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Il padel è uno sport particolarmente diffuso e conosciutissimo, allora perché non usarlo per raccontare una storia? Il Teatro Golden lascia spazio ad un vero e proprio campo da gioco in mezzo alla sala, con giocatori che scambiano qualche tiro inscenando una partita; è questo il pretesto per dare vita a una serie di dinamiche non solo plausibili, ma anche interpretate con molta naturalezza.
Dall’adolescente un po’ ribelle che parla con neologismi giovanili incomprensibili per gli adulti, ad una madre che improvvisamente si scopre più materna di quello che in realtà è, al marito bonaccione che a suo tempo ha lasciato la carriera da tennista per sposarla, fino all’amico anche lui tennista sfiorito che ormai si accontenta di fare l’allenatore e il preparatore atletico della ragazza alla quale è particolarmente affezionato e ricambiato.
Scritta e diretta dallo stesso Danilo De Sanctis, la commedia racconta le vicende di Luna (Angelica Pisilli) una giovane sportivamente dotata, la cui gioventù è sacrificata da pesanti rinunce al fine di realizzare il suo sogno: diventare una campionessa di tennis.
Un sogno che però sembra essere più la proiezione dei desideri di chi le sta intorno, di coloro che sono ancora adombrati dai loro fallimenti, dalle delusioni o da rinunce: il padre Giulio (Simone Montedoro) e il suo allenatore Armando (Danilo De Santis).
I due, oltre ad essere amici da sempre, hanno ancora in comune la forte passione per il tennis, quasi un’ossessione che investono sulla ragazza.
Luna sta per raggiungere un suo personale successo in questo campo, ma non sembra felice. Non si sente accettata né compresa dalla madre Mara (Roberta Mastromichele) che continua a trattarla come se fosse ancora una bambina piccola. Anche con il padre non ha il rapporto che vorrebbe, distratto dall’assillo di compensare con la figlia il suo mancato successo. È così concentrato su questo obbiettivo, come gli atri adulti, da tralasciare involontariamente di darle quelle amorevoli attenzioni che le mancano.
Nonostante le premesse, non siamo davanti ad un dramma teatrale, a una commedia divertente e piacevole intrisa di profonda dolcezza e da una dose di velato e appena percepibile dramma.
Una proposta, quella di Danilo, che vuole con simpatia criticare la diffusa tendenza di molti genitori ad usare come surrogato o come avatar i propri figli per raggiungere risultati e successi che non sono riusciti a perseguire, spesso senza chiedersi se quelli sono i desideri dei figli.
Non nascondo che inizialmente, prima che il vortice di riuscita comicità che riempie la proposta mi coinvolgesse, mi sono guardato intorno durante le scene incentrate sul rapporto tra figli e genitori, scrutando i volti del pubblico più maturo per carpire qualche smorfia di disappunto che rivelasse una proiezione di sé nei personaggi. Ho pensato a quante persone potessero riconoscersi nella vicenda che Danilo ha saputo proporre con eleganza ed ironia.
Danilo e il suo cast ci propongono una commedia dinamica e alquanto movimentata che si sviluppa in poco più di un’ora, ricca di vicende e di tante intense emozioni, in cui si affaccia con delicatezza e tatto un piccolo dramma familiare, presentato però con genuina schiettezza e in maniera piuttosto brillante con una bella dose di effervescente ironia e riuscita comicità, senza far mancare delle situazioni che hanno l’intento di stimolare lo spettatore ad una profonda riflessione.
La regia di Danilo è stata molto attenta ad esaltare le scene, che a volte si interrompono e riprendono accavallandosi elegantemente con altre per dare la sensazione che si svolgano contemporaneamente, in parallelo; momenti di confidenza, di scoramento, di rabbia o di allegria che si alternano incastrandosi in perfetta sincronia, danno un senso compiuto ma soprattutto di continuità alla storia. Tutto questo avviene su un bel gioco luci che permette di concentrare l’attenzione sulla scena in atto, lasciando le altre congelate in una suggestiva semioscurità.
Luna, promettente portento, è però troppo giovane per portare il peso della sua grande responsabilità, diventata un pesante fardello.
La brava e deliziosa Angelica ci presenta quest’adolescente schietta, sbarazzina, esuberante e assolutamente vera, un po’ ribelle e frustrata, e la impersona con molta naturalezza facendone spiccare il carattere, i modi, la gestualità e l’ espressività che esprimerebbe una qualsiasi ragazza della sua età, sfruttando efficacemente anche la sua fisicità.
Roberta è la tipica mamma ancora giovanile e piacente, un po’ stressata, scontrosa e forse anche un po’ scontenta della sua vita. Atletica ma negata per il padel, alterna la sua figura a tratti aggressiva e velenosa ad una più dolce, nella quale sembra quasi far fatica a riconoscersi. È in bilico in un piacevole e bilanciato ruolo di madre e di moglie; spontanea e istintiva.
