L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Carlotta Caldonazzo
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Grane in vista per FI. Roberto Casalena, nostro collega responsabile del settore economico della Flip nonché direttore della testata "www.economicomensile.it" è stato a sua insaputa escluso dalla lista dei candidati alle elezioni comunali di Roma. Ora c'è il rischio che per la cancellazione di un candidato, appunto Roberto Casalena, possa essere annullata l'elezione del I Municipio e Comune, per l'eventuale richiesta di broglio elettorale.
Tra DC e UDC era stato effettuato un accordo con FI, tramite il Senatore Maurizio Gasaparri, per partecipare insieme alle elezioni dei Municipi di Roma, nonchè del Sindaco, tant'è che, poi, sui biglietti e locandine elettorali è stato stampato il simbolo di FI, con sotto lo Scudo Crociato e la scritta Unione di Centro (DC e UDC). Poi l'intesa è stata disattesa, successivamente, almeno in parte. perchè? Infatti un candidato DC per il I Municipio, il dott. Casalena, è stato cancellato unilateralmente dalla lista elettorale, e quanto risulterebbe all'insaputa di Gasparri, effettuato dal suo braccio destro per Roma, Giordano Tredicine e senza motivazioni.Tra l'altro il Tredicine ha avvertito solo il 20 di Settembre, con un messaggio Whatsapp, il Segretario politico della DC, Franco De Simoni, sulla eliminazione del candidato in questione,
E' bene ricordare che Giordano Tredicine è passato dalle caldarroste alla politica ed è il pronipote tecnologico della dynasty che controlla camion bar e bancarelle. Esponente del Pdl, secondo la procura aveva una stretta rete di relazioni con Buzzi e Carminati. E forse, Tredicine, abituato a fare il bello e il cattivo tempo, ha scavalcato anche l'accordo preso da Gasparri con UDC e DC, eliminando sua sponte un candidato della DC dalla lista del I Municipio. Siamo alla frutta? Perché se Gasparri si è ridotto a far gestire la macchina burocratica delle elezioni a Roma ad uno come Tredicine vorrebbe dire che nella Capitale comanderebbe Tredicine al posto del coordinatore di FI, Gasparri.
Dire no ad un male serve a poco se non si combattono le cause che lo generano. La guerra, come la malattia, non è la causa ma l'effetto di un male profondo e diffuso: è la sommatoria delle singole disarmonie che ognuno alimenta con il suo personale egoismo. Si dice che la guerra germoglia sul terreno dell'ingiustizia, della disperazione, della miseria, ed è vero, ma non è solo questo. I popoli del benessere non hanno eliminato dalla loro realtà sociale la violenza ed il crimine. Se per assurdo ogni essere umano avrà domani da che vivere da nababbo un giorno dopo l'umanità sarebbe nella medesima situazione di oggi, perché è la coscienza degli uomini che è malata e se non si interviene sulla sfera morale dei cittadini attraverso programmi di formazione, gli uomini resteranno profondamente insaziabili e sempre capaci di commettere delitti. Un animale affamato uccide la sua preda per nutrirsi, perché da questo dipende la sua vita, ma una volta saziato non ha più motivo di essere aggressivo. Non è così, purtroppo, per gli esseri umani, a meno che non siano educati fin dall'infanzia alla giustizia e al rifiuto incondizionato della violenza. A parte sporadici pazzi criminali e venditori di armi, nessuno vuole la guerra. Il 99% dell'umanità non vuole la guerra. Nessun individuo saggio ed equilibrato può volere questo maschio, il peggiore in assoluto. Eppure la terra è disseminata di di del più forte. E' vero che quando un feroce dittatore non vuole sentire la voce della ragione è necessario impedirgli di nuocere per cercare di scongiurare mali peggiori, ma la soluzione non deve mai, in alcun modo, coinvolgere gli innocenti. E' altrettanto vero che anche in una ipotetica dimensione paradisiaca ci saranno sempre schegge impazzite: ma se le popolazioni appena educate ai principi del diritto e della vera democrazia, la scelta dei capi cadrebbe su individui capaci di operare per l'esclusivo bene loro popolo, non per le loro capacità strategiche, economiche o politiche. L'aspetto più pericoloso sta nel meccanismo innescato del benessere economico al quale le popolazioni abbienti non intendono rinunciare, anche a costo di improvvisarsi predatori a danno dei più deboli. La sola speranza per il genere umano di abolire la violenza, le ingiustizie e la guerra è di educare le popolazioni ai valori fondamentali della vita. Finché ogni Stato non s'impagnerà a curaro la formazione morale dei suoi cittadini, per dare specialmente alle nuove generazioni una mentalità di pace, di giustizia, di condivisione, di valorizzazione delle differenze culturali, di rispetto, di onestà non sarà possibile realizzare un mondo senza guerre. E' un illuso chi crede che la guerra possa essere abolita senza prima cambiare la coscienza degli uomini. di onestà non sarà possibile realizzare un mondo senza guerre. E' un illuso chi crede che la guerra possa essere abolita senza prima cambiare la coscienza degli uomini. di onestà non sarà possibile realizzare un mondo senza guerre. E' un illuso chi crede che la guerra possa essere abolita senza prima cambiare la coscienza degli uomini.
La cultura della pace non si improvvisa. Non basta dire “pace,” “giustizia” se non si rende l’animo umano capace di incarnare questi principi. La pace è il risultato finale di un processo educativo ed evolutivo della sfera morale, civile e spirituale di un popolo alla quale si può pervenire solo attraverso programmi scolastici attuati con lo stesso impegno, anzi maggiore, con cui vengono insegnate le altre discipline scolastiche. Dal cuore umano nasce infatti ogni bene ed ogni male. L’amore dorme nella coscienza di ognuno in attesa di essere legge di vita. Ed oggi, dopo duemila anni di cristianesimo, ancora grava sull’Occidente e sull’intero genere umano l’onta di non essere riuscito ad abolire il male più antico e terribile della storia: la guerra, come strumento di risoluzione delle controversie umane. L’uccisione legalizzata di un uomo è un fallimento per l’intera civiltà umana. Purtroppo qualcuno crede che non sia possibile aspirare ad un mondo senza guerre; dove gli uomini perdono i freni inibitori e l’odore del sangue fa scatenare in essi l’istinto del massacro, della devastazione, dello stupro, del sadismo, dell’umiliazione dei vinti. Come può essere consentito in guerra ciò che in tempi di pace viene condannato dalla legge e dalla coscienza morale? Chi è capace di uccidere in guerra come può, tornando a casa, essere un buon padre di famiglia, un buon cittadino? Ma la guerra ci sarà finché ci sarà qualcuno gente disposta ad uccidere.La guerra è la macchia più nera che pesa, senza possibilità di appello, sulla coscienza dell’intero genere umano come una tremenda nemesi karmica i cui frutti sono: morte, dolore, pianto, disperazione, miseria, fame, involuzione, annientamento di ogni sogno, distruzione di ogni speranza: è la fine di tutto ciò che con sacrificio e fatica si è costruito.La guerra è la peggiore espressione del genere umano che in questo dimostra di essere tra tutte le creature la più irrazionale e crudele: abitua l’uomo a convivere con la tremenda legge del fine che giustifica i mezzi e obbliga uomini, fondamentalmente onesti, giusti e buoni, a trasformarsi in feroci assassini, a compiere l’atto più ingiusto e disumano che un uomo possa compiere verso un suo simile che è costretto, suo malgrado, ad uccidere per non essere ucciso. Il dolore di una madre a cui viene ucciso il figlio, di una sposa a cui viene assassinato il compagno o un figlio è inimmaginabile, come spaventose sono le conseguenze che ricadono sempre sui più deboli e che nessuna causa può mai giustificare.Come deve essere abolito il concetto di patria/nazione (da sempre motivo di lutti e sventure) per essere sostituito con il concetto di Patria Universale, senza per questo rinunciare alla propria cultura, alle proprie tradizioni, alla propria sovranità, così deve essere abolito il concetto di guerra dalla mente e soprattutto dalla coscienza degli individui, come possibilità di risoluzione dei contrasti tra popoli, ma contestualmente ogni popolo deve essere educato alla pace, alla concordia, alla fraterna collaborazione, alla valorizzazione delle differenze culturali, politiche, sociali, religiose.
Occorre un nuovo sistema politico mondiale che rifiuti a priori ogni condivisione ai conflitti armati in grado di sancire un accordo imperituro tra le nazioni a non ricorrere in nessun caso all’uso delle armi. Un nuovo ordine internazionale in grado di istituire un esercito mondiale, composto da volontari, con il compito di prevenire e di spegnere ogni focolaio interno ed internazionale che possa trasformarsi in un conflitto armato tra le parti, ed ogni popolo deve contribuire, a seconda delle sue possibilità, al suo mantenimento. Per giungere a questo occorre pervenire all’istituzione di un Governo Mondiale che abbia il controllo delle forze armate e la capacità di unificare le stesse.L’egemonia mondiale di una sola potenza auspicata da Bertrand Russel può essere la soluzione del “meno peggio” ma ha come contropartita lo spettro che questa ceda alla tentazione di imporre il suo potere su tutti, a meno che non si trovi il modo di neutralizzare questo pericolo.Ma anche in questo caso la possibilità di una nuova guerra sarà alquanto aleatoria se contestualmente non ci sarà una forte volontà politica, da parte di ogni nazione, di EDUCARE, attraverso la scuola, le nuove generazioni all’idea che la pace, figlia della giustizia e della democrazia, è possibile, sempre e dovunque mediante la scienza della convivenza sociale e del processo integrato delle culture. Insomma, trovare una strategia adatta a scongiurare una guerra è solo una guerra rimandata, se non si interviene sulla coscienza degli uomini. Art. 11 della Costituzione recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli."
