
L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Carlotta Caldonazzo
This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
“ Si è da più parti mossa a questo progetto di Costituzione la critica che esso rappresenti il frutto di un compromesso (…) Se con questo si vuol dire che il progetto di Costituzione è il frutto di uno sforzo di diversi partiti per trovare un’espressione della volontà della maggioranza degli italiani, questo non è un difetto.”
Lelio Basso
Comunque andrà a finire, tutta questa vicenda della riforma costituzionale e della relativa consultazione referendaria lascerà, nella storia non troppo luminosa del nostro Paese, una ferita profonda e strascichi torrentizi di veleni. Perché tutto si configura malato fin dall’inizio, con caratteri sgradevolmente lesivi della più elementare sensibilità democratica e del più universale sentimento di giustizia.
Un Parlamento di eletti con una legge dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale (composto da gente che, quindi, non avrebbe titolo morale ad occupare il posto che occupa) non avrebbe dovuto mai, per una questione di sano buon senso, venire investito del compito incommensurabilmente gravoso di modificare la Legge fondativa della Repubblica.
E, in particolar modo, un governo guidato da un Presidente mai eletto, composto, di fatto, da forze politiche che rappresentano una parte nettamente minoritaria dello schieramento partitico e, soprattutto, dell’elettorato (il “popolo sovrano”!), non avrebbe mai dovuto pretendere di attribuirsi un compito così impegnativo e solenne.
Perché la nostra Costituzione è scaturita da uno sforzo di titanica saggezza volto a costruire ponti, convergenze e compromessi fra visioni politiche immensamente più antitetiche fra loro di quanto possano esserlo quelle attualmente esistenti (ammesso che si possa ancora parlare di “visioni politiche” …).
Perché i padri costituenti hanno saputo anteporre l’interesse nazionale a quello della propria fazione, hanno saputo imporsi limitazioni e amarezze (anche brucianti) al fine di privilegiare quanto realisticamente
![]() |
Lelio Basso |
raggiungibile in vista della costruzione di una stabile e duratura piattaforma comune, che potesse porre dei confini invalicabili alle conflittualità, favorendo al massimo una convivenza democratica sanamente pluralistica. Al fine, soprattutto, di arginare qualsivoglia pericolo di derive autoritarie, garantendo, nell’immediato come nel più remoto futuro, diritti inviolabili a tutti i soggetti politici (soprattutto ai perdenti e minoritari).
L’Assemblea Costituente, eletta con sistema proporzionale “puro” (senza, cioè, gli artificiosi meccanismi del “porcellum” atti a creare maggioranze fittizie), rispecchiava fedelmente la variegata realtà del nostro Paese, al quale ha saputo donare una base solida su cui edificare il proprio futuro, senza che nessuna componente (esclusi i nostalgici del ventennio) potesse sentirsi sconfitta.
Nel caso malaugurato in cui la riforma renziana dovesse superare il banco di prova del 4 dicembre, noi ci troveremmo, invece, con una Costituzione modificata per ben un terzo dei suoi articoli, non ad opera di una larga maggioranza parlamentare e popolare, ma ad opera di “alcuni” contro tutti gli altri. Ad opera di alcuni che, con una arroganza sconfinata stanno tradendo il principio più importante e più nobile di un autentico spirito costituente, l’obbligo categorico, cioè, di lavorare insieme, nel rispetto di tutti, nell’interesse di tutti.
