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Carlotta Caldonazzo
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"Ecco perché sull'Ucraina il giornalismo sbaglia. E spinge i lettori verso la corsa al riarmo": lo sfogo degli ex inviati in una lettera aperta.
Undici storici corrispondenti di grandi media lanciano l'allarme sui rischi della narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto: "Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin". L'ex inviato del Corriere Massimo Alberizzi: "Questa non è più informazione, è propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni". Toni Capuozzo (ex TG5): "Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori. Trattare così il tema vuol dire non conoscere cos'è la guerra".
"Osservando le televisioni e leggendo i giornali che parlano della guerra in Ucraina ci siamo resi conto che qualcosa non funziona, che qualcosa si sta muovendo piuttosto male". Inizia così l'appello pubblico di undici storici invitati di guerra di grandi media nazionali (Corriere, Rai, Ansa, Tg5, Repubblica, Panorama, Sole 24 Ore), che lanciano l'allarme sui rischi di una narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto nel giornalismo italiano (qui il testo integrale sul quotidiano online Africa ExPress). "Noi la guerra l'abbiamo vista davvero e dal di dentro: siamo stati sotto le bombe, alcuni dei nostri colleghi e amici sono caduti", esordiscono Massimo Alberizzi, Remigio Benni, Toni Capuozzo, Renzo Cianfanelli, Cristiano Laruffa, Alberto Negri, Giovanni Porzio, Amedeo Ricucci, Claudia Svampa, Vanna Vannuccini e Angela Virdò. "Proprio per questo – spiegano – non ci piace come oggi viene rappresentato il conflitto in Ucraina, il primo di vasta portata dell'era web avanzata. Siamo inondati di notizie, ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi", notano i firmatari. "Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo". Proprio per questo – spiegano – non ci piace come oggi viene rappresentato il conflitto in Ucraina, il primo di vasta portata dell'era web avanzata. Siamo inondati di notizie, ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi", notano i firmatari. "Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo". Proprio per questo – spiegano – non ci piace come oggi viene rappresentato il conflitto in Ucraina, il primo di vasta portata dell'era web avanzata. Siamo inondati di notizie, ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi", notano i firmatari. "Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo". ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi", notano i firmatari. "Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo". ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi", notano i firmatari. "Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo". Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo". Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo".
Quegli stessi media che “ci continuano a proporre storie struggenti di dolore e morte che colpiscono in profondità l'opinione pubblica e la preparano a una pericolosissima corsa al riarmo. Per quel che riguarda l'Italia, a un aumento delle spese militari fino a raggiungere il dovuto per cento del Pil. Un investimento di tale portata in costi militari comporterà inevitabilmente una contrazione delle spese destinate al welfare della popolazione. L'emergenza guerra – concludendo – sembra ci abbia fatto accantonare i principi della tolleranza che dovrebbero informare le società liberaldemocratiche come le nostre". Un investimento di tale portata in costi militari comporterà inevitabilmente una contrazione delle spese destinate al welfare della popolazione. L'emergenza guerra – concludendo – sembra ci abbia fatto accantonare i principi della tolleranza che dovrebbero informare le società liberaldemocratiche come le nostre". Un investimento di tale portata in costi militari comporterà inevitabilmente una contrazione delle spese destinate al welfare della popolazione. L'emergenza guerra – concludendo – sembra ci abbia fatto accantonare i principi della tolleranza che dovrebbero informare le società liberaldemocratiche come le nostre".