Seguo le vicende afghane da quasi trent'anni, dapprima come ricercatore e giornalista e poi, più da vicino come “practitioner” di varie organizzazioni internazionali attive in Asia centrale.
Se sono stato anch'io colto alla sprovvista dalla rapidità del crollo del regime di Kabul a Ferragosto, non ho mai avuto dubbi che questo sarebbe stato l'esito finale della sciagurata invasione lanciata dagli USA nel 2001. Ricordiamo alcuni punti fondamentali. Durante l'intervento sovietico in Afghanistan (1979-1989), gli USA hanno armato ed addestrato bande di fondamentalisti islamici provocando l'esplosione della “jihad” (e del traffico d'eroina) a livello mondiale. Dopo che il paese sprofondò nel caos in seguito all'abbandono sovietico, sempre gli USA approvarono la presa del potere da parte dei talebani. Quando, in maniera a tutt'oggi inspiegata in modo razionale, avvenne l'attacco dell'11 settembre, Washington decise d'invadere il paese senza uno straccio di prova che riconducesse i terroristi al regime dei Talebani.
Quella in cui gli europei sono stati coinvolti per vent'anni è stata dunque una guerra d'aggressione senza qualunque base legale. Tale guerra gli americani l'hanno condotta sulla pelle degli altri (l'Alleanza delle minoranze afghane del Nord) o seppellendo le posizioni nemiche di bombe, ogni volta falciando decine di innocenti.
Gli americani si sono quindi ingegnati a mettere al potere una serie di dipendenti delle loro multinazionali, completamente scollati dalla realtà del paese. In parallelo, con l'entusiastico sostegno dei vassalli europei, si è cercato di vivere in un paese di comunità agricole tradizionali il modello occidentale di stampo anglo-americano. In tal modo, gli occidentali hanno ripetuto l'errore sovietico, solo sostituendo il liberismo al marxismo. Peggio prima, la stragrande maggioranza degli afghani (non i dipendenti delle ONG mostrati dalle TV italiane) ha accolto con ripugnanza un modello di modernità che anche da noi semper di più si rivela come insieme marchio, basato su com'è sulla mercificazione di ogni valore , la competizione quale regola onnipresente, un femminismo puritano anglossassone che crea odio verso gli uomini, pornografia di massa come “liberazione”. Per non parlare degli eccessi “LGTB”, che suscitano orrore in tutte le società ad est della linea Varsavia-Istanbul.
Anche trascendendo dall'avversione delle masse per gli pseudo-valori occidentali, il tentativo di applicarli in Afghanistan nasceva morto nel momento in cui non si prevedevano sforzi per la costruzione di un'architettura statale ed economica efficace per il nuovo protettorato. I sovietici questo lo fecero ed in effetti il regime da essi lasciato a Kabul ottenuto per reggersi da solo sette anni (1989-1996).
Sotto gli americani, nella corruzione regnante di governanti senza scrupoli al soldo dello straniero, le masse si sono riallineate ai rappresentati del vecchio ordine – che per inciso avevano anche bloccato un narcotraffico ridivenuto imperante durante l'occupazione.
Per anni Washington e le sue ignave ancelle europee (i soli a credere nella retorica dei diritti umani) hanno cercato di corrompere quanti più gente possibile per portare qualcuno dalla loro parte. Costoro li abbiamo visti accalcarsi dietro gli aerei all'aeroporto di Kabul.
Per noi europei la cosa più indicata da fare di fronte a questo disastro sarebbe di trarne le debite conseguenze e scuotersi da un torpore che ci porterà solo nuove tragedie.
Vent'anni fa scrissi che l'Afghanistan, dopo essere stato la tomba del potere sovietico, annunciava l'inizio della fine dell'egemonia anglossassone sulla scena internazionale. Sottolineo anglosassone invitando chi legge a finirla con la retorica dell'“Occidente”, che è solo una sovrastruttura per il dominio anglo-americano sul resto dell'Europa. Le immagini che arrivano da Kabul servono a riflettere sul fatto che strutture come la NATO non contano più a creare sicurezza contro l'instabilità (basta guardare alla Libia) in cui l'Italia è oggi immersa. I paladini dell'“Occidente” smettano di stracciarsi le vesti per le mogli dei funzionari defenestrati di Kabul ed inizino invece a concentrarsi sulla situazione delle donne saudite, martoriate da un regime a cui il sistema a cui loro si vantano d' appartenere fornisce ogni genere di supporto. Traiamo dalla tragedia dell'Afghanistan le giuste lezioni, dobbiamo tornare padroni del nostro destino se vogliamo evitare nuovi disastri per il futuro, anche perché, data la nuova guerra fredda che USA e Gran Bretagna alimentano contro la Russia, saranno sempre più vicini a noi.
* Fabrizio Vielmini è analista di Vision & Global Trends ( https://vision-gt.eu )
Nazarbayev |
È sempre difficile trovare un filo conduttore che congiunga l'intera esperienza politica di uno statista, specie se questa si dipana lungo un arco temporale nel corso del quale si sono succeduti eventi politici, economici e sociali di rilevanza storica e rivolgimenti geopolitici epocali.
Nell'azione politica di uno statista di lungo corso, poi, spesso prevalgono le istanze tattiche ed un pragmatismo tali che oscurano e svalorizzano gli obiettivi strategici enunciati, fino al punto di snaturarli. Come in altri ambiti, anche in quello politico è sempre presente, infatti, l'eventualità di quel processo che viene definito come l' eterogenesi dei fini . La consuetudine del e col potere, inoltre, induce sovente nel politico una sorta di ossessione, di smania di presenzialismo il cui risultato è quello di piegare, se non di sacrificare, il bene comune, l'interesse nazionale e perfino le internazionali relazioni al proprio egotismo. Nel caso del primo presidente della Repubblica del Kazakhstan, Nursultan Nazarbayev , ciò non è avvenuto.E non è avvenuto non solo in ragione della sua tempra psicologica, delle sue doti caratteriali, delle competenze e delle variegate esperienze umane e politiche che ne hanno ad un tempo favorito, forgiato e consolidato il suo ruolo di “servitore del bene comune”, ma anche e soprattutto per una “visione globale” della politica internazionale e del destino del Kazakhstan in questa visione.
L'essere un civil servant , direbbero gli inglesi, o un grand commis d'État , i francesi, è la cifra che sembra contraddistinguere meglio di altre il percorso di Nazarbayev quale uomo pubblico. Il servizio per il bene comune è stato infatti l'imperativo cui Nazarbayev ha tenuto fede con senso di responsabilità e di equilibrio sia nella passata esperienza sovietica sia in quella inaugurata trent'anni fa con la proclamazione della Repubblica del Kazakhstan. Nazarbayev ha fatto tesoro della sua esperienza sovietica cogliendone gli aspetti positivi e stare attento a non ripercorrerne gli errori.Ma l'opportunità storica di costruire ex novo la repubblica e lo stato nazionale del Kazakhstan dopo il collasso sovietico hanno, in un certo qual modo, ha messo in evidenza le sue peculiarità di statista proattivo sulle questioni della pace e del raggiungimento dell'armonia internazionali.
“Pace ed armonia paiono essere, dunque, due tra i principali vettori della visione politica di N. Nazarbayev ”
Ci sono alcuni motivi razionali sui quali vale la pena riflettere per capire appieno quanto l'iniziativa internazionale del Kazakhstan, promossa da Nazarbayev fin dalla nascita del stato nazionale, sia stata, in alcune fasi, caratterizzato dalla volontà di nuovo processi di pace durevole e armonia a livello regionale ed internazionale.
Uno dei motivi principali è dato dalla posizione geografica del Kazakhstan. L'essere al centro della parte asiatica della massa continentale eurasiatica e ai confini di due giganti, quali sono indubbiamente la Federazione russa e la Repubblica popolare di Cina, pongono infatti la sfida dell'autonomia e del perseguimento dell'interesse nazionale kazaki. Tale centralità geografica pone anche la necessità di trovare una posizione che soddisfa la propria vocazione geopolitica quale perno essenziale per il mantenimento della stabilità regionale. A distanza di trent'anni, possiamo dire che l'obiettivo è stato raggiunto: fortunatamente per la regione, ma anche per il Globo intero, la stabilità è, fino ai nostri giorni, mantenuta grazie alle politiche volte alla pace ed alla cooperazione internazionale perseguite dal primo presidente kazako.
L'altro motivo per cui sono state favorite politiche ed iniziative volte al raggiungimento dell'armonia in ambito domestico, e sul quale necessita riflettere per comprendere l'iter politico di Nazarbayev, è dato dalla grande sfida che il primo presidente della nuova repubblica ha dovuto affrontare: quella relativa alla frammentazione sociale, etnica e religiosa cui l'intero corpo della giovane Nazione poteva incorrere. Il Kazakhstan è un Paese multietnico, permeato da culture varie e sensibilità religiose diverse; nell'epoca degli identitarismi ideologici e degli egoismi neonazionalisti o del cosiddetto scontro di civiltà – per dirla con le parole dello scienziato politico statunitense Samuel P. Huntington – solo una oculata politica volta all'armonia ha potuto salvare questo paese dalla catastrofe, e con esso la stabilità dell'intera regione centroasiatica.
