L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Carlotta Caldonazzo
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"Chi sarà il prossimo nemico?" , si domanda il giornalista Serge Halimi, nell'editoriale di gennaio del mensile Le Monde Diplomatique , commentando l'articolo dell'ex Segretario generale della NATO Hans Fogh Rasmussen a proposito della missione globale degli Stati Uniti a guida e in difesa del mondo libero ; frattanto, con l'aggravarsi delle diseguaglianze, le posizioni degli attori politici e geopolitici sembrano polarizzarsi in misura crescente, e su un numero sempre maggiore di frontiera.
“ Voi non avete vinto. La violenza non vince mai. Vince la libertà ”. Con queste parole il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence ha condannato quello che lo scorso sei gennaio è stato presentato come un attacco alla sede del Congresso USA da parte di un manipolo di persone che si dichiaravano e si mostravano sostenitori del presidente (quasi uscente Donald Trump , scesi in strada a protestare su suggerimento del loro leader .Il nemico della libertà sono loro, e la simbologia che esibiscono, oltre alle bandiere e agli striscioni convenzionali, appartiene alla galassia dell'estrema destra statunitense (e non solo): un microcosmo in cui alla Bibbia si affiancano con disinvoltura elementi tratti dalla mitologia norrena e da armamentari mitico-religiosi neopagani. In prima linea, in immagini diverse, confronta Jake Angeli, aspirante attore italo-americano dell'Arizona e sciamano (sic!) Seguace di QAnon , ovvero Q Anonymous (l'anonimo Q). This etichetta, nata venire pseudonimo Sotto il Quale, Qualche anno fa, un presunto internauta anonimo ha Iniziato a elargire le pillole citare in giudizio di verità nel forum di Estrema Destra 4chan, è ben presto passata a designare un complesso di teorie, dogmatico e fluido allo stesso tempo, tra occultismo, cospirazionismo e costruzione di identità. Per citarne una, Trump sarebbe stato eletto per condurre una guerra contro un gruppo di satanisti pedofili , che avrebbe preso il potere negli USA (dopo l'omicidio dell'ex presidente John Fitzgerald Kennedy) e nel mondo; questa forza oscura controllerebbe uno Stato profondo che annovererebbe tra i suoi esponenti non solo Hillary Clinton, Barack Obama, George Soros e Bill Gates, ma anche Tom Hanks, Céline Dion e Michelle Obama, che, peraltro, secondo QAnon sarebbe un uomo.
Sul corpo di Angeli, coronato da un improbabile copricapo con pelliccia di castoro e corna di bisonte, ma di una forma che vorrebbe evocare le epopee nordiche, campeggiano alcuni dei simboli più tipici dell'estrema destra. Anzitutto, quelli desunti dalla mitologia nordica, come i tre triangoli del Valknut, simboli del wotanismo, e l'albero della vita, che, nel caso di morte del suo portatore, provocherebbe la fine del mondo. A Prescindere Dalle Considerazioni su Quanto i Movimenti Che sbandierano un racconto armamentario mitico ne comprendano davvero il significato autentico (venire Accadde alla svastica , adottata vieni simbolo dal nazismo) ,this simbologia fornisce, in primo Luogo, Una giustificazione metafisica e dogmatica una Una mentalità razzista (benché dichiaratamente ostile al globalismo imperialista ascritto ai democratici statunitensi). Al contempo, costituisce il pretesto per assumere una postura scismatica rispetto alle religioni codificate, soddisfacendo le velleità ribellistiche delle masse di fronte a una società dominata dal “dio quattrino”. Infine, serve da fondamento a un fascismo consumistico, nel quale la volontà di creare l' uomo nuovo e l'aspirazione alla pretesa purificazione della razza , sono sostituite, nella società di massa digitale, dal desiderio ossessivo di visibilità epopolarità sulle reti sociali, che da tempo hanno già colonizzato e canalizzato il dissenso politico e il malcontento sociale. Peraltro, alla pretesa di identificare il capo ( Duce o Führer ) con lo Stato con le armi della propaganda e dello squadrismo, tipica dei fascismi classici , si è sostituito l'appello alle masse ad abbattere il sistema mediante l'assalto al potere , senza indicare un modello sociale alternativo. In fondo, si tratta solo di sostituire, per l'ennesima volta, una classe dominante con un'altra, non di Elaborare un modello che prescinda dalle logiche di potere e di sopraffazione, sia pure sotto la forma di concorrenza economica, optando per una prospettiva multilaterale e pluralista. In assenza di programmi politici e di gravidanza culturale, i simboli ostentati da chi pretende di assaltare il Congresso USA sono, in sostanza, alcuni dei tanti accessori di moda, da esibire sulla rete per aumentare le visualizzazioni e le condivisioni attraverso le reti sociali. Cresce quindi il peso politico dei giganti del web , indicato complessivamente con l'acronimo GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), ai quali l'emergenza sanitaria ancora in corso ha assicurato un aumento esponenziale dei fatturati.E del rilievo socio-politico, come dimostra l'eco della subitanea chiusura dell'account Facebook e Twitter di Donald Trump, che pone la questione del potere che simili industrie private hanno acquisito nel dibattito pubblico, nella società civile digitale . Nondimeno, a parte impatto visivo degli eventi di Capitol Hill, né pronunciata, né la massa hanno il potere di incidere sui processi storici che la contraddistingueva agli albori della società di massa, nella quale animava i dibattiti mediante la carta stampata: fino alla fine del secolo scorso, infatti, le masse contavano perché contava un modello economico imperniato sulla fabbrica, destinato a scomparire una volta ultimata la transizione all'industria 4.0 .
Ora, se la massa ha perso il suo peso in quanto manodopera , non lo ha perso tuttavia nel ruolo dell'organismo del consumatore , che fa sì che essa alimenti ancora gli ingranaggi della produzione. Inoltre, questo ruolo , che nella società di massa del secolo scorso si manifestava essenzialmente nelle trappole sociali di pirandelliana memoria (posizione sociale, lavoro, identità personale hanno un valore di mercato, poiché assicurano la continuità del processo di produzione), nella società di massa digitale ha da tempo strutturato la dimensione della realtà virtuale, dove stanno trasferendo progressivamente tutte le attività, non solo quelle economiche e finanziarie, ma anche quelle del tempo libero. Cio favorisce un'osmosi Tra le due sfere esistenziali dell ' digitalis homo , Quella fisica e Quella virtuale, Attraverso la sottile membrana dello Schermo . Se dunque nella sfera virtuale si proiettano le aspirazioni frustrate nella sfera fisica, quest'ultima può facilmente trasformarsi nel prolungamento della prima, alla quale l'ego del singolo individuo, traendone una gratificazione maggiore e a buon mercato , ha già attribuito il primato psichico sull'altra. Sembra pertanto realizzarsi il tempo espresso da psicologi e sociologi ai primordi di questa fase transitoria: in particolare, i rischi che comportano la maggiore facilità d' azione e la minore percezione della responsabilità individuale, caratteristiche della vita da internauta. In altri termini, pubblicare un contenuto su una qualsiasi rete sociale è possibile in tempi rapidi, raggiungendo un numero considerevole di utenti e non espone direttamente alle critiche o al contraddittorio.Questa differenza, che potrebbe consentirebbe alle reti sociali di aumentare il grado di partecipazione politica, in realtà ha finito per svuotare l'ultima della sua gravidanza reale, concreta, diminuendo sensibilmente la percezione del suo significato. Così, chiunque pubblichi un contenuto entra a far parte di un marasma comunicativo e informativo, nel quale tutto può essere smentito, ammesso che la confutazione sia ancora un modo valido per far prevalere una voce sulle altre. Virtualizzando e spettacolarizzando i conflitti sociali ben più di quanto non avessero fatto la televisione e gli altri mezzi di comunicazione “tradizionali”, la società di massa digitale li ha degradati a una serie continua di scaramucce in maschera, imprime l'immaginedel vincitore per un intervallo di tempo che, generalmente, stenta a superare il tempo di un anno.
Intanto, nella sostanza, l'attuale modello sociale resta quello strutturato dalla seconda rivoluzione industriale e dall'imperialismo nella seconda metà del XIX secolo: conflitti interni alle società capitaliste tra padroni e masse lavoratrici, rivalità geopolitiche nella corsa agli imperi coloniali e al controllo delle materie prime. In entrambi i casi, l'opposizione tra dominanti e dominati viene continuamente alimentata dal mercato, che a sua volta si nutre di tale antinomia che consente di aumentare i margini di guadagno e di gerarchizzare la società sul modello della fabbrica. Parimenti, la suddivisione del mondo tra potenze coloniali e teste colonizzate da un lato ha stabilito una gerarchia ineguale nelle relazioni internazionali, che si riflette in buona parte l'articolazione delle società capitaliste, dall'altro ha reso necessaria una giustificazione scientifica di tale gerarchia, che si è trovata nei nazionalismi e nelle teorie razziste ed etnocentriche e negli estremismi religiosi. Queste prospettive identitarie sono inoltre disponibili per unificare il tessuto sociale, dissestato dagli ingranaggi della e del consumo. Ora che la società di massa digitale ha teatralizzato i conflitti rendendoli prodotti spendibili sulle reti sociali, basta individuare un nemico e definire in relazione ad esso un concetto di identità : ad esempio, un noi che rappresenta il mondo libero, dogmaticamente investito della missione di debellare la dittatura, il sovranismo, il populismo, l'integralismo… insomma, il prossimo nemico.
Non poco scalpore e meraviglia destò, il 15 aprile scorso, la determina del sindaco di Barrafranca (piccolo centro in provincia di Enna) che, in piena pandemia, con atto ufficiale, decise di affidare i propri cittadini al Santissimo Crocifisso. Improvvisamente la pandemia sembrò cancellare due secoli di storia e tornare indietro alla vigilia di quel famoso 27 marzo 1861 in cui Roma veniva acclamata capitale d’Italia al motto di “Libera Chiesa in libero Stato” come ebbe a dire più volte Cavour quel giorno durante il suo discorso in Parlamento. Se accade oggi però che il prof Matteo Cesaroni, docente di matematica e fisica al liceo classico di Jesi (Ancona) viene accusato di “negazionismo” dai propri allievi solo per aver messo in discussione l’emergenza sanitaria del Covid sulla base dell’inattendibilità dei tamponi, ciò non desta scalpore. E questo perché? Perchè il Covid ormai è religione di stato e se semplicemente provi a mettere in discussione, sei un eretico. Come Giordano Bruno. Istituito il Dogma, indetta l’eresia. Pena la scomunica! L’atto è stato denunciato da una certa stampa mainstream come oltraggioso verso il virus. E allora la questione da un punto di vista giuridico sociale è seriamente compromessa! Perché significa che la società in cui viviamo è una società integralista devota al dogma Covid e alla sua infinita liturgia. E così come avviene per le cose più sacre, non se ne può nemmeno parlare. Se non in termini di ossequio totale ed incondizionato. Del resto abbiamo già parlato del patto tra il Ministro della Sanità e Federazione della Stampa. Non siamo di fronte a degli sprovveduti. La nuova religione di Stato non ha risparmiato neanche le tanto declamate “libertà costituzionali”, tanto acclamate e altrettanto negate oggi da uno stato di fatto che non ha esitato a rendere accettabile quello che fino a ieri era semplicemente impensabile. Ma anche su questo argomento vale l’alibi che in tempi di guerra la Costituzione non può essere tutelata.
Verrebbe da chiedersi “cosa si sta tutelando” però! Se a quasi un anno dalla comparsa del virus, dopo nove mesi di guerra combattuta a suon di mascherine, distanziamento sociale e isolamento forzato le cose non accennano a migliorare. Art.16 (libera circolazione), Art.17 (assemblea), Art. 21 (libera espressione). Il Grande Reset del piano World Economic Forum ha avuto inizio nel tacito assenso e col comune consenso. Anche se da quanto ha dichiarato il CDC (Center for Disease Control and Prevention), l’agenzia governativa USA che si occupa di pubblica sanità, si deduce che non esiste isolato quantificato del virus 2019-nCoV. Allo stesso modo l’EDC (European Centre for Disease Prevention and Control). In pratica da queste due dichiarazioni delle principali istituzioni sanitarie deputate allo studio ed al monitoraggio del virus Covid 19, rispettivamente per il Governo USA e per la Commissione Europea, né negli USA né in Europa il virus è mai stato isolato.
Isolato significa separato dal materiale inutile contenuto nel campione analizzato, come cellule del paziente o eventuali batteri. E se non si è in grado di stabilire in che percentuale il virus è presente all’interno del campione, significa che il virus non solo non è stato quantificato ma neanche identificato. Quindi coprifuoco nazionale (quasi a ridestare nell’immaginario collettivo etimi e situazioni medievali), lockdown localizzati, chiusura di bar e ristoranti, privazione parziale di movimento e totale di assemblea, SULLA BASE DI COSA? Della più totale, dichiarata e certificata ignoranza. In un’intervista rilasciata a SKY News il 23 settembre 2020, il Ministro degli Esteri inglese, Dominic Raab afferma che soltanto il 7% dei test riesce ad identificare il virus.