Alberizzi: “Non è più informazione, è propaganda” – Parole di assoluto buonsenso, che tuttavia nel clima attuale rischiano fortemente di essere considerate estremiste. “Dato che la penso così, in giro mi danno dell’amico di Putin”, dice al fattoquotidiano.it Massimo Alberizzi, per oltre vent’anni corrispondente del Corriere dall’Africa. “Ma a me non frega nulla di Putin: sono preoccupato da giornalista, perché questa guerra sta distruggendo il giornalismo. Nel 1993 raccontai la battaglia del pastificio di Mogadiscio, in cui tre militari italiani in missione furono uccisi dalle milizie somale: il giorno dopo sono andato a parlare con quei miliziani e mi sono fatto spiegare perché, cosa volevano ottenere. E il Corriere ha pubblicato quell’intervista. Oggi sarebbe impossibile“. La narrazione del conflitto sui media italiani, sostiene si fonda su “informazioni a senso unico fornite da fonti considerate “autorevoli” a prescindere. L’esempio più lampante è l’attacco russo al teatro di Mariupol, in cui la narrazione non verificata di una carneficina ha colpito allo stomaco l’opinione pubblica e indirizzandola verso un sostegno acritico al riarmo. Questa non è più informazione, è propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni e nemmeno chi si informa leggendo più quotidiani al giorno riesce a capirci qualcosa”.
Negri: “Fare spettacolo interessa di più che informare” – “Questa guerra è l’occasione per molti giovani giornalisti di farsi conoscere, e alcuni di loro producono materiali davvero straordinari“, premette invece Alberto Negri, trentennale corrispondente del Sole da Medio Oriente, Africa, Asia e Balcani. “Poi ci sono i commentatori seduti sul sofà, che sentenziano su tutto lo scibile umano e non aiutano a capire nulla, ma confondono solo le acque. Quelli mi fanno un po’ pena. D’altronde la maggior parte dei media è molto più interessata a fare spettacolo che a informare”. La vede così anche Toni Capuozzo, iconico volto del Tg5, già vicedirettore e inviato di guerra – tra l’altro – in Somalia, ex Jugoslavia e Afghanistan: “L’influenza della politica da talk show è stata nefasta”, dice al fattoquotidiano.it. “I talk seguono una logica binaria: o sì o no. Le zone grigie, i dubbi, le sfumature annoiano. Nel raccontare le guerre questa logica è deleteria. Se ci facciamo la domanda banale e brutale “chi ha ragione?”, la risposta è semplice: Putin è l’aggressore, l’Ucraina aggredita. Ma una volta data questa risposta inevitabile servirebbe discutere come si è arrivati fin qui: lì verrebbero fuori altre mille questioni molto meno nette, su cui occorrerebbe esercitare l’intelligenza”.
Capuozzo: “In guerra i dubbi sono preziosi” – “Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori”, argomenta Capuozzo. “Invece è proprio in queste circostanze che i dubbi sono preziosi e l’unanimismo pericolosissimo. Credo che questo modo di trattare il tema derivi innanzitutto dalla non conoscenza di cos’è la guerra: la guerra schizza fango dappertutto e nessuno resta innocente, se non i bambini. E ogni guerra è in sè un crimine, come dimostrano la Bosnia, l’Iraq e l’Afghanistan, rassegne di crimini compiute da tutte le parti”. Certo, ci sono le esigenze mediatiche: “È ovvio che non si può fare un telegiornale soltanto con domande senza risposta. Però c’è un minimo sindacale di onestà dovuta agli spettatori: sapere che in guerra tutti fanno propaganda dalla propria parte, e metterlo in chiaro. In situazioni del genere è difficilissimo attenersi ai fatti, perché i fatti non sono quasi mai univoci. Così ad avere la meglio sono simpatie e interpretazioni ideologiche”. Una tendenza che annulla tutte le sfumature anche nel dibattito politico: “La mia sensazione è che una classe dirigente che sente di avere i mesi contati abbia colto l’occasione di scattare sull’attenti nell’ora fatale, tentando di nascondere la propria inadeguatezza. Sentire la parola “eroismo” in bocca a Draghi è straniante, non c’entra niente con il personaggio”, dice. “Siamo diventati tutti tifosi di una parte o dell’altra, mentre dovremmo essere solo tifosi della pace”.