Danilo veste invece i panni di un simpaticissimo e dolcissimo allenatore che ha sviluppato un bel rapporto con la ragazza ed i suoi genitori. È un single incallito, forse perché è un profondo mammone che vive ancora con la madre, che ancora gli prepara la borsa per gli allenamenti… con Simone sono una coppia perfetta in scena. Nonostante sia entrato nel cast poco prima dello spettacolo e abbia fatto una manciata di prove, si è subito affiatato con gli altri. La sua professionalità e bravura, la naturalezza con cui interpreta questo padre un po’ smarrito non hanno fatto trasparire neanche l’ombra di un’incertezza; tutt’altro, sviluppa ottimamente un personaggio piacevole, divertente e sensibile.
Lui e Danilo insieme sono perfettamente in sintonia: gag, battute, sfottò, scherzi… tutto è ineccepibile. Divertono, coinvolgono, appassionano ad una storia che alla fine svela anche dei retroscena inaspettati ed interessanti che insaporiscono la vicenda. Tutti i personaggi interagiscono con naturale disinvoltura, portando gli spettatori a vivere con loro quella partita di padel o a partecipare ai discorsi nello spogliatoio. Appassionano con le loro vivaci e sentite dinamiche e coinvolgono attraverso un testo scorrevole e ben scritto che riserva sorprese inaspettate lasciando in sospeso in attesa degli eventi.
Le reazioni dei coinvolti a questi piccoli colpi di scena hanno sempre un risvolto divertente che alleggerisce le situazioni, ma non tralasciano il lato profondamente umano che porterà, nell’epilogo, a fare i conti con i loro insoluti e non detti e paradossalmente a ricevere anche un’inaspettata lezione di morale proprio da chi avrebbero dovuto educare...
con Danilo Da Santis, Roberta Mastromichele, Simone Montedoro, Angelica Pisilli
scritto e diretto da Danilo De Santis
Davvero un momento alquanto delicato per i cinefili di orientamento piagnon-pessimistico-cinico-catastrofistico …
E sì, perché nelle italiche sale cinematografiche si aggirano due terribili film in cui, in maniera insolitamente e straordinariamente felice, non muore (quasi) nessuno; dove non si assiste a tarantineggianti cascate di sangue, con relativo contorno di frattaglie e materia cerebrale; dove la gente è in grado di aiutarsi, di abbracciarsi, di pensare alla vita degli altri, soprattutto di quelli che stanno peggio; dove le persone sanno godere dello starsi accanto, dello starsi vicine nell’affrontare i tanti guai della vita, dell’inventarsi strade e ponti per andare oltre gli immancabili momentacci, tenendosi per mano e procedendo, piangendo e ridendo, insieme; dove quelli che sembrano cattivi sanno scoprire, dentro di sé, insperati raggi di luce, e aprirsi ad un nuovo cammino; dove chi si odiava riesce a farsi conquistare dal piacere della condivisione e dello scambio solidale; dove, messe da parte le gabbie egocentriche dell’ “uomo lupo all’uomo”, l’umanità sa farsi empatica famiglia; dove le ostilità e i conflitti possono essere benedetti da generosi brindisi di ironia; dove, soprattutto, il dolore, la solitudine, l’odio, la rabbia e la vendetta non appaiono invulnerabili trionfatori della storia e unici itinerari percorribili del destino comune.
Quindi, se tutto questo vi appare un insopportabilissimo guazzabuglio di buonismo melenso ed ingenuo, nonché di irrealistico moralismo, evitate attentamente:
Diamanti di Ozpetek (una ludica sinfonia di affetti)
e Napoli-New York di Salvatores (un poeticissimo sogno di fiabesca allegria).
Vi potrebbero persuadere (chissà!) che, in questo triste mondo, nonostante tutto, c’è ancora posto per quella strana cosa che chiamiamo
il BENE!
Arte allo stato puro l’altra sera al “Piccolo teatro San Paolo” a Roma. Il genio di Antonella Pagano ha colpito ancora nel segno e ha mostrato la vera arte in cui il nostro Paese primeggia nel mondo. Fantastica realtà o realtà fantastica, come ha amato definire l’autrice la sua opera, ode alla letteratura. Sincronia, armonia, di un dolce canto che scaturisce dal profondo del nostro cuore, ci conduce per mano in un mondo quasi onirico in cui l’uomo riscopre la sua bellezza, la sua luce, il suo armonico con il tutto, la Pagano riesce a farci sognare ad occhi aperti.
L’opera è di grande attualità, visti i tempi drammatici in cui gran parte dell’umanità vive. La bravissima Antonella Pagano, scrittrice-drammaturga, e Bruce Payne (Raimondin), superstar inglese e internazionale, propongono agli spettatori la metafora di Melusìne e Raimondin. Alla forza bruta, all’ignoranza, all’odio, alla paura, all’oscurantismo culturale, alla violenza generale, in cui un grande fratello’ utilizza paura e odio per mantenere il controllo sulle popolazioni, Antonella Pagano (Melusìne) si oppone ricorrendo alle potenti arti magiche femminili e con la bellezza in tutti i suoi attributi riesce a trasformare il vile metallo in oro.