La stessa cosa l’aveva già detta il primo Ministro Boris Johnson alla BBC il 4 settembre 2020. Oggi, dopo che Papa Francesco il 27 marzo, nella deserta piazza di santa Marta, invocando la fine della pandemia, ha celebrato la definitiva “morte di Dio”, non solo la religione ufficiale di Stato si sottomette al virus ma il virus stesso assurge a nuova intoccabile divinità e come ogni cosa divina che si rispetti non se ne può conoscere il volto.
Le società industriali, alla cui base si osserva una razionalizzazione dei processi produttivi, hanno sempre comportato una qualche forma di controllo delle dinamiche sociali attraverso un inquadramento sempre più complesso e sofisticato delle masse, grazie alle innovazioni frutto del progresso tecnologico e scientifico; di conseguenza, poiché le masse sono insiemi di individui, tale razionalizzazione ha implicato, nell’ultimo secolo e mezzo, almeno due grandi metamorfosi antropologiche sottese ad altrettanti modelli sociali: la società (di massa) dei consumi e la società di massa digitale
Se si cercano i meriti del progresso scientifico e tecnologico in relazione alla qualità della vita degli esseri umani, ci si accorge che, in fondo, la tecnica e la scienza hanno liberato l’uomo dai ritmi della natura, ma per intrappolarlo negli ingranaggi della produzione. Il produttivismo, leva del profitto e della crescita economica, è stato infatti imposto su scala mondiale come dogma a partire dalla seconda rivoluzione industriale, culmine del trionfo della borghesia che aveva spodestato nobiltà e clero; strumentalizzando sapientemente il malcontento popolare nei confronti dell’ancien régime. In altri termini, se con la Rivoluzione francese la borghesia abbatté il vecchio sistema dei privilegi feudali, facendo prevalere l’istanza di libertà intesa come libera iniziativa imprenditoriale dell’individuo, contro la rivendicazione di uguaglianza come libertà dalla miseria, nella seconda metà del XIX secolo, la nuova classe dominante si servì del mito del progresso per giustificare ideologicamente le diseguaglianze e l’ingiustizia sociali, presentandole come conseguenza necessaria del nuovo ordine meritocratico: oppressi e sfruttati sono tali in quanto non meritevoli di successo e di benessere. Con le stesse argomentazioni, le potenze coloniali, che si dipingevano come investite di presunte missioni civilizzatrici e liberatrici, giustificavano lo sfruttamento sistematico delle popolazioni colonizzate e dei loro territori. Similmente, in tempi assai più vicini, le potenze mondiali e regionali hanno giustificato le guerre umanitarie in nome del diritto, quando non del dovere, di esportare democrazia e libertà. In altri termini, la sorte un tempo toccata al barbaro come categoria etnica, tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX sembrava riservata anche al proletario, e in generale alle categorie sociali che maggiormente pagavano il prezzo del progresso. Quest’ultimo, infatti, ha significato sin dal principio il benessere di pochi pagato con la miseria dei molti, costituendo il principale strumento di dominio delle potenze coloniali sulle popolazioni colonizzate e sui loro territori, e delle classi dominanti sulle classi dominate.
Nel contesto della società di massa, che si affermò nei paesi a economia capitalista tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, il salto di qualità ci fu quando, a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, la televisione rese più sottile e sofisticata, quindi meno esposta a critiche e contestazioni, l’egemonia delle classi dominanti all’interno del sistema di alleanze statunitense. Già il feticismo delle merci insito nel capitalismo, di cui scriveva Karl Marx e che era divenuto un fenomeno di massa alla fine del XIX secolo, rendeva essenziale il potere di orientare i bisogni dei consumatori, affinché questi alimentassero continuamente gli ingranaggi della produzione e della vendita di beni e servizi. Particolare attenzione fu dedicata così ai beni superflui, non necessari ai fini della sopravvivenza materiale, ma fonte di prestigio in quanto significativi indici di uno status sociale elevato, e al tempo libero delle masse. In questi campi, infatti, l’orientamento dei consumatori passava attraverso i cosiddetti bisogni indotti (essendo i bisogni primari molto più difficili da plasmare, in quanto naturali), che da un lato assicuravano un certo controllo indiretto (il che significa più efficace) delle masse, mentre, dall’altro perpetuavano il sistema dell’economia di mercato, garantendo crescita ed espansione continue: come scriveva Victor Lebow negli anni ‘50 del ‘900, abbiamo bisogno che sempre più beni vengano consumati, distrutti e rimpiazzati ad un ritmo sempre maggiore. In piena guerra fredda, era importante poter opporre al sistema sovietico socialista, teoricamente orientato all’uguaglianza, un modello di società liberista, liberale e libertario: favorevole, dunque al mantenimento dei privilegi della borghesia produttiva e (sempre più) finanziaria, ma anche allo spirito di iniziativa del singolo individuo assetato di riscatto sociale e di successo. Il segreto era tutto nella libera iniziativa e nella concorrenza. Peccato, tuttavia, che queste caratteristiche fossero già state fiaccate dalla società di massa, tendente piuttosto all’omologazione forzata sotto la costante minaccia costante e implicita (quindi interiorizzata senza troppe resistenze) dell’emarginazione, ovvero dell’appartenenza alla categoria degli inetti.
Fino agli anni ‘90 del secolo scorso, i media di comunicazione di massa, televisione in primis, hanno diffuso un modello di uomo vincente che sembrava ricalcare, in sostanza, lo spirito imprenditoriale del capitalismo classico. Senonché, il nuovo vincente, quale lo dipingono tanto il sistema di valori della società di massa, quanto l’ideologia dell’edonismo consumista della fase successiva al secondo conflitto mondiale (confluita negli anni ‘80 nell’edonismo reaganiano), si configura più come un impiegato-consumatore che come un libero imprenditore, come osservò Horkheimer. È quella infatti la figura ideale della società di massa: un singolo incompleto (quindi non, propriamente, un individuo), senza una personalità ben definita, capace di assoggettarsi alla rigida disciplina produttiva, in fabbriche caratterizzate da una meccanizzazione sempre più pervasiva, ma anche all’inquadramento del suo tempo libero all’interno delle metropoli industriali, con beni e divertimenti pronti per l’uso, che non implicano creatività né personalizzazione. Un singolo isolato dal tessuto sociale dall’ossessione per la concorrenza, estesa dall’ambito economico a tutte le sfere dell’esistenza umana: dalla corsa all’ultimo ritrovato della moda o della tecnica, fino al bisogno di realizzare il proprio essere ostentando ciò che si possiede o il proprio potere d’acquisto. Un singolo, quindi, bramoso di far parte del consesso dei vincenti, degli uomini di successo, ma per questo sempre più dipendente da un sistema sociale, da cui dipende non solo la sua formazione professionale (non più sostenibile dagli anziani di famiglia, a causa delle continue e rapide trasformazioni legate alle innovazioni tecnico-scientifiche), ma anche la conferma dell’integrità della sua identità. Infatti, se l’identità dell’uomo europeo tra la fine dell’800 e il primo conflitto mondiale si ispirava per lo più alle ideologie del tempo, tra le quali trovavano spazio anche il socialismo e l’anarchismo, la borghesia, di concerto con le aristocrazie illuminate, promosse quelle funzionali all’economia di mercato: il nazionalismo con derive razziste (come base per l’imperialismo coloniale) e la meritocrazia liberista (come base per il dominio economico e politico sulle altre componenti della società).
Alla religione si sostituiva quindi il culto del progresso tecnologico-scientifico, mentre si facevano trionfare, sulle rivendicazioni universaliste di uguaglianza, le spinte nazionaliste e razziste, che ebbero la loro espressione più esplicita e diretta nei regimi nazifascisti del XX secolo. Contestualmente, il conformismo induceva le classi dominate a desiderare di diventare come i loro oppressori, considerando la propria condizione di oppressi come segno di demerito, incapacità o mancanza di volontà. In tale quadro, il sistema di istruzione e di formazione e i mezzi di comunicazione di massa, in particolare la televisione, come osservava P.P. Pasolini, sono al contempo centro di irradiazione e strumenti di diffusione dell’armamentario di valori del potere delle classi dominanti, fino ad essere essi stessi manifestazioni di questo potere. Lo sfruttamento della manodopera operaia, infatti, non era più sufficiente: in tempo di guerra fredda era necessaria l’omologazione totale del singolo, ai fini del suo sfruttamento come consumatore. Un processo che coinvolge tanto la vita professionale quanto la sfera privata, e che conduce, pertanto, a quella che Horkheimer chiama perdita di interiorità. In altri termini, quello che Pasolini chiamava il nuovo fascismo della società dei consumi, ha messo in atto un’omologazione repressiva che ha sottilmente trasformato le coscienze dei singoli, annientando qualsiasi possibile forma di pluralismo culturale e di pensiero. Infatti, mentre la sottomissione attuata per mezzo della minaccia di violenza fisica, di cui sono esempio i totalitarismi novecenteschi e i loro grotteschi epigoni, ha indotto un’adesione eminentemente formale, le strategie di assoggettamento tipiche prima degli Stati liberali, poi delle democrazie neo-liberali, si sono rivelate finora le più efficaci in quanto inducono i singoli a sottomettersi liberamente al pensiero unico dominante, accecati dall’illusione del successo materiale. Così, alle battaglie condotte dai grandi movimenti di contestazione negli anni ‘60 e ‘70 del ‘900, il potere ha risposto rendendo invisibile la propria autorità. Inizialmente ciò è stato reso possibile dalla televisione, che ha imposto modelli solo apparentemente anti-autoritari, ma conformi nella sostanza all’ideologia edonista e consumista che alimentava l’economia di mercato. In seguito, con la diffusione sempre maggiore di Internet negli usi civili, e soprattutto con il passaggio dal Web 1.0 al Web 2.0, questo compito è stato affidato alla Rete. Un nuovo sistema di comunicazione di massa, che si è subito rivelato più attraente della televisione, perché ha prodotto, e ancora produce, l’illusione di poter essere non solo fruitore ma anche autore di contenuti.
In tal modo, ai modelli statici elaborati e diffusi dalla televisione sono subentrati quelli all’apparenza più dinamici e “creati dal basso” della Rete. Anche in questo caso, un’innovazione che inizialmente aveva il duplice volto di mezzo di dibattito, di scambio di idee, di accesso universale alla conoscenza, e di strumento di controllo orwelliano, è stato orientato dal potere (che non ha cessato di esistere, divenendo solo più lontano e inaccessibile, un po’ come la divinità delle religioni monoteistiche rispetto ai molteplici dei delle religioni politeiste) nella direzione dello spionaggio e della repressione. Di conseguenza, mentre la televisione mirava all’adesione delle coscienze, la Rete punta direttamente all’autocoscienza, una dimensione psichica che per lo più tende a sfuggire alla consapevolezza. Ad esempio, il proliferare delle fonti di informazione e le difficoltà sempre maggiori di verificarne l’attendibilità, come la moltiplicazione indefinita dei modelli dettati da chi attraverso le reti sociali orienta mode e tendenze (dall’orientamento politico al costume) non fa che radicare sempre più profondamente nel tessuto sociale la nuova figura simbolo della società di massa digitale: non più l’impiegato, caratteristico della società di massa, ma il rider. Un lavoratore precario, sempre disponibile e disposto alla fluidità degli orari e delle mansioni, sempre pronto a reinventarsi per ruoli che lo impegneranno, forse, al massimo per qualche mese, per poi tuffarsi di nuovo nell’affannosa ricerca di nuovi impieghi. Continuamente soggetto all’obsolescenza programmata, come i dispositivi con cui interagisce nella vita professionale e nella sfera privata. La società di massa digitale, dunque, ha operato una nuova trasformazione antropologica, rendendo il singolo sempre più dipendente dalla società, come dimostra l’importanza crescente acquisita dalle recensioni e dalle classifiche degli utenti, investiti del potere di discernere tra buoni e cattivi lavoratori. Peraltro, per produrre tali recensioni del tutto soggettive ed effimere non bisogna essere né esperti, né qualificati: basta aver fruito di un servizio. La stessa formazione professionale tende ad essere estemporanea e non più responsabilità delle istituzioni, perché è affidata alle imprese, quando non alla capacità di industriarsi dei singoli lavoratori. Inoltre, la rapidità dei cambiamenti sull’onda della velocità del progresso tecnico-scientifico rende superfluo lo stesso concetto di esperienza, personale o collettiva, anzi, l’esperienza rischia di essere un disvalore perché associata alla specializzazione in un determinato tipo di mansione, che pure era stata uno dei cardini del fordismo e del taylorismo.