«L'Occidente ha la mania dei distinguo», diceva il pianista canadese Glenn Gould, primo artista nordamericano a esibirsi oltre la cortina di ferro; così, nel quadro della sbandierata antinomia tra democrazie e autocrazie, divenuta, dopo l'implosione dell'Unione sovietica, uno degli slogan della globalizzazione neoliberista trionfante, si sono accumulate contraddizioni che si trovano modo di affiorare, a tratti, nelle maglie del riassetto geopolitico in corso
Calcio(e)mercato
Mentre le polemiche sull'assegnazione al Qatar del ruolo di paese ospitante dell'edizione 2022 dei campionati mondiali di calcio, una volta iniziata la competizione, si sono concentrate per lo più sulla questione dei diritti della comunità LGBTQ, poco o nulla attivisti e governi del blocco occidentale hanno obiettato sulla scelta di Doha come uno dei principali fornitori di gas alternativi alla demonizzata Russia, o sulla sua designazione, da parte del presidente statunitense Joe Biden, come uno dei maggiori alleati di Washington al di fuori dell'Organizzazione del trattato dell' Atlantico Nord (OTAN/NATO). Analogamente, da un lato, i calciatori della nazionale tedesca, in occasione della prima partita del mondiale, si sono fatti fotografare con una mano sulla bocca, esprimendo il loro sdegno per la decisione della Federazione internazionale di calcio dell'Association (FIFA) di impedire agli sportivi in campo di indossare simboli della difesa dei diritti LGBTQ; dall'altro, il 29 novembre, la direzione della Qatar Energy ha annunciato di aver stipulato un accordo con Berlino per l'esportazione di due milioni di tonnellate di gas naturale liquefatto (gnl) ogni anno, a partire dal 2026. Inoltre, il Qatar , uno dei primi paesi al mondo per reddito pro capite e che possiede il più grande giacimento di gas della Terra (il North Field, nel Golfo persico), dai primi anni Duemila ha continuato ad accrescere il proprio potere economico-finanziario in Europa, Germania in primis , senza neanche il bisogno di ricorrere al cosiddetto sportwashing . Ci ha pensato, infatti, il fondo sovrano Qatar Investment Authority , istituito nel 2005 dall'allora emiro Hamad ben Khalifa Al Thani, che, investendo somme di denaro stratosferiche tra Stati uniti ed Europa (si veda, per l'Europa, l'inchiesta Il miraggio dello sceicco , realizzato da Report ). Simili contraddizioni, dunque, hanno dato spunto al presidente della FIFA Gianni Infantino, che nella conferenza di apertura del mondiale a Doha ha aspramente criticato l'ipocrisia e il doppio standard dell'Occidente , ricordando non solo le dure condizioni dei lavoratori stranieri nel vecchio continente (con un riferimento ai suoi ricordi di infanzia, da figlio di migranti italiani in Svizzera), ma anche i disastri causati dalle potenze coloniali «negli ultimi 3500 anni» , per i quali «noi europei dovremmo chiedere perdono per i prossimi 3500 anni, invece di impartire lezioni morali» .