Le iniziative di Nazarbayev riguardo alla pace ed all'armonia non si limitano però al solo perimetro nazionale e/o regionale. Esse, infatti, vengono declinate ed implementate per circa un trentennio in ambito globale. Il progetto ATOM, riconosciuto a livello ONU, ad esempio, costituisce un concreto passo verso il disarmo mondiale, così come le iniziative volte alla costituzione della Unione eurasiatica regionale un passo verso non solo una una garanzia ma un elemento per il raggiungimento di una cooperazione armonia in campo economico e politico a livello mondiale. Anche le iniziative volte al Dialogo di Civiltà, dapprima volte ad assicurare una “pace” domestica tra le varie sensibilità religiose, si ampliano con i Forum dedicati alle questioni internazionali più scottanti (Iran, Siria, Caucaso, ecc.),
Oggi, il primo presidente della Repubblica del Kazakhstan ai suoi successori ed alle generazioni future una eredità politica – costellata di istituzioni e di .
*Tiberio Graziani è Presidente di Vision & Global Trends. Istituto internazionale per le analisi globali
Il webinar dedicato alla discussione sul Mediterraneo e sulle possibili direzioni da intraprendere per la costituzione di una Pax Mediterranea è stato organizzato e organizzato da Vision & Global Trends – International Institute of Global Analyses, in collaborazione con la Scuola degli Studi Internazionali dell'Università di Trento . Il Webinar è stato condotto dal Dott. Tiberio Graziani, Chairman di Vision & Global Trends e moderatore dell'incontro, il quale ha commentato acutamente le presentazioni dei relatori, esprimendo posizioni e considerazioni personali legato ai temi esposti.
Paolo Bargiacchi – professore ordinario di Diritto Internazionale all'Università degli Studi di Enna “Kore” e docente di Diritto internazionale ed Europeo della Sicurezza presso la Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia del Ministero dell'Interno – apre la discussione focalizzandosi sulle sfide del diritto internazionale nella costruzione della stabilità mediterranea. Seguendo un approccio prettamente giuridico, egli rimarca la presenza di alcune richieste europee, essenziali nella loro presa in considerazione per la costruzione di una Pax Mediterranea. In modo particolare, si sofferma sulla necessità da parte dell'Unione Europea di esaminare nuovamente alcuni valori fondamentali sui quali essa è fondata. Eccellente esempio per avvalorare tale tesi è la problematica immigratoria che permea le acque del Mediterraneo: vi è, negli ultimi tempi, un mutamento ed ampliamento della tutela dei valori fondamentali dell'uomo, con norme ad applicazione molto più estese (extra-territoriale) e fondate sulla “giurisdizione situazionale.” Tale mutamento porta necessariamente alla necessità di una ridiscussione del concetto di “protezione internazionale” e, di conseguenza, dei diritti stessi dell'uomo. Secondo il Prof. Paolo Bargiacchi, questa revisione si rivela essere una delle principali sfide che i governi europei affrontare nel prossimo futuro: una questione oltre che giuridica di ricalibro delle priorità, che azione basilare la ride dei valori principi dell'Unione Europea, adattandoli a contest situazionali contemporanei prima della stesura di nuove norme atte alla risoluzione di problematiche correnti come, per l'appunto,
L'incontro prosegue con un'accurata contestualizzazione geopolitica del Mediterraneo e del ruolo dell'Europa nel quadro della sicurezza mediterranea a cura dell'Ammiraglio Fabio Agostini – Comandante dell'operazione EUNAVFOR MED SOPHIA nel 2020 e attualmente Comandante dell'operazione EUNAVFOR MED IRINI. L'Ammiraglio sottolinea la centralità del Mediterraneo come crocevia economico e bacino di maggior interesse per la sicurezza e la stabilità nel più ampio scenario internazionale. Esso è un punto d'incontro tra Europa, Nordafrica e Asia occidentale, tre continenti con diversità politiche, economiche, culturali e religiose, che molto frequentemente diventano miccia di conflitto. Il Mediterraneo è un'area ambita anche da attori non regionali – come Cina, Russia, Turchia e Stati Uniti – con mire di espansionismo di influenza e perseguimento di interessi nazionali. La sua sicurezza, quindi, pare cruciale in quello che l'Ammira definisce il “Giardino di casa” del Fronte sud-europeo e della Nato. Da qui l'importanza dell'attivismo dell'Unione Europea attraverso operazioni, prima EUNAVFOR MED SOPHIA (2020) e ora EUNAVFOR MED IRINI (2021), atte al mantenimento della stabilità e della sicurezza nell'ampio Mediterraneo e, più forte, in territorio libico, essendo la Libia il fulcro delle problematiche dell'area mediterranea nell'ultimo conferimento. Pertanto, vi è uno sforzo europeo coeso e sinergico su diversi fronti – economico, militare, umanitario e diplomatico – utile sia nel garantire sicurezza, sia nello sviluppo di “finestre di opportunità”. Riguardante tali finestre di opportunità, un disaccordo tra il relatore e il moderatore emerge a proposito dell'amministrazione Biden. A differenza dell'Ammiraglio Fabio Agostini, ma anche del Prof. Pejman Abdolmohammadi, il Dott. Tiberio Graziani non l'amministrazione americana come un'opportunità di alleanza sfruttabile nuova che, nonostante il Mediterraneo rappresenti un elemento di relativa importanza per il presidente americano, egli sembrerebbe più concentrato sulla relazione del contezioso cinese e, molto probabilmente, anche russo.
In breve, stabilità e sicurezza rappresentano due obiettivi chiave per la creazione di una Pax Mediterranea. Vi è, tuttavia, un terzo elemento – la cultura – non di minor rilevanza. Una Pax Mediterranea, infatti, necessita di trovare un punto di equilibrio tra i popoli che abitano il Mediterraneo e i quali condividono diversi valori. Per far ciò, oltre che a riadattare i valori occidentali, una profonda conoscenza geostorica e geoculturale dell’altro diventa inderogabile.
A tal proposito, il contributo di Pejman Abdolmohammadi – professore di Storia e Politica del Medio Oriente presso la Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento e Ricercatore Associato dell’Istituto Italiano di Politica Estera (ISPI) – sull’Italia e la diplomazia culturale nel Mediterraneo diventa rilevante.
Per poter discutere nuovamente alcuni valori fondamentali dell’Unione Europea nel contesto contemporaneo cruciale è non rimanere intrappolati nei modelli teorici; interessante riflessione condivisa sia dal Prof. Nicola Melis, sia dal Dott. Tiberio Graziani. Concentrandosi sulla teoria della modernizzazione di Samuel P. Huntington, il Prof. Pejman Abdolmohammadi ribadisce la frequenza con la quale personalità governative e istituzionali rimangono soggiogate da modelli teorici che non consentono di ampliare le personali visioni e di migliorare la politica corrente.
Egli definisce la modernizzazione come un fenomeno multidimensionale, composto da una modernizzazione economica, politica e culturale. Allo stesso modo, anche il potere non è univoco, ma articolato in diverse fonti di potere: economico, militare e simbolico. Quest’ultimo aspetto viene spesso ignorato a causa dell’impossibilità della sua misurazione; tuttavia, essenziale nel contesto della diplomazia culturale. La diplomazia culturale viene definita come “bacini comuni e elementi di rispetto reciproco e riconoscenza;” cosa che, negli ultimi anni, in Europa è sostanzialmente diminuita. Secondo il Prof. Pejman Abdolmohammadi, la diplomazia culturale diventa elemento cruciale per la creazione di una Pax Mediterranea, in quanto lo studio e la comprensione di culture differenti consente di trovare punti d’accordo e amicizia con altri attori – nella fattispecie mediterranei -, instaurando un equilibrio tra diversi valori.
In tale ambito l’Italia, a parere del professore, potrebbe svolgere un ruolo principe nel riportare in auge la diplomazia culturale nell’area mediterranea grazie all’inesistenza di una narrativa di colonialismo legata al paese, a differenza di altre nazioni europee, la quale, assieme all’impronta positiva lasciata nel corso della storia, consente all’Italia di costruire legami di fiducia tra i diversi attori del Mediterraneo.