Non c’è cosa, credo, più irrealistica e più irresponsabile del ritenere che, con questi presupposti, una simile riforma possa davvero aiutare la crescita democratica della nostra Nazione, preparandoci un destino migliore …
Se ci si interroga su quanto gli stati esistenti tutelino i diritti fondamentali degli individui e delle collettività, si può osservare quanto le loro strutture siano macchine burocratiche al servizio delle oligarchie finanziarie
Secondo il poeta britannico Percy Bisshe Shelley, il governo è un male, sono solo la sconsideratezza e i vizi degli uomini che ne fanno un male necessario: necessario per evitare l'esplosione di conflitti che metterebbero a rischio la sopravvivenza del genere umano, ma come si può realizzare questo obiettivo se non garantendo a ciascun individuo i diritti inalienabili, e, realizzata questa premessa indispensabile, stabilendo un limite alla libertà individuale per evitare soprusi? Il fatto che, finora, il rispetto di questi diritti non sia stato garantito ha prodotto nel tempo movimenti di riforma che hanno esercitato pressioni interne e movimenti migratori che hanno esercitato pressioni esterne sui singoli sistemi statali. Le spinte dei movimenti di riforma, quando hanno raggiunto le classi dirigenti influenzandone le scelte, hanno diminuito in misura variabile (a seconda dei contesti) le diseguaglianze economiche, sociali e politiche, ma, quando sono state ignorate o represse, hanno causato movimenti regressivi che hanno condotto le società verso diseguaglianze più profonde.
Quando il disagio sociale induce una parte sempre più cospicua di cittadini a disperare di un miglioramento delle proprie condizioni, le istanze individuali tendono a prevalere sull'interesse comune: perché un cittadino relegato ai margini della società dalle difficoltà economiche dovrebbe contribuire al progresso di una società, con un buon margine di probabilità di restarne escluso? Il concetto di stato-nazione si è affermato appunto, oltre che sull'onda della delusione rispetto ai capisaldi del riformismo illuminista, cosmopolita e universale, con il diffondersi dell'idea che una classe dirigente che abbia la stessa identità (lingua, tradizioni, religione, o più in generale cultura) del popolo governato sia più propensa a tutelarne i diritti. In seguito, all'interno dei singoli stati sono emerse fazioni, delle quali alcune rappresentavano gli interessi delle classi “alte”, mentre altre chiedevano maggiore uguaglianza o, almeno, una minore diseguaglianza. Chi sosteneva queste ultime si aspettava che, una volta al governo, esse avrebbero mantenuto i loro propositi dichiarati, vedendo così deluse le proprie attese, a causa di una qualche vera o presunta vis maior, o per mala fede o incompetenza delle classi politiche. Le forze progressiste hanno quindi abdicato al loro impegno, perdendo credibilità e il malcontento dei cittadini non ha trovato altri rappresentanti che demagoghi tanto carismatici quanto privi di spessore politico.
L'elezione di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti è sintomo di una tendenza in crescita nell'ultimo ventennio, ma che affonda le sue radici nella visione politica ed economica di un suo predecessore, Ronald Reagan. Una competitività demenziale, che, facendo della concorrenza sfrenata un dogma non solo economico ma anche etico, ha reso la competizione l'unico paradigma “vincente” di ogni relazione tra individui. Nessuna solidarietà, solo una religione del successo personale da realizzarsi anche a discapito dell'utilità comune. Una volta sradicati i movimenti di protesta degli anni '60 e '70 e crollato il blocco sovietico, le “democrazie” non più liberali ma solo liberiste hanno probabilmente sottovalutato un elemento: in periodi di crisi economica, l'imperativo sii vincente rischia di essere un'arma a doppio taglio, poiché chi non riesce ad attuarlo tende a sentirsi emarginato dalla società, maturando nei confronti di essa sentimenti negativi. Il pericolo maggiore, dunque, non sono più solo i populismi di stampo patriottico o, persino, xenofobo. Nei discorsi dei demagoghi (che non possono fare altro che favorire gli interessi speculativi delle oligarchie finanziarie, ormai le uniche strutture a dettar legge a livello nazionale e sovranazionale) emergono progressivamente forme di populismo che fanno capo a figure carismatiche, che spesso dal nulla hanno raggiunto quel successo economico che per decenni è stato presentato dalle non-culture di regime come l'unica possibilità di realizzazione esistenziale. Si tratta, il più delle volte, di imprenditori che si mostrano vincenti perché disposti a tutto pur di ottenere il successo, ma che offrono di sé un'immagine distorta, come il Trimalcione del Satyricon dello scrittore latino Petronio: un parvenu arricchito che fa di tutto per sembrare un aristocratico dell'élite dirigente.