Melusìne è una figura affascinante e misteriosa che affonda le sue radici nel folklore europeo, viene considerata l'antenata mitica della casata dei Lusignano, una delle famiglie nobili più importanti d'Europa. Si ritiene che la leggenda di Melusìne sia legata alle antiche credenze in esseri femminili legati all'acqua e alla natura, dotati di poteri curativi e profetici, che sia una fata bellissima e potente. La sua figura continua a esercitare un grande fascino, invitandoci a riflettere sulla natura umana e sul rapporto tra l'uomo e il soprannaturale.
Rappresenta la dualità tra il mondo umano e quello soprannaturale, tra bellezza e mistero, tra amore e dolore. La sua figura è spesso associata alla fertilità e alla prosperità, grazie ai suoi poteri magici e alla sua discendenza numerosa. E’ un simbolo del potere femminile, spesso represso e temuto in una società dominata dagli uomini.
Raimondin incontra Melusìne in circostanze fortunate, spesso legate a un evento tragico o a una necessità urgente e la fata lo affascina con la sua bellezza e i suoi poteri magici fin tanto che decide di sposarla, nonostante la sua natura soprannaturale.
Altri interpreti di altrettanto talento che si aggiungono alla Melusìne narrante (Antonella Pagano) e a Raimondin: Monica Marziota, Jaquelina Barra, Claudia Pompili. Le musiche della Pagano sono arrangiate dal Maestro Daniela Brandi. le voci di Flavja Matmuja e Valdrin Gaashi. I costumi di VerbaVeste. Un cast di artisti internazionale capace di dialogare oltre i confini, con l’umanità.
L’ottimo film Il ragazzo dai pantaloni rosa, qui recensito qualche settimana fa*, sta continuando ad incontrare grande consenso di critica e di pubblico, suscitando forte interesse e sincero entusiasmo soprattutto in ragazzi e bambini.
Il film ha indubbiamente molti meriti, ma credo che il maggiore sia rappresentato dall’avere la capacità di richiamare la nostra attenzione sulla necessità di un impegno serio e sistematico, soprattutto in sede educativa, volto ad arginare e, auspicabilmente, a debellare un fenomeno come quello del bullismo, tanto diffuso e sottovalutato, quanto incalcolabilmente gravido di effetti devastanti.
Molti sono stati i commenti positivi giuntici in seguito alla pubblicazione del nostro articolo, da parte di persone di ogni età, ad ulteriore conferma dell’ampiezza e della gravità di tale problema.
Particolarmente apprezzabile quanto scritto da Gabriele Giuliani, in arte Perso, giovane cantautore di Trevignano Romano:
“Il ragazzo dai pantaloni rosa è un film che racconta una storia vera, fatta di dolore, bullismo e giudizi superficiali. Mentre lo guardavo, mi rendevo conto di quanto sia facile ferire qualcuno, spesso senza pensarci, con una parola, un gesto o una risata. E oggi, con i social, tutto questo diventa ancora più crudele, perché quel dolore viene amplificato davanti a migliaia di persone.
Mi sono sentito travolto da una riflessione: quanto poco ci vuole per distruggere qualcuno, ma allo stesso tempo quanto potrebbe cambiare il mondo se solo scegliessimo di essere gentili. Credo che tutti, soprattutto i ragazzi adolescenti, dovrebbero vedere questo film. E’ un grido di aiuto, un invito a guardare oltre le apparenze, a conoscere il cuore e l’anima delle persone prima di giudicarle.
Mi ha fatto capire ancora di più quanto sia importante tendere una mano a chi è in difficoltà, piuttosto che ignorarlo o, peggio, opprimerlo.
La vera forza sta nel proteggere, non nel ferire.
Questo film mi ha lasciato dentro un messaggio chiaro:
la sensibilità, l’amore, la comprensione, la gentilezza, l’altruismo sono le armi più potenti che abbiamo che possono farci fare la differenza e spesso riuscire a salvare le persone più fragili.”
Ha debuttato il 23 novembre alla Casa del Cinema in Roma il docufilm di Esther Barroso Sosa, nell’ambito della XII Mostra del Cinema Iberoamericano - promosso dall’Istituto Cervantes e prodotto da Cubavision. Protagonista la cantante e compositrice italo-cubana Monica Marziota, autrice anche della colonna sonora: “Se la vita fosse un libro”. In una sala pienissima e dentro un sacrale silenzio le immagini hanno aleggiato riportandoci poetici scorci di Roma, Sanremo e L’Avana. Filo conduttore le lettere magicamente scritte da Calvino che, una dietro l’altra, raggiungono la protagonista. Poesia e letteratura che si fanno cinema mentre sposano la musica, questi gli ingredienti che compongono l’ omaggio inusitato a Calvino. Cosa lega Calvino alla splendida protagonista Monica Marziota? Cuba e Santiago de las Vegas mentre realtà e immaginazione s’intrecciano sapientemente; mentre mondi e generazioni incontrano sostanze simili e le chimiche moltiplicano la creatività.
