo di potere.

L'accusa Personale Rivolta a Putin, oltre a rientrare Nello schema classico della criminalizzazione dell'avversario politico al punto di renderlo disumano ( “ l'ho  visto negli occhi, non ha un'anima ”), sottintende almeno tre Obiettivi pratici: additare il pericolo pubblico numero uno all'attenzione dei propri connazionali e del sistema occidentale; creare fratture all'interno dei centri di potere russi tentando di isolare Putin mediante l'implementazione di sanzioni  ad hoc  contro personalità a lui vicine; strizzare l'occhio alla opposizione interna russa (è Putin il pericolo, non la Russia).

Definendo Putin un assassino e preannunciando gravi conseguenze per il presunto tentativo di interferire sull'esito elettorale delle ultime presidenziali, è possibile che Biden abbia voluto lanciare anche un messaggio agli alleati europei. Lei crede che, a parte la volontà di distrarre Valuta pubblica dai problemi domestici e di inviare un segnale premonitore su quella che sarà la politica estera dell'attuale amministrazione, dietro le accuse si celi anche una chiamata alle armi?

Quando un presidente degli Stati Uniti identifica un nemico, chiama sempre alle armi i suoi alleati. È ad un tempo una chiamata, un monito ed una sorta di test: chi non è con me è contro di me. Occorre però fare delle precisazioni. Washington, nonostante, le dichiarazioni ufficiali che si sono susseguite sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, non ha mai tuttavia, nella pratica, considerato alleati alla pari gli europei. Il caso più esemplare è dimostrato proprio dalla Nato, l'Organizzazione del trattato dell'Atlantico del Nord, che è di fatto un'alleanza militare egemonica, il cui principale ed indiscusso azionista - gli Usa - detta le regole, ovviamente a proprio ed esclusivo beneficio geostrategico, anche contro gli interessi dei propri partner.

Inoltre, l'ancora consistente interdipendenza economica euroamericana, costringe gli europei a seguire gli Usa nelle loro politiche economiche finanziarie, incluse le pratiche sanzionatorie e le guerre commerciali degli ultimi anni, anche contro i propri specifici interessi di medio e lungo periodo. Tuttavia, negli ultimi anni, alcuni Paesi europei - tra cui la  Francia  e la  Germania  - hanno, nei fatti, perseguito agende nazionali in materia di commercio ed energia molto dissonanti rispetto alle aspettative statunitensi. Il caso del progetto Nord Stream 2 , che nonostante tutto ancora procede, è un esempio di questi tentativi di autonomia dai diktat d'Oltreoceano.

Ritornando agli alleati degli Usa, ricordo che  Recep Tayyip Erdogan , presidente della  Turchia , membro della Nato, ha definito "inaccettabili" le parole di Biden rivolte contro Putin: non sempre le chiamate alle armi hanno pieno successo.

Stiamo realmente assistendo ad un ritorno della guerra fredda, come scrivono alcuni, oppure la guerra fredda non è mai terminata?

Di ritorno della Guerra Fredda se ne riparla con insistenza a partire dal 2014, cioè dall'annessione della Crimea da parte della Federazione russa. La Guerra Fredda 2.0, oltre ad essere un caso di studio, è un argomento tipico dei centri di analisi internazionali che si occupano delle relazioni russo-americane ed esprime il punto di vista di quei gruppi politici statunitensi ed europei (principalmente est-europei) che, per motivi diversi, tendono ad isolare la Federazione russa.

La retorica sulla Guerra Fredda 2.0 è un valido espediente mediatico che accompagna le attività di sensibilizzazione di centri decisionali e di vasti strati dell'opinione pubblica ai fini dell'incremento del potenziale bellico degli Usa e del posizionamento strategico di dispositivi militari occidentali, ovviamente in funzione antirussa.

In riferimento al fatto se uno stato di "guerra fredda" tra Usa e Russia perduri o meno a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, forse è meglio parlare di un confronto geopolitico di lunga durata tra una potenza terrestre ed una marittima, o talassocratica, nel nostro caso rispettivamente la Russia e gli Usa. Nella prospettiva geopolitica, il confronto tra questi due tipi di potenze è continuo.

Secondo numerosi esperti, anche statunitensi, la minaccia numero uno di Washington è rappresentata dalla Cina. Ma Biden cosa farà: si concentrerà su Pechino oppure su Mosca?

Molto probabilmente Biden sarà costretto ad adottare una strategia che alternerà momenti di contrasto alle politiche cinesi (in particolare a quelle concernenti l'espansione economica e il potenziamento dell'innovazione tecnologica) con azioni di provocazione verso la Russia, secondo una prassi ormai collaudata dal tempo delle rivoluzioni colorate.

Da   https://it.insideover.com/

March 19, 2021

Due tendenze cui si assiste nelle società dell'era delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione sono la polarizzazione e la deresponsabilizzazione nei riguardi della collettività, percepita come fonte non più di diritti, ma di vuote imposizioni; con l'aggravarsi delle diseguaglianze sociali, il culto della libertà di iniziativa individuale, diffuso dall'edonismo reaganiano, si infrange sulla realtà fisica per sublimarsi in quella virtuale / aumentata ; ma fino a che punto, e fino a quando, le due dimensioni si possono considerare distinte?