Non sembra abbastanza diffusa fra gli italiani la sensazione che le riforme costituzionali, destinate, secondo i promotori del SÌ, ad agevolare e semplificare le procedure di piena attuazione di uno Stato democratico, produrranno precisamente l’effetto opposto. Non occorre essere allarmisti, per convincersi che la vittoria dei “SÌ” al Referendum del 4 dicembre, con le conseguenze a latere, non certo evidenziate nella legge Renzi-Boschi, permetterà la concentrazione di ulteriori, rilevanti poteri nell’Esecutivo, limiterà l’esclusiva facoltà di rappresentanza popolare del Parlamento, consentendo di operare facilmente, in breve tempo, la prevista svolta autoritaria del governo nel nostro Paese.
Preoccupazione legittima e giustificata da fatti che evidenziano, sul piano formale e sostanziale, l’intento propagandistico di un governo, alla ricerca del consenso popolare e della legittimazione di una riforma della Costituzione, che gli consentirà di acquisire un’autorità aggiunta, assolutamente contraria alle fondamentali norme, contenute nella Carta del 1948. Infatti, se osserviamo il testo del quesito referendario, che così recita:
« Approvate il testo della legge costituzionale concernente“disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016? »
ci rendiamo immediatamente conto dell’intento demagogico dell’estensore di un quesito referendario, che definire disomogeneo sembra troppo garbato. In modo tutt’altro che imparziale, questo non si limita a formulare una domanda, ma invita l’elettore ad approvare “la legge costituzionale, con il “SÌ”, perché così potrà “beneficiare” del “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”e della “soppressione del CNEL” (nelle sedi opportune è stata accertata l’esistenza dei presupposti per considerare ingannevole il testo del quesito e illegittimo il conseguente, implicito invito a votare “SÌ”, contenuto nella pubblicità trasmessa dalle emittenti TV nazionali).
Fatta questa doverosa premessa, si dovrebbe presumere che l’elettore medio conosca non solo il testo della legge costituzionale che dovrebbe approvare, con un SÌ, oppure respingere, con un NO, ma sia anche consapevole dei motivi che hanno indotto 126 deputati a richiedere di sottoporre a Referendum la legge di riforma costituzionale “Renzi – Boschi”, approvata con la maggioranza assoluta delle due Camere, ma non con la maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti della Camera e del Senato, cosa che ha reso possibile il Referendum stesso (come disposto dall’articolo 87 della Costituzione). Se così non fosse, la formulazione e il contenuto del quesito referendario, in cui si chiede all’elettore di approvare il testo di una legge costituzionale, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, risulterebbero senza dubbio imprecisi e fuorvianti per l’uomo comune, non sufficientemente edotto in materia, e potrebbero indurre lo stesso elettore, disattento e disinformato, ad optare per il “SÌ”, perché ignora che il Parlamento, cui si fa riferimento nel quesito, è stato eletto, secondo i criteri di una legge elettorale (il “Porcellum”), dichiarata incostituzionale dalla Consulta con sentenza 1/2014. La “porcata” (così ha definito questa legge, proprio colui che ne fu estensore e proponente, cioè, l’onorevole Calderola), ha continuato tuttavia a rilasciare i suoi sconcertanti effetti, derivanti dall’accertata impossibilità di stabilire il giusto rapporto di rappresentanza tra elettori ed eletti, in un Parlamento, per questa ragione, illegittimo, eppure ancora in grado di svolgere il suo ruolo “istituzionale”, con l’approvazione della stessa Consulta, in virtù dell’applicazione del principio di “continuità dello Stato”, che ha permesso alla maggioranza di governo, cui fu concessa la fiducia da un Parlamento illegittimo, di trasformarsi in “maggioranza costituente”, per elaborare il progetto di riforma della Costituzione.
Per meglio chiarire, osserviamo quanto dispone la legge elettorale ordinaria 270/2005, detta anche “Porcellum” (grazie all’ironico e vano eufemismo di Giovanni Sartori):
La Corte Costituzionale, con sentenza 1/2014, ha dichiarato anticostituzionale il Porcellum, con le seguenti motivazioni: legge che…(relativamente all’elezione della Camera)…”non subordinando l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti” trasforma una minoranza in maggioranza con un meccanismo di attribuzione del premio “manifestamente irragionevole” e tale da costituire una grave alterazione della rappresentanza democratica” che è base e fondamento della Costituzione della Repubblica Italiana.