L’essenzialità della cultura per la creazione di una Pax Mediterranea e la diffidenza nei confronti di modelli teorici, viene reiterata anche da Nicola Melis – professore associato dell’Università di Cagliari, esperto di storia dell’Impero Ottomano e docente presso l’Università di Cagliari di Storia e Istituzioni dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente e di Storia e Istituzioni dell’Africa – con la sua presentazione intitolata: Conoscenza geopolitica e religiosa in prospettiva storica. Il Prof. Nicola Melis sottolinea come, a suo parere, la Pax Mediterranea dovrebbe fondarsi sullo spirito della Dichiarazione di Barcellona o Partenariato euromediterraneo (1995), permeata da una forte impronta culturale esplicitata dal “rafforzamento del dialogo politico e sulla sicurezza e la cooperazione economica, finanziaria, sociale e culturale” tra i diversi attori mediterranei. Tale impronta culturale, come enfatizzato anche dal Prof. Pejman Abdolmohammadi, viene spesso tradita dai paesi europei, i quali risultano essere eccessivamente legati ai modelli teorici. Evidenza di tale affermazione è l’immagine corrente del mondo musulmano. Riprendendo le teorie di Samuel P. Huntington, con un focus sulla teoria dello scontro delle civiltà, il Prof. Nicola Melis espone come il mondo musulmano sia oggi considerato come una comunità compatta con comunanze etico-culturali, politiche e geopolitiche. In realtà, esistono diversi mondi musulmani, così come diversi mondi arabi, caratterizzati sì da comunanze – esempio il fattore religioso – ma anche da altrettante diversità. Questa erronea immagine viene concepita alla fine del XIX secolo, durante l’epoca imperialista, quando vi è una ripresa geopolitica da parte dei popoli europei del modello darwiniano delle civiltà. Un modello che si traduce in gerarchie di civiltà e che vede l’Europa come portatrice di progresso e, pertanto, superiore rispetto alle altre civiltà. L’immagine della civiltà musulmana viene successivamente imposta e diffusa alle altre popolazioni mediterranee, riadattandosi a contesti geopolitici differenti e creando quindi modelli astorici. Ritorna prepotente perciò l’idea che si debba dubitare dei modelli teorici perché costruiti per specifici momenti storici e necessità geopolitiche che sono differenti da quelle contemporanee. È necessario, quindi, per poter costruire una Pax Mediterranea rivedere i valori occidentali, riscoprire la cultura dei popoli e creare nuove norme pertinenti con l’attuale scenario geopolitico.
IL 7 LUGLIO, DATA SIMBOLICA, AL CENTRO DI UNA MOBILITAZIONE INTERNAZIONALE, POSSIAMO PRESENTARE UNA PROPOSTA DI LEGGE PER LA RATIFICA DEL TPAN?
Care e cari amici, che rappresentate il popolo alla Camera dei deputati in consapevole obbedienza ad una Costituzione che ripudia la guerra.
Dal nostro punto di vista di attiviste e attivisti ecopacifisti che guardano ad un mondo multipolare fondato sulla forza del diritto internazionale, nel potenziamento dell'ordinamento ONU, ci sembra molto importante che ci rivolgiamo a voi, firmatari dell'ICAN Pledge: speriamo di trovare presso di voi orecchie particolarmente attente e sensibili per quanto ora vi veniamo esponendo e proponendo di concreto, nell'ottica ideale di chi, come Papa Francesco, ritiene "immorale", oltre che illegale, lo stesso possesso delle armi nucleari.
Consideriamo una data simbolico-politica importante l'anniversario della adozione, con il voto di 122 Stati, del Trattato di proibizione delle armi nucleari (TPAN – TPNW in lingua inglese), da parte di una conferenza ONU, avvenuta appunto il 7 luglio 2017 al Palazzo di Vetro di New York.
La società civile lo ribadiamo ancora, ha partecipato a quei lavori (anche chi vi scrive era presente di persona): un ruolo riconosciuto che ha permesso alla International Campaign to Abol Nuclear Weapons (ICAN) di cui, come Disarmisti Esigenti e WILPF Italia, facciamo parte, di ricevere il Premio Nobel per la Pace 2017.
Anche Sardegna Pulita è della partita in quanto soggetto aderente alla coalizione dei Disarmisti esigenti.
Il 22 gennaio del 2021, dopo la 50esima ratifica da parte di uno Stato, il bando delle armi nucleari proclamato a New York è valutazione in vigore: la nostra è che in questo modo può ricevere impulso un percorso che, riferendosi all'articolo VI del Trattato di non proliferazione, conduca dalla proibizione giuridica all'eliminazione effettiva degli ordini nucleari.
In tutto il mondo la Rete ICAN sotto questa scadenza del 7 luglio si mobilita: anche dall'Italia possiamo dare il nostro contributo perché il nostro Paese riveda le sue posizioni ed entrate nella schiera degli aderenti, nonostante i diktat provenienti dai vertici NATO, l' ultimo del 14 giugno scorso; ed in ogni caso cerchi di giocare un ruolo attivo per fare leva sul TPNW con lo scopo anche di aprire nuovi negoziati disarmo, a partire dall'esigenza prioritaria di evitare la guerra nucleare per errore.
Vi proponiamo di avanzare un passo piccolo ma effettivo per rilanciare l'attenzione di tutto il Parlamento sulla problematica del disarmo nucleare, dimenticata proprio nel momento in cui, ben oltre l'ammodernamento delle B-61, rischiamo di vedere installa nuovi euromissili in Europa ( il Trattato INF è stato disdetto!).
Questo avverrebbe se riusciste a presentare formalmente, magari proprio in questa data simbolica del 7 luglio, una proposta di legge per la ratifica del TPAN*, ( vedi testo redatto dalla IALANA sotto riportato).
Questo vostro gesto istituzionale - la presentazione di una proposta di legge sulla base del testo redatto da IALANA, potrebbe essere accompagnato da una conferenza stampa da tenere, norme antiCOVID permettendo nei locali della Camera dei deputati, invitandoci a presenziare come pacifisti che promuovono la campagna .
Vi informiamo che la presidente al Senato del Gruppo Misto, Loredana De Petris, si è impegnata al Senato a presentare un DDL in questo senso, anche se non si è pronunciata ancora per una scadenza precisa.
La ripresa di interesse nel dibattito pubblico sul disarmo nucleare sì, per vari motivi, realisticamente potrebbe non sortire immediatamente la ratifica del trattato che chiedere. Ma, come risultato subordinato da non scartare, potrebbe comunque convincere il governo italiano ad assumere quella che chiamiamo la “posizione belga” (più avanti da noi spiegata): una delegazione diplomatica italiana, guidata dal Ministro degli Esteri, come “Paese osservatore” potrebbe andare alla prima conferenza degli Stati, attualmente 54, che hanno già ratificato questa norma internazionale contro le armi nucleari e che si terrà a Vienna nel gennaio del 2022.
L'Italia allora nonbbe formalmente subito al bando; ma nemmeno si collocherebbe tra i Paesi che sparano a palle incatenate contro!
(Detto tra noi, forse la denuclearizzazione è la più concreta ed efficace per produrre oggettive che portino a una crisi dell'anacronistico schieramento per blocchi militari).
Attrezziamoci, allora, e diamoci da fare insieme per dare fiato allo schieramento sempre più ampio che, in Europa, presta orecchio all'opinione pubblica che non intende vivere sotto la spada di Damocle nucleare e sprecare risorse economiche per la follia suicida della “deterrenza” !
Saluti con stima augurandoci di intraprendere un proficuo lavoro comune
Alfonso Navarra - Disarmisti esigenti
Antonia Sani e Patrizia Sterpetti - WILPF Italia
Ennio Cabiddu - Sardegna pulita -
* DISEGNO DI LEGGE
Arte. 1. (Ratifica del Trattato). 1. Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare il “trattato delle Nazioni Unite relativa al divieto delle armi nucleari”, approvato dalla Conferenza ONU svoltasi a New York il 7 luglio 2017.
Arte. 2. (Ordine di esecuzione). 2. Piena ed intera esecuzione è data al trattato a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, in conformità a quanto previsto dall'articolo 15 del trattato stesso.
Arte. 3. (Entrata in vigore). 3. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
il libro è a cura del Prof. Pejman Abdolmohammadi (PhD) – professore di Storia e Politica del Medio Oriente presso la Scuola di Studi Internazionali dell'Università di Trento e Ricercatore Associato dell'Istituto Italiano di Politica Internazionale (ISPI) – e del Prof Giampiero Cama – professore ordinario all'Università degli Studi di Genova, dove insegna Relazioni Internazionali e Scienza Politica –.
Lo scopo dell'opera è quello di esaminare la politica interna ed estera dell'Iran, evidenziando il suo ruolo strategico nel Medio Oriente e la sua identità libro complesso e contraddittoria tra tradizione e modernità. L'Iran ha il potenziale per svolgere un ruolo cruciale nella stabilità del Medio Oriente per una serie di ragioni. In primo luogo, l'Iran ha un potenziale significativo per agire come mediatore e ponte tra il Medio Oriente e l'Occidente grazie alla sua posizione geografica strategica, essendo situato tra il Mar Caspio e il Golfo Persico, tra l'Asia el' Europa . In secondo luogo, l'Iran è una delle maggiori potenze mediorientali in termini di risorse economiche e militari.La sua politica estera e il processo decisionale strategico potrebbe essere gli equilibri di potere nella regione. In terzo luogo, in quanto principale stato islamico sciita in Medio Oriente, l'Iran svolge un ruolo importante nelle risorse simboliche e può di conseguenza un'influenza significativa nelle aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti. A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante.influenza importanti in aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti. A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. influenza importanti in aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti.A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. influenza importanti in aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti.A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. influenza importanti in aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti.A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. influenza importanti in aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti.A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante. influenza importanti in aree strategiche come Libano, Yemen, Bahrain, Siria e Iraq, che sono affiliate al Repubblica islamica in vari modi. In questi paesi i punti di vista di Teheran sono importanti.A livello regionale e internazionale, il ruolo guida dell'Iran all'interno del mondo sciita, unito alla questione nucleare, ai suoi rapporti contraddittori con gli Stati Uniti e alla sua alleanza con Cina e Russia, fanno del Paese un argomento di studio stimolante e interessante.