E così conosciamo Calvino da un intrigante nuovo aggraziato punto di vista. Camminando sui suoi passi in terra di Cuba, tra i luoghi e le persone che ha frequentato. Esiste, dunque, un surplus di meraviglia che sa far lievitare e fare più grande ciò che definiamo poesia, ciò che chiamiamo letteratura, ciò che è il cinema e i suoni della musica. C’è un surplus di meraviglia in input-output allorché le immagini vengono impastate con la sostanza del cuore! E’ la maniera raffinata di scrivere in immagini un documentario-film che ha conferito alla letteratura, alla musica e al cinema stesso un altro importante metodo, in verità più che di metodo, forse è più corretto parlare di ricetta che ha utilizzato qualcosa di assoluto, la sostanza urgente e preziosa che surclassa tutto il tecnicismo del mondo, anche quello ancora da venire, e la protagonista possiede quella sostanza.
Monica Marziota, infatti, trasmette un tasso d’empatia ed una qualità empatica che -frammista a quella Sua personalissima componente emozionale- la fa nobile, talchè nobilita la pellicola e consente alle immagini di profondersi con una semplicità destabilizzante ed estasiante insieme! Quel suo camminare dentro i luoghi, lungo le strade, dentro le citta’, quel toccare le pagine, l’adagiare le note sui pentagrammi mentre il suo piccolo bambino emette le prime sillabe e sgambetta nella carrozzina, quel camminare dentro la vita dello scrittore, dentro la scrittura, e dentro la scrittura di un grande della scrittura, quel camminare elegante alla scoperta e, soprattutto, quel “ricevere”, il saper ricevere intimo, il saper leggere il ricevere e riceverlo intimamente, il generoso ricevere, il rispettoso ricevere QUELLE LETTERE! Lettere e ricevere che vanno finanche molto oltre quello che mostra la fabula cinematografica e la magistralità della regista, sto parlando del ricevere la vita e farsene carico, meravigliosamente; accogliere il fatto della vita e “ricercare” per saperla, per capirla, per farne tesoro nel mentre le cammina dentro… perché è quel camminare che serve a sapere di più e meglio.
Camminare nella vita! Camminare nelle altre vite e continuare a camminare anche dopo che la storia ha esaurito i fatti che l’hanno fatta “essere”. Camminare dentro le parole e i gesti con rispetto e consapevolezza profondissimi. Il gioiello più prezioso del docufilm? E’ l’aver incastonato, centellinato, qua e la’, con sapiente dosaggio, la madre: il seno originario, una delle terre della sua origine - la stessa del Calvino narrato - perché Monica Marziota non interpreta un personaggio, assolutamente no, Monica Marziota è Monica Marziota, è se stessa nel film come nella vita; lei che incastona il frutto di Monica-donna-madre, Agostino, e incastona il compagno di Monica-donna-sposa: Michele, il Michele che lascia sulla pellicola e rinvia al pubblico e alla storia una frase, un’importantissima piccolissima domanda: come stai? Rivolta a Monica. E’ il compagno di vita che chiede alla sua compagna di vita: come stai? Prova di consapevolezza del camminare di Monica, e nello stesso tempo del suo esserci e dell’esserci stato sempre vicino a Lei, pur a migliaia di km di distanza; prova di consapevolezza del camminare di Monica dentro la vita, dentro la parola, la letteratura, la citta’, la strada, il mondo da cui Monica, a sua volta, non ha escluso, non ha lasciato fuori nessuno. C’è una rituale intensa spiritualità in questa pellicola e mi piace finanche usare questo materico artistico termine: pellicola…sa di epidermicità. Di sensibilità più autentica e concreta, finanche tattile, e ci serve anche questo per comprendere di più Calvino, il suo essere nato a Cuba e aver compiuto la magia…le lettere spedite da chissà dove ma nella certezza che sarebbero arrivate proprio in quella cassetta postale, la cassetta di Monica Marziota… nata in terra cubana come Lui.
Diversi e contrastanti i giudizi della critica a proposito di Parthenope, l’ultimo film di Sorrentino. Di intonazione prevalentemente severa quelli della stampa internazionale, mentre fondamentalmente positivi, con impennate di estatico entusiasmo, quelli di casa nostra. Nell’insieme, comunque, nonostante il prevalente quanto ricorrente italico conformismo, la tavolozza delle opinioni fin qui espresse si presenta assai ben variegata:
esaltato come capolavoro di sublime bellezza, considerato uno spottone ridondante e barocco, oppure erotico e seducente, fonte di stupore e commozione, esuberante e magnetico, rassegna di luoghi comuni, dissacrante e blasfemo, spudorato e pieno di dolore.