Relativamente all’elezione del Senato, la stessa Corte ha sentenziato l’anticostituzionalità della legge Porcellum, poiché: “stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento”.
Il criterio delle “liste bloccate” obbliga gli elettori a votare solo un partito e a non esprimere alcuna preferenza.
Risultano quindi eletti i candidati che venivano, dai partiti, posizionati nei primi posti della lista.
La Corte Costituzionale ha precisato che:
“il cittadino è chiamato a determinare l’elezione di tutti i deputati e di tutti senatori, votando un elenco spesso assai lungo (nelle circoscrizioni più popolose) di candidati, che difficilmente conosce. Questi, invero, sono individuati sulla base di scelte operate dai partiti, che si riflettono nell’ordine di presentazione, sì che anche l’aspettativa relativa all’elezione in riferimento allo stesso ordine di lista può essere delusa, tenuto conto della possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito”.
Le condizioni indicate dal “Porcellum” sono state, dunque, dalla Corte definite:
“tali da alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti”, condizioni che impediscono questo rapporto e “coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto di cui all’art. 48 della Costituzione”.
La Corte, tuttavia, ha sostenuto che gli atti di questo Parlamento sono validi e lo saranno anche in materia di leggi elettorali”, disponendo l’applicazione del “principio della continuità dello Stato” che consentirebbe all’attuale Parlamento di continuare a svolgere il suo ruolo “istituzionale” a condizione che ciò avvenga entro i limiti stabiliti dal principio stesso e si adottino soluzioni idonee alla creazione di un sistema elettorale che non sia, come il “Porcellum”, in contrasto con la Costituzione. Condizioni disattese, poiché questo Parlamento, creato per mezzo di una legge elettorale, dichiarata anticostituzionale, ha approvato il testo della legge costituzionale per la riforma della Costituzione (ben 47 articoli!) (vedi Gazzetta Ufficiale n.88 del 15 aprile 2016).
Evidenti le contraddizioni! Basterebbero queste a convincere il cittadino italiano, onesto e informato, a votare per un deciso NO, al Referendum del prossimo 4 dicembre!
Evitando così di essere vittima di un inganno ben congegnato e nascosto dalle troppe chiacchiere renziane, recitate ad arte dall’attuale premier, discepolo obbediente della potentissima e semi segreta “Accademia del Potere” made in USA, che si chiama Council On Foreign Relations, e pronto ad eseguire gli ordini che gli pervengono dall’altrettanto potente organismo bancario, JPMorgan, severo controllore degli sviluppi economici e politici dell’Unione Europea e in particolare dell’Italia.
Ma proseguiamo con la nostra analisi, osservando che l’articolo 138 della nostra Costituzione (la sfrontatezza dei “deformatori” non è giunta al punto di proporne la modifica, perché sarebbe risultata impopolare e …anticostituzionale) dispone quanto segue:
“Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione [cfr. art.72 c.4].
Le leggi stesse sono sottoposte areferendumpopolare [cfr. art.87 c.6] quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta areferendumnon è promulgata [cfr. artt.73 c.1, 87 c.5 ], se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo areferendumse la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.
Dunque il Referendum costituzionale (detto impropriamente “confermativo”, che è stato richiesto da un quinto dei componenti della Camera - 126 su 630 - entro i termini stabiliti, poiché nella seconda votazione la legge non è stata approvata da ciascuna Camera con la maggioranza, qualificata, di due terzi dei suoi componenti), offrirà al cittadino elettore la facoltà di scegliere tra l’inizio della fine della democrazia in Italia, con il suo SÌ, e il miglioramento delle garanzie costituzionali che tutelano il sacrosanto diritto di ogni elettore di essere ancora democraticamente rappresentato dai suoi eletti, votando NO.