A livello interno, l'Iran rappresenta un importante laboratorio di innovazioni politiche e di modernizzazione, che in alcune occasioni hanno ispirato movimenti e trasformazioni anche in altre parti della regione. Alcune di queste trasformazioni hanno portato alla democratizzazione e alla liberalizzazione, mentre altre hanno visto l'adozione di nuovi modelli di sistemi autoritari. Ad esempio, la rivoluzione costituzionale iraniana del 1906 {Enghelab-e Mashrouteh) ha rappresentato uno dei primi movimenti sorti dalla base e ha chiesto la liberalizzazione dei sistemi politici in Medio Oriente. Un altro esempio è la rivoluzione islamica del 1979, che ha rappresentato un punto di svolta per tutti i paesi islamici, e può essere paragonata alla rivoluzione russa del 1917.
La Repubblica islamica è diventata una fonte di stimolo e di speranza per molti movimenti politici islamisti. Nel 2009, è stato il Movimento Verde iraniano a scatenare la prima grande protesta pubblica da parte dei giovani in Medio Oriente vista nel ventunesimo secolo. Una nuova generazione iraniana ha chiesto più democrazia, laicità e libertà, utilizzando la tecnologia moderna, in particolare i social media come Twitter e Facebook e la comunicazione satellitare; questo ha in parte ispirato il movimento della "primavera araba" in altre parti della regione. Anche se il Movimento Verde è stato represso, ha presentato le nuove generazioni iraniane come tra le più progressiste del Medio Oriente. È possibile sostenere che nella reazione e nella critica all'uso politico dell'Islam si siano viste in Iran le prime tracce di sostegno a una società post-islamista in Medio Oriente. Il paese stato stato uno dei primi paesi del Medio Oriente a istituire un moderno islamico nel, ma dopo quattro decenni ha iniziato a frequentare una scuola tendenze post-isla, volte a promuovere valori più laici. Per comprendere più in profondità queste tendenze, è importante e rilevante esaminare la società iraniana e le interazioni tra diversi gruppi sociali e culturali all'interno della Repubblica islamica. Questi sviluppi in corso in Iran sono in contrasto con le principali tendenze in molti altri paesi del Medio Oriente. Turchia, Qatar, Marocco e Yemen stanno promuovendo, sia pure con interpretazioni diverse, l'ascesa dell'islam politico.Questo libro ha adottato un approccio multidisciplinare.
Politiche interne ed estere contemporanee dell'Iran
Abdolmohammadi, P. & Cama, G.
Il comando biblico “Crescete e moltiplicatevi” potrebbe portare l'umanità al punto di non ritorno. Il conseguente pericolo di questo assunto biblico dimostra che nessun principio, nessuna dottrina, nulla di ciò che viene sancito nei testi religiosi, come in ogni legge laica, ha valore imperituro.
Durante l'anno zero, cioè la nascita di Cristo, la popolazione mondiale era di 350 milioni di anime. Si calcola che nel 1800 la popolazione fosse di 700 milioni e che nel giro di un trentennio sia aumenta di un terzo fino a raggiunge un miliardo di unità nel 1830. Un secolo dopo sulla terra si contano 2 miliardi di esseri umani e nel 1975 4 miliardi . Oggi, 2021, la popolazione mondiale è di circa 7,8 miliardi di persone e si prevede che un fine secolo sarà di 100 miliardi. Ma molto prima sarà superato il numero
massimo di esseri umani tollerato dal pianeta.
Thomas Robert Malthus all'inizio dell'800 già affermava che se la moltiplicazione del genere umano non fosse stata regolata sarebbe stata causa di carestie e fame nel mondo ed il motivo della sua stessa rovina.
Anche se l'incremento demografico venisse arrestato e la fertilità umana diminuisse, la tendenza all'affollamento rimarrebbe. Alcuni esperti sono concordi nell'affermare che anche riuscendo a stabilizzare le nascite a livello zero (uguale a quello dei decessi) la popolazione mondiale raggiungerebbe ugualmente 16 miliardi di individui prima di una assestamento definitivo, cioè il doppio della popolazione attuale.
Se in un ascensore per capienza di 4 persone ne entrano 8 tra i gli occupanti si manifestano segni di insofferenza, di ansia, di paura e qualunque incidente degenera in aggressività. Allo stesso modo, se una tavola è imbandita per nutrire 10 persone, a mano a mano che si aggiungono nuovi commensali le porzioni diventano sempre più piccole e quando l'esigua porzione non è più sufficiente a sfamare nessuno dei presenti, si manifestano azioni di forza e di violenza secondo la legge mors tua vita mea. Questo è quanto succederà al genere umano se responsabilmente non si impegnerà a contenere l'incremento demografico.
Il maschio supremo dell'uomo sta nella sua indifferenza verso gli effetti che hanno prodotto le scelte individuali. Mettere al mondo un essere, per realizzare se stesi o appagare il proprio desiderio di essere genitori, è puro egoismo.
Anche quando la procreazione è concepita per la gioia di avere un figlio da amare, è sempre l'egoismo che ci muove. La sola cosa che può giustificare la messa al mondo di un nuovo essere è l'amore per la vita, la volontà di chiamare un nuovo essere al bene dell'esistenza, la volontà di dare al mondo un elemento armonico e positivo per il bene di tutti; non per propria soddisfazione, non per assicurare a se stessi la propria discendenza, non per avere sostegno nella fase della vecchiaia, nè per lasciare il proprio patrimonio finanziario o immobiliare, ma nell’intento di contribuire a rendere migliore questo mondo.
Donare la vita è l'esperienza più meravigliosa dell'universo (e nello stesso tempo più pericolosa e drammatica), per questo è grande la responsabilità verso chi (forse) non chiede di esistere.
La realtà antropologica mostra che quanto più una popolazione vive nella povertà e nell'ignoranza tanto più tende a moltiplicarsi, mentre quanto più c'è civiltà e benessere economico più si restringe il numero dei componenti familiari. Ma tutto è interconnesso e solo da una volontà politica generale intesa a favorire la prosperità e la cultura anche delle popolazioni indigenti può nascere il vero piano di contenimento delle nascite e scongiurare inquietanti prospettive future.
Le aggressioni israeliane in corso nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, contestuali alla brutale repressione delle proteste dei cittadini israeliani arabi, mostrano i limiti degli accordi Abramo, che avevano di fatto estromesso la questione palestinese dalla diplomazia; intanto, l’esercitazione a guida USA Defender-Europe, quest’anno particolarmente imponente, aumenta le tensioni con la Russia, aprendo un fronte tra i Balcani, il Mar Nero e l’Asia centrale; sul piano interno, nelle “democrazie neo-liberali” l’emergenza sanitaria globale ha favorito una militarizzazione progressiva delle società, e non solo per via della terminologia caratteristica della narrazione della pandemia
Dejà-vu?
Il riaccendersi del conflitto israelo-palestinese è in apparenza un déja-vu geopolitico. Lancio di razzi dalla Striscia di Gaza, reazione sproporzionata e aggressiva dell’esercito israeliano, i soliti vani inviti della comunità internazionale alla cessazione delle ostilità. In realtà, sono almeno tre gli elementi nuovi di questa crisi: il primo è l’apertura, per Tel Aviv, di un fronte interno in diverse città finora caratterizzate dalla coesistenza pacifica tra arabi ed ebrei, sia pure fondata sulla disponibilità dei primi di godere dei pochi benefici sociali che si potevano trarre da una cittadinanza di serie b. Ora, le proteste mostrano una maggior intraprendenza civile e politica delle giovani generazioni di cittadini arabi dello Stato di Israele, per i quali la crisi sociale innescata dall’emergenza Covid-19 ha solo aggravato una condizione di oppressione già dominata dall’espansionismo dei coloni israeliani e da espulsioni ed espropri forzati. Dinamiche consolidate, negli ultimi quattro anni, dall’ex presidente USA Donald Trump e, soprattutto, dal suo alto consigliere per il Medio Oriente, il genero Jared Kushner. Uomo d’affari del settore immobiliare, storico sostenitore delle campagne elettorali dei democratici, nel 2016 cambiò bandiera, sostenendo l’elezione del suocero sia dal punto di vista finanziario, sia con una febbrile attività di marketing politico attraverso le reti sociali.