 

 

« Si sono radicalizzati in carcere! »La parola radicalizzazione , che si è spesso letta e sentita a proposito degli esecutori di attacchi rivendicati ex post dai cartelli del jihad del sedicente Stato islamico, viene usata ultimamente per identificare un qualsiasi fenomeno di polarizzazione ideologica o religiosa, come nella puntata di Presa Diretta dello scorso 4 marzo in riferimento ai seguaci italiani del movimento QAnon . Una connessione, d'altronde, da sempre istituita tra il disagio sociale, non necessariamente legato soltanto a fattori economici, e diverse forme di estremismo ideologico, di radicalismo religioso, o di condotta criminale. In altri termini, l'emarginazione, per un qualche motivo, dal corpo sociale costituisce un terreno fertile per il seme delle multiformi manifestazioni del separatismo , inteso come tendenza a considerare se stesso come parte di un gruppo separato dalla collettività, vittima di discriminazioni e bersaglio della propaganda e delle mistificazioni orchestrate da ciò che si definisce (fluidamente) come la casta al potere. Infatti, uno degli elementi comuni ai radicalismi ideologici e religiosi è la tendenza a semplificare la rappresentazione (quindi la percezione) dei rapporti tra le componenti sociali, da un lato ridotti all'antinomia tra bene e male, dall'altro ricondotti ai fondamenti metafisici dell 'identità, di natura religiosa (il divino), mistico-politica (la setta di pedofili satanisti al potere di cui parla il movimento QAnon ), o etnica (settori come quello di razza e affini).

Queste polarizzazioni di ispirazione irrazionalistica si innestano, peraltro, in un tessuto sociale dissestato da decenni di logoramento del senso di responsabilità collettiva, del quale i partiti e le organizzazioni civili della società di massa si ponevano come baluardi e propalatori. Senonché, il carattere disfunzionale dei modelli sociali imperniati sul sistema di produzione capitalista ha prodotto, e nel tempo ha esacerbato, non solo le disparità sociali legate alla proprietà privata di capitali e mezzi di produzione in assenza di reali tutele pubbliche , ma anche le dinamiche tipiche della società dei consumi. In pratica, dopo la seconda rivoluzione industriale, come il sistema della fabbrica inquadrava le classi lavoratrici delle società, così organizzazioni politiche inquadravano la società civile, mentre i mezzi di comunicazione di massa orientavano costumi e consumi. Ciò avveniva all'interno di un contesto di progressiva mercantilizzazione delle relazioni sociali, nel quale le stesse istituzioni statali hanno promosso la figura del self made mancome paradigma di emancipazione sociale, invece di favorire la costituzione di un corpo sociale solidale. Il che induce lo spirito di concorrenza dilagante nel mondo degli affari a riflettersi in una visione agonistica dei rapporti tra persone, che pone l'accento sulla competizione anziché sulla cooperazione. Analogamente, nella società di massa digitale, scaturita dalla capillare diffusione delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione (TIC) e, a partire dagli anni Duemila, dall'introduzione del web 2.0 e 3.0 , a inquadrare le collettività sono soprattutto le reti sociali virtuali , che hanno sostituito la televisione come principale mezzo sia per diffondere mode e modelli, sia per orientare i consumi.

Tale educazione al conformismo da un lato, all'ossessione del successo materiale personale dall'altro, ha prodotto così due conseguenze nefaste per il tessuto sociale. Anzitutto, la tendenza all'omologazione e all'adeguamento agli stereotipi calati ex machina prima dal pensiero unico televisivo, poi dai molti pensieri dominanti, tanto fluidi quanto dogmatici, che si fanno spazio sulle reti sociali, agevolando la capacità dei modelli trasmessidi incidere sulla dimensione relazionale concreta dell'uomo, persino sulla percezione della propria corporeità. In secondo luogo, nelle fasi di crisi economico-finanziaria, il mito dell'uomo nuovo che si arricchisce di materiale grazie alle proprie capacità e al libero mercato si è sgretolato di fronte all'impoverimento delle classi medie e alla possibilità di scalata sociale . Inoltre, mentre i modelli trasmessi dallo schermo televisivo si adattano sempre ricondurre a riferimenti concreti precisi e pressoché univoci, dai molteplici schermi e dispositivi che consentono l'accesso al webspesso non è possibile neppure, è mediocre, rintracciare le fonti. Un aspetto, quest'ultimo, che ha spianato la via alla perdita pressoché totale del senso della collettività in individui ormai privati ​​della capacità di elaborare il proprio dissenso in una prospettiva di successo a breve termine o in un progetto politico-sociale alternativo. Di conseguenza, alla frustrazione che questa privazione implica si tende a cercare uno sfogo, o meglio una sublimazione, nelle interazioni sulla Rete , dove la ricerca di visibilità è troppo spesso l'unico obiettivo della diffusione di contenuti.

L'era digitale ha dunque indotto una sovrapposizione totale tra realtà fisica e realtà virtuale, come avviene, in atto, nella realtà aumentata. Con il trasferimento di parti sempre maggiori dell'attività lavorativa e del tempo libero privato su dispositivi elettronici connessi alla Rete , dove si svolge anche la quasi totalità del dibattito politico pubblico, ognuno è la fonte di azione politica. Quest'ultima, infatti, non richiede più la gestione dello spazio fisico della piazza, ma l'abilità di manipolare lo spazio virtuale della Rete catturando l'attenzione degli utenti , suscitando l'interesse dei consumatori e istigando i componenti irrazionali della coscienza. Le possibilità sempre maggiori di pubblicare contenuti sul web e di intervenire su argomenti più disparati, a prescindere da quanto e come si è acquisito il grado di conoscenza sufficiente a con cognizione di causa, hanno dato all'individuo comune un senso di onnipotenza che ne il sogno americano aveva saputo dare. Perché sogni e illusioni, che possono infrangersi sulla realtà fisica, in quella virtuale sembrano sempre a portata di clic.

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