Qualcuno ha saggiamente consigliato di evitare di mettersi nell’ottica del “che vorrà mai significare”, per lasciarsi invece abbandonare al mero flusso del gioco pirotecnico di un estetismo bizzarro, ricercato e morbosamente intrigante. Forse la spaccatura fra i due fronti scaturisce proprio dalla basilare differenza di atteggiamento e di prospettiva:
chi si pone troppe domande sul cosa potrà mai voler dire questo e cosa quell’altro probabilmente rimane deluso, insoddisfatto e pure infastidito; chi invece si lascia trasportare dalla sarabanda delle immagini, degli sguardi e delle invenzioni scenografiche, probabilmente finirà per sentirsi sommerso da un bombardamento di forti emozioni.
Al di là dei differenti approcci e punti di vista, credo comunque che su alcune cose, almeno, sia possibile non nutrire troppe incertezze.
In Sorrentino, infatti, a dispetto dei ricorrenti e alquanto forzati confronti, ben poco possiamo incontrare dell’ indagatrice religiosità di Federico Fellini, del suo serissimo senso della trascendenza e della sua attenzione-attrazione verso la sfera dell’Oltre. Il mondo ecclesiastico e quello della pietas popolare finiscono, nella Napoli sorrentiniana, per essere grottescamente ridotte e ricondotte ad un variopinto minestrone di molto terrene pulsioni ancorate alla dimensione dell’ ”Avere”.
Nel complesso, il mondo umano rappresentato è un mondo imbevuto di amara infelicità, oscillante fra lusso sconfinato e atavica miseria, immerso in una becera realtà materialistico-edonista, a cui soltanto si riescono a contrapporre, come unica via di salvezza, la forza della cultura e la serietà della ricerca accademica.
Come a dirci che, dal nichilismo etico e dalla rassegnazione alla inesorabilità del male di vivere, potrà salvarci, allora, la sola intelligenza (educata nello studio) capace di “vedere” al di là delle apparenze?
Ma sarà forse questo, poi, il vero (forse l’unico degno) messaggio di Parthenope?
Confesso.
Dopo aver subìto due ore di pesante tribolazione, ero intenzionato a buttare giù, senza stare a perdere troppo tempo, una stroncaturina gelida e perentoria.
Il film di Maura Delpero, infatti, il Vermiglio osannato e premiato dalla critica, mi era apparso, sì, un lavoro costruito con passione, con grande cura ed impegno, certamente un prodotto di indubbia serietà, ma, al contempo, lo avevo patito come una narrazione impregnata di sofferenza atavica, di millenaria pena di vivere, esteticamente attraente solo quando qualche immagine sembrava ricalcare (non certo per caso) le pennellate di Segantini o quando le note di Chopin e di Vivaldi riuscivano a far entrare qualche sprazzo di infinito in quel mondo cupo e dolente di misera vita di montagna.
Confesso.
La tentazione della fuga, già dopo una decina di minuti di massacranti dialoghi dialettali sottotitolati, è stata forte.
Forse arginata soltanto dalle sapienti parole di uno dei protagonisti spese in elogio della “vigliaccheria”, sanamente e santamente apprezzata (forse invocata) come efficacissimo antidoto per tutte le guerre.
Insomma, visti i riconoscimenti e gli elogi apologetici di tanta critica verbosa ed erudita, nella speranza che qualcosa di particolarmente significativo irrompesse, prima o poi, sullo schermo, sono riuscito ad approdare ai titoli di coda.
Rientrato in casa, ho preso fiato, cercando di riflettere meglio in profondità e cercando anche di raccogliere tutte le informazioni utili in circolazione sul web.
Che dire, a questo punto, di Vermiglio?
Dal marasma pirotecnico di tante recensioni raffinatamente cerebrali inneggianti ad un “film dell’incanto”, “ammaliante” e dal “valore universale”, ad un film di “pura poesia”, di “secca poeticità”, anzi addirittura definibile come “sinfonia ipnotica e ascendente”, gli unici aggettivi degni di essere salvati e utilizzati sono:
sincero, onesto, intimo, sentito.
Sì, si tratta di un lavoro fatto con grande sincerità di interessi e di affetti;
onestissimo nel suo volerci parlare di una umanità lontana e dimenticata, senza ricorrere a finzioni, senza abbellimenti e senza alcuna indulgenza;
intimo perché capace di mettere a nudo speranze, sogni e timori di cuori grandi e di cuori piccoli;
sentito perché costruito con autentica empatia e delicata pietas.
Qualità belle che certamente rispecchiano con fedeltà la dimensione interiore di Maura Delpero.
Tutto questo, però, non può bastare a trasformare in un capolavoro un film implacabilmente noioso e mai in grado di suscitare, nel malcapitato spettatore, un vero coinvolgimento emotivo.