Tra Tehran e Ankara: il pendolo di Washington
Premiato con una nomina di profonda sensibilità strategica, Kushner è stato dunque l’artefice della politica mediorientale dell’amministrazione Trump, riassumibile nella linea della massima pressione sull’Iran (fino alle pretese di un cambiamento di regime), mediante il ritiro di Washington dagli accordi denominati Piano di azione congiunto globale (JCPOA) e la creazione di un solido e agguerrito fronte anti-iraniano che aveva tra i suoi pilastri il premier israeliano Benyamin Netanyahu, l’Egitto di Mohamed Abd-al-Fattah a-Sissi e le petro-monarchie del Consiglio di cooperazione del Golfo (ai cui regimi la diplomazia petrolifera frutta sempre meno), in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Un fronte consolidato dagli accordi di Abramo, che hanno favorito l’instaurarsi di una cooperazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Ne è rimasta fuori, invece, l’Arabia Saudita, che, da un lato preferisce non contrariare l’opinione pubblica in gran parte filo-palestinese, dall’altro non ha alcuna necessità di aumentare o rivedere il suo rapporto di collaborazione con Tel Aviv. Gli Accordi di Abramo, insieme ad altri accordi bilaterali di normalizzazione tra Israele, Egitto e Sudan, hanno stabilito un assetto geopolitico diverso da quelli nei quali si erano inserite le precedenti aggressioni israeliane contro i territori palestinesi, in particolare nella Striscia di Gaza. Il secondo elemento nuovo del conflitto in corso, è, appunto, il quadro geopolitico stabilito da questa rete di accordi, che hanno coinvolto, lo scorso anno, anche la Serbia (storicamente alleata del popolo palestinese) e il Kosovo, primo paese musulmano (il cui statuto, peraltro, non è unanimemente riconosciuto dalla comunità internazionale) ad aver aperto un’ambasciata a Gerusalemme.
Un’altra eredità dell’era Kushner, è infatti il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e dal conseguente trasferimento delle sedi diplomatiche dalla capitale amministrativa. Una mossa che ha estromesso la questione palestinese dal dominio della diplomazia, legittimando implicitamente la colonizzazione israeliana e favorendo, così, l’ascesa delle forze politiche più intransigenti. Complessivamente, dunque, durante i quattro anni di mandato di Trump, Washington ha adottato la linea dura nei confronti di Tehran, lasciando, di contro, che gli altri attori regionali, Turchia, Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, accrescessero il proprio peso geopolitico. Al contrario, l’amministrazione di Barack Obama era caratterizzata da un approccio più costruttivo nei confronti dell’Iran, ma più diffidente nei confronti di Ankara. Lo stesso approccio, almeno finora, adottato dall’attuale inquilino della Casa Bianca, con il quale Kushner, nell’editoriale del Wall Street Journal del 14 maggio, si è congratulato per l’astuzia strategica della sua decisione di riaprire il dialogo con l’Iran. In altri termini, quelle che sembrano virate strategiche altro non sono che strumenti per portare avanti la stessa strategia, tipica degli USA in Medio Oriente (e non solo), divenuta particolarmente evidente a partire dalla guerra del Golfo del 1990 e delle sue devastanti conseguenze. Una sua variante, osservabile nell’ex sfera di influenza sovietica, risponde al principio (simile, ma calato in un approccio più interventista da parte di Washington) per cui gli alleati di oggi sono quelli che bombarderemo domani.
Movimenti di truppe tra Oriente e Occidente
In generale, nell’ultimo mese, si sono acuiti gli attriti tra potenze mondiali e regionali nelle zone di maggior frizione tra Russia e Stati Uniti. Meno interessata al fronte mediorientale, Mosca guarda infatti con inquietudine lo svolgimento in corso di Defender-Europe 21, l’esercitazione militare annuale congiunta, condotta dalle forze armate USA in coordinazione con i paesi partner della regione, non necessariamente appartenenti all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico Nord (NATO). Le operazioni previste quest’anno interessano 16 paesi e coinvolgeranno un totale di 28 mila soldati. Tra i paesi partecipanti figurano, a titolo di esempio, l’Italia e il Kosovo, mentre tra le aree maggiormente interessate (dall’esercitazione principale e da altre ad essa correlate) ci sono i Balcani, il Mar Nero, il Baltico e il Maghreb. Per descrivere la portata di questo pantagruelico apparato, la cui grandiosità spicca sullo sfondo del disastro sociale provocato dall’emergenza sanitaria, il generale statunitense Tod Walters, a capo del comando USA in Europa, ha citato il D-Day, lo sbarco degli anglo-americani in Normandia nel 1944. I sospetti russi riguardano in particolar modo due delle regioni che ospiteranno le operazioni: i Balcani, zona di attrito tra Russia e USA dagli anni ‘90 del secolo scorso, e il Mar Nero. Quest’ultimo costituisce per Mosca una minaccia di non poco conto, soprattutto considerando la concomitanza temporale di Defender-Europe 21 con altri due fatti. Primo, il recente riacuirsi, in aprile, del conflitto russo-ucraino, che ha indotto Mosca a schierare truppe vicino al confine con l’Ucraina. Secondo, il progetto folle di Kanal İstanbul, il nuovo canale sul Bosforo, annunciato dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan nel 2011. I lavori, ha dichiarato lo stesso Erdoğan, inizieranno l’estate prossima e si concluderanno, prevedibilmente, nel 2028.
Un nuovo fronte sul Mar Nero?
A parte le mire neo-ottomane di Erdoğan, Mosca guarda con inquietudine a questi sviluppi, in particolare da quando si sono acuite le tensioni con l’Ucraina. Queste ultime, infatti, hanno fatto riemergere la questione storica della Crimea, e più in generale del Mar Nero, che da secoli costituisce un fronte caldo tra Russia e Turchia. Infatti, lo scorso gennaio, il presidente turco ha dichiarato che il nuovo canale non sarà vincolato ai termini della Convenzione di Montreux, firmata nel 1936 da Francia, Bulgaria, Grecia, Romania, Jugoslavia, Turchia, Regno Unito, Unione Sovietica, Giappone e Australia per regolamentare il transito di navi da guerra attraverso gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, la cui gestione fu affidata alla Turchia. Il trattato prevede, in tempo di pace, la libera circolazione delle imbarcazioni civili e restrizioni per le navi da guerra dei paesiche non si affacciano sul Mar Nero. Norme, quindi, che garantiscono la sicurezza non solo della Russia, ma anche della stessa Turchia: escludere Kanal İstanbul dalla giurisdizione della convenzione di Montreux sarebbe dunque un azzardo, soprattutto con la crisi delle relazioni russo-ucraine non ancora risolta. Ankara, infatti, si è schierata con Kiev, muovendo un ulteriore passo verso il deterioramento delle relazioni con Mosca, già messe a dura prova dal conflitto libico (nel quale le due potenze sono rivali).
C’è il rischio di un cesarismo regressivo
Contro il progetto folle di Erdoğan, si sono espressi, all’inizio di aprile, anche 104 ammiragli turchi in pensione, con una dichiarazione pubblica firmata costata a dieci di loro l’arresto con l’accusa di “attentato all’ordine costituzionale”. Le loro critiche, secondo il presidente turco, sono “allusioni a un golpe”, anche se la loro posizione è simile a quella manifestata qualche giorno prima da 126 ambasciatori: la Convenzione di Montreux protegge gli interessi turchi. L’arresto dei dieci ammiragli sarebbe, pertanto, l’ennesimo atto dello scontro tra Erdoğan e i militari kemalisti (laici), oppure il tentativo di Ankara di gestire gli equilibri tra le componenti del suo stato profondo, in particolare tra quella più allineata con la NATO e quella cosiddetta “eurasiatica”, cui appartiene Cem Gurdeniz, uno dei militari fermati e l’ideologo della teoria della “Patria blu” (Mavi Vatan).
È forse possibile che la militarizzazione della narrazione (e, in alcuni paesi, della gestione) dell’emergenza sanitaria, diffusa attraverso l’omnipervasiva Rete (in particolare mediante le reti sociali), abbia mutato la percezione che le opinioni pubbliche delle democrazie neoliberali hanno delle guerre vere e proprie e degli apparati militari? Sarebbe prematuro dirlo, ma in due paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Francia e USA, le forze armate hanno recentemente, per così dire, esortato i rispettivi presidenti a prendere le redini delle rispettive società, prima che le tensioni sociali diventino incontrollabili senza l’indispensabile intervento degli eserciti. In Francia, peraltro, l’appello firmato da 20 generali in pensione conteneva il riferimento a un potenziale di pericolo nelle minoranze musulmane. Inoltre, vale la pena osservare che il testo è stato pubblicato dal settimanale di destra Valeurs actuelles lo scorso 21 aprile, anniversario del tentato golpe messo in atto ad Algeri contro il generale Charles De Gaulle. Negli USA, invece, più di 100 generali in pensione hanno indirizzato una lettera aperta al presidente Biden, accusandolo di cercare di instaurare “una forma marxista di governo tirannico”. Due episodi che, se isolati, dimostrano l’emergere di forze (nelle società civili e negli apparati istituzionali) che guadagnano consensi strumentalizzando il timore e la collera di tessuti sociali dissestati dalla tirannide del mercato. E degli imperi.
