L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Politics (357)

    Carlotta Caldonazzo

This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

September 22, 2020

Osservando nella sua globalità i processi di digitalizzazione dei sistemi sociali e virtualizzazione progressiva della vita degli individui, dalla crisi finanziaria del 2008 alla crisi sanitaria del 2020, se ne possono scorgere non solo le ricadute socio-economiche, ma anche le trame cognitive, psicologiche e percettive dell'uomo. Tre facoltà già messe a dura prova dai cambiamenti politici e sociali degli ultimi decenni, tutti in varia misura complici della perdita di una facoltà umana essenziale: la dialettica, come strumento di confronto autentico con il sé e con l'altro.

 

L'aggravamento della crisi economica e sociale è solo il cambiamento più visibile innescato dall'emergenza sanitaria legata al Covid-19. Se in un primo momento alcuni avevano intravisto il primo passo verso una digitalizzazione accelerata delle collettività organizzate, non è soltanto perché le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione (TIC) sono state per molti l'unico strumento di socialità e di produzione (dagli acquisti tramite applicazioni mobili al telelavoro); infatti, le principali metamorfosi degli individui e delle società dipendono in gran parte dalla presenza sempre più pervasiva di queste tecnologie nella vita quotidiana degli individui, dal momento che sempre più transazioni sociali, soprattutto private, avvengono tramite reti sociali e applicazioni mobili. Ciò, verosimilmente, trasformerà la percezione che l'uomo ha di se stesso, della propria corporeità e della propria presenza, posta sempre meno in relazione con la fisicità. Intanto, resta da comprendere se la tendenza all'iperconnessione e le dipendenze da videogiochi e da internet siano una causa o un sintomo dei mutamenti che hanno interessato la sfera psichica, cognitiva ed emozionale, dell'essere umano. Riflessioni su queste ultime, infatti, sono già presenti nella letteratura, nell'arte e nella filosofia degli inizi del secolo scorso, in conseguenza dei profondi cambiamenti prodotti dalla seconda rivoluzione industriale. Forme drammatiche di sfruttamento della forza lavoro umana si sono accompagnate all'inquadramento sociale e all'affermazione del modello di società di massa, caratteristici delle società industriali.

Lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, in effetti, risale ai più antichi sistemi economici basati sulla schiavitù, dall'antico Egitto al mondo greco-romano, nel quale gli schiavi erano considerati strumenti animati, di proprietà del padrone come un altro qualsiasi degli oggetti in suo possesso, e beni da commerciare. Generalmente giustificato sulla base dei codici di guerra e delle leggi di natura, questo istituto, a quanto risulta dalle fonti in nostro possesso, non è stato contestato che da pochi intellettuali e in epoca relativamente tarda, dai sofisti greci Antifonte e Alcidamante, dal pensiero stoico e dal pensiero cristiano. Peraltro, nell'antichità, il lavoro stesso, in quanto prerogativa degli schiavi non era affatto considerato un'attività nobilitante. Profondo deve essere stato quindi lo scalpore suscitato dalla tragedia Elettra di Euripide, il cui prologo è recitato da un auturgo, ossia un contadino indipendente, che nel corso del dramma sottolinea a più riprese come la vera nobiltà non sia quella del sangue, ma quella conquistata con azioni e comportamenti giusti. La schiavitù, inoltre, è attestata sin dalle prime fonti scritte, come nel codice di Hammurabi del 1750 a.C. circa, e ancor prima nelle sepolture di età neolitica. Insomma, la schiavitù in quanto legittimazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo nacque nella stessa fase in cui, secondo il filosofo Jean-Jacques Rousseau, nacque la proprietà privata, e con essa la diseguaglianza. Tuttavia, sono le forme di schiavitù affermatesi in epoca moderna ad aver individuato un principio di legittimazione in sé sufficiente, benché eticamente insostenibile: il profitto. Argomentazioni basate sulla presunta missione civilizzatrice da parte delle società superiori a beneficio di quelle inferiori non sono che espedienti per ridurre al silenzio il richiamo cristiano all’uguaglianza di tutti gli uomini, anche laddove si affermava la superiorità di questi ultimi sugli altri animali.

Lo stesso criterio del profitto legittimò infatti le nuove forme di schiavitù imposte dal sistema economico capitalista dopo la seconda rivoluzione industriale, che legò in maniera apparentemente indissolubile il successo dei meccanismi del mercato all’organizzazione delle collettività umane come gigantesche macchine produttive, all’interno delle quali l’individuo era considerato in base al ruolo che rivestiva in tali ingranaggi. Di qui il carattere alienante e disfunzionale delle società di massa, che emerge nella letteratura, nelle arti e nelle filosofie del XX secolo. Le metamorfosi antropologiche conseguenti a simili forme di addomesticazione delle masse sono sintetizzabili nell’identificazione tra posizione lavorativa e status sociale da un lato, e identità personale dall’altro. Di conseguenza, gli individui che vivevano in collettività organizzate sono stati condannati alla prigionia perpetua dei ruoli sociali imposti dai sistemi produttivi, che tendevano (e tendono) a inquadrare anche i gesti e i comportamenti quotidiani. Da questo punto di vista, la digitalizzazione e la virtualizzazione dell’esistenza umana ha soltanto cambiato le forme di un simile asservimento, rendendo quest’ultimo meno evidente, ma non meno feroce. In altri termini, l’iperconnessione, che si manifesta sotto diversi aspetti, dall’identità digitale che ciascun individuo si costruisce sulle reti sociali, alla repressione dei bisogni fisiologici da parte dei video-giocatori dipendenti (che in Corea del Sud arrivano a indossare un pannolino per non dover interrompere il gioco), fino all’oblio della cura di un figlio reale per occuparsi di figli virtuali (anche questo fenomeno è attestato in Corea del Sud), non è altro che la nuova forma di inquadramento sociale nata dalla diffusione massiccia delle TIC su scala globale. Tecnologie che svolgono quindi la stessa funzione delle istituzioni tradizionali delle società di massa, come la fabbrica, la scuola, le accademie o la televisione. 