Vermiglio, pur con i suoi indubbi meriti culturali di ordine storico-antropologico e nonostante l’ amorevolezza (sincera, onesta, intima e sentita) di cui è impastato, resta un film che si vede e si sopporta a fatica, un film che, soprattutto, non si ha minimamente voglia di ritornare a vedere.
Chiara Françoise Charlotte Mastroianni si è raccontata così, ieri,alla Festa del Cinema di Roma. Il suo racconto è quello di una figlia verso un papà “grande”, scomparso quando lei aveva ventiquattro anni e grande attore di fama internazionale. E non solo. Nelle sue vene scorre il sangue di Catherine Deneuve, ça va sans dire.
Nel centenario dalla nascita del padre, l’attrice si racconta in un dialogo affettuoso, ironico, che va dai racconti delle telefonate che riceveva dal papà, quando era piccola soprattutto, agli incontri a Cinecittà con il grande regista Federico Fellini, amico del padre.
“La vita di mio padre era il lavoro. La vita da set era la sua vera casa, dove si sentiva al sicuro. In vacanza, si annoiava non prendeva il sole, non faceva il bagno, era sempre nervoso”.
E poi, “mi telefonava tanto, troppo, ma non voleva essere rintracciato”.
”Amava il telefono, gli piaceva comprare sacchetti di gettoni perché telefonava sempre. A me anche tre, quattro volte al giorno. Mi chiamava anche per avere una copertura per la sua vita sentimentale complicata. Che tempo fa a Parigi? Piove? Lo faceva per crearsi un alibi. Mi diceva sempre, solo un po’ scocciato: purtroppo bisogna mentire, mentire, sempre mentire anche se è complicato”.
Il padre di Chiara non era un padre qualunque: era uno degli attori italiani più famosi della Dolce Vita, romano di nascita e forse diremo romano nel suo DNA, se la romanità fatta di ironia, del non prendersi troppo sul serio e dell’ indolenza può essere considerata un marchio di fabbrica.
L’indolenza, appunto, “era una specie di grasso che lo proteggeva perché pensava che fosse abbastanza non fare troppo, ed era abitato anche da una certa malinconia per cui il cinema l’ha molto supportato”.
Era rimasto toccato dalla guerra, “c’era in lui l’inquietudine per quello che era successo a mio nonno che aveva avuto una piccola falegnameria, una cosa modesta. Poi arrivò Benito Mussolini, lui non prese la tessera perché era antifascista e perse tutto il poco che aveva”.
Marcello Mastroianni aveva talento, bellezza, fascino e non amava l’idea del mito. Gli davano piacere le cose semplici, che gli ricordavano le sue origini semplici. Modeste.
Il suo legame con Federico Fellini e Sofia Loren restano due costanti della sua vita. Con il regista della Dolce Vita, condivide il tormento, la difficoltà di essere uomini, molto lontani dal mito del maschio italiano. Erano due uomini con vite pazzesche e pieni di malinconia.
Con Sofia Loren, il grande attore condivise, una vera amicizia, la semplicità di mangiare insieme un panino sul set, di ritrovarsi in famiglia. La loro bellezza non li aveva allontanati, anzi, nel loro caso li aveva fatti avvicinare con la semplicità dei loro bisogni, del loro stile di vita, lontano dalle star del cinema americano.
Semplicità e discrezione e gentilezza d’animo, sono state le caratteristiche di quel padre.
Chiara Mastroianni conclude la sua chiacchierata, dicendo che il padre sarebbe stato imbarazzato da tutto questo clamore, da questo gran parlare di lui, per cui, nell’eleganza del suo stile, avrebbe concluso soffermandosi sul rendere omaggio non certo a sé stesso ma alla grandezza del cinema italiano.
Viva il cinema italiano. Grazie.
Simona Dascalu è un’attrice di teatro che nel passato ha recitato anche nel cinema. Anni fa ebbe una piccola parte in “ Dolcemente complicate” poi partecipò ad un paio di fiction e di cortometraggi. La sua grande passione è il teatro ed entro breve sarà in scena con il suo nuovo spettacolo, ideato e scritto in collaborazione con lo scrittore Sandro Arista. Si intitola " chi è l'ultimo" e in questa nuova Commedia Simona Dascalu è protagonista oltre che come attrice anche come regista. E’ uno spettacolo dove emergono diverse componenti: dal comico tendente al serio, per poi arrivare al dramma. Ecco la trama in sintesi: Nella sala d’aspetto di uno studio psicoanalitico si incontrano 4 personaggi: Olindo un tipo poco socievole e dal carattere scorbutico, Luciano sentimentale, emotivo e romantico, Teresa una donna avvocato, altolocata e distinta e Ricky dall’aria sfigata anche troppo loquace. L’interazione dei quattro durante l’attesa, scatena una serie di conflitti, tra loro causati dai loro differenti modi di intendere la vita. Con l’arrivo in ritardo di Wanda la psicologa “la più fuori di testa di tutti”, sembra ristabilirsi l’ordine, ma è solo apparenza. La seduta di gruppo farà emergere aspetti in ognuno di loro insospettabili, che capovolgeranno drasticamente ogni cosa.