Ebbene, se la società di massa, figlia della seconda rivoluzione industriale, aveva favorito la progressiva assimilazione dell’uomo alla macchina, la società di massa digitale, figlia della terza rivoluzione industriale, sta spingendo l’essere umano verso livelli sempre maggiori di automatizzazione e spersonalizzazione, trasformando persino la percezione della corporeità. Un esempio di tale metamorfosi è l’introduzione nel linguaggio delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) del concetto di avatar: parola derivata dal sanscrito avatara, che in varie mitologie indù indica le manifestazioni fisiche, concrete, della divinità con lo scopo di ripristinare l’ordine cosmico. Di contro, un avatar nel linguaggio informatico è la proiezione digitale non del proprio sé autentico, ma di come il proprio sé dovrebbe essere percepito dagli altri. Un’identità proiettiva, che dunque non ha nulla di fisico né di concreto, ma che ha la funzione di stabilire un ordine socio-culturale fondato sulla spersonalizzazione e sulla perdita del rapporto autentico non solo con la propria coscienza, ma anche con la propria corporeità. Se gli incubi principali dell’uomo intrappolato nelle metropoli industriali, che costituivano la manifestazione concreta della società di massa, erano l’inettitudine e l’emarginazione, le ossessioni dell’uomo prigioniero della Rete sono legate piuttosto alla scoperta della divergenza tra il proprio sé autentico (o di quanto ne rimane) e l’immagine che egli vorrebbe che gli altri avessero di lui. Oltre le trappole pirandelliane, il dogmatismo fluido della società di massa digitale, sublimando l’identità personale nella realtà virtuale, mira all’annientamento definitivo dell’autocoscienza.
Se, nella fase pre-moderna le campagne elettorali erano condotte quasi esclusivamente dai partiti politici attraverso la stampa di partiti e la partecipazione di volontari, nella fase post-moderna si assiste ad un radicale e continuo mutamento della comunicazione. Si assiste ad una sorta di rivoluzione copernicana dello stile comunicativo. Come nella rivoluzione copernicana il sole viene posto al centro del sistema solare, così nella politica il candidato diventa il fulcro delle attività di propaganda politica. Questo processo è stato avviato ed accelerato dall’uso sempre più insistente dei mass media. I partiti hanno iniziato ad assumere un ruolo marginale in favore del leader che si presenta, in televisione e sui social media, come rappresentante di valori ed ideali piuttosto che di programmi politici. Questi ultimi sembrano assumere un ruolo di secondo piano, ciò che spinge gli elettori a votare un candidato è dettato dalla reazione emotiva suscitata dallo stesso che dal programma.
Per realizzare una comunicazione efficace il candidato si avvale dunque della figura dello spin doctor (consulente politico), che guida ed indirizza le azioni del candidato per attuare una strategia comunicativa.
Un tipo di strategia politica di successo, tanto per il candidato quanto per le imprese e le aziende, è quella definita “storytelling”.
Lo storytelling è un racconto narrativo costruito sulla base di ideali e valori che si vogliono trasmettere agli elettori ed ai consumatori. La strategia risulta essere efficace sia sul piano politico che aziendale. Il partito, come l’azienda, fa capo al leader la cui reputazione e credibilità creano ripercussioni sul soggetto di riferimento.
Il 71% dei consumatori dichiara di aver acquistato beni e servizi dell’azienda che più riflette i valori in cui credono. La credibilità è dunque un concetto strettamente collegato a quello di reputazione che deve essere costantemente gestito al fine di migliorare la propria carriera ed evitare di comprometterla e la politica è diventata anch’essa, attraverso i mezzi di comunicazione, soggetta alle regole di marketing, tanto da poter parlare di “marketing politico”.
La strategia di storytelling risulta essere efficace se proveniente da un’unica voce, se dunque a parlare è il candidato a nome del partito e non l’intera istituzione politica. Si è assistito dunque al processo di personalizzazione della politica che ha portato a proporre il politico come brand.
Il candidato, per massimizzare le possibilità di successo, deve seguire le logiche e le regole di mercato, posizionandosi in maniera strategica nello scenario politico attraverso un processo di analisi dell’elettorato allo scopo di individuare gusti e preferenze degli elettori.
Si assiste così ad una segmentazione dell’elettorato per realizzarne i contenuti politici, confezionati appositamente per essere rivolti ad una determinata fascia di persone. Creare contenuti senza tenere conto delle richieste dell’elettorato risulta essere svantaggioso nella conquista e/o mantenimento del successo.
Le campagne elettorali, un tempo definite in un arco temporale antecedente alle elezioni, hanno anch’esse risentito dell’attività mediatica. Essere presenti quotidianamente sui social comporta essere in uno stato di “campagna elettorale permanente”.
I contenuti devono essere dunque studiati in modo da attrarre un maggior numero di interazioni. I volontari, attivi nelle campagne elettorali pre-moderne, adesso sono attivisti sui social come Facebook e Twitter.
Le condivisioni, i commenti, le “impressions” permettono al post, creato dal candidato, di raggiungere un vasto numero di elettori in pochi secondi. La politica dei click non deve essere sottovalutata, anzi, deve essere sfruttata.
I social media hanno modificato la comunicazione, rendendo immediata la divulgazione di notizie, di momenti di vita quotidiana che permettono di instaurare una relazione emotiva sempre più efficace.
La sua funzionalità deriva dal continuo perfezionamento delle piattaforme e dagli strumenti messi a disposizione dalle pagine Facebook, dagli insights su Instagram, dal numero di visualizzazioni su Twitter.
Tutti i social media permettono una visione sempre più dettagliata di dati, riuscendo ad identificare in maniera sempre più minuziosa il target di utenti.
L’avvento del 5G porterà ad un ulteriore perfezionamento tecnologico tanto da identificare con precisione cosa il consumatore vuole ed addirittura prevedere cosa potrebbe volere in futuro. Alle stesse regole di mercato sarà e potrà essere soggetta la politica.
Seguire strategie di marketing a livello politico significa anche saper sfruttare quello che il mercato offre e quello che prospetta maggior profitto.
I politici dovrebbero saper fare appello agli influencer o a coloro che detengono migliaia e migliaia di follower sui social.
Come le aziende contattano gli influencer per promuovere un prodotto che, nel giro di poche ore diventa sold out, anche i politici potrebbero sfruttare la visibilità di questi per avere una maggiore risonanza mediatica ed un allargamento consenso elettorale.
Negli Stati Uniti alcuni candidati, in occasioni delle presidenziali, hanno fatto loro appello, riscuotendo molto successo ed aumentando in maniera esponenziale il loro seguito.
La politica è tanto più efficace quanto più è al passo con i tempi.
Il debito economico alla base della psicopandemia.
A poco più di sette mesi dal primo lock down annunciato dal Presidente Conte, nuova stretta decretata per L’Italia già gravemente provata dalle restrizioni in atto che hanno fatto registrare un Pil a singhiozzo dopo la dichiarazione di “Pandemia” da parte del Governo. Anche la fantomatica mascherina il cui uso è stato fatto osservare con modalità che molto spesso hanno rasentato il ridicolo e che avrebbe dovuto scongiurare i contagi (almeno così ci era stato detto!) non si è rivelata all’altezza del compito. Se, oggi, infatti, L’Institute for health metrics and evaluation dell’Università di Washington finanziato dalla Fondazione di Bill e Melinda Gates annuncia la previsione di 450 decessi al giorno, in Italia, per fine novembre! Ossia il triplo rispetto ai valori attuali. Ma i numeri, mai come in questo caso, sono opinabili poiché il risultato di mille variabili ed incognite. E mai, come in questo caso, usati per un fine che è di natura economica e non sanitaria. A spiegarlo, in maniera chiara ed estremamente lineare, Sonia Savioli che nel suo libro “Il giallo del Coronavirus. Una pandemia nella società del controllo”, indaga lo stretto rapporto fra soldi e potere. Già nel 2018 le Finanziarie Globali avevano previsto un crac dell’economia mondiale proprio per il 2020. Un’economia fondata sul debito che, nel suo conteggio globale di 253.000 mld di dollari, dal 2008 ad oggi ha avuto un incremento pari al 300%. Cifre esorbitanti e non certamente gestibili con i criteri economici alla portata umana. Così il WEF, World Economic Forum, secondo una proiezione del 2016, aveva previsto un aumento della disoccupazione globale che, entro il 2020, avrebbe portato alla perdita di 11 milioni di impieghi in tutti gli ambiti professionali, causa l’automatizzazione dei processi. La quarta rivoluzione industriale sarebbe stata il tema ufficiale del proprio incontro annuale. In cosa consiste è presto detto, sostituzione del lavoro umano con macchine cibernetico-digitali chiaramente nei Paesi industrializzati dove il costo della manodopera supera quello di una macchina. 800 milioni i posti di lavoro eliminabili. Il sogno del capitalismo si avvererebbe considerando la perdita di lavoro come un piccolo effetto trasversale del sistema da attuare. E per distruggere quella fetta di mercato non funzionale all’economia delle Multinazionali, cosmopolite e senza patria, ci si è serviti della pandemia come forma di esercizio del controllo. Obiettivo: distruzione delle piccole e medie imprese. Abbattere ogni forma di concorrenza alle catene commerciali digitalizzate e ogni impedimento burocratico, ossia qualsivoglia forma di mediazione fra volontà del popolo e istituzioni politiche. Perché un consenso, seppur minimo del popolo, è necessario affinché una democrazia rimanga in piedi. Multinazionali direttamente sovvenzionate dagli Stati. Creando inflazione. Di Reset e Capitalismo si parla! Azzerare e Ricostruire. Capitalismo globale allo stato puro predatorio. Abolizione del contante per meglio favorire le procedure di controllo. Smart working per scoraggiare i rapporti umani e sociali, mancando il luogo di lavoro, mancano anche le possibilità di organizzarsi in associazione condivise. Incentivazione del settore cibernetico per l’uso necessario dei dispositivi tecnici al lavoro da casa. E intanto nel settore sanitario ci si arrabatta nel sostenere il diritto alla salute di chi non è mai stato tutelato da un sistema che ha distrutto il Pianeta, si propina l’utilizzo di farmaci che si sono rivelati inefficaci e si minimizza sulle terapie letali. Mentre, in attesa del miracoloso vaccino, il cui arrivo è previsto per fine anno e sul quale aleggiano infiniti dubbi e misteri, si procede con chiusure a macchia senza logica e buon senso. Mentre scattano le denunce alla sanità da parte dello stesso personale sanitario, si continua a imporre l’uso della mascherina, fonte di arricchimento per le aziende produttrici, simbolo di un bavaglio, inibitore psicologico e innaturale umiliazione per il cittadino.
“ANCHE DOPO L’AFFIEVOLIRSI DELLA PANDEMIA LE RESTRIZIONI NON SOLO NON SPARISCONO MA SI INTENSIFICANO CON LO SCOPO DI POTENZIARE IL POTERE”. E’ quanto si apprende da un documento della Fondazione Rockefeller che già, nel 2010, sembra aver tenuto nel cassetto la possibilità di attuare il Capitalismo globale.
Unica forma di consolazione è che alla base della manovra sta non tanto la forza del Capitalismo, quanto la sua debolezza.
La ripresa del conflitto armato in Nagorno Karabakh, da un lato come scontro etnico-religioso, dall’altro come guerra per procura, è uno dei numerosi segnali dello scricchiolamento dell’ordine mondiale affermatosi dopo il crollo sovietico, a sua volta erede, quanto alle sue radici profonde, degli assetti geopolitici risultanti dall’affermazione dello Stato nazione e dall’intraprendenza coloniale delle grandi potenze; imperialismo e colonialismo, cui le potenze emergenti extraeuropee del XIX-XX secolo, prima gli Stati Uniti, poi il Giappone, hanno finito per adattarsi, e che attualmente la Cina sembra voler rielaborare.