 

In fondo, la finalità è sempre la stessa, integrare le esistenze dei singoli individui nei meccanismi più funzionali all’economia di mercato: un tempo la fabbrica, oggi il web. Se dunque la seconda rivoluzione industriale aveva ridotto l’uomo a forza lavoro, a capitale umano, la rivoluzione digitale ne ha fatto una macchina produttrice di dati, analizzabili da algoritmi. Nessuno spazio dunque viene lasciato alla dialettica, come strumento del pensiero per superare se stesso e le proprie elaborazioni. Il che significa che anche filosofie che, come il transumanismo, auspicano il superamento da parte dell’uomo della propria condizione naturale grazie all’integrazione di componenti tecnologiche nell’organismo, non fanno altro che spingere lo sviluppo delle facoltà umane nella direzione che più si adatta al nuovo produttivismo digitale, portando alle estreme conseguenze le diseguaglianze sociali. La questione centrale non è in sé se l’uomo percepisca se stesso come corporeità o come proiezione digitale, ma l’uso e la strumentalizzazione che le classi dominanti delle attuali società in via di evoluzione decidono di realizzare di tali percezioni, ossia del ruolo che queste hanno e avranno negli ingranaggi produttivi. Parimenti, artificiale o naturale (il confine tra le due non è sempre nettamente determinabile), l’intelligenza, al pari delle altre facoltà e potenzialità umane, rischia di essere considerata ancora esclusivamente in funzione del mercato.

September 03, 2020

Il governo tedesco ha affermato all'inizio della giornata che i test eseguiti sulle analisi dell'oppositore russo, Alexey Navalny, hanno mostrato una sua presumibile esposizione a un agente nervino del gruppo "Novichok". L'ipotesi è stata ritenuta non plausibile dal suo creatore.

Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha chiarito che Berlino non ha informato Mosca riguardo le sue conclusioni su questo presunto "avvelenamento". Intano l'Ambasciata russa in Germania ha rivelato che nessuna informazione fattuale sostanziale sul caso del leader dell'opposizione extraparlamentare russa Alexey Navalny è stata data all'ambasciatore russo presso il ministero degli Esteri tedesco.

La cancelliera Angela Merkel ha parlato di "tentato omicidio" dell'oppositore russo con "agente nervino" ed ha chiesto spiegazioni al governo russo, così come ha preannunciato consultazioni con i partner della Ue e della Nato per concordare una reazione comune. A sua volta la Farnesina ha espresso una "profonda inquietudine ed indignazione" riguardo il caso.

Perché la Germania non ha preso in considerazione né il parere dei medici dell'ospedale di Omsk, dove la vita di Navalny è stata salvata, né del professore Leonid Rink, uno degli sviluppatori dell'agente nervino "Novichok"? Cosa si nasconde dietro questo giudizio sbrigativo, tenendo presente che Berlino non ha nemmeno voluto informare Mosca delle sue “scoperte” prima di annunciarle pubblicamente? A che cosa è dovuta la fretta con cui gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno accolto la versione tedesca sul presunto avvelenamento di Navalny?

Sputnik Italia ha intervistato Tiberio Graziani, Chairman di Vision&Global Trends:

— "Prima di rispondere alle sue domande vorrei fare una brevissima premessa a mio avviso necessaria per tentare comprendere il nuovo affair che contrappone Stati Uniti e Unione Europea da una parte e Federazione Russa dall'altra.” Ha affermato Graziani.” La narrativa entro la quale si inserisce questo ennesimo affair ricalca uno schema ben noto: è quello dei presunti avvelenamenti di Litvinenko, Skripal, Verzilov, Kara-Murza. Oppositori o ex agenti segreti che verrebbero platealmente avvelenati su ordine del Cremlino.

Dopo l’annuncio del presunto avvelenamento, parte subito la seconda fase: una campagna mediatica volta a divulgare “prove” unilaterali che dovrebbero inchiodare Mosca alle sue responsabilità. Lo scopo è quello di creare frizioni tra Mosca i Paesi occidentali, fare pressioni sulla presidenza della Federazione Russa e, possibilmente, implementare le sanzioni.

La Germania non vuole prendere in considerazione il parere dei medici russi né del prof Rink perché ha adottato ideologicamente una posizione politica, ciò è dimostrato proprio dal fatto che non ha ufficialmente, per quanto ne sappiamo, colloquiato con Mosca. Se i russi avessero voluto "eliminare" un oppositore scomodo, lo avrebbero ucciso; non avrebbero permesso il trasporto di Navalny in Germania. La logica che soggiace a tutta questa questione è squisitamente geopolitica. Il caso Navalny sarà molto probabilmente utilizzato per ostacolare il progetto Nord Stream-2 e per comminare ulteriori sanzioni a Mosca".

August 25, 2020

Minsk 

 
 AUDIO

 

“Ormai queste rivolte erano già attese e pianificate. I disordini in Bielorussia sembrano come un tentativo di 'Rivoluzione corlorata' piùttosto che una manifestazione spontanea e l'intelligence americana è stata sempre dietro a tutte le rivoluzioni corolorate …Ci sono ovviamente anche le ingerenze straniere..." queste le parole di Eliseo Bertolasi, dottore di ricerca in antropologia culturale, russista, nonchè Senior Analyst del Vision & Global Trends ed anche corrispondente di diversi media  russi sugli ultimi avvenimenti in Bielorussia.Per ascoltare versione integrale cliccare qui sopra

August 19, 2020

Come l'Artico e l'Indo-Pacifico, il Mediterraneo orientale rappresenta una linea di faglia tutt'altro che stabilizzata, dove si scontrano gli interessi strategici di potenze regionali e mondiali: Russia, Turchia, Francia, ma anche Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita; la distensione tra Abu Dhabi e Tel Aviv offre ad Ankara un nuovo appiglio per ergersi a paladina dei diritti dei fratelli musulmani (e dei Fratelli musulmani), mentre Riyadh preferisce per ora la linea del silenzio; potrà la retorica espansionista mettere a tacere le tensioni sociali?

 

Mentre i tre principali rivali per la supremazia globale, Cina, Stati Uniti e Russia, si contendono l’egemonia e il controllo del cyberspazio, nello spazio fisico diversi paesi aspirano al ruolo di potenze regionali, taluni con l’obiettivo finale di ritagliarsi il proprio spazio nell’ordine (o disordine) mondiale che si sta delineando da almeno un decennio. La potenza statunitense, eredità del secolo scorso e dell’implosione del sistema sovietico, sembra ne stia uscendo indebolita, mentre assiste agli scricchiolii che incrinano la solidità, peraltro mai del tutto affermata, della sua sfera di influenza, istituzionalmente rappresentata dall’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO). Lo stesso organismo che secondo il presidente francese Emmanuel Macron versa in condizioni di morte cerebrale. Anche perché la testa, con sede fisica a Bruxelles, ma idealmente situata a Washington, stenta a controllare le ambizioni di quelle che avrebbero dovuto essere le sue membra. Il deterioramento delle relazioni tra Grecia e Turchia, ma anche tra quest’ultima e la Francia, non sono che il sintomo della metamorfosi del rapporti di forza all’interno di un organismo, la NATO, istituito nell’intenzione di creare un fronte compatto contro un nemico comune, che allora era l’Unione sovietica. E la percezione indotta di tale minaccia era già di per sé un efficace strumento di coesione, o meglio di controllo e di dominio, come dimostra la complessa e ramificata rete di cellule stay behind presenti nei paesi alleati (ad esempio, Gladio in Italia). Di conseguenza, non vi era alcuna esigenza di mobilitare realmente l’arsenale bellico, anche perché una simile mossa sarebbe risultata suicida. Non è quindi affatto casuale che le prime operazioni militari NATO, presentate all’opinione pubblica come interventi umanitari, siano state lanciate dopo la fine della guerra fredda, quindi una volta venuta meno, per il blocco vincitore, la necessità di compattezza e coesione. In altri termini, dopo l’imposizione dell’assoluto dominio mondiale della superpotenza USA, se ancora nel