Ma, attenzione! Il Referemdum costituzionale non prevede alcun “quorum” (il raggiungimento della percentuale minima degli aventi diritto al voto), ma dà luogo alla promulgazione della legge, se è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
È dunque indispensabile la grande partecipazione al voto referendario di tutti i cittadini responsabili che intendano salvaguardare la Costituzione e i fondamentali diritti che ancora essa garantisce, votando NO. No alle riforme scriteriate e illiberali, no alla concentrazione dei poteri nel governo, no allo smantellamento del sistema bicamerale perfetto, no alla rinuncia alla piena partecipazione dei cittadini all’elezione del Parlamento.
Thomas Jefferson, terzo Presidente degli Stati Uniti d’America, sosteneva che “The best government is that which governs least”. (Il miglior governo è quello che governa meno”).
Intendendo con questo che ogni limitazione del diritto del popolo di essere rappresentato attraverso l’organo istituzionale che lo garantisce, cioè il Parlamento, privilegiando la crescente autorità del potere Esecutivo, è chiara prova di un’azione tesa a creare, aldilà delle apparenze, un governo autoritario.
Ma procediamo nella nostra analisi, osservando che la nuova legge elettorale ordinaria n. 15/2015, in vigore dal 1 luglio 2016, detta anche “Italicum” è perfettamente funzionale ai meccanismi, previsti dalla legge di riforma della Costituzione, sottoposta al Referendum. Quanto al nome attribuito alla legge elettorale, “Italicum”, ci sarebbe da chiedersi se è solo casuale il fatto che i “Think Tank” nazionali, istruiti dai loro omologhi d’Oltreoceano, dopo l’evidente tentativo di “brain washing”, contenuto nel quesito referendario, hanno inteso risvegliare il patriottismo degli elettori, per convincerli, con giochetti tipicamente “yankee”, che il loro SÌ sarà per il bene della Nostra Italia.
Infatti, la legge di riforma costituzionale, sottoposta a Referendum, prevede, fra l’altro, “il superamento del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei Parlamentari” e, qualora prevalessero i “SÌ”, l’Italicum dovrebbe quindi regolare l’elezione della Camera dei Deputati, che sarà la sola ad essere elettiva e ad avere facoltà di dare fiducia al governo, pur permanendo, nel nuovo schema costituzionale, il Parlamento bicamerale. Per il Senato non è prevista l’elezione diretta, poiché la legge costituzionale Boschi-Renzi dispone che i Senatori, il cui numero sarà ridotto da 315 a 100, saranno nominati dai consigli regionali e potranno in sostanza rappresentare soltanto le forze politiche che in questi prevalgono e non le istituzioni, né il popolo sovrano (vedi art. 67 e 121 della Costituzione, in merito al “vincolo di mandato” e ai limiti di rappresentanza dei Senatori).
Ma osserviamo quanto l’Italicum dispone per l’elezione della Camera. Esso prevede il sistema proporzionale e assegna il premio di maggioranza alla lista che raggiunge la soglia del 40% dei voti; qualora questa percentuale non sia raggiunta, si va al ballottaggio, che assegnerà il premio di maggioranza alla lista che prevale, cioè, in pratica, alla lista (non alla coalizione) che ha ottenuto un solo voto in più, rispetto alle altre. Nell’attuale quadro politico si prevede che il ricorso al ballottaggio sarà necessario nel novanta per cento dei casi. Ora, occorre ricordare che al ballottaggio, in cui non è previsto il raggiungimento di una soglia minima di voti (quorum), né una soglia di sbarramento, la percentuale dei votanti scende in modo rilevante. E può, quindi, facilmente accadere che una lista che rappresenta un’esigua parte dell’elettorato, ottenga la maggioranza dei seggi alla Camera (lo stesso paradosso creato dal Porcellum, dichiarato anticostituzionale). Da notare comunque che anche nel caso in cui una lista raggiunga, al primo turno, il 40% dei voti, otterrà il premio di maggioranza, pari a 340 seggi, che non saranno interamente occupati da Deputati, liberamente eletti dal popolo, poiché ben 109 di essi saranno “nominati” dalle forze politiche dei cento collegi plurinominali, con capolista bloccato e dei nove collegi uninominali delle province autonome. Per la stessa ragione, qualora un partito riuscisse ad ottenere 100 seggi, questi sarebbero assegnati ad altrettanti Deputati, non eletti, ma nominati.