Gli scontri che dallo scorso 26 settembre infiammano il Nagorno Karabakh, regione a maggioranza armena in territorio azero, si inscrivono nel quadro delle guerre per procura in cui dalla fine del secolo scorso sono impegnate le potenze regionali e mondiali, in uno scacchiere geopolitico sempre più complicato dall’emergere di nuovi attori e dai mutamenti di strategia dei vecchi. A nulla sono serviti né il cessate il fuoco a scopo umanitario negoziato lo scorso 10 ottobre dalla Russia, che ha sempre cercato di mantenere una posizione equidistante dalle parti belligeranti, né la tregua umanitaria concordata una settimana dopo dai due diretti interessati, ovvero l’Armenia, che sostiene gli indipendentisti del Nagorno Karabakh pur non reclamandone l’annessione, e l’Azerbaigian, il cui territorio è occupato per circa il 14% da Erevan e che gode del supporto con ogni mezzo di Ankara. Di contro, alle reciproche accuse di violazioni, si è aggiunta, infatti, dagli inizi di ottobre, la notizia della presenza di mercenari reclutati in Siria e inviati a sostegno dell’esercito azero dalla Turchia. A tal proposito, vale la pena osservare che, a differenza dei conflitti siriano e libico, nei quali Ankara recluta mercenari ausiliari per gruppi e organizzazioni inquadrabili all’interno della galassia dell’islam politico e del radicalismo sunniti, dai Fratelli musulmani a formazioni vicine ad al-Qaeda e ai cartelli del jihad dell’autoproclamatosi Stato islamico (Daech), dunque in varia misura vicini alla linea del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, sul fronte caucasico, invece, vengono assoldati mercenari puri, che nulla hanno a che vedere con la galassia dell’islam sunnita, essendo la popolazione azera in maggioranza sciita duodecimana, la stessa religione ufficiale dell’attuale Iran. Un elemento interessante, considerando che molti di questi miliziani provengono dall’Afghanistan e dalla Cecenia, che assieme al Daghestan figurano tra i principali paesi di partenza dei combattenti stranieri (foreign fighters) di Daech. In altri termini, se mai fossero necessarie altre prove di come le religioni e i nazionalismi siano, in pace e in guerra, strumenti di dominio e di controllo sociale, il reclutamento di miliziani stranieri al soldo di compagnie pubblico-private (come la Wagner russa o la turca SADAT) illustra la complessità e il pericolo di questi conflitti (pertanto poco riducibili alla categoria mistificante di conflitti etnico-religiosi), sia nella destabilizzazione delle regioni teatro di scontri, sia nel dissesto del tessuto sociale dei paesi di provenienza dei mercenari. Infatti, dalla parte della cristiana Armenia, si trova anche la Repubblica islamica sciita dell'Iran, non solo in nome di importanti legami storico-culturali, ma anche a causa della diffidenza di Tehran verso i miti panturanici, che minacciano di risvegliare la numerosa e irrequieta minoranza azera che vive entro i suoi confini (su un totale di circa 83 milioni di abitanti, gli azeri iraniani sono 15 milioni).
Tra le fila avversarie, tra i principali partner di Baku nel settore della difesa, spicca, naturalmente, la Turchia (armi, droni, esperti militari per la formazione delle forze armate, inclusi i reparti speciali), che in virtù dell’accordo di Mosca, siglato nel 1921 dall’Unione sovietica e dai kemalisti turchi (quando il governo ancora formalmente in carica era quello del sultano Mehmet IV, che l’anno precedente aveva firmato l’umiliante trattato di Sèvres con le potenze vincitrici della prima guerra mondiale), è anche in qualche modo garante dell’integrità territoriale azera, soprattutto dell’exclave del Naxçıvan. Inoltre, Turchia e Azerbaigian si considerano, come dichiarato a più riprese dai rispettivi rappresentanti istituzionali, un popolo, due Stati (bir millet, iki devlet), sentimento rafforzato dalla linea al contempo panturanica e neo-ottomana di Erdoğan, benché questi due volti possano apparire contraddittori. Strumentalizzazioni ideologiche a parte, per Ankara l’Azerbaigian, oltre a essere un partner economico di rilievo (basti citare il gasdotto transanatolico TANAP, annunciato nel 2011 e inaugurato nel 2018, con una cerimonia cui hanno preso parte i presidenti di Turchia, Azerbaigian, Repubblica turca di Cipro Nord, Serbia e Ucraina), rappresenta un importante cuneo di proiezione strategica nel Caucaso e in l’Asia centrale, regioni considerate tradizionalmente come appartenenti alla sfera di influenza zarista, sovietica e in seguito russa. Per giunta, a differenza dell’Armenia, che ha nei confronti della Russia un rapporto di dipendenza economica e difensiva, l’Azerbaigian può trattare con Mosca da una posizione quasi paritetica, essendo i due paesi partner di rilievo nel settore energetico. La stessa integrazione del Nagorno Karabakh nei confini azeri, nel 1921, su iniziativa dell’allora Commissario del popolo per le nazionalità Josif Stalin, intendeva essere un messaggio di amicizia rivolto a Baku. Peraltro, la soluzione di riunire Armenia, Azerbaigian e Georgia nella Repubblica socialista sovietica di Transcaucasia mirava a creare un unico paese cuscinetto, esteso dal Mar Nero al Mar Caspio, entrambi mari strategici, fornendo contestualmente una soluzione di compromesso ai conflitti caucasici. Di qui i ripetuti tentativi di Mosca, sin dal primo esplodere del conflitto armato nel Nagorno Karabakh, nel 1991, di imporre il suo ruolo di mediatore, per indirizzare le rivalità verso la sfera diplomatica. In tal modo, la Russia gioca la carta del proprio sistema di alleanze, imperniato sull’Unione Economica Euro-asiatica (UEEA, istituita nel 2014 dopo la dissoluzione formale della Comunità Economica Euro-asiatica del 2000) e sull’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (OTSC, creata nel 2002 e che succede al Trattato di sicurezza collettiva del 1992, una sorta di NATO a guida russa). Tuttavia quest’ultima prevede che i paesi membri, che oltre alla Russia sono Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan, si impegnino ad assistersi in caso di minacce alla sovranità e all’integrità territoriale. Di conseguenza, se l’Armenia fosse attaccata direttamente, la Russia sarebbe obbligata all’intervento militare. Un’eventualità che Mosca intende escludere, preferendo, per ora, dimostrazioni muscolari, come le esercitazioni belliche congiunte con altri alleati dell’OTSC, oppure a solo, come nel caso delle manovre attorno al monte Elbrus, un chiaro messaggio a Georgia e Ucraina di poco precedente l’esplosione degli scontri armati nel Nagorno Karabakh. Anche perché, la Russia non ha interesse ad alimentare le tensioni con la Turchia, con la quale da un lato tenta un accordo geopolitico nel conflitto siriano, e dall’altro ha in ballo importanti progetti di cooperazione energetica, come il gasdotto TurkStream, annunciato nel 2014 e inaugurato lo scorso gennaio dai presidenti dei due paesi con un duplice obiettivo: anzitutto suddividere definitivamente le rispettive aree di influenza, il Mar Nero controllato essenzialmente dalla Russia (in particolare dopo l’occupazione della Crimea, nel 2014, e la successiva apertura del ponte sullo stretto di Kerch, che collega la penisola di Crimea alla Russia), gli stretti strategici del Bosforo e dei Dardanelli sotto la giurisdizione della Turchia, come già prevedeva la convenzione di Montreux, del 1936; in secondo luogo, garantire ai mercati occidentali forniture adeguate di gas senza passare per l’Ucraina, le cui crisi del gas con la Russia, nell’ultimo quindicennio, hanno messo a repentaglio a più riprese gli approvvigionamenti europei.
Dunque, il rischio principale implicato dalla ripresa delle ostilità nel Nagorno Karabakh non è rappresentato solo dalla maggior disposizione alla proiezione militare delle due principali potenze regionali coinvolte, Russia e Turchia, ma anche (anzi, soprattutto) dall’intreccio tra questo conflitto e quelli mediorientali e nord-africani, che hanno come teatro Siria e Libia. Qui, infatti, gli interessi strategici di Mosca e di Ankara sono in conflitto, ma mentre nel caso della Siria le divergenze sono state appianate (almeno in parte e temporaneamente) dai negoziati per il processo di pace, in Libia i due paesi sembrano tuttora schierati su fronti avversari, ciascuno con le sue truppe mercenarie. Un intreccio simile a quello osservabile in un’altra regione ad alto potenziale conflittuale, i Balcani, dove, ad esempio, Ankara e Mosca sono rispettivamente il primo partner economico e il primo partner nella difesa della Serbia. In questo scenario, a differenza di quanto avviene in Libia, le divergenze strategiche appaiono poste in secondo piano dalla presenza di altri attori, in primis Germania e Stati Uniti, che negli anni '90 del secolo scorso avevano assunto il ruolo di potenze egemoni nella regione. L'eventualità che gli equilibri in gioco stiano mutando (o che siano già mutati) potrebbe essere letta in almeno due fatti. Primo, la recente parziale revisione dell'immagine della Serbia, a seguito degli arresti ordinati dalla Corte penale internazionale dell’Aja di alcuni ex dirigenti dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UÇK), con l'accusa di crimini di guerra. Secondo, l'inclusione dell'area balcanica nel progetto cinese della Belt and Road Initiative (BRI), noto come le nuove vie della seta, che ai tre attori storici (Russia e Turchia dal XVIII secolo, USA dalla fine del XX), ne aggiunge un altro, la Cina. Le complesse convergenze tra Libia, Siria, Caucaso e Balcani sono peraltro favorite dal coinvolgimento di un’altra potenza regionale, silente ma determinata: Israele. Tel Aviv ha da tempo avviato con l’Azerbaigian una significativa alleanza nel settore della difesa, sia per vendere a Baku armi, droni e dispositivi elettronici, sia perché considera il territorio azero un punto di osservazione ideale per le operazioni di intelligence a danno dell’Iran. Un altro elemento comune rilevante a questa serie di conflitti, come a tutti quelli a sfondo etnico-confessionale scoppiati nel corso del XX secolo è il loro inquadramento in ordini mondiali che, pur cambiando quanto agli equilibri di forze, hanno sempre rivelato la loro matrice comune: le loro radici affondano nella commistione tra economia capitalista e culto del profitto da un lato, Stato-nazione e imperialismo colonialista dall’altro. Dalla fine del XIX secolo, infatti, gli ordini mondiali che si sono succeduti hanno sempre innescato disordini geopolitici forieri di guerre e instabilità, modellati sulla necessità di sacrificare sull’altare del profitto le regioni strategicamente più significative e le popolazioni che vi abitano. Gravi sono quindi le responsabilità delle grandi potenze nella fitta e intricata catena di guerre e devastazioni che hanno afflitto e tuttora affliggono vaste aree del pianeta, almeno a partire dal Congresso di Berlino (1878) e dalla Conferenza di Berlino (1885), nei quali, con la mediazione del cancelliere tedesco Otto von Bismarck, si definì la spartizione, rispettivamente, della regione balcanica e del continente africano. L'ordine mondiale che si strutturò in quegli anni fu caratterizzato infatti da un crescente militarismo e dalla corsa agli imperi coloniali, in un crescendo di rivalità culminato nella prima guerra mondiale. In realtà, risalendo ancora indietro nella storia, è possibile individuare una matrice analoga nell’assetto geopolitico stabilito al Congresso di Vienna, i cui principi erano volti essenzialmente a impedire che sul Vecchio continente emergesse una nuova potenza in grado di concepire e compiere le imprese della Francia napoleonica. Diverso, invece è il caso dell’assetto geopolitico planetario che nel XVIII secolo risultò da tre conflitti: la guerra dei sette anni (1756-1763, considerata il primo conflitto mondiale), la rivoluzione americana e la rivoluzione francese. In quest'ultimo caso, infatti, il colonialismo e un sistema economico di tipo capitalista non si accompagnavano all'idolatria dello Stato-nazione, benché vi fosse la sempreverde pretesa di giustificare l'imperialismo e l'oppressione con teorie più o meno esplicitamente razziste.
Negli anni Dieci del secolo corrente, l'emergere della Cina come potenza anzitutto economica, può lasciare intendere che gli scricchiolii geopolitici dei numerosi conflitti in corso (tra guerre ed esplosioni violente delle tensioni sociali) preludano alla graduale strutturazione di un nuovo ordine mondiale, maggiormente ispirato ai princìpi della non ingerenza, del multilateralismo e della coesistenza pacifica. A titolo di esempio, si potrebbe citare il differente approccio all’inestricabile groviglio etnico, culturale e religioso che caratterizza l’Eurasia. Gli Stati Uniti, nel 1997, per contrastare la percezione crescente di una non meglio precisata minaccia russa, hanno promosso la fondazione di un’organizzazione nota con la sigla GUAM, acronimo dei paesi membri, Georgia, Ucraina, Azerbaigian, Moldavia. Dal 1999 al 2005 ne fece parte anche l’Uzbekistan, che con la Georgia si era ritirato dal Trattato di sicurezza collettiva (TSC) nel 1999, e che dal 2006 al 2012 tornò nell’OTSC, erede del TSC. Obiettivo di GUAM, ribattezzata nel 2006 Organizzazione per la democrazia e lo sviluppo, è essenzialmente quello di ridurre la dipendenza economica dei paesi membri dalla Russia e facilitare un loro avvicinamento all’Unione europea e all’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (NATO). Inoltre, la Rumsfeld Foundation, di proprietà dell'ex segretario di Stato alla Difesa USA, nel 2008 ha istituito il Central Asia-Caucasus Fellowship Program, ancora in funzione antirussa, e nel 2014, quando la Cina già si affacciava sullo scacchiere mondiale, il forum annuale CAMCA (Central Asia-Mongolia-Caucasus-Afghanistan). Di contro, Pechino ha posto le basi della sua vertiginosa ascesa economica negli anni ‘90 del secolo scorso, epoca della supremazia indiscussa della superpotenza USA, ossia del capitalismo globalizzato. In Asia, in particolare, Pechino ha assistito da spettatrice ai conflitti e al caos in cui sono sprofondate le ex repubbliche sovietiche centro-asiatiche, e al successivo tentativo di reazione della Russia (con l’istituzione dell’OTSC), creandosi un proprio embrionale sistema di alleanze: l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (OCS), istituita nel 2001, immediatamente prima degli attentati dell’11 settembre, dai presidenti di Cina, Russia, Kazakhstan, Tagikistan e Uzbekistan. Questo organismo intergovernativo, che ha sostituito il Gruppo di Shanghai (1996), ha avuto sin dall’inizio come obiettivo primario quello di garantire una qualche forma di sicurezza collettiva: in primo luogo, stabilizzando le frontiere dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica; in seguito, estendendo i campi di cooperazione alla lotta ai traffici illeciti, al separatismo e al terrorismo di matrice islamica. Pechino, negli anni, ha tentato peraltro di coinvolgere altri attori regionali e mondiali: mentre Giappone e Stati Uniti hanno declinato l’invito all’adesione, India e Pakistan vi sono stati ufficialmente ammessi nel 2017. L’organizzazione conta inoltre quattro paesi osservatori (Mongolia, Iran, Afghanistan e Bielorussia) e sei partner (Sri Lanka, Turchia, Cambogia, Nepal, Armenia e Azerbaigian).