A pochi giorni dalle elezioni presidenziali in Albania, tra le tensioni tra Russia e Stati Uniti e il nuovo pericoloso riemergere della questione kosovara, le indiscrezioni su un documento non ufficiale che il presidente del governo sloveno Janez Janša avrebbe inviato al presidente del Consiglio europeo Charles Michel per la ridefinizione dei confini dei Balcani hanno destato preoccupazioni nella regione; Washington, dopo aver tentato di rinvigorire in Asia il Dialogo quadrilaterale per la sicurezza, si prepara dunque ad affrontare Mosca su due fronti: Balcani e Mar Nero; con l’incognita (almeno apparente) di Ankara
Non esiste alcun documento ufficiale che preveda la dissoluzione della Bosnia ed Erzegovnia (BiH). Questa la sostanza delle rassicurazioni che, lo scorso 16 aprile, il presidente del governo sloveno Janez Janša ha rivolto a Šefik Džaferović, esponente bosniaco della presidenza della Repubblica di Bosnia ed Erzegovnia. Durante lo stesso colloquio telefonico, Janša ha espresso il suo sostegno alla sovranità, all’integrità territoriale e al cammino euro-atlantico bosniaci, nel rispetto degli accordi di Dayton del 1995. Nondimeno, il non-documento (1) diplomatico non-ufficiale diffuso qualche giorno prima dai siti di informazione sloveni politicki.ba e necenzurirano.si, ha suscitato interrogativi e timori, per almeno due ordini di motivi: la mancanza di una reazione univoca da parte delle istituzioni europee ufficiali e il fatto che il prossimo primo luglio sarà Ljubljana ad assumere la presidenza del consiglio dell’Unione europea. Secca (benché tardiva), invece, è stata la smentita da parte di Janša, secondo il quale la Slovenia sta veramente cercando soluzioni per lo sviluppo della regione e per la sua integrazione nell’Unione europea (UE), ma che queste affermazioni cercano di impedire tale obiettivo. Negli stessi giorni, il membro croato della Presidenza bosniaca Željko Komšić ha convocato l’ambasciatrice slovena a Sarajevo, ricordando che il presidente della Repubblica sloveno Borut Pahor, durante la visita dello scorso marzo, aveva domandato ai tre componenti della Presidenza bosniaca un parere su una possibile separazione pacifica del territorio, ricevendo un parere positivo solo dal membro serbo Milorad Dodik, che successivamente ha portato la questione in parlamento. Peraltro, non è stata questa la prima volta che Ljubljana avanza l’ipotesi di una divisione della Bosnia ed Erzegovina: già nel 2010, quando era a capo del governo, Pahor inviò in Bosnia l’ex presidente della Repubblica Milan Kučan, che, una volta tornato, sottolineò l’impossibilità di dialogo tra le tre componenti, serba, croata e bosniaco-musulmana, tale da rendere preferibile una separazione consensuale a una coesistenza forzata.
Una linea simile, dunque, a quella emersa dal controverso non-documento che Janša avrebbe inviato a febbraio al presidente del Consiglio europeo Charles Michel, intitolato “Balcani occidentali, la via da seguire”: la bozza di un piano per ridisegnare su base etnica i confini della regione, che comporta l’unificazione di Albania e Kosovo (che nel 2008 ha proclamato unilateralmente la sua indipendenza, ma ancora non ha ottenuto un pieno riconoscimento internazionale, come dimostrano le ultime vicende della nazionale di calcio kosovara in Spagna - 2) e lo smembramento della Bosnia ed Erzegovina, buona parte della quale dovrebbe essere suddivisa tra Serbia e Croazia. I bosniaci in tal modo guadagneranno uno Stato che funziona in modo indipendente e se ne assumeranno la piena responsabilità. Si organizza un referendum per far scegliere il popolo tra un futuro UE o non-UE (Turchia). Si ventila, inoltre, l’ipotesi di negoziati accelerati per l’accesso dei paesi della regione nell’UE e nell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (NATO), ma nessun provvedimento verrà preso prima di aver consultato i governi per vagliarne la disponibilità a realizzare il piano, né prima di aver lanciato un programma completo di comunicazione per presentarlo. E di aver attuato un controllo silenzioso nella regione e in seno alla comunità internazionale, per accertarne la fattibilità. Nondimeno, Komšić, che ultimamente ha espresso in via ufficiale a Bruxelles i propri timori per l’integrità territoriale bosniaca, messa a rischio da ingerenze straniere, ha dichiarato di aver sentito da Pahor che nel vecchio continente si ipotizza un processo di integrazione dei Balcani occidentali nella UE che parta dal completamento della dissoluzione della Jugoslavia. D’altro canto, la scorsa settimana il presidente del Consiglio albanese Edi Rama ha confermato di aver avuto per le mani un documento non ufficiale contenente una carta con alcuni confini modificati nella regione dei Balcani occidentali. L’ho visto prima che me lo mostrasse il mio collega Janša e ne abbiamo discusso di recente, ha aggiunto Rama, precisando di aver visto anche un documento pubblico sul tema, ma di non poter rilasciare commenti al riguardo. Il che lascerebbe intendere che non si tratti di un documento sloveno, come dicono da Bruxelles.
A complicare il quadro, l’esistenza di un altro non-documento (3), firmato da Croazia, Slovenia, Ungheria, Bulgaria, Grecia e Cipro, e presentato lo scorso 22 marzo dal ministro degli Esteri Gordan Grlić Radman a Bruxelles. In esso, il partito croato di governo (Unione democratica croata, HDZ, fondata nel 1989 dal signore della guerra ed esponente nazionalista Franjo Tuđman) sostiene gli sforzi del suo omologo bosniaco, il partito fratello HDZ BiH, per modificare la legge elettorale in modo tale da assegnare una posizione di preminenza alla componente croata nel controllo dei processi legislativi e, più un generale, delle decisioni che interessano la Bosnia. In altri termini, anziché lo smembramento, il testo propone di affidare a un elemento egemone il controllo di un territorio tradizionalmente caratterizzato dal pluralismo e situato in una posizione strategica, in cui si intrecciano quasi tutte le vie commerciali in senso lato, dalle nuove vie della seta cinesi (la Belt and Road initiative, BRI), ai traffici illeciti, fino al reclutamento di mercenari. In tal modo, come in passato, si accresce l’esposizione dei Balcani (e non solo della Bosnia) alla tendenza delle potenze rivali a considerarlo come terra di conquista e teatro di conflitti per procura. Ciò priva la multietnicità del suo potenziale costruttivo, rendendo vano qualsiasi tentativo di autentica pacificazione: un meccanismo detto balcanizzazione e riprodotto mutatis mutandis in altre regioni strategiche, come l’Asia centrale (Afghanistan in testa), il Medio Oriente, il Maghreb o il Sahel. Per citare qualche esempio, si pensi in primo luogo a come queste regioni finiscano per diventare terre di nessuno, ridotte a zone di sfruttamento ambientale intensivo o a sacche di reclutamento di manodopera a basso costo (ai limiti della schiavitù) e, di conseguenza, regioni spopolate e dipendenti da paesi più ricchi. Nel giugno 2018, il mensile francese Le Monde Diplomatique ha pubblicato un reportage (4) eloquente sulla crisi democrafica che affligge i Balcani, dove, persa ogni speranza di cambiamento, alle generazioni più giovani non resta che aspirare a un lavoro all’estero, in particolare in Germania.
In secondo luogo, dopo la dissoluzione della Jugoslavia e la transizione all’economia di mercato, i Balcani si sono tristemente trasformati (secondo modalità che ricordano le tratte degli schiavi delle epoche coloniali) in un bacino di reclutamento di mercenari per vari schieramenti e sui fronti più disparati. Come nel caso dei combattenti stranieri (per lo più tra le comunità musulmane locali) per i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico. Viceversa, durante i conflitti degli anni ‘90 del secolo scorso, Bosnia e Kosovo avevano assistito a un considerevole afflusso da un lato di moudjaheddine provenienti da vari paesi accorsi a sostenere i fratelli musulmani, dall’altro di combattenti anti-musulmani, come i mercenari greci che gravitavano attorno al gruppo di estrema destra Alba Dorata (in un numero stimato tra 150 e 300 nel 1995). Nel primo caso si possono citare i 1500 (5)soprattutto Turchi, ma anche Egiziani, Algerini, Tunisini e Sudanesi, che si erano stabiliti in Bosnia anche dopo il conflitto, ottenendo la cittadinanza. Una parte non insignificante dei quattro o cinquemila moudjaheddine arabo-musulmani che, in base agli accordi di Dayton, avrebbero dovuto lasciare il paese. Una clausola comprensibile, visto che nel 1992 il loro arrivo (6) era stato gestito da organizzazioni non governative (ONG) islamiche, a partire dalla Croazia, mentre nel 1993 è avvenuta la loro integrazione nell’esercito bosniaco, ad opera del generale Rasim Delić. La loro parabola sembrava parzialmente conclusa nel 2007, quando il nemico numero uno era non più il sistema sovietico, ma il fondamentalismo islamico, e questi nuovi cittadini divennero indesiderabili. Il parlamento bosniaco adottò pertanto una legge per la revisione delle loro naturalizzazioni. Quanto ai serbo-bosniaci e ai serbi del Kosovo, uno scambio simile si è avuto con la Russia, in particolare dallo scoppio della crisi ucraina (e conseguente crisi crimea), nel 2014. Da allora, infatti, molti mercenari sono stati e sono reclutati, soprattutto in Serbia e nella Republika Srpska, da organizzazioni (7) come Kosovo Front, Balkan Cossack Army, che oltre alla remunerazione, promettono impunità e la narrazione gloriosa della fratellanza tra popoli slavi. Tanto più che molti sono stati i volontari russi partiti per i fronti balcanici a sostegno dei serbi.