 1990-91, quando Washington, seguita da qualche alleato, lanciò le operazioni Desert Shield e Desert Storm contro l’Iraq di Saddam Hussein, la NATO non fu chiamata in causa. Tutt’al più, allora si andava affermando la tendenza ad agire a colpi di risoluzioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), come appunto quella che legittimò l’operazione Desert Storm.

 

Un discorso ben diverso riguarda il disordine mondiale attuale, che dura all’incirca da un quindicennio, caratterizzato dall’assenza di attori in grado di imporre la propria egemonia su tre dimensioni: il globo terraqueo, lo spazio e il cyberspazio. Questa fluidità degli equilibri di forze sullo scacchiere mondiale è terreno fertile per coltivare aspirazioni a restaurare vecchi imperi o a crearne di nuovi. In tale contesto, diversi paesi hanno colto l’occasione per perseguire i propri interessi strategici, sia pure senza esplicite dichiarazioni di rottura. In primo luogo la Turchia, che con l’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan, ha saputo trarre vantaggio dal ruolo di gendarme regionale affidatole dagli Stati Uniti negli anni ‘90, per rinvigorire le proprie mire imperiali neo-ottomane; in secondo luogo la Germania, attualmente attore economico regionale di un certo rilievo (è la seconda finanziatrice della NATO dopo gli USA), alla quale dopo la caduta del muro, la superpotenza aveva concesso di proiettare il proprio soft power sui Balcani e sull’Europa orientale, in una sorta di ripresa-rielaborazione dell’Ostpolitik di Willy Brandt; in terzo luogo la Francia, l’alleato riluttante ma economicamente rilevante (è il terzo dei suoi finanziatori), che dal comando unificato NATO è rimasta fuori dal 1966 al 2009, e che di recente ha rilanciato i propri tentativi di affermazione su scacchieri regionali di grande interesse strategico: basti citare, a titolo di esempio, Nord Africa, Africa subsahariana (la Françafrique essendo stata ridotta ai minimi termini dall’espansionismo economico cinese), Medio Oriente (si pensi alla visita di Macron a Beirut dopo la recente devastante esplosione) e Mediterraneo orientale (dove Parigi ha aumentato la sua presenza militare, per fronteggiare l’intraprendenza turca, e non solo nei confronti della Grecia), con un occhio alla Bielorussia; dulcis in fundo, il Regno Unito, che alla NATO diede i natali e che ne ha fatto da sempre il perno della propria strategia difensiva, spesso in linea con la sua antica colonia, divenuta in seguito più potente della madrepatria, al pari di quanto fece anticamente Cartagine rispetto a Tiro.

 

 

All’elenco dei paesi che mirano a trarre profitto dall’attuale disordine mondiale, si potrebbe aggiungere il Giappone, con le dispute marittime che lo oppongono a Cina e Russia e con un’alleanza con gli USA che, se lo protegge dalle potenze rivali, gli ha imposto finora pesanti restrizioni in tema di armamenti. Tokyo potrebbe quindi approfittare del timore statunitense dell’espansionismo di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, una paura condivisa inoltre dall’India e dall’Australia. Dal canto suo, dopo decenni di quiescenza nel ruolo di fedele alleato e oggetto di protezione di Washington, l’Arabia Saudita, negli ultimi anni, fronteggia le insidie della Turchia nel ruolo di guida dell’islam sunnita. In merito all’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti del 13 agosto 2020, negoziato con la mediazione di Trump, Riyadh non ha ancora commentato ufficialmente, ma da anni ha instaurato con Tel Aviv una cooperazione ufficiosa in funzione anti-iraniana (come ha fatto, peraltro, il Bahrein). Relazioni che sono risultate proficue anche al di fuori della disputa con Tehran, dato che il giornalista Jamal Khashoggi, ucciso il 2 ottobre 2018, era stato sorvegliato mediante il malware di produzione israeliana Pegasus. Malgrado il sostegno assoluto di Trump e di Jared Kushner, suo genero e consigliere, il principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS) ha sperimentato gli strali del Congresso USA all’epoca dell’uccisione di Khashoggi all’interno del consolato saudita a Istanbul. Inoltre, il 14 agosto ha ricevuto dal tribunale distrettuale di Washington DC una convocazione in merito alle accuse lanciategli da Saad al-Jabri, ex funzionario dell’intelligence saudita residente in Canada dal 2017. Al-Jabri, consigliere dell’ex ministro dell’interno saudita Mohammed bin Nayef, grande rivale di MBS, sostiene infatti che quest’ultimo, nel settembre 2017, ha adottato nei suoi confronti un metodo assai simile a quello scelto per eliminare Khashoggi. Intanto, pur essendo improbabile che gli USA rinuncino all’alleanza con la monarchia saudita, Riyadh è ora sotto i riflettori dell’intelligence statunitense, che nutre sospetti a proposito del suo programma nucleare, in particolare per un probabile coinvolgimento della Cina. L’Arabia saudita, che ufficialmente nega di voler produrre, con la cooperazione di Pechino, combustibile nucleare utilizzabile per costruire armi atomiche, ammette tuttavia di aver siglato con l’Impero centrale contratti per la ricerca di uranio yellowcake in diverse regioni del regno. L’obiettivo, ha spiegato il ministero dell’Energia saudita, è diversificare l’economia e produrre uranio per scopi civili, in linea con il Trattato di non proliferazione nucleare del 1986. Intanto, Riyadh ha annunciato l'avvio della sperimentazione umana di un vaccino contro il Covid-19, come parte di un accordo di cooperazione con la Cina.