Malgrado le recenti collisioni indo-pakistane e indo-cinesi, l’OCS fornisce probabilmente un’immagine della visione cinese dell’ordine mondiale, in parte realizzata nell’aumento esponenziale del peso di Pechino nelle agenzie dell’Organizzazione delle nazioni unite (ONU). A livello economico, la Cina ha già saputo affermarsi, nonostante le rimostranze dell’attuale amministrazione statunitense, adattandosi alle regole dell’economia di mercato globalizzata, accettandone i sacrifici e persino la componente (ecologicamente e umanamente) distruttiva. Dovremo quindi attenderci che in conflitti come quello che attualmente insanguina il Nagorno Karabakh, laddove il Gruppo di Minsk dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) e l’OTSC hanno fallito, riusciranno le nuove vie della seta?
Livio Zanotti |
Nella surriscaldata congiuntura argentina, tra la persistenza del Covid e il previsto acutizzarsi della crisi finanziaria tuttavia sotto controllo, un anniversario tra i più simbolici del passato cade adesso a fare il punto sul reale e turbolento presente del conflitto neoliberismo-peronismo. Il confronto tra i due modelli è giunto al rosso vivo, senza presentare per la verità aspetti del tutto inediti. Salvo il lievitare delle tendenze fondamentaliste, come ovunque. Non senza ragione sul rio de la Plata viene percepito come il più virulento dell’ultimo decennio. Qualcuno gli attribuisce perfino intenzioni destituenti. Come se un pezzo di paese avesse dimenticato che il governo peronista è stato eletto ineccepibilmente e a larga maggioranza meno d’un anno fa.
Fiancheggiato dalla maggior parte dei seguaci (non tutti, ci sono espliciti e rilevanti distinguo), l’ex presidente Mauricio Macri, che nei quattro anni del mandato scaduto nel dicembre scorso ha triplicato disoccupazione e debito pubblico, accusa il governo di Alberto Fernández di attentare alle libertà individuali (reiterando in alcune province le quarantene anti-pandemia) e a quella d’impresa (accentuando entità e progressività del prelievo fiscale e tentando di nazionalizzare qualche azienda in bancarotta). Avviata in un Parlamento costretto dal Covid a dibattiti digitali, l’offensiva dei macristi passa per la Corte Suprema (che in parte influenza) e sfocia nelle piazze (senza mascherina).
I governativi controbattono con l’accusa di aver sbriciolato l’economia, distrutto la piccola e media impresa e attentato alla salute pubblica per pregiudizio ideologico e interessi personali. Accuse che al pari di quelle di corruzione tout court sono tanto reiterate quanto reciproche (e talvolta credibili). La delegittimazione è del resto un’arma sguainata che scintilla nuda e tagliente ben oltre le frontiere delle Pampas e del Latinoamerica, fino a caratterizzare la lotta politica in tutto l’Occidente (né fa eccezione l’Italia). Da tempo è infatti materia d’innumerevoli saggi politologici e di studio nelle facoltà giuridico-sociali delle università, non meno che nelle scuole di partito. Un innegabile comun denominatore tutto in negativo.
Il 17 ottobre di 75 anni fa, guidati da Evita Duarte e dall’avanguardia populista dei sindacati socialisti rivoluzionari e in minor misura anarchici, oltre 200mila lavoratori scesero in piazza ed ottennero la liberazione di Juan Domingo Perón, al quale un precedente golpe militar aveva affidato la vicepresidenza della Repubblica, il ministero della Guerra e quello del Lavoro. Ma un’ennesima congiura nelle forze armate, collegata nella circostanza ai maggiori partiti tradizionali (compreso quello comunista, spinto dall’alleanza antifascista USA-URSS nella guerra mondiale) e apertamente supervisionata dall’ambasciatore degli Stati Uniti a Buenos Aires, il repubblicano Spruille Braden, aveva destituito e incarcerato il Generale, inviso all’oligarchia tradizionale, alla gerarchia ecclesiastica e ai grandi oligopoli angloamericani.
Ancora oggi gli Stati Uniti proiettano la propria ombra sulla crisi argentina con l’attesa delle elezioni presidenziali del prossimo 3 novembre. Non è pesante come allora, ma influisce certamente sui comportamenti della Casa Rosada così come su quelli dell’opposizione. I sondaggi che presentano lo sfidante democratico Joe Biden in vantaggio su Donald Trump fanno fretta a quest’ultima, timorosa di perdere il favore di Washington goduto finora grazie all’affinità ideologica con Trump; senza liberare il primo dalla preoccupazione di non offrire al bellicoso inquilino della Casa Bianca pretesti che possano indurlo a ostacolare la trattativa in corso sul debito con il Fondo Monetario Internazionale (FMI).
Macri rinnega le ammissioni espresse subito dopo la sconfitta elettorale («Lo dicevo ai miei che se ci chiudevano il credito finivamo in un vicolo cieco…»). Ora dichiara che («come Deng Xiao Ping in Cina…»), il suo governo avrebbe favorito la concentrazione di ricchezza per fare impresa e quindi creare posti di lavoro (etc. etc.). Intendendo così richiamare l’immagine iconografica della teoria neoliberista secondo cui se continui a colmare la coppa del benessere, il benessere che tracima beneficerebbe tutti, assetati e affamati. A livello globale la sia pur circoscritta riduzione netta della miseria estrema parrebbe confermarla. La crisi altrettanto globale delle classi medie la contraddice. La teoria, com’è noto, resta a dir poco controversa.
Nella realtà Argentina appare di fatto insostenibile. Nel 2015, Macri ha ricevuto un paese appesantito da un’economia in parte rilevante sussidiata; con un debito pubblico consistente, ma governabile. Fiducioso nella mano invisibile del mercato, lui ha tagliato sussidi e imposte nella presunzione di richiamare in tal modo capitali interni ed esteri che avrebbero finanziato l’ammodernamento del sistema produttivo (infrastrutture e servizi). Per diverse ma tutt’altro che imprevedibili ragioni, non sono arrivati né gli uni né gli altri. (Analoghi presupposti avevano sostenuto l’ancor più avventuroso e opaco progetto liberista del peronista Carlos Menem a fine anni Ottanta, drammaticamente naufragato.)
La liquidità sui mercati finanziari è infatti enorme, però preferisce gli investimenti a carattere speculativo; capital golondrina, lo chiamano nel Cono Sur, perché come le rondini arriva con il tepore della primavera economica e subito emigra al primo freddo. Nessun governo lo predilige, molti finiscono per rassegnarvisi (necessitas virtute). Il capitale disponibile invece ad investimenti di medio-lungo periodo richiede garanzie di certezza giuridica e stabilità politica che non tutti riconoscono alle economie cosiddette emergenti. Se a queste tendenze congenite si somma la scelta autarchica e la competitività fiscale imposte da Donald Trump al colossale mercato degli Stati Uniti, ben si comprende la sorte toccata all’Argentina (e all’America Latina).
In questo quadro, il prossimo 17 ottobre non è più semplicemente una ricorrenza di parte a cui concedere maggiore o minor significato, diventa un riferimento centrale dello scontro in atto. Divampato allora e a tutt’oggi inconcluso, poiché irrisolti ne restano i termini (le cui implicazioni di principio vanno ben oltre le frontiere nazionali e dello stesso emisfero sudamericano); malgrado le numerose e troppo spesso tragiche vicissitudini cui ha dato luogo in oltre mezzo secolo. È possibile sviluppare un paese (passato intanto da 17 a 43 milioni di abitanti) essenzialmente agro-esportatore, rinunciando ad avere un’industria indirizzata al mercato di consumo interno, esposto ai contraccolpi delle mutevoli congiunture internazionali, senza un efficace controllo dei cambi, né un sistema di prelievo fiscale adeguatamente progressivo (come suggerisce perfino l’FMI)?
L’adesso rievocatissima crisi del 1929 aveva posto gli stessi quesiti (con le ovvie differenze dettate dai diversi livelli di sviluppo ne pose anche ai paesi centrali, che si divisero nella contrapposizione new-deal vs. fascismi fino alla seconda guerra mondiale). Gli Stati Uniti salvarono il proprio capitalismo grazie all’intervento pubblico in senso espansionista e sociale indicato da J. M. Keynes a F. D. Roosevelt. Con il colpo di stato del generale José Uriburu che rovesciò il presidente radicale Hipolito Hirigoyen, l’Argentina fece scelte contraddittorie in favore di una modernizzazione conservatrice, comunque finanziata dallo stato. Tesa più alla salvaguardia dei conti pubblici e degli interessi privati dell’export agro-alimentare e minerario che non al sostegno dei consumi interni.
Entrambi riformisti, la coppia Federico Pinedo-Raúl Prébisch (nella sua evoluzione industrialista quest’ultimo creerà per le Nazioni Unite la CEPAL, Comisión Económica para America Latina) favorì una politica anticiclica fino alla congiura di caserma degli ufficiali nazionalisti tra i quali si faceva largo Perón, nel 1943. L’intervento statale beneficò soprattutto i grandi latifondisti; ma sebbene in misura incomparabilmente minore e solo in un secondo periodo, già negli anni Quaranta, questo servì a lenire anche le difficoltà dei ceti medi urbani e i falcidiati salari operai. I milioni di pesos dell’erario pubblico (in un periodo in cui più o meno tenevano la parità con il dollaro) hanno finanziato l’economia nazionale ben prima delle politiche redistributive del peronismo.
Come raccomandavano con intenti equilibratori fin dai primi anni Trenta anche liberal-socialisti e cristiano-sociali, un esempio dei quali ultimi fu Alejandro Bunge, ingegnere ed economista, un erede nientemeno che della famiglia socia dei Born nella holding cerealicola fino a pochi anni fa più potente del Sudamerica e tutt’ora tra le prime nel mondo. Una personalità di particolare prestigio per le qualità intellettuali non meno che per i vincoli familiari, formata in Germania e in Inghilterra, così come parte della élite rioplatense, che allora aveva nell’Europa il suo principale punto di riferimento. La natura disincantata e la cultura autoritaria di Juan Domingo Perón soffocarono il fragile pluralismo che fermentava in quell’Argentina; ma inevitabilmente il peronismo non ne restò immune.
Condizionati da un’economia di esportazione, gli imprenditori argentini pretendono oggi come ieri e l’altro ieri una svalutazione della moneta nazionale che il governo gli nega in nome del rischio di collasso a cui esporrebbe l’intera popolazione. Il ritardo dei redditi (quelli fissi in primis) rispetto all’inflazione non sopporterebbe un ulteriore trauma. Il presidente Alberto Fernández e il ministro dell’Economia, Martin Guzman, intendono condurre la politica finanziaria con il massimo coordinamento, per evitare che il sistema dei prezzi interni gli esploda tra le mani e con questi la pace sociale. Per farlo hanno bisogno di tempo. Il mondo imprenditoriale e l’opposizione macrista non sembrano intenzionati a concederglielo, nel convincimento che indebolirebbe la loro capacità negoziale.
È quella che gli economisti keynesiani fin dalla metà del secolo scorso chiamano la maledizione dello sviluppo dipendente (da intendere in senso assoluto, poiché in diversi modi e misure tutti dipendono da tutti gli altri). Una dipendenza che a ogni fine ciclo e in termini massimamente esasperati nei prolungati passaggi d’epoca come questo che stiamo vivendo, comporta stati di stagnazione e recessione tanto più gravi quanto più le economie sono assoggettate, acutizza le disuguaglianze sociali e mette in tensione i sistemi istituzionali. Il Covid è vento sul fuoco. Ma l’Argentina ha superato i guadi più impervi.