Oltre alle mire di Ankara e di Mosca, a capotavola al banchetto balcanico siedono, dall’ultimo decennio del XX secolo, gli Stati Uniti, che al hard power degli interventi militari, presentati ovviamente come umanitari (in difesa della libertà e della democrazia e contro i regimi autoritari), hanno affiancato un soft power che si è tradotto soprattutto nel sostegno-controllo di organizzazioni non governative locali, spesso fondate da personalità che si lanciavano sullo scenario politico come difensori dei diritti umani e civili. Una di esse, Otpor! (“resistenza”), divenuta un importante attore politico, è stata un trampolino di lancio per Srđa Popović e Slobodan Đinović, i due fondatori del Centro per le azioni e le strategie non violente applicate (Canvas - 8), una sorta di centro di formazione che attualmente mette a disposizione i propri consulenti in una cinquantina di paesi, tra i quali la Georgia, l’Ucraina, la Bielorussia, la Russia, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Libano, l’Egitto, l’Albania e il Kosovo. Regione, quest’ultima il cui statuto innesca ancora dibattiti accesi tra chi ne riconosce l’indipendenza (117 paesi) e chi rifiuta di farlo, come la Cina, la Spagna o la Russia, il cui rappresentante, nella video-conferenza (9) sul Kosovo del Consiglio di Sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) del 13 aprile, ha chiesto, invano, che ne fosse rimossa la bandiera che campeggiava dietro il suo rappresentante, argomentando che otto paesi su quindici… non lo riconoscono come paese. Tale mancanza di riconoscimento internazionale, peraltro, lo pone al di fuori di qualsiasi giurisdizione, ivi inclusa quella del Consiglio d’Europa, il cui Comitato contro la Tortura (CPT) ha chiesto di avere accesso a Camp Bondsteel (10), base militare della NATO installata, vicino la città di Ferizaj / Uroševac, nel 1999, dai soldati statunitensi, immediatamente dopo il conflitto kosovaro. A fine 2005, l’inviato speciale del Consiglio d’Europa per i diritti umani descrisse il centro di detenzione all’interno della base come una versione ridotta di Guantanamo. Qui Washington teneva reclusi molti prigionieri catturati durante le guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq. Dopo anni di vane richieste, nel 2008 la proclamazione unilaterale di indipendenza da parte di Priština, ne ha escluso il territorio dalle competenze della Convenzione europea contro la tortura.
Questa mossa, fortemente caldeggiata dagli USA, è stato un precedente di sostegno al separatismo in quanto esercizio del diritto di autodeterminazione dei popoli: così la Russia post-sovietica del presidente Vladimir Putin ha giustificato il suo sostegno alle repubbliche georgiane separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud nel 2008, e l’annessione della Crimea nel 2014. Tuttavia, per il Kosovo sembra non ci sia nulla da fare, almeno nel breve termine, visto che sia Priština, sia Tirana negli ultimi anni hanno contato in misura crescente sul sostegno di Washington. Al punto da accettare la presenza di Camp Bondsteel o, per quanto riguarda l’Albania, da accogliere un gruppo islamico-marxista iraniano dissidente, installato fino a una decina di anni fa nella base di Ashraf in Iraq. Viceversa, le diaspore albanese e kosovara negli USA hanno accresciuto progressivamente il loro peso nei paesi di origine, fino a costituire forze politiche influenti negli scenari locali, dall’Esercito di liberazione del Kosovo fino ai nuovi democratici albanesi. Specularmente, questi gruppi rappresentano sostanzialmente gli interessi statunitensi nella regione, anzitutto conquistare il potere di alzare i toni dello scontro con Mosca e arginare le velleità neo-ottomane di Ankara, che sembra attenersi sempre meno alla linea atlantista per perseguire obiettivi propri. Il Kosovo, appunto, rappresentava, con la Bosnia, un significativo punto di appoggio nel mezzo dei Balcani occidentali. Almeno finché Priština non ha aperto una sua rappresentanza diplomatica a Gerusalemme, ottenendo così il riconoscimento da parte di Israele (117esimo paese), ma al contempo scatenando le ire della Turchia, che per mesi ha esercitato pressioni per indurre i fratelli kosovari a tornare sulla retta via. Oltretutto, il 14 aprile il ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Maliki ha inviato un appello ufficiale al Segretario generale dell’Organizzazione della conferenza islamica di interrompere le relazioni con il Kosovo. Un retaggio dell’era Trump o il preludio all’era del presidente globalista Joe Biden?
(1) - https://necenzurirano.si/clanek/aktualno/objavljamo-slovenski-dokument-o-razdelitvi-bih-ki-ga-isce-ves-balkan-865692
(2) - https://www.repubblica.it/sport/calcio/esteri/2021/03/31/news/spagna_kosovo_politica_indipendenza-294469124/
(3) - https://www.dw.com/hr/neslu%C5%BEbeni-papiri-prave-kaos-na-balkanu/a-57243246
(4) - https://www.monde-diplomatique.fr/2018/06/DERENS/58727
(5) - https://www.liberation.fr/planete/2007/05/17/la-bosnie-expulse-ses-moudjahidin_93331/
(6) - https://www.cairn.info/revue-strategique-2013-2-page-219.htm
(7) - https://balkaninsight.com/2021/04/16/as-ukraine-conflict-intensifies-serb-volunteers-prepare-for-battle/
(8) - https://www.monde-diplomatique.fr/2019/12/OTASEVIC/61096
(9) - https://www.lefigaro.fr/flash-actu/incident-a-l-onu-lie-au-kosovo-de-l-importance-de-l-arriere-plan-lors-des-visioconferences-20210413
(10) - https://www.theguardian.com/world/2009/jan/23/secret-prisons-closure-obama-cia
Nei primi cento giorni dall'insediamento si delineano le linee guida che una nuova amministrazione seguirà. Biden sembra voglia continuare la politica aggressiva nei confronti della Russia e dei suoi protetti, prova ne è che in Ucraina si continui ad ammassare truppe a ridosso del Dombas, territorio abitato da popolazione russa. Questa politica nei confronti di Putin, tesa forse a costruire un nemico esterno teso a deviare l'attenzione pubblica da problemi interni, ci sembra essere più una teoria propagantistica che una concreta deduzione suffragata da fatti. Ne parliamo con il Presidente della Vision & Global Trends , Istituto Internazionale di Analisi Globale, Tiberio Graziani.
Come spiegherebbe la decisione dell'amministrazione Biden di imporre sanzioni alla Russia subito dopo aver offerto un incontro a Putin? Qual è il messaggio?
Le nuove sanzioni contro la Russia e l'espulsione dei diplomatici ci dicono che tra gli USA e la Federazione russa è in atto una guerra ibrida. L'Amministrazione Biden fa tesoro delle precedenti guerre commerciali promosse da Trump, e al ventaglio delle azioni offensive ne aggiunge nuove che investono anche il dominio della diplomazia ed altre di tipo economico-finanziario. In particolare, per quanto riguarda i diplomatici russi espulsi, il messaggio di Biden è rivolto principalmente agli alleati di Washington ai quali dice chiaramente: diffidate della diplomazia del Cremlino e dei canali diplomatici e seguite il nostro esempio. Il Regno Unito si è subito accodato all'iniziativa statunitense, il governo Johnson si è affrettato a convocare l'ambasciatore russo!
Si aspetta che le ultime sanzioni si traducano in un annullamento del vertice? Quali sarebbero le conseguenze di questo?
Queste ultime azioni riducono, al momento, i margini delle manovre diplomatiche. Dovranno passare alcune settimane prima che si possa riparlare di un dialogo tra Biden e Putin. Settimane che Biden utilizzerà al meglio per: - consolidare i rapporti con i suoi alleati, in particolare, per quanto riguarda l'Europa, con la Germania in funzione antirussa; - amministrazioneare al centro del sistema occidentale la NATO, che l'attuale ritiene importante tassello della sua strategia in Europa orientale e nel Mediterraneo allargato.- perfezionare il sistema di sicurezza QUAD nel quadrante dell'indo-pacifico.
Il rapporto tra le due nazioni può ulteriormente degradarsi a seguito di questi sviluppi? Quali sono i rischi?
I rischi ci sono, eccome! Tuttavia, al momento mi sembra che l'opzione militare sia molto lontana. Uno scontro di tipo militare anche mediante una guerra per procura, ad esempio ai confini dell'Ucraina, non conviene a nessuno dei due contendenti.
Se il vertice avrà ancora luogo, quali sono le sue aspettative da un simile incontro? Potrebbe cambiare qualitativamente il rapporto tra i due leader ei loro paesi? O è probabile che sia un fallimento, viste tutte le differenze tra le due parti?
Non credo che si terrà a breve un summit, soprattutto non penso che gli USA cambieranno il loro approccio nei confronti della Federazione russa. Fondamentalmente i rapporti tra Washington e Mosca, come quelli tra Biden e Putin, dipendono dalle contraddizioni interne all'amministrazione USA e dalla sua difficoltà ad accettare la perdita del ruolo egemonico che Washington ha esercitato negli ultimi trent'anni. Comunque, va sottolineato che per quanto riguarda la sicurezza globale, Stati uniti e Russia hanno trovato un punto di equilibrio, volenti o nolenti che siano.
Manlio Dinucci analizza tutti i segnali che dimostrano l'intenzione della Nato di provocare la Russia fino al punto da generare una escalation dai risvolti imprevedibili: "Con l'arrivo di Biden alla Casa Bianca, in Siria e in Ucraina si sono subito riaccesi focolai di guerra. L'Italia non deve farsi trascinare in un conflitto senza senso contro la Russia, che non ha intenzione di minacciare nessuno "