 

Dalla rivalità turco-saudita per la guida dell’islam sunnita (che Ankara, al contrario di Riyadh, vorrebbe unificare, eliminando la divisione tra arabi e non arabi), era rimasto fuori l’Egitto laico e militarista di Abd al-Fattah al-Sissi, che con l’islam politico aveva chiuso i conti appena insediatosi, dopo il colpo di Stato che aveva rovesciato il presidente Mohammed Morsi. In buone relazioni sia con le petromonarchie del Golfo, sia con Israele (al-Sissi, come il presidente israeliano Benjamin Netanyahu, consigliava Trump di non rompere le relazioni con l’Arabia Saudita a seguito dell’affaire Khashoggi), il Cairo è intervenuto negli equilibri regionali del Mediterraneo orientale solo quando ha percepito il pericolo del progetto neo-ottomano di Erdoğan, sull’onda dei successi turchi in Siria e in Libia. Minacciato dall’intervento di Ankara in Libia a sostegno del governo di Fayez al-Sarraj (peraltro riconosciuto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite – ONU), l’Egitto ha reagito dichiarandosi pronto a inviare a sua volta un contingente militare in aiuto del generale Khalifa Haftar. Una mossa bollata come illegale dalle autorità turche, che inoltre hanno accusato al-Sissi di aver inviato truppe in Siria per sostenere l’esercito di Assad. Contestualmente, il Cairo cerca di costruire un consenso tra i paesi arabi sulla linea da seguire per risolvere il conflitto libico. Tra la fine di luglio e gli inizi di agosto, infatti, l’Egitto ha promosso gli incontri tra il portavoce del parlamento libico di Tobruk (che fa riferimento a Haftar) ed espon

enti dei governi marocchino, tunisino e algerino. Tale iniziativa ha seguito i colloqui di inizio giugno tra al-Sissi e Haftar, durante i quali il presidente egiziano ha annunciato un piano di pace (Cairo initiative) per la Libia, lanciando un appello a tutte le parti coinvolte per il cessate il fuoco e il ritorno all’unità del paese. Al-Sissi ha inoltre invitato tutte le potenze straniere implicate nel conflitto a ritirarsi. Una strategia radicalmente diversa dall’interventismo monolitico turco, la cui minaccia viene percepita dal Cairo anche nel Mediterraneo orientale. Infatti Ankara, che lo scorso luglio ha condannato il sostegno di Egitto ed Emirati Arabi Uniti al generale Haftar, ha ribadito, insieme al Qatar, il suo sostegno ad al-Sarraj, durante una visita dei ministri della Difesa dei due paesi a Tripoli, alla quale ha preso parte anche il ministro degli Esteri tedesco. Inoltre, la Turchia ha definito vano e vacuo l’accordo siglato il 6 agosto da Egitto e Grecia (e ratificato il 17 agosto dal parlamento egiziano) per la delimitazione dei confini marittimi e per la definizione di una zona economica esclusiva.

 

La battaglia per le materie prime nel Mediterraneo orientale, i conflitti per il controllo degli stretti e di altre aree strategiche, terrestri e marittime, le guerre commerciali o i cosiddetti interventi umanitari in difesa di opposizioni politiche o di minoranze etniche o confessionali (che spesso celano intenzioni o velleità imperialiste), sono alcuni degli strumenti utilizzati per ridefinire gli assetti geopolitici mondiali a seguito di fasi di saturazione dei vecchi equilibri. Ma si tratta altresì di stratagemmi per distogliere l’attenzione delle opinioni pubbliche sulle diseguaglianze e sull’ingiustizia sociale che negli ultimi anni si sono sensibilmente aggravate. Una potenza regionale come la Turchia, ad esempio, è colpita da una grave crisi economica, acuita dall’impatto dell’emergenza sanitaria da Covid-19. L’allarme relativo alla pandemia, d’altronde, ha sprofondato le economie mondiali nell’incertezza, in un momento in cui non erano stati completamente superati i postumi della crisi finanziaria del 2008. Una situazione difficilmente gestibile, a meno di non imprimere svolte autoritarie rischiose, soprattutto nella prospettiva della transizione verso un futuro digitale.

 

August 13, 2020

Nessuno ha creduto al presidente Aleksandr Lukashenko quando ha affermato che gli agenti stranieri erano dietro le rivolte a Minsk scoppiate subito dopo il rilascio dei risultati elettorali, ma ora è giunto il momento di rileggere gli eventi della Bielorussia per quello che sono veramente: una protesta di massa a cui l'Occidente si è infiltrato nel tentativo di trasformarla in una rivoluzione colorata. Il governo denunzia un presunto ruolo svolto dalla Gran Bretagna, dalla Polonia e dalla Repubblica Ceca,e conferma che a dozzine di stranieri è stato impedito di entrare illegalmente in Bielorussia per prendere parte alle rivolte, mentre per altri è stato possibile entrare. Ci sono paesi entrati in gioco e non nascondono nemmeno la faccia con la maschera: Lituania e Ucraina. Il primo è il paese in cui il principale avversario di Lukashenko, Svetlana Tikhanovskaya, ha trovato un rifugio sicuro; quest'ultimo è il Paese a cui appartengono alcune persone arrestate durante i disordini - e anche il Battaglione Azov ha confermato la sua presenza a Minsk sui suoi canali Telegram. C'è anche da dire che il rapporto tra Lukashenko e il suo omologo russo, Vladimir Putin,  nello scorso anno non è stato molto idilliaco, ma la verità è che non lo è mai stato.

Lukashenko ha sempre amato giocare con il suo potente alleato approfittando della paura del Cremlino che la Bielorussia diventasse europea per ottenere alcune concessioni e crediti extra, ma è discutibile se Lukashenko sia davvero interessato a rompere una simbiosi secolare con l'Occidente - che significherebbe democratizzazione e fermare qualsiasi piano per far ereditare la leadership da suo figlio -. Non c'è dubbio che gran parte della società vuole un cambiamento profondo e il malcontento nei confronti di Lukashenko è stato abbastanza visibile fin dai primi giorni e, sebbene sia vero che agenti stranieri siano attivamente coinvolti nelle proteste, questo fatto non cancella la verità: quello che sta succedendo in Bielorussia è una protesta di massa, e l'Occidente la sta abilmente sfruttando con l'obiettivo di ridimensionare ulteriormente la sfera di influenza della Russia nell'Europa orientale. La grande scacchiera di Zbigniew Brzezinski è ancora valida e l'Occidente è vicino allo scacco matto. La perdita dell'Ucraina nel 2014 ha posto le basi per l'effettiva espulsione della Russia dall'Europa e per la perdita della sua dimensione europea, i prossimi passi sono Serbia, Moldova e Bielorussia. Mentre la posizione della Serbia nell'orbita russa sembra per ora inamovibile, la Moldova è sempre più esposta all'influenza esercitata dalla Romania - e al suo sogno sempreverde di unificazione - , dall'Ucraina, dalla Turchia - che sta armando la Gagauzia -, dall'Unione Europea e dagli Stati Uniti. Ma c'è un motivo per cui la Bielorussia è più importante della Serbia e della Moldova messe insieme: all'indomani di Euromaidan, Minsk si è trasformata nell'ultimo ostacolo all'accerchiamento UE-NATO della Russia da parte europea, ed è in questo contesto che deve essere letto il riorientamento strategico della Casa Bianca che passa dall'Ucraina (il cui protettorato è stato dato a due alleati fedeli, vale a dire Polonia e Turchia) alla Bielorussia.