Divisioni Europee
Quanto ai diritti dei lavoratori, benché nelle democrazie neoliberiste euroatlantiche non sia formalmente in vigore un istituto simile alla kafala qatariota, non sono mancati studiosi che, come Marco D'Eramo (si leggano, ad esempio, Il maiale e il grattacielo e il più recente Dominio ), hanno evidenziato il tragico impatto sociale e antropologico del tritacarne iperproduttivista del famigerato mercato del lavoro. D'altronde, se, come ha riportato il quotidiano britannico The Guardian , in Qatar sono morti 6500 lavoratori migranti in dieci anni, tra il 2010 e il 2020, secondo il rapporto annualedell'Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro (Inail), nel solo 2021 in Italia le morti accertate sul lavoro sono state 685. Inoltre, prendendo sempre ad esempio l'Italia, numerosi sono state le inchieste diffuse dai media sulle condizioni di sfruttamento dei migranti (come nei casi accertati di caporalato nelle aziende agricole che servono la grande distribuzione organizzata) e sui fenomeni di tratta in cui incappano nel tentativo di sfuggire alle guerre e alla miseria che affliggono i paesi di origine. Per questo, Infantino, nella conferenza stampa sopra citata, ha invitato il vecchio continente , nel caso in cui tenga davvero alle condizioni dei migranti lavoratori, a « creare canali legali con cui possono andare a lavorare in Europa, come ha fatto il Qatar» (sì!). Peraltro, nella gestione dei flussi migratori il doppio standard europeo è stato velatamente messo in luce dal presidente della Commissione delle Nazioni Unite per la Siria Paulo Pinheiro, che, in un'intervista al canale Euronews , ha richiamato l'attenzione sulla disparità di trattamento ricevuto dai rifugiati ucraini e da quelli siriani (cui si potrebbero aggiungere i profughi dall'Afghanistan, dal resto del Medio Oriente e dal continente africano). Differenza che si è riproposta in occasione delle ultime schermaglie franco-italiane esplose in merito all'approdo della nave Ocean Viking , dell'organizzazione non governativa Sos Méditerranée, ma che potrebbero celare dissidi geostrategici più profondi, a partire dalle posizioni di Roma e Parigi sullo scacchiere libico, che coinvolge, oltre alla Russia, anche la Turchia, potenza regionale dalle aspirazioni (o dalle velleità) imperiali crescenti.
I dilemmi della globalizzazione
Nondimeno, anche Infantino sembra sfuggire al doppio standard euroatlantico, visto che, pur difendendo il Qatar come ospite dell'edizione 2022 dei mondiali di calcio, ha escluso la Russia dalle qualificazioni alla medesima competizione, cui ha preso parte, di contro, l'Arabia Saudita, spesso bersaglio di critiche su questioni sensibili, come la sua partecipazione in prima linea al conflitto in Yemen o l'uccisione del giornalista Jamal Khashoggi. Dunque, due pesi geopolitici, due misure: una logica che espone all'etichetta di dittatore o invasore capi di Stato e di governo non (più) disposti a servire la superpotenza statunitense ei suoi satelliti europei, che sulla nozione di democraziaappaiono sovente più severi con gli altri che con se stessi. Con conseguenze che, talvolta, rasentano il ridicolo, come nel caso dell'accordo di adesione dell'Italia alle nuove vie della seta cinesi ( Belt and Road Initiative – BRI ), fortemente osteggiato dagli Usa, che, opponendosi agli investimenti di Pechino nel porto di Trieste, hanno, di fatto, aperto la strada a un'iniziativa analoga nel porto di Amburgo (si veda, in proposito, la puntata di Presa Direttadel 14 marzo scorso). A proposito delle relazioni tra sino-europee, inoltre, il presidente francese Emmanuel Macron, nella sua ultima visita a Washington, ha esortato gli Usa a non utilizzare l'Europa nella loro rivalità con Pechino. Un atteggiamento pragmatico ed equidistante, che, tuttavia, nessun paese europeo (e neppure i rappresentanti di Bruxelles) ha consigliato in merito alla rivalità tra Washington e Mosca e che ha permesso alla Turchia del presidente Recep Tayyip Erdoğan di acquisire peso geopolitico presentandosi come mediatore, anche in virtù del controllo esercitato sugli stretti strategici che conducono al Mar nero. In altri termini, l'Europa, appiattendosi sugli interessi statunitensi fino ad escludere dalla propria sfera geostrategica due paesi, Russia e Turchia, che storicamente ne hanno sempre fatto parte, ha mancato un'ulteriore occasione di costituirsi come entità geopolitica autonoma, dopo quella clamorosa dell'inizio degli anni '90 del secolo scorso. Una scelta le cui conseguenze rischiano di andare oltre la distruzione dell'Ucraina o le crisi alimentare ed energetica globale.