Livio Zanotti è nato a Roma e risiede a Buenos Aires.
Nel 2014 riceve il Premio Fersen al Piccolo Teatro di Milano, con la piece “L’ Onda di Maometto” scritta con Alberto La Volpe. Da giovanissimo nel giornalismo al settimanale L’ Espresso, diretto da Arrigo Benedetti, Eugenio Scalfari, Gianni Corbi. Per oltre due decenni lavora poi a La Stampa, con Giulio De Benedetti, Alberto Ronchey, Arrigo Levi, Vittorio Gorresio, Michele Tito, inviato speciale, corrispondente dal Sudamerica e da Mosca, allora capitale dell’ Unione Sovietica. Lascia il grande giornale di Torino per collaborare come editorialista a Il Giorno di Milano e agli “Speciali” del TG1-Rai-TV, diretti da Alberto La Volpe, per i quali realizza numerosi documentari-inchiesta di carattere socio-economico negli Stati Uniti, in Estremo Oriente, nel Sud-Est asiatico. Corrispondente da Berlino alla caduta del Muro e dall’ America Latina dei colpi di stato e delle guerriglie per i TG e radiogiornali RAI, ha pubblicato libri d’ indagine storica e svolto conferenze in Italia e alll’ estero.
Per gentile concessione di Vision & Global Trends
Il Min. Lucia Azzolina e il Pres. della Regione Sicillia, Nello Musumeci, al tavolo della FIDAPA |
Sbarcata ad Agrigento al motto di “Riparte la scuola, riparte L’Italia”, leziosamente stampato sulla mascherina nera, ieri, sabato 26 settembre, la ministra Lucia Azzolina, dopo il gomito a gomito col Presidente Musumeci, si è gentilmente offerta alle domande dei giornalisti giunti numerosi per l’evento di risonanza mondiale.
A motivazione della sua presenza presso il capoluogo agrigentino il XXXVIII Convegno Nazionale della FIDAPA-BPW Italy (Federazione Italiana delle Donne nelle Arti, Professioni e Affari) aderente alla I.F.B.P.W. (International Federation of Business and Professional Women) sul tema nazionale che quest’anno ha scelto le vestigia dell’antica Akragas quale dimora d’eccellenza per un tema di forte attualità: Il Tempo delle Donne. Un indicatore attuale delle sperequazioni di genere.
“Aprite gli occhi sulle donne” ha più volte ribadito la giovane ministra, siracusana d’origine, “donne che lavorano, studiano, sognano”, narrando, per inciso, anche la sua esperienza, comune a tanti, oggi come ieri, di giovane insegnante che, con una “valigia di cartone” lascia la sua Terra per la professione. E dentro quella valigia, oltre ai sogni e alle competenze, fondamentale il bagaglio culturale acquisito fra i banchi di scuola (quelli di legno!), ribadendo, così, l’importanza del ruolo svolto dalla scuola sulla formazione di un’ Italia che sia un Paese migliore per le pari opportunità, con particolare attenzione rivolta a colmare il divario fra giovani e istituzioni. Citato anche Victor Hugo, nel perorare la sua causa tutta al femminile, indicando l’uguaglianza come base della piena libertà…salvo poi rinnegare quell’uguaglianza di genere, poco prima auspicata, inneggiando alle donne che sono state le prime ad isolare il ceppo del Coronavirus, almeno su computer. Perché, in un convegno dedicato ai diritti della donna, ancora non acquisiti, nonostante interminabili anni di lotte e rivendicazioni, il vero protagonista invisibile è sempre il virus e l’osannato vaccino che anche il Governatore della regione non ha certo mancato di promuovere nel corso del suo intervento.
“Artigiano della politica”, si è definito Musumeci, quella politica che è l’arte del governo dei popoli, narrando di quei 36.000 morti per Covid (pari alla metà dei morti della Seconda guerra) che, a suo dire, non fanno scalpore, perché non si vedono. Aspettando che “Il vaccino arrivi!”.
Lodevoli i propositi di questo “Uomo del Centro destra” che, nella sua politica di risanamento post Covid, non tralascia neanche Dio e il suo ineluttabile giudizio.
Intanto fra promesse di incentivi finanziari per scuola e famiglia da parte dei politici di casa, il miglior auspicio per il futuro sembra essere stato quello espresso dalla Presidente Internazionale Amany Asfour che, nei toni speziati della sua mise esotica, ha invocato a gran voce, in un italiano stentato ma deciso, LA PACE NEL MONDO.
Se è difficile far funzionare armonicamente un condominio, tanto più lo è far funzionare una comunità eterogenea come una nazione. Ma a guardare la storia gli esseri umani da millenni dibattono sui medesimi problemi e sulle possibili soluzioni da adottare, senza riuscire a mutare in meglio il corso della storia: le stesse ingiustizie, gli stessi crimini, le stesse inquietudini.
Coloro che, attraverso i media, parlano di politica o di economia, generalmente dicono le medesime cose in forma diversa e alla fine le problematiche risultano ancora più complesse e l’ascoltatore spesso non ricorda nulla e soprattutto non comprende quale è la causa del problema e quale deve essere la sua parte. E’ come se in guerra si arringassero le truppe senza far capire loro lo scopo della missione.
Il linguaggio è forbito con frasi e neologismi accessibili solo agli addetti ai lavori o a persone della stessa progenie. In un insopprimibile veglia di primeggiare vi è una’ansimante, affannosa e cardiopatica corsa a parlare il più possibile, magari rubando la parola dell’avversario o sopraffarlo con una fulminante battuta finale. Insomma, tutti dicono le stesse cose in termini diversi che è come rivendicare il diritto di avere la stessa minestra in un piatto diverso, lontani dal pensiero di chi diceva: “Sia il
vostro dire si si no no, il di più viene dal maligno” (Mtt, 5,37).
La stragrande maggioranza delle persone non ha buona stima dei politici e ritiene questi una categoria a parte, interessata solo ai propri interessi.
Fino quando il soggetto resta solo un candidato politico viene considerato persona rispettabile, onesta, di sani propositi, da sostenere; ma, si ritiene che nel momento in cui viene politicamente eletto diventa automaticamente un corrotto, preoccupato solo dei suoi vantaggi, un nemico da combattere.
Ci si dimentica che i politici sono una fetta del popolo con le stesse virtù ed i medesimi difetti e che coloro che criticano o condannano l’operato dei politici forse al loro posto si comporterebbero allo stesso modo, se non peggio, perché, nella sostanza, sono i meccanismi che sono perversi e che quasi costringono l’individuo eletto a scendere a compromessi. Ma i meccanismi sono fatti dagli uomini e non serve cambiarli se non cambia la coscienza e il modo di pensare di chi li fa e li gestisce. E’ come
concentrare le proprie risorse sulla necessità di cambiare l’automobile senza chiedersi se il conducente è in grado di guidare.
Quello che stupisce è che la storia non insegna nulla agli esseri umani; tutto l’impegno politico è improntato ad arginare gli effetti prodotti dall’insano comportamento umano intriso di egoismo e attitudine predatoria.
Non ci sarà mai un mondo migliore finché non ci sarà la volontà politica di intervenire sulla persona attraverso un piano globale di educazione delle masse, che parte dalla scuola e dalla famiglia, con lo scopo di favorire lo sviluppo dei valori fondamentali della vita: l’onestà, il senso di giustizia, la fraterna collaborazione, il rispetto ed il valore delle diversità, la non invasione dello spazio fisico, mentale e morale dell’altro. A molti può sembrare semplicistico quanto difficile da attuare, ma è il solo obiettivo trascurato quanto scelleratamente e volutamente ignorato.
Certo ognuno ha la sua visione delle cose, ma molti hanno percezioni limitate, altri sono in buna fede, ma quel che è assurdo e incomprensibile è: come mai la stragrande maggioranza della popolazione non comprende che è il cuore, la coscienza degli uomini a fare la storia, l’intima sensibilità delle persone? Come mai non riesce a svincolarsi dal condizionamento mentale e morale della cultura antropocentrica e sintomatologica intesa ad arginare i sintomi non a debellare le cause dei problemi? Come mai continua a credere che saranno i sistemi economici o politici a risolvere i problemi e non la saggezza del pensiero positivo dell’uomo?
Molti sono i motivi per cui l’essere umano si comporta ingiustamente nei confronti del suo simile, ma non c’è azione delittuosa che non passa attraverso la coscienza degli uomini, il suo intimo sentire. E’ la coscienza infatti a fare la storia che se fosse più giusta e sensibile alla condizione dell’altro fino a condividerne le necessità vitali non potrebbe esprimersi in modo lesivo. Perché dunque l’umanità continua a trascurare questo aspetto risolutore? Perché non si impegna ad intervenire sulle cause dei suoi
problemi piuttosto che continuare a leccarsi le ferite dei sintomi?
La violenza in natura si manifesta principalmente perché un animale si sente minacciato o per motivi di sopravvivenza. Tra gli esseri umani si manifesta quando l’individuo viene privato di un suo diritto o si impossessa di ciò che non gli appartiene. La mucca non cede volentieri il suo latte agli umani, né la cavia si presta volentieri ad essere vivisezionata: ma all’essere umano non importa se l’animale, o l’altro, è d’accordo, anzi, non gliene frega nulla di ciò che l’altro pensa o può provare. Questo aspetto è
propedeutico alla mentalità predatrice che inevitabilmente si manifesta e si ripercuote anche nei confronti degli uomini.
Naturalmente l’educazione delle masse non sarà un processo né breve né facile, né tantomeno privo di contrasti ideologici. Passeranno generazioni prima che emerga la vera civiltà, prima che sia geneticamente sradicata dalla natura umana la propensione al sopruso, all’ingiustizia, alla violenza, alla sopraffazione. Ma se mai si inizia un’opera mai la si conclude e i problemi resteranno. A molti può sembrare pleonastico, ma non è forse il cardine del pensiero di tutti i grandi illuminati, quello di intervenire sull’uomo, sulla coscienza, sulla sensibilità, sulla bontà umana attraverso la conoscenza e lo sviluppo dei valori morali e spirituali? Già Socrate (come tutti i grandi filosofi), aveva indicato il valore imprescindibile dell’insegnamento delle virtù; anche Cavour prima di morire disse le stesse cose: “Educare l’infanzia e la gioventù”. Ma i politici sono
sordi agli insegnamenti dei grandi.
Osservando nella sua globalità i processi di digitalizzazione dei sistemi sociali e virtualizzazione progressiva della vita degli individui, dalla crisi finanziaria del 2008 alla crisi sanitaria del 2020, se ne possono scorgere non solo le ricadute socio-economiche, ma anche le trame cognitive, psicologiche e percettive dell'uomo. Tre facoltà già messe a dura prova dai cambiamenti politici e sociali degli ultimi decenni, tutti in varia misura complici della perdita di una facoltà umana essenziale: la dialettica, come strumento di confronto autentico con il sé e con l'altro.
L'aggravamento della crisi economica e sociale è solo il cambiamento più visibile innescato dall'emergenza sanitaria legata al Covid-19. Se in un primo momento alcuni avevano intravisto il primo passo verso una digitalizzazione accelerata delle collettività organizzate, non è soltanto perché le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione (TIC) sono state per molti l'unico strumento di socialità e di produzione (dagli acquisti tramite applicazioni mobili al telelavoro); infatti, le principali metamorfosi degli individui e delle società dipendono in gran parte dalla presenza sempre più pervasiva di queste tecnologie nella vita quotidiana degli individui, dal momento che sempre più transazioni sociali, soprattutto private, avvengono tramite reti sociali e applicazioni mobili. Ciò, verosimilmente, trasformerà la percezione che l'uomo ha di se stesso, della propria corporeità e della propria presenza, posta sempre meno in relazione con la fisicità. Intanto, resta da comprendere se la tendenza all'iperconnessione e le dipendenze da videogiochi e da internet siano una causa o un sintomo dei mutamenti che hanno interessato la sfera psichica, cognitiva ed emozionale, dell'essere umano. Riflessioni su queste ultime, infatti, sono già presenti nella letteratura, nell'arte e nella filosofia degli inizi del secolo scorso, in conseguenza dei profondi cambiamenti prodotti dalla seconda rivoluzione industriale. Forme drammatiche di sfruttamento della forza lavoro umana si sono accompagnate all'inquadramento sociale e all'affermazione del modello di società di massa, caratteristici delle società industriali.
Lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, in effetti, risale ai più antichi sistemi economici basati sulla schiavitù, dall'antico Egitto al mondo greco-romano, nel quale gli schiavi erano considerati strumenti animati, di proprietà del padrone come un altro qualsiasi degli oggetti in suo possesso, e beni da commerciare. Generalmente giustificato sulla base dei codici di guerra e delle leggi di natura, questo istituto, a quanto risulta dalle fonti in nostro possesso, non è stato contestato che da pochi intellettuali e in epoca relativamente tarda, dai sofisti greci Antifonte e Alcidamante, dal pensiero stoico e dal pensiero cristiano. Peraltro, nell'antichità, il lavoro stesso, in quanto prerogativa degli schiavi non era affatto considerato un'attività nobilitante. Profondo deve essere stato quindi lo scalpore suscitato dalla tragedia Elettra di Euripide, il cui prologo è recitato da un auturgo, ossia un contadino indipendente, che nel corso del dramma sottolinea a più riprese come la vera nobiltà non sia quella del sangue, ma quella conquistata con azioni e comportamenti giusti. La schiavitù, inoltre, è attestata sin dalle prime fonti scritte, come nel codice di Hammurabi del 1750 a.C. circa, e ancor prima nelle sepolture di età neolitica. Insomma, la schiavitù in quanto legittimazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo nacque nella stessa fase in cui, secondo il filosofo Jean-Jacques Rousseau, nacque la proprietà privata, e con essa la diseguaglianza. Tuttavia, sono le forme di schiavitù affermatesi in epoca moderna ad aver individuato un principio di legittimazione in sé sufficiente, benché eticamente insostenibile: il profitto. Argomentazioni basate sulla presunta missione civilizzatrice da parte delle società superiori a beneficio di quelle inferiori non sono che espedienti per ridurre al silenzio il richiamo cristiano all’uguaglianza di tutti gli uomini, anche laddove si affermava la superiorità di questi ultimi sugli altri animali.
Lo stesso criterio del profitto legittimò infatti le nuove forme di schiavitù imposte dal sistema economico capitalista dopo la seconda rivoluzione industriale, che legò in maniera apparentemente indissolubile il successo dei meccanismi del mercato all’organizzazione delle collettività umane come gigantesche macchine produttive, all’interno delle quali l’individuo era considerato in base al ruolo che rivestiva in tali ingranaggi. Di qui il carattere alienante e disfunzionale delle società di massa, che emerge nella letteratura, nelle arti e nelle filosofie del XX secolo. Le metamorfosi antropologiche conseguenti a simili forme di addomesticazione delle masse sono sintetizzabili nell’identificazione tra posizione lavorativa e status sociale da un lato, e identità personale dall’altro. Di conseguenza, gli individui che vivevano in collettività organizzate sono stati condannati alla prigionia perpetua dei ruoli sociali imposti dai sistemi produttivi, che tendevano (e tendono) a inquadrare anche i gesti e i comportamenti quotidiani. Da questo punto di vista, la digitalizzazione e la virtualizzazione dell’esistenza umana ha soltanto cambiato le forme di un simile asservimento, rendendo quest’ultimo meno evidente, ma non meno feroce. In altri termini, l’iperconnessione, che si manifesta sotto diversi aspetti, dall’identità digitale che ciascun individuo si costruisce sulle reti sociali, alla repressione dei bisogni fisiologici da parte dei video-giocatori dipendenti (che in Corea del Sud arrivano a indossare un pannolino per non dover interrompere il gioco), fino all’oblio della cura di un figlio reale per occuparsi di figli virtuali (anche questo fenomeno è attestato in Corea del Sud), non è altro che la nuova forma di inquadramento sociale nata dalla diffusione massiccia delle TIC su scala globale. Tecnologie che svolgono quindi la stessa funzione delle istituzioni tradizionali delle società di massa, come la fabbrica, la scuola, le accademie o la televisione.
In fondo, la finalità è sempre la stessa, integrare le esistenze dei singoli individui nei meccanismi più funzionali all’economia di mercato: un tempo la fabbrica, oggi il web. Se dunque la seconda rivoluzione industriale aveva ridotto l’uomo a forza lavoro, a capitale umano, la rivoluzione digitale ne ha fatto una macchina produttrice di dati, analizzabili da algoritmi. Nessuno spazio dunque viene lasciato alla dialettica, come strumento del pensiero per superare se stesso e le proprie elaborazioni. Il che significa che anche filosofie che, come il transumanismo, auspicano il superamento da parte dell’uomo della propria condizione naturale grazie all’integrazione di componenti tecnologiche nell’organismo, non fanno altro che spingere lo sviluppo delle facoltà umane nella direzione che più si adatta al nuovo produttivismo digitale, portando alle estreme conseguenze le diseguaglianze sociali. La questione centrale non è in sé se l’uomo percepisca se stesso come corporeità o come proiezione digitale, ma l’uso e la strumentalizzazione che le classi dominanti delle attuali società in via di evoluzione decidono di realizzare di tali percezioni, ossia del ruolo che queste hanno e avranno negli ingranaggi produttivi. Parimenti, artificiale o naturale (il confine tra le due non è sempre nettamente determinabile), l’intelligenza, al pari delle altre facoltà e potenzialità umane, rischia di essere considerata ancora esclusivamente in funzione del mercato.
Il governo tedesco ha affermato all'inizio della giornata che i test eseguiti sulle analisi dell'oppositore russo, Alexey Navalny, hanno mostrato una sua presumibile esposizione a un agente nervino del gruppo "Novichok". L'ipotesi è stata ritenuta non plausibile dal suo creatore.
Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha chiarito che Berlino non ha informato Mosca riguardo le sue conclusioni su questo presunto "avvelenamento". Intano l'Ambasciata russa in Germania ha rivelato che nessuna informazione fattuale sostanziale sul caso del leader dell'opposizione extraparlamentare russa Alexey Navalny è stata data all'ambasciatore russo presso il ministero degli Esteri tedesco.
La cancelliera Angela Merkel ha parlato di "tentato omicidio" dell'oppositore russo con "agente nervino" ed ha chiesto spiegazioni al governo russo, così come ha preannunciato consultazioni con i partner della Ue e della Nato per concordare una reazione comune. A sua volta la Farnesina ha espresso una "profonda inquietudine ed indignazione" riguardo il caso.
Perché la Germania non ha preso in considerazione né il parere dei medici dell'ospedale di Omsk, dove la vita di Navalny è stata salvata, né del professore Leonid Rink, uno degli sviluppatori dell'agente nervino "Novichok"? Cosa si nasconde dietro questo giudizio sbrigativo, tenendo presente che Berlino non ha nemmeno voluto informare Mosca delle sue “scoperte” prima di annunciarle pubblicamente? A che cosa è dovuta la fretta con cui gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno accolto la versione tedesca sul presunto avvelenamento di Navalny?
Sputnik Italia ha intervistato Tiberio Graziani, Chairman di Vision&Global Trends:
— "Prima di rispondere alle sue domande vorrei fare una brevissima premessa a mio avviso necessaria per tentare comprendere il nuovo affair che contrappone Stati Uniti e Unione Europea da una parte e Federazione Russa dall'altra.” Ha affermato Graziani.” La narrativa entro la quale si inserisce questo ennesimo affair ricalca uno schema ben noto: è quello dei presunti avvelenamenti di Litvinenko, Skripal, Verzilov, Kara-Murza. Oppositori o ex agenti segreti che verrebbero platealmente avvelenati su ordine del Cremlino.
Dopo l’annuncio del presunto avvelenamento, parte subito la seconda fase: una campagna mediatica volta a divulgare “prove” unilaterali che dovrebbero inchiodare Mosca alle sue responsabilità. Lo scopo è quello di creare frizioni tra Mosca i Paesi occidentali, fare pressioni sulla presidenza della Federazione Russa e, possibilmente, implementare le sanzioni.
La Germania non vuole prendere in considerazione il parere dei medici russi né del prof Rink perché ha adottato ideologicamente una posizione politica, ciò è dimostrato proprio dal fatto che non ha ufficialmente, per quanto ne sappiamo, colloquiato con Mosca. Se i russi avessero voluto "eliminare" un oppositore scomodo, lo avrebbero ucciso; non avrebbero permesso il trasporto di Navalny in Germania. La logica che soggiace a tutta questa questione è squisitamente geopolitica. Il caso Navalny sarà molto probabilmente utilizzato per ostacolare il progetto Nord Stream-2 e per comminare ulteriori sanzioni a Mosca".
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“Ormai queste rivolte erano già attese e pianificate. I disordini in Bielorussia sembrano come un tentativo di 'Rivoluzione corlorata' piùttosto che una manifestazione spontanea e l'intelligence americana è stata sempre dietro a tutte le rivoluzioni corolorate …Ci sono ovviamente anche le ingerenze straniere..." queste le parole di Eliseo Bertolasi, dottore di ricerca in antropologia culturale, russista, nonchè Senior Analyst del Vision & Global Trends ed anche corrispondente di diversi media russi sugli ultimi avvenimenti in Bielorussia.Per ascoltare versione integrale cliccare qui sopra
Come l'Artico e l'Indo-Pacifico, il Mediterraneo orientale rappresenta una linea di faglia tutt'altro che stabilizzata, dove si scontrano gli interessi strategici di potenze regionali e mondiali: Russia, Turchia, Francia, ma anche Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita; la distensione tra Abu Dhabi e Tel Aviv offre ad Ankara un nuovo appiglio per ergersi a paladina dei diritti dei fratelli musulmani (e dei Fratelli musulmani), mentre Riyadh preferisce per ora la linea del silenzio; potrà la retorica espansionista mettere a tacere le tensioni sociali?
Mentre i tre principali rivali per la supremazia globale, Cina, Stati Uniti e Russia, si contendono l’egemonia e il controllo del cyberspazio, nello spazio fisico diversi paesi aspirano al ruolo di potenze regionali, taluni con l’obiettivo finale di ritagliarsi il proprio spazio nell’ordine (o disordine) mondiale che si sta delineando da almeno un decennio. La potenza statunitense, eredità del secolo scorso e dell’implosione del sistema sovietico, sembra ne stia uscendo indebolita, mentre assiste agli scricchiolii che incrinano la solidità, peraltro mai del tutto affermata, della sua sfera di influenza, istituzionalmente rappresentata dall’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO). Lo stesso organismo che secondo il presidente francese Emmanuel Macron versa in condizioni di morte cerebrale. Anche perché la testa, con sede fisica a Bruxelles, ma idealmente situata a Washington, stenta a controllare le ambizioni di quelle che avrebbero dovuto essere le sue membra. Il deterioramento delle relazioni tra Grecia e Turchia, ma anche tra quest’ultima e la Francia, non sono che il sintomo della metamorfosi del rapporti di forza all’interno di un organismo, la NATO, istituito nell’intenzione di creare un fronte compatto contro un nemico comune, che allora era l’Unione sovietica. E la percezione indotta di tale minaccia era già di per sé un efficace strumento di coesione, o meglio di controllo e di dominio, come dimostra la complessa e ramificata rete di cellule stay behind presenti nei paesi alleati (ad esempio, Gladio in Italia). Di conseguenza, non vi era alcuna esigenza di mobilitare realmente l’arsenale bellico, anche perché una simile mossa sarebbe risultata suicida. Non è quindi affatto casuale che le prime operazioni militari NATO, presentate all’opinione pubblica come interventi umanitari, siano state lanciate dopo la fine della guerra fredda, quindi una volta venuta meno, per il blocco vincitore, la necessità di compattezza e coesione. In altri termini, dopo l’imposizione dell’assoluto dominio mondiale della superpotenza USA, se ancora nel
1990-91, quando Washington, seguita da qualche alleato, lanciò le operazioni Desert Shield e Desert Storm contro l’Iraq di Saddam Hussein, la NATO non fu chiamata in causa. Tutt’al più, allora si andava affermando la tendenza ad agire a colpi di risoluzioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), come appunto quella che legittimò l’operazione Desert Storm.
Un discorso ben diverso riguarda il disordine mondiale attuale, che dura all’incirca da un quindicennio, caratterizzato dall’assenza di attori in grado di imporre la propria egemonia su tre dimensioni: il globo terraqueo, lo spazio e il cyberspazio. Questa fluidità degli equilibri di forze sullo scacchiere mondiale è terreno fertile per coltivare aspirazioni a restaurare vecchi imperi o a crearne di nuovi. In tale contesto, diversi paesi hanno colto l’occasione per perseguire i propri interessi strategici, sia pure senza esplicite dichiarazioni di rottura. In primo luogo la Turchia, che con l’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan, ha saputo trarre vantaggio dal ruolo di gendarme regionale affidatole dagli Stati Uniti negli anni ‘90, per rinvigorire le proprie mire imperiali neo-ottomane; in secondo luogo la Germania, attualmente attore economico regionale di un certo rilievo (è la seconda finanziatrice della NATO dopo gli USA), alla quale dopo la caduta del muro, la superpotenza aveva concesso di proiettare il proprio soft power sui Balcani e sull’Europa orientale, in una sorta di ripresa-rielaborazione dell’Ostpolitik di Willy Brandt; in terzo luogo la Francia, l’alleato riluttante ma economicamente rilevante (è il terzo dei suoi finanziatori), che dal comando unificato NATO è rimasta fuori dal 1966 al 2009, e che di recente ha rilanciato i propri tentativi di affermazione su scacchieri regionali di grande interesse strategico: basti citare, a titolo di esempio, Nord Africa, Africa subsahariana (la Françafrique essendo stata ridotta ai minimi termini dall’espansionismo economico cinese), Medio Oriente (si pensi alla visita di Macron a Beirut dopo la recente devastante esplosione) e Mediterraneo orientale (dove Parigi ha aumentato la sua presenza militare, per fronteggiare l’intraprendenza turca, e non solo nei confronti della Grecia), con un occhio alla Bielorussia; dulcis in fundo, il Regno Unito, che alla NATO diede i natali e che ne ha fatto da sempre il perno della propria strategia difensiva, spesso in linea con la sua antica colonia, divenuta in seguito più potente della madrepatria, al pari di quanto fece anticamente Cartagine rispetto a Tiro.