Se l'insurrezione post-elettorale dovesse mai diventare una rivoluzione colorata in stile euromaidan, portando all'attuale caduta di Lukashenko, assisteremmo all'ascesa di una nuova leadership politica, tanto liberale quanto filo-occidentale, la quale non ha fatto mistero dei suoi obiettivi: riavvicinamento all'UE, de-russificazione, stop definitivo ai piani di fusione con la Russia. La conseguenza ultima e naturale sarebbe l'ingresso della Bielorussia nella sfera d'influenza occidentale: il rapporto tra Lukashenko e Putin non è mai stato idilliaco e l’ultimo braccio di ferro ne è la migliore prova: l'alternativa al cosiddetto ultimo dittatore d'Europa è uno scenario che si rifà a quello ucraino. La nuova leadership politica rappresentata da Tikhanovaskaya mira infatti a sostituire completamente la vecchia classe politica e alla rottura con il passato (cioè con la Russia); ecco perché un tentativo di infiltrarsi nel processo di transizione potrebbe rivelarsi tanto difficile quanto controproducente, dal momento che le possibilità di esito positivo sono ampiamente inferiori alle prospettive di fallimento e c’è anche da considerare che la crisi in corso possa produrre l’effetto di riavvicinare Lukashenko a Mosca. Altro fattore da considerare: le rivolte stanno dimostrando quanto sia impopolare Lukashenko - gli agenti stranieri rappresentano una minuscola minoranza - e la società vuole un cambiamento; sostenendo Lukashenko il Cremlino legherebbe la sua immagine a un regime visto con crescente avversione dalla nuova generazione, cioè da coloro che assumeranno la guida del Paese nel prossimo futuro.

 per gentile concessione di Vision & Global Trends. 

July 31, 2020
July 28, 2020

 

Il primo ministro tunisino Elyes Fakhfakh si è dimesso dopo che nei giorni scorsi una mozione di sfiducia dell’opposizione era stata firmata anche dalle forze politiche che sostenevano il suo governo di coalizione. La mozione riguardava alcuni presunti conflitti di interesse del primo ministro.

Fakhfakh era stato incaricato dal presidente Kais Saied nello scorso gennaio dopo che dalle elezioni politiche non era risultato un chiaro vincitore. In una nota l’ufficio stampa di Fakhfakh ha chiarito che «la decisione è stata presa nell’interesse nazionale e al fine di evitare ulteriori conflitti tra le istituzioni nel paese e di sostenere il principio di moralizzazione della vita politica». Fakhfakh è accusato dalle opposizioni di conflitto di interessi perché possiede azioni di società che a cui sarebbero stati assegnati appalti pubblici, ma il primo ministro ha sempre negato ogni accusa.

July 25, 2020


Nell’ambiente naturale la figura del capo è presente in quasi tutti i branchi di animali superiori. Il capo si impone al branco per la sua potenza fisica o (nel caso degli umani) perché in grado di proporsi come guida, in virtù di una maggiore esperienza o saggezza connaturata, o acquisita, che si rivela determinante in alcune decisioni a favore del gruppo.  

Il primo schema di potere si identifica con una base/massa e un picco al vertice, il capo accettato un pò per timore e un pò perché in gradi di garantire protezione e capacità di organizzazione contro eventuali nemici. Il suo potere si estende ai membri la sua famiglia. Dove c’è una base ed un vertice ci saranno inevitabilmente fasce intermedie che formeranno il “triangolo del potere”. E in realtà lo schema piramidale vero e proprio nasce quando alla figura del capo si associano individui attratti dall’interesse e che diverranno i consiglieri, persone di fiducia, (potere legislativo) e che andranno a collocarsi nella fascia successiva a quella della famiglia del capo.    A causa della necessità di gestire masse sempre più vaste nasce l’esigenza del potere esecutivo, cioè di individui preposti all’attuazione pratica dei programmi del capo, che vanno a collocarsi nella fascia dopo il potere legislativo, al di sopra della massa a seconda della loro vicinanza al potere del capo.   Accanto alla figura del capo va delineandosi la figura del sacerdote (destinata a contendere al capo il suo dominio) il quale, sfruttando l’innata tendenza dell’essere umano a credere nel  soprannaturale, si auto impone come messaggero della volontà divina. L’innata paura dell’imponderabile conferisce alla casta sacerdotale un forte potere al punto da rappresentare una vera e propria struttura piramidale parallela al potere temporale e capace di contendere al capo il suo dominio.

Si sviluppa spontaneamente, spesso di comune accordo e spesso in modo antagonista, la suddivisione del potere esercitato sulle masse: il primo nella gestione delle cose terrene, il secondo in quelle ultraterrene.     Qualunque dittatura o democrazia umana, qualunque gruppo tribale o animale, dove vengono imposte le regole del gruppo, si instaura automaticamente lo schema piramidale: non si è mai saputo di alcuna comunità organizzata ed evoluta, umana e non, che possa fare a meno di un capo ed avere la possibilità di organizzarsi per un fine comune, imporre la propria forza e difendersi da eventuali nemici.

 

Ma il capo non è infallibile, lui ed i suoi collaboratori possono rivelarsi inadatti perché disonesti, più inclini a curare i propri interessi che le aspettative del popolo. Questa è la causa di tensioni e contrasti interni in cui a pagarne le conseguenze sono sempre i più deboli. 

Ma se il potere non è in grado o non vuole debellare il “male” (che in un certo senso è ciò che giustifica l’esistenza stessa del capo) la soluzione del problema non sta nell’eliminare lo schema piramidale ma nel fare in modo che il capo sia scelto democraticamente dal popolo, o dal gruppo, non solo per le sue qualità di stratega ma soprattutto per i suoi valori morali, per la sua saggezza, per la sua condotta irreprensibile, per la sua coscienza giusta, leale e compassionevole. Il problema della cattiva gestione del potere non è dato dallo schema a piramide ma dall’uomo che lo incarna. Non è il meccanismo che rende l’uomo giusto o malvagio, ma l’uomo che lo rende utile o dannoso il meccanismo. La soluzione di ogni problema non sta al di fuori dell’uomo ma nell’uomo. I meccanismi che nascono dall’uomo sono imperfetti come l’uomo: per questo la storia è costellata di crimini, lutti e rovine: meccanismi imperfetti gestiti da uomini imperfetti.  