Seminario
PROCESSO ALL'ITALIA
Dal sistema dei partiti alla crisi della democrazia
Lunedì 17 ottobre 2022 Orario: 15:00 - 19:00 Sala Italia dell'UnAR
- via Ulisse Aldovrandi 16 - Roma 15:00
- Apertura lavori
Dott. Virgilio Violo - Presidente di Free Lance International Press
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Dott. Tiberio Graziani - Presidente di Vision & Global Trends, Direttore di Geopolitica
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Relazioni
Dott. Paolo Cornetti - La Fionda
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Dott.ssa Maria Alessandra Varone - Vision & Global trends
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Prof. Giuseppe Romeo - Università del Piemonte Orientale
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Nel corso del seminario sono state discusse le tesi di “Una Nazione incompiuta. L'Italia dal sistema dei partiti alla crisi della democrazia. del Prof. Giuseppe Romeo –
- Ronzani Editore - 2022
Giuseppe Romeo
Una nazione incompiuta - L'Italia: dal sistema dei partiti alla crisi della democrazia.
Spesso si è sentito o letto, soprattutto negli ultimi mesi, che l’esplosione del conflitto tra Russia e Stati uniti in Ucraina ha frantumato le reti di interdipendenza economica tessute a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, con la globalizzazione a guida statunitense. Eppure, a lanciare il gioco delle esclusioni eccellenti è stato il blocco euro-atlantico; anzitutto, dopo il crollo dell’Unione sovietica, quindi con i partenariati economici degli anni 2010
«Guerra senza spari»
Il cambio di rotta nei commenti ufficiali di Kiev riguardo l’esplosione dell’8 ottobre sul ponte di Kerč, corretto pubblicamente dall’intelligence statunitense, che ne ha attribuito la responsabilità agli omologhi apparati ucraini, è emblematico del peso e delle insidie della narrazione. Un discorso valido per tutte le guerre, ma in modo particolare per l’attuale conflitto in Ucraina, attorno al quale la polarizzazione delle posizioni e delle propagande finora appare quasi totalizzante, coinvolgendo anche settori come la cultura e lo sport. Si pensi, ad esempio, al corso sullo scrittore russo Fëdor Dostojevskij, annullato agli inizi di marzo dall’università Bicocca di Milano (poi ripristinato per le polemiche suscitate da una simile decisione), o alla pressione subita da direttori d’orchestra come Valeri Gergiev, congedato dall’Orchestra filarmonica di Monaco per non aver condannato esplicitamente la guerra. Una polarizzazione analoga è sottesa al dossier «Disinformazione sul conflitto russo-ucraino», curato dalla Federazione italiana diritti umani e da Open Dialogue e presentato alla Camera dei deputati il 28 giugno su iniziativa di qualche deputato del Partito democratico e di +Europa: una lista di intellettuali e giornalisti giudicati simpatizzanti del presidente russo Vladimir Putin, tra i quali figuravano personalità quali Corrado Augias, Alessandro Barbero, Alessandro Orsini, Marc Innaro, Franco Cardini e Sigfrido Ranucci. Anche nello sport, del resto, si assiste a quella che si potrebbe definire con George Orwell una «guerra senza spari», combattuta a colpi di esclusione dalle competizioni internazionali non solo delle nazionali russe e bielorusse, ma anche di singoli atleti colpevoli di essere cittadini di questi due paesi, in barba al mito della neutralità dello sport. 260
Doppio standard