All’elenco dei paesi che mirano a trarre profitto dall’attuale disordine mondiale, si potrebbe aggiungere il Giappone, con le dispute marittime che lo oppongono a Cina e Russia e con un’alleanza con gli USA che, se lo protegge dalle potenze rivali, gli ha imposto finora pesanti restrizioni in tema di armamenti. Tokyo potrebbe quindi approfittare del timore statunitense dell’espansionismo di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, una paura condivisa inoltre dall’India e dall’Australia. Dal canto suo, dopo decenni di quiescenza nel ruolo di fedele alleato e oggetto di protezione di Washington, l’Arabia Saudita, negli ultimi anni, fronteggia le insidie della Turchia nel ruolo di guida dell’islam sunnita. In merito all’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti del 13 agosto 2020, negoziato con la mediazione di Trump, Riyadh non ha ancora commentato ufficialmente, ma da anni ha instaurato con Tel Aviv una cooperazione ufficiosa in funzione anti-iraniana (come ha fatto, peraltro, il Bahrein). Relazioni che sono risultate proficue anche al di fuori della disputa con Tehran, dato che il giornalista Jamal Khashoggi, ucciso il 2 ottobre 2018, era stato sorvegliato mediante il malware di produzione israeliana Pegasus. Malgrado il sostegno assoluto di Trump e di Jared Kushner, suo genero e consigliere, il principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS) ha sperimentato gli strali del Congresso USA all’epoca dell’uccisione di Khashoggi all’interno del consolato saudita a Istanbul. Inoltre, il 14 agosto ha ricevuto dal tribunale distrettuale di Washington DC una convocazione in merito alle accuse lanciategli da Saad al-Jabri, ex funzionario dell’intelligence saudita residente in Canada dal 2017. Al-Jabri, consigliere dell’ex ministro dell’interno saudita Mohammed bin Nayef, grande rivale di MBS, sostiene infatti che quest’ultimo, nel settembre 2017, ha adottato nei suoi confronti un metodo assai simile a quello scelto per eliminare Khashoggi. Intanto, pur essendo improbabile che gli USA rinuncino all’alleanza con la monarchia saudita, Riyadh è ora sotto i riflettori dell’intelligence statunitense, che nutre sospetti a proposito del suo programma nucleare, in particolare per un probabile coinvolgimento della Cina. L’Arabia saudita, che ufficialmente nega di voler produrre, con la cooperazione di Pechino, combustibile nucleare utilizzabile per costruire armi atomiche, ammette tuttavia di aver siglato con l’Impero centrale contratti per la ricerca di uranio yellowcake in diverse regioni del regno. L’obiettivo, ha spiegato il ministero dell’Energia saudita, è diversificare l’economia e produrre uranio per scopi civili, in linea con il Trattato di non proliferazione nucleare del 1986. Intanto, Riyadh ha annunciato l'avvio della sperimentazione umana di un vaccino contro il Covid-19, come parte di un accordo di cooperazione con la Cina.
Dalla rivalità turco-saudita per la guida dell’islam sunnita (che Ankara, al contrario di Riyadh, vorrebbe unificare, eliminando la divisione tra arabi e non arabi), era rimasto fuori l’Egitto laico e militarista di Abd al-Fattah al-Sissi, che con l’islam politico aveva chiuso i conti appena insediatosi, dopo il colpo di Stato che aveva rovesciato il presidente Mohammed Morsi. In buone relazioni sia con le petromonarchie del Golfo, sia con Israele (al-Sissi, come il presidente israeliano Benjamin Netanyahu, consigliava Trump di non rompere le relazioni con l’Arabia Saudita a seguito dell’affaire Khashoggi), il Cairo è intervenuto negli equilibri regionali del Mediterraneo orientale solo quando ha percepito il pericolo del progetto neo-ottomano di Erdoğan, sull’onda dei successi turchi in Siria e in Libia. Minacciato dall’intervento di Ankara in Libia a sostegno del governo di Fayez al-Sarraj (peraltro riconosciuto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite – ONU), l’Egitto ha reagito dichiarandosi pronto a inviare a sua volta un contingente militare in aiuto del generale Khalifa Haftar. Una mossa bollata come illegale dalle autorità turche, che inoltre hanno accusato al-Sissi di aver inviato truppe in Siria per sostenere l’esercito di Assad. Contestualmente, il Cairo cerca di costruire un consenso tra i paesi arabi sulla linea da seguire per risolvere il conflitto libico. Tra la fine di luglio e gli inizi di agosto, infatti, l’Egitto ha promosso gli incontri tra il portavoce del parlamento libico di Tobruk (che fa riferimento a Haftar) ed espon
enti dei governi marocchino, tunisino e algerino. Tale iniziativa ha seguito i colloqui di inizio giugno tra al-Sissi e Haftar, durante i quali il presidente egiziano ha annunciato un piano di pace (Cairo initiative) per la Libia, lanciando un appello a tutte le parti coinvolte per il cessate il fuoco e il ritorno all’unità del paese. Al-Sissi ha inoltre invitato tutte le potenze straniere implicate nel conflitto a ritirarsi. Una strategia radicalmente diversa dall’interventismo monolitico turco, la cui minaccia viene percepita dal Cairo anche nel Mediterraneo orientale. Infatti Ankara, che lo scorso luglio ha condannato il sostegno di Egitto ed Emirati Arabi Uniti al generale Haftar, ha ribadito, insieme al Qatar, il suo sostegno ad al-Sarraj, durante una visita dei ministri della Difesa dei due paesi a Tripoli, alla quale ha preso parte anche il ministro degli Esteri tedesco. Inoltre, la Turchia ha definito vano e vacuo l’accordo siglato il 6 agosto da Egitto e Grecia (e ratificato il 17 agosto dal parlamento egiziano) per la delimitazione dei confini marittimi e per la definizione di una zona economica esclusiva.
La battaglia per le materie prime nel Mediterraneo orientale, i conflitti per il controllo degli stretti e di altre aree strategiche, terrestri e marittime, le guerre commerciali o i cosiddetti interventi umanitari in difesa di opposizioni politiche o di minoranze etniche o confessionali (che spesso celano intenzioni o velleità imperialiste), sono alcuni degli strumenti utilizzati per ridefinire gli assetti geopolitici mondiali a seguito di fasi di saturazione dei vecchi equilibri. Ma si tratta altresì di stratagemmi per distogliere l’attenzione delle opinioni pubbliche sulle diseguaglianze e sull’ingiustizia sociale che negli ultimi anni si sono sensibilmente aggravate. Una potenza regionale come la Turchia, ad esempio, è colpita da una grave crisi economica, acuita dall’impatto dell’emergenza sanitaria da Covid-19. L’allarme relativo alla pandemia, d’altronde, ha sprofondato le economie mondiali nell’incertezza, in un momento in cui non erano stati completamente superati i postumi della crisi finanziaria del 2008. Una situazione difficilmente gestibile, a meno di non imprimere svolte autoritarie rischiose, soprattutto nella prospettiva della transizione verso un futuro digitale.
Nessuno ha creduto al presidente Aleksandr Lukashenko quando ha affermato che gli agenti stranieri erano dietro le rivolte a Minsk scoppiate subito dopo il rilascio dei risultati elettorali, ma ora è giunto il momento di rileggere gli eventi della Bielorussia per quello che sono veramente: una protesta di massa a cui l'Occidente si è infiltrato nel tentativo di trasformarla in una rivoluzione colorata. Il governo denunzia un presunto ruolo svolto dalla Gran Bretagna, dalla Polonia e dalla Repubblica Ceca,e conferma che a dozzine di stranieri è stato impedito di entrare illegalmente in Bielorussia per prendere parte alle rivolte, mentre per altri è stato possibile entrare. Ci sono paesi entrati in gioco e non nascondono nemmeno la faccia con la maschera: Lituania e Ucraina. Il primo è il paese in cui il principale avversario di Lukashenko, Svetlana Tikhanovskaya, ha trovato un rifugio sicuro; quest'ultimo è il Paese a cui appartengono alcune persone arrestate durante i disordini - e anche il Battaglione Azov ha confermato la sua presenza a Minsk sui suoi canali Telegram. C'è anche da dire che il rapporto tra Lukashenko e il suo omologo russo, Vladimir Putin, nello scorso anno non è stato molto idilliaco, ma la verità è che non lo è mai stato.
Lukashenko ha sempre amato giocare con il suo potente alleato approfittando della paura del Cremlino che la Bielorussia diventasse europea per ottenere alcune concessioni e crediti extra, ma è discutibile se Lukashenko sia davvero interessato a rompere una simbiosi secolare con l'Occidente - che significherebbe democratizzazione e fermare qualsiasi piano per far ereditare la leadership da suo figlio -. Non c'è dubbio che gran parte della società vuole un cambiamento profondo e il malcontento nei confronti di Lukashenko è stato abbastanza visibile fin dai primi giorni e, sebbene sia vero che agenti stranieri siano attivamente coinvolti nelle proteste, questo fatto non cancella la verità: quello che sta succedendo in Bielorussia è una protesta di massa, e l'Occidente la sta abilmente sfruttando con l'obiettivo di ridimensionare ulteriormente la sfera di influenza della Russia nell'Europa orientale. La grande scacchiera di Zbigniew Brzezinski è ancora valida e l'Occidente è vicino allo scacco matto. La perdita dell'Ucraina nel 2014 ha posto le basi per l'effettiva espulsione della Russia dall'Europa e per la perdita della sua dimensione europea, i prossimi passi sono Serbia, Moldova e Bielorussia. Mentre la posizione della Serbia nell'orbita russa sembra per ora inamovibile, la Moldova è sempre più esposta all'influenza esercitata dalla Romania - e al suo sogno sempreverde di unificazione - , dall'Ucraina, dalla Turchia - che sta armando la Gagauzia -, dall'Unione Europea e dagli Stati Uniti. Ma c'è un motivo per cui la Bielorussia è più importante della Serbia e della Moldova messe insieme: all'indomani di Euromaidan, Minsk si è trasformata nell'ultimo ostacolo all'accerchiamento UE-NATO della Russia da parte europea, ed è in questo contesto che deve essere letto il riorientamento strategico della Casa Bianca che passa dall'Ucraina (il cui protettorato è stato dato a due alleati fedeli, vale a dire Polonia e Turchia) alla Bielorussia.
Se l'insurrezione post-elettorale dovesse mai diventare una rivoluzione colorata in stile euromaidan, portando all'attuale caduta di Lukashenko, assisteremmo all'ascesa di una nuova leadership politica, tanto liberale quanto filo-occidentale, la quale non ha fatto mistero dei suoi obiettivi: riavvicinamento all'UE, de-russificazione, stop definitivo ai piani di fusione con la Russia. La conseguenza ultima e naturale sarebbe l'ingresso della Bielorussia nella sfera d'influenza occidentale: il rapporto tra Lukashenko e Putin non è mai stato idilliaco e l’ultimo braccio di ferro ne è la migliore prova: l'alternativa al cosiddetto ultimo dittatore d'Europa è uno scenario che si rifà a quello ucraino. La nuova leadership politica rappresentata da Tikhanovaskaya mira infatti a sostituire completamente la vecchia classe politica e alla rottura con il passato (cioè con la Russia); ecco perché un tentativo di infiltrarsi nel processo di transizione potrebbe rivelarsi tanto difficile quanto controproducente, dal momento che le possibilità di esito positivo sono ampiamente inferiori alle prospettive di fallimento e c’è anche da considerare che la crisi in corso possa produrre l’effetto di riavvicinare Lukashenko a Mosca. Altro fattore da considerare: le rivolte stanno dimostrando quanto sia impopolare Lukashenko - gli agenti stranieri rappresentano una minuscola minoranza - e la società vuole un cambiamento; sostenendo Lukashenko il Cremlino legherebbe la sua immagine a un regime visto con crescente avversione dalla nuova generazione, cioè da coloro che assumeranno la guida del Paese nel prossimo futuro.
per gentile concessione di - Vision & Global Trends.