E’ nell’uomo che bisogna intervenire se si spera in una società migliore, altrimenti ogni pur lodevole iniziativa è inutile perdita di tempo: è come potenziare la carrozzeria di un’automobile per arginare i danni di chi guida in stato di ubriachezza. 

In qualunque organizzazione, industria o fabbrica, il lavoro è suddiviso in settori per ognuno dei quali è necessario un coordinatore che acquisisce maggiore responsabilità e quindi più potere decisionale. Ma è altresì necessaria la presenza del coordinatore dei coordinatori che a sua volta ha più responsabilità e quindi più potere.   In realtà l’idea di una società anarchica, a struttura orizzontale, senza picchi e senza capi, è solo un’utopia che rimanda ad un futuro lontanissimo in cui ogni umano sia in grado di autodeterminare armonicamente se stesso in relazione al gruppo/società. In un meccanismo senza capi e senza responsabili, diciamo a struttura “brancale” ognuno cerca i propri interessi indipendentemente se tornano a beneficio del gruppo: questo è ciò che preclude, e non ciò che favorisce, il progresso di se stessi e di un popolo. 

 

 

Anche nelle prime comunità cristiane (come in ogni altra comunità religiosa) ogni seguace o discepolo aveva la responsabilità di un gruppo. In ogni caso, gente di tal fattezza non si improvvisa. E’ necessario invece che sia educata, formata fin dall’infanzia, al senso della giustizia, del dovere, della condivisione, dell’onestà, della bontà, della responsabilità, della collaborazione, alla sensibilità dell’animo e soprattutto al senso critico dei fatti e dei personaggi della storia.La risoluzione dei grandi problemi sociali non sta in un meccanismo più o meno perfetto: in qualunque epoca e latitudine, sotto qualunque sistema politico, l’essere umano si è comportato sempre allo stesso modo: si è macchiato degli stessi delitti e si è distinto per le stesse qualità. Le sole isole felici sono state alcune comunità religiose che, animate dalla stessa fede in un ideale superiore,  hanno realizzato una società in  pace, in armonia e collaborazione. Ma anche in questo caso la struttura organizzativa è sempre piramidale e il vantaggio, più o meno condiviso, della presenza di un capo sempre è dipeso dalle sue qualità morali quando poste al servizio del bene comune.

July 21, 2020
 
 Recep Tayyip Erdoğan

Come sosteneva il filosofo Ernst Cassirer, l’uomo è un animale simbolico, ma a prevalere sono il più delle volte i simboli e le interpretazioni imposte dalla classe dominante; così il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, nell’ultimo decennio, ha imposto gradualmente, con il tacito assenso o con la complicità delle democrazie neoliberali, la sua simbologia imperialista e nazionalista: un miscuglio di espansionismo neo-ottomano e di nazionalismo etnico-confessionale, che gli ha consentito di erodere progressivamente l’eredità del padre della patria Mustafa Kemal

"La Turchia è diventata un potente attore regionale, a un livello mai visto nella sua storia recente. La posizione del nostro paese nel novero delle potenze globali sta crescendo ogni anno. Ora siamo più vicini che mai all’obiettivo di una Turchia grande e forte. Una volta che avremo portato con sicurezza il nostro paese fino al 2023, avremo reso la Turchia una potenza inarrestabile." Queste le parole pronunciate, agli inizio di luglio, dal presidente turco in occasione della cerimonia di inaugurazione della sede del ministero del Tesoro e delle Finanze nel quartiere di Ataşehir, a Istanbul. Un discorso dalla forte connotazione simbolica, che si inscrive da un lato nel quadro della metamorfosi graduale della linea politica di Erdoğan, da esponente di un islam moderato e moderno a portavoce di un neo-ottomanesimo rivisto in chiave islamico-nazionalista sia in politica interna, sia nelle relazioni internazionali. Una doppia narrazione che gli offre diversi strumenti per affermare un potere autocratico sullo scenario politico interno e al contempo a sugli scacchieri geopolitici regionale e mondiale. Infatti, da un lato gli consente di mantenere in una condizione di assedio militare permanente sia la popolazione curda e i suoi rappresentanti del Partito democratico dei popoli (HDP), sia l’opposizione kemalista del Partito repubblicano del popolo (CHP), emarginando al contempo il potere dell’esercito, che Mustafa Kemal Ataürk aveva strutturato sul modello del Comitato di salute pubblica dei rivoluzionari francesi del XVIII secolo; dall’altro gli permette di gestire gli equilibri con i partiti nazionalisti, che a prescindere dai risultati elettorali, godono di una notevole influenza sullo stato profondo: in primo luogo, il Partito di azione nazionalista (MHP, con il suo braccio armato, i Lupi grigi) di Devlet Bahçeli, che, come sottolinea Daniele Santoro di Limes, è l’uomo di collegamento con la CIA; secondo, il Partito del bene di Meral Akşener, l’avanguardia della Super Nato; e infine il Partito della patria (Vatan Partisi) di Doğu Perinçek che garantisce gli interessi russi in Turchia.

Ma è soprattutto nei delicati equilibri di forze regionali e mondiali, che Erdoğan gioca la vera partita, perché è dai risultati ottenuti su questo piano che si aspetta di essere maggiormente apprezzato dall’opinione pubblica turca. Possibilmente ancor più apprezzato del padre della patria Atatürk, che aveva reso grande la Turchia moderna come patria dei Turchi e dei Kurdi (malgrado la brutale repressione delle rivolte kurde, mentre una sorte ben più tragica era toccata agli Armeni) e che aveva fondato un modello di Stato laico con capitale ad Ankara, rompendo anche simbolicamente con tutti e tre gli imperi del passato, quello romano, quello bizantino, e soprattutto quello ottomano, tutti e tre con capitale a İstanbul. Parallelamente alla rivoluzione statale e amministrativa, che includeva l’adozione di leggi ispirate alle moderne democrazie liberali (un esempio fra tutti, un codice civile calcato su quello svizzero), Atatürk diede luogo a una rivoluzione culturale in cui secolarizzazione e modernizzazione sarebbero andate di pari passo, con la supervisione dell’esercito, garante dei valori laici della costituzione della Repubblica di Turchia. In tale contesto, ad esempio, fu adottato l’alfabeto latino invece di quello arabo, fu abolita la sharia (legge islamica), fu sancito il diritto di voto per le donne e furono promulgate leggi come quella che vietava la poligamia o quella che consentiva il consumo di bevande alcoliche. La base per la nuova identità che Mustafa Kemal intendeva edificare per la nuova Turchia era infatti un nazionalismo laico anzitutto culturale, quindi diverso dai nazionalismi coevi arabo e persiano, per cui essere turco significava in linea teorica non appartenere a un determinato gruppo etnico, ma basare la propria coscienza di sé su un orizzonte di pensiero sintetizzato dai valori fondanti della nuova costituzione, in opposizione dialettica con la precedente identità imperiale ottomana. Al contrario, il neo-ottomanesimo di Erdoğan rielabora l’eredità politica di Turgut Özal (https://www.flipnews.org/politics/cronosisma-curdo-turco.html), mediata dalla nozione di profondità strategica dell’ex alleato ed ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, ma con un’idea diversa della proiezione della potenza turca, anzitutto nei territori un tempo appartenuti alla Sublime Porta, ma anche negli equilibri geopolitici regionali e mondiali.