Eppure, negli ultimi anni la Federazione internazionale delle associazioni calcistiche (Fifa) aveva multato giocatori e club per aver lanciato messaggi «politici» in occasione di alcune partite. Com’era accaduto all’ex calciatore egiziano Mohamed Aboutrika, censurato dalla Fifa nel 2008 per aver esibito sulla propria maglia una scritta contro il blocco israeliano a Gaza. Per questo, lo scorso marzo aveva esortato la stessa Fifa, accusata di doppio standard, a estendere a Israele il divieto di partecipazione alle competizioni internazionali imposto a Russia e Bielorussia. A fine febbraio, invece, Aykut Demir, difensore della squadra turca di seconda divisione Erzurumspor, aveva rifiutato di indossare una maglia con la scritta «no alla guerra» in turco e in inglese, spiegando che un simile gesto è ammesso solo «quando si tratta di Europa», mentre migliaia di persone muoiono ogni giorno in Medio Oriente nell’indifferenza generale. Dall’inizio del conflitto ucraino, del resto, la stampa mediorientale tanto in arabo, quanto in inglese, ha parlato spesso di doppio standard a proposito della diplomazia euroatlantica, bollata, in modo più o meno esplicito, come incoerente e ipocrita. Soprattutto in materia di accoglienza dei rifugiati: ad esempio, l’emittente qatariota Al-Jazeera ha dedicato diversi articoli alle discriminazioni subite dai profughi africani in fuga dall’Ucraina (per lo più studenti) al confine con la Polonia, che, di contro, ha mostrato solidarietà ai loro omologhi ucraini. Il sito di informazione Middle East Eye, inoltre, ha riportato i commenti razzisti di giornalisti ed esponenti politici occidentali sui rifugiati africani, siriani e afghani, messi a confronto con gli ucraini. Spiccavano, in particolare, le parole del presidente bulgaro Rumen Radev, che ai giornalisti aveva detto: «questi sono europei… sono intelligenti, acculturati. Non è l’ondata di rifugiati cui siamo abituati, persone della cui identità non siamo sicuri, persone con un passato oscuro, che potrebbero anche essere stati terroristi».
Equilibri (e squilibri) mediorientali
Similmente, il sito Middle East Monitor, il 4 ottobre ha pubblicato un articolo di opinione intitolato «Perché a Israele è permesso di annettere territori occupati, ma alla Russia no», in cui si sottolinea come, a fronte della mobilitazione euroatlantica per Kiev, dal 1967 la comunità internazionale non abbia preso alcun provvedimento concreto per fermare l’espansione coloniale di Tel Aviv ai danni dei palestinesi, né per condannare l’occupazione israeliana delle alture del Golan o del Sinai. Una bella lezione, dunque, per quegli alleati degli Usa delusi da quello che reputano uno scarso impegno di Washington nel riconoscere un’adeguata remunerazione geostrategica al loro sostegno. Soprattutto dopo che l’amministrazione dell’ex presidente statunitense Barack Obama aveva optato per la linea dell’equilibrio regionale tra Turchia, monarchie del Golfo, Israele e Iran, siglando con quest’ultimo, nel 2015, assieme a Cina, Russia, Francia, Regno unito, Germania e Unione europea (Ue), il Piano d’azione globale comune, noto con l’acronimo inglese JCPOA, ossia l’accordo sul programma nucleare della Repubblica islamica. Al punto che, poco dopo l’inizio della guerra in Ucraina, non pochi dignitari di Arabia saudita, Emirati arabi uniti (Eau) e Qatar, come buona parte della stampa panaraba o egiziana, hanno esortato i governi arabi a trovare una propria linea emancipandosi da Washington (come sintetizza il sito di informazione Memri ). Un discorso analogo potrebbe valere per la Turchia, che dopo aver giocato, negli anni ‘90, il ruolo di alfiere regionale degli interessi geopolitici statunitensi (dalla guerra del Golfo del 1990 alla disintegrazione di Balcani, Caucaso e Asia centrale), dal 2020 subisce le sanzioni di Washington per aver acquistato il sistema di difesa antimissilistica russo S-400. Una rappresaglia che, di contro, non ha colpito l’India, che pure, anche per le storiche relazioni con la Russia nel settore della difesa, ha comprato lo stesso sistema antimissile. 296
Diplomazia fluida