Ma non è tutto. Qualcuno ha riscontrato varie affinità tra la legge Italicum e le due leggi del ventennio fascista, una del 1923, nota come legge Acerbo, voluta da Mussolini per assicurare la maggioranza parlamentare al PNF. Questa legge assegnava un premio di maggioranza, pari a 2/3 dei seggi, al partito che avesse superato il quorum del 25%. L’altra legge è la n. 2263 del 24 dicembre 1925, che definendo le prerogative del Capo del Partito, lo trasformava automaticamente, una volta eletto, in Capo del Governo. Leggi che, in seguito, aprirono la strada alle cosiddette leggi fascistissime. Analogamente, l’Italicum dispone che le forze politiche, nel momento in cui presentano il loro programma e le liste devono indicare il “capo (sic) della forza politica”. Il giurista Zagrebelksky ci fa notare che l’Italia e l’Ungheria, in questo momento sono i soli paesi dell’Unione Europea che possono attribuire la maggioranza assoluta a un unico partito. Una legge elettorale ordinaria (l’Italicum), favorendo la concentrazione di poteri nell’Esecutivo, sta dunque trasformando l’Italia in una Repubblica Presidenziale o in un governo con poteri illimitati. L’esempio viene dagli Stati Uniti, dove il potere legislativo del Congresso continua a venir meno, poiché le decisioni politiche si prendono alla Casa Bianca, in cui opera da tempo la marionetta, cioè il Presidente USA, manovrata dall’Alto. Il signor Renzi non è stato in grado di spiegare come mai gli è sfuggita, nel suo disegno riformistico, la modifica dell’articolo 92 della Costituzione che attribuisce al Presidente della Repubblica l’esclusiva facoltà di nominare il Presidente del Consiglio.
Dunque:
“Prima ancora che incostituzionale l’Italicum è una legge irrazionale, insensata, contraddittoria e, essendo una legge elettorale e quindi fondamentale per gli equilibri democratici, intrinsecamente pericolosa, del tutto in linea con il disegno di accentramento al potere esecutivo e di depotenziamento del sistema parlamentare”.
La tanto propagandata riforma della Costituzione che il signor Renzi continua a dichiarare essenziale per il rinnovamento del nostro Paese, è quella che dovrebbe realizzare la semplificazione della funzione legislativa del nuovo Parlamento.
Ma se osserviamo le disposizioni in materia, previste dalla legge di riforma costituzionale, possiamo trarre, senza ombra di dubbio, le seguenti conclusioni: la legge di riforma Renzi – Boschi non semplifica un bel niente, ma complica l’iter legislativo in modo assai rilevante, rispetto a quanto prevede, in modo chiaro e forma concisa, la Costituzione del 1948; una verifica che ci consente di mettere in guardia l’elettore, ancora indeciso, invitandolo a non correre il rischio di cadere vittima dell’ennesimo raggiro. Rischio che può evitare, soltanto votando NO.
Entriamo brevemente nei dettagli e vediamo che cosa accadrebbe tra Montecitorio e Palazzo Madama, nel malaugurato caso in cui al Referendum prevalessero i “SÌ”.
Operato il superamento del bicameralismo paritario e ridotto il numero dei parlamentari,e dunque limitata sensibilmente la facoltà del Parlamento di svolgere il suo compito istituzionale, che è quello di rappresentare gli elettori e di estendere le possibilità della democrazia partecipativa, si beneficia dell’irrisorio contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni.
Deputati e Senatori si trovano di fronte all’articolo n. 70 riscritto nella Costituzione riformata che “semplifica” la funzione legislativa del nuovo Parlamento, disponendo ben quattro procedure diverse, cioè quattro modi diversi di fare le leggi (La costituzione del 1948 ne prevede uno solo, quello che risulta dalla funzione legislativa esercitata collettivamente dalle due camere, come recita l’articolo 70 non riscritto).