Ho incontrato Simona Dascalu che ho avuto il piacere di conoscere già da qualche anno ed è sorta una piacevole conversazione.
Simona Dascalu |
Simona quali sono gli aspetti più esilaranti di "chi è l'ultimo?"
La vicenda è tutta nello studio psicoanalitico dove collabora una segretaria un po' distratta e “impicciona” che fornisce lo stesso orario a quattro pazienti. Nella commedia io sono una psicoanalista che amo tanto anche l'arte e cioè cantare, recitare, ballare. Dal momento che arrivo tardi in studio e trovo tutti i pazienti insieme, mi devo inventare una storia, così nascono una serie di battute originali e di grande impatto. Questi personaggi nel loro monologo trattano dei loro problemi, così gli spettatori apprezzeranno uno spettacolo molto divertente dove oltre a recitare si canta e si balla. L'aiuto regia è di Renato Porfido che seguirà la commedia con attenzione dall’esterno e sarà anche lui coinvolto a sorpresa. Alla fine sceglierò di dedicarmi solo all'arte e dal momento che abbandono l'attività, lascio i pazienti nelle mani di un altro collega.
Quali sono le tue sensazioni al momento di presentare la tua nuova commedia teatrale?
Sono emozionata ma nello stesso convinta che il pubblico apprezzerà la commedia che andrà in scena al teatro Anfitrione dal 24 ottobre alla domenica del 27 ottobre. La locandina è molto graziosa e rende l’idea di uno spettacolo divertente.
Come ti sei trovata in questo ruolo, rispetto alla commedia dell'anno precedente “Condominium”?
Sono personaggi diversi, in quella ero un avvocato, sempre un po' in conflitto con il mio compagno, in questa invece, sono una psicanalista e anche un'artista. Noi attori riusciamo spesso a cambiare la nostra personalità e ci immedesimiamo nel giusto ruolo. Nel passato ho fatto avanspettacolo e ho preso parte a ruoli sia comici che drammatici. Nel campo artistico riesco a fare un po' di tutto, ma preferisco il genere comico e questo lo si deve probabilmente, perché nei nostri giorni viviamo un mondo difficile con tanto nervosismo, pertanto ritengo che la gente abbia bisogno di evadere. Questo non significa che se dovessero propormi un ruolo drammatico non mi sentirei ugualmente a mio agio.
Simona quali sono i tuoi prossimi progetti futuri?
Ho pronto nel cassetto la trama di un film o cortometraggio che spero prima o poi di portare a compimento. E' la storia di una donna che ha una serie di disavventure e poi si innamora del suo carnefice. Recentemente ho scoperto che mi piace anche cantare e su You tube si possono trovare alcune mie interpretazioni. Sto completando una canzone, che poi farò ascoltare per la prima volta in teatro insieme ad altre due canzoni composte da me. Quest'anno ho avuto la fortuna di incontrare sul red carpet al Festival del cinema di Roma, questo splendido uomo, Renato Porfido che è poi diventato il mio compagno. A me serviva un attore per i miei video clip, quindi dal momento che abbiamo avuto l'opportunità di frequentarci, si è accesa la scintilla e ci siamo innamorati. E’ bello avere qualcosa da condividere con una persona speciale e noi due abbiamo le stesse passioni.
Grazie Simona Dascalu
Il Teatro Arcobaleno è per così dire “specializzato” in proposte a tema storico. Propone spesso e volentieri testi di classici greci o latini, o che parlano di personaggi storici come questa stasera. Il testo è di Giovanni Antonucci, uno dei più grandi studiosi del grande ed intramontabile Ettore Petrolini, artista che ha ispirato molti attori venuti dopo di lui.
La sua simpatia e bravura arrivò a colpire anche il duce, tanto che Petrolini era l’unico che nelle sue performance poteva imitare e schernire il dittatore senza che se ne prendesse a male, anzi, dimostrava di apprezzare particolarmente le performance di Ettore. Attore, cabarettista, cantante, drammaturgo, sceneggiatore, compositore e geniale scrittore specializzato nel genere comico. Petrolini però, viene ricordato quasi esclusivamente per il filone comico, mentre era molto di più. Meno conosciuto è infatti il suo lato più profondo e “popolare”, o quello osannato da Marinetti, che lo proclamò “grande attore futurista”. Marinetti scriveva: “Il teatro di Varietà è il solo che utilizzi la collaborazione del pubblico; questo non rimane statico, a guardare, ma partecipa rumorosamente all’azione, cantando, accompagnando l’orchestra, comunicando con motti imprevisti e dialoghi bizzarri con gli attori. Il pubblico collabora con la fantasia degli attori, l’azione si svolge contemporaneamente sul palcoscenico, nei palchi e nella platea…”.