In sostanza, gli Usa hanno di fronte alleati come Ankara, Riyadh e Abu Dhabi, che, soprattutto alla luce delle profonde mutazioni dell’assetto geopolitico globale, preferiscono temporeggiare, mantenendo un equilibrio pragmatico tra potenze. Anche per questo, intrattengono relazioni fruttuose con paesi come la Russia (cui, per sauditi ed emiratini, si affianca la Cina) e con Israele, ma non più solo per servire gli interessi strategici statunitensi in Medio Oriente, come auspicava l’ex presidente Usa Donald Trump con i cosiddetti Accordi di Abramo. Inoltre, Arabia saudita ed Eau stanno cercando di seguire ciascuna una propria linea autonoma, in particolare nei rapporti con Tehran: se Riyadh ne vuole, come Tel Aviv, la neutralizzazione geopolitica, Abu Dhabi ha recentemente aperto uno spiraglio di dialogo. In terzo luogo, le monarchie del Golfo perseguono i propri interessi anche per mezzo dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opep), allargatasi nel 2016 in Opep+ con l’inclusione di altri 10 paesi, tra cui la Russia. Quest’ultima, il 5 ottobre, ha deciso un taglio della produzione di petrolio di due milioni di barili al giorno a partire da novembre, suscitando l’irritazione di Washington (e non solo), che di conseguenza ha preso in considerazione l’ipotesi di alleggerire le sanzioni ai danni del Venezuela, in cambio di un impegno da parte del presidente Nicolas Maduro a dialogare con l’opposizione e a organizzare libere elezioni per il 2024. Un’irritazione tanto maggiore, se si tiene conto delle polemiche suscitate dalla visita del presidente Usa Joe Biden, lo scorso luglio, in Arabia saudita (a proposito di doppio standard in materia di rispetto dei diritti umani), che aveva l’obiettivo di ottenere dall’Opep+ un aumento della produzione di greggio per ridurre l’impatto delle sanzioni alla Russia sul mercato globale dell’energia. 283
Partenariato o dominio?
Sul fronte ucraino, intanto, Washington porta avanti la sua partita a scacchi, lanciando sporadici segnali a Kiev perché non esca dai binari degli interessi regionali del cuore dell’impero. I due casi eclatanti sono l’uccisione di Darya Dugina e l’esplosione sul ponte di Kerč, entrambe attribuite pubblicamente dall’intelligence Usa ai servizi segreti ucraini, malgrado i tentativi di smentita di Kiev. Gli Usa, infatti, mentre mirano a indebolire la Russia anche (o forse soprattutto) per le sue relazioni strategiche con la Cina, non sono disposti a rischiare uno scontro diretto né con l’una, né con l’altra potenza rivale. Meglio mandare avanti l’Unione europea, che durante la guerra fredda era stata un utile cuscinetto per arginare a Ovest la potenza sovietica. Parimenti, da oltre un decennio (forse con l’eccezione della presidenza Trump), Bruxelles è diventata un importante cuneo per insidiare le sfere di influenza russa e cinese dall’Europa orientale, ai Balcani all’Asia centrale, di pari passo con l’espansione economica di Pechino e con l’ascesa geopolitica di Mosca. La prima, realizzata mediante accordi bilaterali, sfociati dal 2013 nel progetto unitario delle nuove vie della seta (Belt and Road Initative, Bri), cui nel 2017 aveva aderito anche l’Ucraina. La seconda, invece, portata avanti con il sostegno, spesso in coordinazione con la Cina, a organismi regionali (come il Consiglio di cooperazione di Shanghai) e con accordi per la compravendita nei settori della Difesa e dell’energia (come quello storico con l’India). Per fronteggiare entrambe, soprattutto l’assertività dell’Impero del Centro, dalla fine degli anni Dieci, l’Ue ha lanciato due meccanismi di Ostpolitik, entrambi caldeggati da Washington: il partenariato orientale con Armenia, Azerbaijan, Georgia, Moldavia, Ucraina e Bielorussia (che ha abbandonato i negoziati a giugno 2021), e l’accordo di associazione con l’Ucraina. A quest’ultimo, in particolare, siglato a febbraio 2014, dopo il rovesciamento del governo ucraino guidato dall’ex presidente Viktor Janukovyč, Mosca aveva reagito annettendo la Crimea e sostenendo la proclamazione delle repubbliche di Donetsk e Lugansk.