Ma la semplificazione si… complica, perché, secondo le quattro procedure, si fanno quattro leggi diverse, che nell’ordine sono:
1) leggi bicamerali;
2) leggi approvate dalla sola Camera, con possibile esame del
Senato entro dieci giorni;
3) leggi approvate dalla sola Camera, con necessario esame del
Senato entro dieci giorni;
4) leggi approvate dalla sola Camera, con necessario esame del
Senato entro quindici giorni.
Sentiamo in proposito il commento di Luca Benci, giurista, “Laboratorio politico - Per un’altra città” - Firenze:
Leggi bicamerali
“È la stessa procedura che da sempre conosciamo: stesso testo approvato da Camera e Senato. L’elenco delle leggi bicamerali è lungo ed è suddiviso per materia. Riguardano le leggi costituzionali e di revisione costituzionale, sulle minoranze linguistiche, sui referendum, su comuni e città metropolitane, sulla partecipazione e all’attuazione delle norme sull’unione europea, sull’eleggibilità dei senatori, sulla legge elettorale del senato, sulla ratifica dei trattati dell’unione europea, sull’ordinamento di Roma, sul regionalismo differenziato, sulla partecipazione delle regioni speciali alla formazione e all’attuazione di norme Ue, sulle intese internazionali delle regioni, sul patrimonio degli enti territoriali, sui principi della legge elettorali delle regioni ordinarie, sul passaggio di un comune da una regione all’altra”.
Leggi approvate dalla sola Camera, con possibile esame del Senato entro dieci giorni
“Il Senato, per tutte le leggi approvate dalla Camera e che non sono riportate nell’elenco delle leggi bicamerali (su cui ha piena potestà, come abbiamo visto), entro dieci giorni su richiesta di un terzo dei senatori, può esaminarle e proporre modifiche nel testo entro un termine di trenta giorni. Successivamente la Camera deciderà se accogliere o meno le modifiche”.
Leggi approvate dalla sola Camera, con necessario esame del Senato entro dieci giorni
“Ipotesi che si verifica quando la Camera vota sulle materie previste dall’articolo 117 della Costituzione che sono riservate alle Regioni e di cui lo Stato decide di intervenire scavalcando le competenze regionali: c.d. “clausola di supremazia statale”.
Lo Stato, cioè, invade le competenze regionali quando, su “proposta del Governo”, interviene su materie riservate alle Regioni.
La motivazione di detta invasione è relativa alla “tutela dell’unità giuridica o economica della repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Lo chiede il Governo, la Camera approva la legge, ma in questo caso il Senato deve necessariamente esaminare la legge e la Camera – se sono proposte delle modifiche da parte del Senato – può disattendere le richieste del Senato solo pronunciandosi nella votazione finale a “maggioranza assoluta dei propri componenti”.
Leggi approvate dalla sola Camera, con necessario esame del Senato entro quindici giorni
“Questa ipotesi riguarda le leggi di bilancio e la legge di stabilità.
La più importante legge dello stato sarebbe quindi approvata dalla Camera, trasmessa obbligatoriamente al Senato che entro quindici giorni delibera le proposte di modifica. Su queste deciderà in via definitiva la Camera senza maggioranze particolari.
In sintesi quindi esisterebbero leggi approvate da entrambe le camere, leggi di cui il senato può chiedere le modifiche, leggi in cui il senato deve chiedere le modifiche.
Oltre a questi procedimenti – che potremo definire generali – vi sono altri sottoprocedimenti che rendono ancora più complicato il processo di produzione normativa. Ad esempio sulle leggi elettorali di camera e senato può essere chiesto il controllo preventivo di costituzionalità da parte di un quarto dei deputati e un terzo dei senatori. Il tutto entro dieci giorni dall’approvazione. Questa disposizione costituzionale appare, oggi, del tutto ragionevole visto quello che è successo con il Porcellum, ma con un legislatore assennato che non piega le leggi elettorali ai sondaggi del momento appare eccessiva. Procedimenti speciali ci sono per le leggi che sono state avviate prima in senato, per le leggi che il Governo dichiara essenziali all’attuazione del programma, le leggi dichiarate urgenti, le conversioni dei decreti legge, le leggi di iniziativa popolare. Alla fine si contano – tra procedimenti e sottoprocedimenti – dieci modi diversi di produrre atti normativi primari.