È ovvio che i Futuristi trovassero in Petrolini un interprete che poteva dare vita ai loro ideali di “rivoluzione teatrale”. Petrolini in parte ebbe alcune convergenze ideologiche con il Futurismo, ma rimase estraneo al movimento, la sua poliedricità e continua evoluzione non potevano essere intrappolate in degli stereotipi.Come dice lo stesso Avallone nella pièce, Petrolini aveva già creato i suoi personaggi prima che questa corrente di pensiero emettesse i primi vagiti. Furono i Futuristi a riconoscersi nella sua arte e non certo il contrario.
Si dedicò a creare parodie, macchiette, caratteri e personaggi che attraverso la loro spontaneità e semplicità popolare, negavano e criticavano i sentimentalismi rifiutando le mode del tempo ed evidenziando l’idiozia umana. Davanti alle critiche del tempo che lo definivano stupido, lui rispondeva “ci vuole intelligenza per rappresentare la stupidità…”
Tutte le sue trovate, le battute, i nonsensi devono essere interpretati come una metafora della perdita di senso di cui la sua società era preda; rovesciava così il suo ruolo di comico che nel far ridere faceva emergere una denuncia, una critica, una satira pungente nei confronti di quella stessa società che alla fine tanto lo amava.
Nel testo di Antonucci troveremo una forte comicità frammista ad elegante malinconia, che riportano tra realtà e finzione in scena questo mostro sacro a 140 anni dalla sua nascita. Chi meglio del geniale Antonello Avallone poteva vestire gli abiti ed esaltare la figura di questo originale artista?
Avallone è un attore poliedrico e particolarmente dotato, si impossessa del palco e rapisce l’attenzione del pubblico con la sua grande personalità. Rimasi particolarmente colpito da lui quando lo vidi nella sua interpretazione di “Novecento” di Baricco. Eccolo di nuovo in un impegnativo monologo che mette a nudo tutte le sue capacità intrattenendoci, anzi ipnotizzandoci.
Interpreta un Petrolini negli ultimi giorni della sua vita, entra in teatro e dà vita ad un malinconico e romantico quanto poetico canto del cigno. L’artista rivive e ripropone i passi fondamentali della sua vita, dagli esordi nei teatri baracconi, quando comincia a dare vita alle sue prime macchiette, fino ad arrivare ai suoi grandi successi. Avallone ci restituisce un Petrolini visibilmente afflitto da quella che lui chiama la “Signora Embolia Flebite”; malconcio e claudicante, ci porta con classe e maestria in questo racconto profondo e sentito che ci permette di palpare l’essenza più intima di Petrolini. Ogni personaggio presentato si dimostra pura energia che ritempra l’artista facendogli dimenticare tutti gli acciacchi e i malanni e facendogli recuperare tutto il suo passato splendore.
La vita dell’attore ha tre fasi, ci dice: la prima quando è preso in giro dal pubblico, la seconda quando è lui a prendere in giro il pubblico, la terza quando guarda dal di fuori queste due parti prendersi in giro… ascetico.
Bella e ponderata la scelta delle musiche, divertenti e mai invadenti, alternate ad altre che trasmettono la giusta tensione per esaltare i momenti più drammatici o introspettivi. Suggestivo l’ uso delle luci che creano un’atmosfera onirica ed eterica.
Le freddure, le battute, le canzoni, i balletti come le macchiette sono quelle: Gastone, Fortunello, Lyda Borelli, Nerone… Antonello ci regala una vera e propria perla teatrale. Un immenso Avallone che interpreta Petrolini senza volerlo imitare e in cui troviamo tutta la sua professionalità, la sua personalità e bravura. Qua e là uno spruzzo di Macario, di Rascel, di Totò, lasciano in bocca un gradevole sapore dal gusto retrò. Ha saputo giocare bene le sue carte, bilanciando la parte nostalgico drammatica con quella comico satirica della pièce senza eccedere nell'una o nell'altra, esaltando il testo di Antonucci di cui ha egregiamente curato anche la regia.
La scenografia scarna esalta la parte più malinconica, lo fa attraverso due bauli che contengono tutta la vita del protagonista insieme alle emozioni, i sogni, le speranze. Da quei due scrigni escono tutte le “pelli” dell’artista, un alternarsi di bellissimi costumi che Avallone indossa per trasformarsi ed interpretare tutti quei personaggi che hanno fatto grande questo favoloso attore.
Uno spettacolo che intenerisce, diverte con le sue battute da avanspettacolo che, se anche hanno fatto ormai il loro tempo, ci restituiscono quella genuinità e semplicità con cui i nostri nonni si divertivano ridendo a crepapelle, ricreando magicamente l'atmosfera di un teatro ormai dimenticato.