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Luigi Di Maio |
Di Maio cosa è andato a fare a Kiev "di sorpresa" - come danno da intendere i media italiani? C'era bisogno di far spendere tanti soldi agli italiani per andare là a dire due ...menzogne?? Le conosciamo a memoria, sono vergognose. Di Maio è andato "a portare il sostegno dell'Italia", ma le armi che mandate a Kiev già di per sé non bastano a esprimere "il sostegno dell'Italia"?? La dica tutta Di Maio, cosa bolle in pentola, glielo hanno ordinato gli americani? Le affermazioni che Di Maio ha fatto a Kiev sono gravissime: "tutti noi europei dobbiamo scegliere da che parte stare" e "il governo italiano ha scelto di stare dalla parte di questo popolo sovrano che ha tutto il diritto di difendere la sua integrità, dobbiamo augurarci che si continui a sostenere con tutte le forze questo Paese, che si trova alle porte dell'Europa e non sta difendendo solo se stesso, ma tutta l'Europa". Il governo ucraino DIFENDE L'EUROPA?? Questa menzogna è il massimo.
Poi è andato anche a Irpin - dove gli ucraini hanno montato il secondo fake, dopo Bucha, che Di Maio sostiene in pieno: "Qui - ha detto - c'è una città completamente distrutta, rasa al suolo, ma in Italia c'è ancora chi nega i fatti che sono avvenuti in Ucraina ad opera delle truppe russe, ad opera di Putin (!!) "gli ucraini non stanno difendendo solo la loro integrità e sovranità ma la libertà di tutta l'Europa, stanno difendendo tutti gli europei: non possiamo che incoraggiarli a continuare". Di Maio a Kiev ha perfino detto "Fermare immediatamente questa atroce guerra, dobbiamo ricercare con tutte le forze la pace" Ma perché l'Italia non l'ha fermata 8 anni fa? Dov'era Di Maio durante tutti questi 8 anni di guerra feroce?? Perché le morti e le distruzioni del Donbass NON lo hanno MAI minimamente interessato?
Perché durante questi 8 ANNI DI GUERRA DI KIEV CONTRO IL DONBASS nessun ministro italiano è andato a DONEZK o a LUGANSK A PORTARE IL SOSTEGNO DELL'ITALIA?? Nessuno gli ha mandato le armi per difendersi dall'aggressione di Poroshenko e di Zelenskij?
Di Maio adesso in Ucraina vede "Morte e crudeltà. Città distrutte, rase al suolo: questa è la verità. La guerra è vera, guardate queste immagini. Chi minimizza è complice del massacro". Ministro Di Maio, anche chi non vuole vedere le immagini della guerra nel Donbass da 8 anni, chi ha "minimizzato" tutti questi anni è complice del massacro, ma quello messo in atto da Kiev nel Donbass, condivide la colpa di Kiev per i corpi dilaniati per le strade, i villaggi distrutti della povera gente con le loro casupole sventrate, i bambini raggiunti dalle bombe ucraine mentre giocavano davanti a casa o nelle scuole, uccisi e rimasti mutilati, le fosse comuni, piene di corpi di donne violentate e poi trucidate dai soldati ucraini , E il rogo di Odessa, Di Maio?? Dov'era?? E ha il coraggio di dire : "Non potevamo ignorare il grido di dolore di un popolo coraggioso, che non ha rinunciato a difendersi e a difenderci. Il nostro sostegno al popolo di Kiev, a questa "resistenza europea", continua. Ed oggi sono qui in Ucraina per portare il sostegno del nostro Paese. Capovolgere la verità, difendere gli assassini e nazisti ucraini.... merita solo biasimo.
Dato che si trova a Kiev, perché non va nel Donbass? Gli farebbe più onore.