Nondimeno, l’attuale presidente turco ha voluto segnare un punto di svolta anche rispetto a queste due figure politiche, che, se di fatto hanno minato alla radice la Repubblica kemalista, non avrebbero mai espresso esplicitamente il proprio disprezzo nei confronti della memoria del padre della patria. L’annuncio di Erdoğan degli inizi di questo mese, in merito alla riconversione della basilica di Santa Sofia, patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco, in moschea a partire dal prossimo 24 luglio (giusto in tempo per la preghiera collettiva del venerdì), è da considerarsi dunque un gesto simbolico, che richiama alla memoria due eventi storici dotati di una connotazione altrettanto forte: la conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani nel 1453, quando la basilica divenne moschea per la prima volta, e la sua apertura come museo nel 1934, per volere di Atatürk, che intendeva in tal modo aprirla all’umanità. Inoltre, con tale decisione, Erdoğan, dopo la sostanziale sconfitta alle ultime amministrative e la vittoria del CHP ad Ankara e İstanbul, mira ad attrarre i consensi dell’elettorato nazionalista (negli ultimi decenni, la destra turca ha promesso a più riprese tale cambiamento), in nome di un sovranismo condito in salsa islamica, ossia che considera l’islam come base dell’identità della nuova nazione turca. Un gesto significativo, in piena rottura con l’identità kemalista, ma non un insulto esplicito nei confronto di Atatürk, come quello pronunciato nel maggio 2013, in difesa della legge che imponeva restrizioni sulla vendita e sul consumo di alcolici, fatta approvare dal Parlamento dopo un lungo dibattito e tra le polemiche. Durante le discussioni parlamentari, Erdoğan si domandò infatti: “una legge fatta da due ubriachi è rispettabile? E allora perché non dovrebbe esserlo anche una ispirata alla religione?”. Ora, i due ubriachi in questione sono, appunto, Atatürk e il suo vice e successore İsmet İnönü, che il presidente non ha citato esplicitamente, lasciando alla “libera” immaginazione degli uditori il gusto di cogliere il sottile riferimento. Nondimeno, se l’islamizzazione socio-culturale in esplicita rottura con l’eredità kemalista costituisce uno dei pilastri della linea politica di Erdoğan, alle prese con la difficile situazione socio-economica del suo paese e con la spinosa gestione dei profughi siriani (https://www.monde-diplomatique.fr/2020/05/BONZON/61783), è la politica estera che gli offre attualmente l’occasione più ghiotta di rifondare lo status della nazione turca.

Diversi sono i fronti da lui aperti negli ultimi anni, ciascuno dei quali rappresenta una porta (niente affatto sublime) aperta su una linea di proiezione della potenza turca, che non sempre avviene attraverso il soft power. Inoltre, ciascuno di questi vettori è il risultato degli ampi spazi scientemente lasciati ad Ankara dalle democrazie neo-liberali e in particolare dall’Alleanza atlantica (NATO) in funzione prima anti-sovietica, poi, di volta in volta, anti-russa, anti-cinese o anti-iraniana. In altri termini, la Turchia approfitta da decenni della vantaggiosa posizione di utile nemico del nemico, al punto da poter essere annoverata tra le forze che il capitalismo globalizzato ha evocato e che ora rischia di non essere più in grado di gestire. Il primo di questi fronti è la direttrice occidentale, che conduce ai Balcani, antica linea di faglia al tempo della cortina di ferro, e all’Africa settentrionale e che ha i suoi cardini ideali nella capacità di orientare le comunità islamiche balcaniche e nel controllo territoriale di almeno parte della Libia, dove Ankara sta conducendo un intervento militare a sostegno del governo onusiano di Tripoli di Fayez al-Sarraj (il Governo di accordo nazionale, GNA). Come avamposto strategico permanente sul Mediterraneo, la Turchia ha individuato la base di al-Watiya, recentemente sottratta alle forze del generale cirenaico Khalifa Haftar, ma attaccata nella notte tra 4 e 5 luglio da aerei Dassault Mirage di provenienza sconosciuta, ma verosimilmente emiratini. D’altronde, Abu Dhabi, schierata con Haftar, come, fra gli altri, Russia, Francia ed Egitto (cui l’Esercito di liberazione nazionale ha chiesto recentemente di intervenire in armi per arginare l’avanzata turca), ha recentemente lanciato un appello a Washington perché dispieghi il suo arsenale militare in Libia contro il GNA e il suo alleato turco. Il 10 giugno, peraltro, l’espansionismo di Ankara nel Maghreb ha creato una (nuova) frattura all’interno della NATO, quando la fregata turca Oruçreis ha attaccato la fregata francese Courbet, che, durante un pattugliamento del Mediterraneo sotto il comando NATO, aveva intercettato la nave cargo turca Cerkin sospetta di portare armi in Libia, in violazione dell’embargo. La Turchia ha negato qualsiasi intenzione aggressiva, accusando a sua volta la fregata francese di manovra pericolosa. Timide e divergenti le reazioni internazionali, almeno finora, ma è significativo che la Francia, dopo aver combattuto in prima linea con Gran Bretagna e Stati Uniti contro il defunto colonnello Muammar Gheddafi nel 2011, abbia perso la sua posizione di forza in Libia. Sul campo, intanto, si assiste a una sirianizzazione del conflitto, dovuta all’arruolamento, soprattutto da parte di Russia e Turchia, di mercenari, molti dei quali provenienti proprio dalla Siria (ma anche dall’Africa subsahariana o dalle aree investite dal conflitto russo-ucraino), attratti da paghe più cospicue di quelle proposte dall’esercito siriano o dalle milizie levantine.

 

A differenza della politica zero nemici di Davutoğlu e dall’indirizzo europeista di Özal, Erdoğan sta mettendo in atto una politica di conflitti di intensità variabile con i principali attori geopolitici attuali. A parte le tensioni crescenti degli ultimi anni con la Francia (incluso un affare di spionaggio riportato lo scorso giugno dal quotidiano turco Sabah), la postura aggressiva di Ankara nei confronti della Grecia, altro paese membro della NATO e dell’Unione europea scarsamente difeso dagli alleati, è indicativa di mire espansionistiche che affondano le loro radici negli interessi strategici delle potenze occidentali, Stati Uniti in primis. La minaccia costante di Ankara di lasciar passare i rifugiati siriani in viaggio verso l’Europa (analoga a quella di Gheddafi di lasciar passare i migranti africani) e i piani di difesa per l’Egeo che preoccupano Atene costituiscono altrettanti indizi dell’atteggiamento turco, viste anche le reazioni della chiesa ortodossa greca alla riconversione di Santa Sofia in moschea. Procedendo verso Oriente, inoltre, la Turchia punta da tempo a un ruolo egemone non solo sull’islam sunnita balcanico e centro-asiatico, ma anche su quello arabo, insidiando le due potenze regionali tradizionali, Egitto (linea laico-militarista) e Arabia Saudita (islam politico wahhabita). Lo dimostrano le numerose prese di posizione di Erdoğan sulla questione israelo-palestinese, sul piano di pace elaborato dal presidente statunitense Donald Trump nel gennaio 2020, e sugli esiti delle rivolte egiziane che hanno portato al potere prima Mohamed Morsi, dei Fratelli Musulmani, esplicitamente sostenuti da Ankara al pari di Hamas. Parimenti, il presidente turco intende sfruttare vantaggiosamente le carte del conflitto armeno-azero (anch’esso originatosi dopo il crollo sovietico e centrato sull’enclave del Nagorno Karabagh) e del malcontento delle popolazioni turcofone del Caucaso, del Tatarstan e, più generalmente, dell’Asia Centrale, fino al Myanmar e alla provincia cinese del Xinjiang. In queste regioni, l’influenza di Ankara si dipana attraverso le repubbliche turche nate dall’implosione dell’Unione sovietica, ancora una volta con il beneplacito delle democrazie neo-liberali, che, avendo permesso alla Turchia di conquistare una posizione di forza, l’hanno resa capace di ricattare due potenze globali del calibro di Russia e Cina, oltre che di trattare alla pari con Washington.

 

Se il liberalismo di ispirazione reaganiana e thatcheriana di Özal coltivava l’illusione occidentale di una pacificazione perpetua delle relazioni internazionali basata sul libero scambio e sul capitalismo globalizzato a guida statunitense, l’islamo-nazionalismo di Erdoğan e dei suoi predecessori degli anni ‘90 ha trovato terreno fertile a causa dell’altra illusione, altrettanto nefasta, di poter mettere a tacere il malcontento provocato dall’ingiustizia sociale attraverso il richiamo a improbabili e discutibili fasti nazionali passati. In tal modo, la Turchia, seconda potenza militare della NATO, ha potuto conquistare il suo seggio ideale tra le potenze mondiali, che a turno hanno erroneamente creduto di poterla utilizzare come baluardo contro il nemico del momento.

July 16, 2020

Le accuse fatte nello stesso giorno contro la Russia dal Regno Unito, sia di interferire nelle elezioni generali del 2019 svoltesi in Gran Bretagna, sia di aver tentato di trafugare la ricerca sul vaccino contro il coronavirus, sembrano una campagna ben organizzata per boicottare gli sforzi di Mosca per riunire gli alleati della Seconda Guerra Mondiale ad un vertice per il suo anniversario, ha dichiarato Tiberio Graziani, presidente di Vision & Global Trends, (International Institute for Global Analyzes) che ha sede a Roma.

 

 

Giovedì scorso il Regno Unito ha formulato due pesanti atti di accusa nei confronti della Russia. Il segretario agli Esteri di sua Maestà, Dominic Raab, ha dichiarato in parlamento che i russi "quasi certamente" hanno cercato di interferire nelle elezioni del 2019 del paese attraverso la divulgazione di alcuni documenti relativi ai colloqui commerciali tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Quasi contemporaneamente, lo stesso giorno, il National Cyber ​​Security Centre (NCSC) del Regno Unito ha accusato hacker collegati alla Russia di aver tentato di rubare dati da ricercatori di vaccini britannici, statunitensi e canadesi. Per l'attacco Raab ha incolpato i servizi segreti russi. Secondo il presidente di Vision & Global Trends, le affermazioni sono "molto serie" e non affatto "improvvisate".

"Ho la sensazione che queste accuse facciano parte di un piano concordato prestabilito contro la Federazione Russa piuttosto che essere una denuncia accidentale volta a difendere gli interessi nazionali britannici e statunitensi", per il presidente di Vision & Global Trends.

Graziani osserva come l'accusa di interferenza elettorale russa "riguarda non solo la dimensione internazionale, ma anche quella nazionale", poiché il rapporto trapelato sui colloqui commerciali con gli Stati Uniti è finito nelle mani dell'allora leader laburista Jeremy Corbyn, che lo ha usato per attaccare il governo prima del voto del 2019.

Tra l’altro il documento getta luce sulle pressioni degli Stati Uniti per consentire l'accesso delle proprie aziende farmaceutiche ai mercati delle SSN (Servizio Sanitario Nazionale) inglesi.

"L'ipotesi che questo tipo di accuse sia parte di una più ampia campagna contro la Russia è supportata anche dalla notizia che i presunti hacker russi hanno tentato di rubare dati sui vaccini Covid 19 studiati da entità britanniche, statunitensi e canadesi. Quest'ultima accusa, tuttavia, si scontra fortemente con la proposta avanzata dal presidente russo Vladimir Putin di riunire i vecchi alleati in un vertice per affrontare le sfide globali del momento ", ha dichiarato Graziani.

Putin ha proposto all'inizio 2020 di tenere nel corso nello stesso anno un vertice tra membri chiave del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; il 2020 segna il 75 ° anniversario delle Nazioni Unite. Tra gli argomenti proposti ci sono gli affari mondiali, la sicurezza globale, l'economia e la crisi pandemica, nonché i cambiamenti climatici e le minacce informatiche. Nel suo articolo sulla Seconda Guerra Mondiale, Putin ha esortato i paesi vittoriosi di questa a considerare come un “dovere” la sua proposta nella sede delle Nazioni Unite. Graziani ha rimarcato inoltre il sostegno degli altri leaders mondiali al vertice e l'auspicio, per gli stessi, è che l'incontro possa avvenire il prima possibile.

© 2022 FlipNews All Rights Reserved