Il senato depotenziato dalla riforma trova però i suoi poteri aumentati con la elezione dei membri della corte costituzionale.
Nella Carta costituzionale vigente i cinque membri spettanti al Parlamento vengono eletti in seduta comune tra Camera e Senato. Il Senato della riforma renziana ne eleggerebbe ben due con soli cento senatori (la camera gli altri tre con seicentotrenta deputati).
Non sono rilievi di poco conto tenuto conto della funzione di garanzia che esercita la corte costituzionale e della strana composizione del ‘Senato delle regioni’ renziano”.
4. I rapporti tra Governo e Parlamento
Se al Referendum del prossimo 4 dicembre prevalgono i SÌ, dovremo assistere ad un vistoso squilibrio fra le facoltà attribuite al potere legislativo e quelle attribuite al potere esecutivo, il Governo, a tutto vantaggio di quest’ultimo e a detrimento sostanziale del primo (il Parlamento), che vedrà, con l’approvazione della legge di riforma della Costituzione, ulteriormente limitato il suo compito istituzionale, che è quello di rappresentare i cittadini elettori della Repubblica Parlamentare Italiana, garantendo la piena realizzazione della democrazia rappresentativa.
La legge elettorale ordinaria, Italicum, come abbiamo ricordato nei precedenti commenti, sembra fatta apposta per dare luogo a questo pericoloso squilibrio, rivelandosi “complementare” all’applicazione del disposto della legge di riforma costituzionale, poiché, consentendo ad un partito, che non ha ottenuto la maggioranza dei voti espressi, di ottenere invece la maggioranza in Parlamento (alla sola Camera, visto che il Senato non sarà più elettivo) e l’automatica elezione a Capo del Governo del “capo della forza politica” dal partito indicato, nonché l’inedito “diritto” di condizionare i lavori parlamentari, con l’istituzione del cosiddetto “voto a data certa”, in virtù del quale il Parlamento avrebbe l’obbligo di iscrivere un disegno di legge all’ordine del giorno, entro il termine di cinque giorni dal ricevimento (vedi art. 72 della Costituzione, sottoposto a riforma) potrebbe, non solo facilitare la ratifica e la conversione in legge di ddl ritenuti essenziali per l’attuazione del programma di governo (quale?), ma anche, e soprattutto,
determinare
le condizioni per il graduale smantellamento del nostro sistema democratico, favorendo la (evidentemente prevista) svolta autoritaria del governo del nostro Paese.
(ricordiamo i vari espedienti, ai quali è ricorso l’Esecutivo, per modificare a proprio vantaggio il testo legislativo, come i maxiemendamenti e i “canguri” cosiddetti ghigliottine).
Riferiamoci anche all’elezione del Presidente della Repubblica. Nella riforma di Renzi, solo i parlamentari sono grandi elettori, che si riuniscono per eleggere il Presidente. Sono previsti quattro scrutini, con un quorum pari a 2/3 dei voti espressi nell’Assemblea riunita, fra i quali sono determinanti quelli della Camera, in cui, grazie all’Italicum, prevale la maggioranza di un solo partito. Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei 3/5 dei votanti. Dunque il partito premiato dall’Italicum potrebbe da solo votare per eleggere il “suo” Presidente.
Osserviamo la riforma dello strumento di democrazia diretta, il Referendum, proposta con l’aumento a 800.000 firme di richiedenti, come soglia minima, affinché il Referendum possa essere indetto, invece delle 500.000 attualmente previste.
Nonché le proposte di legge di iniziativa popolare, previste dall’articolo 71 della Costituzione, che, riscritto, innalza il numero delle richieste da 50.000 a 150.000 quale soglia minima necessaria a sottoporre la proposta di legge popolare o petizione alla discussione e alla deliberazione parlamentare.
E infine, ricordiamo che la riforma permetterebbe ad un partito, minoritario nel Paese, e maggioritario alla Camera, grazie all’Italicum, di nominare oltre la metà dei membri della Corte Costituzionale.
Dunque, un NO forte e deciso, per garantire il rispetto del Nostro Popolo e salvaguardare quanto ancora rimane della Nostra Libertà.
I continui fallimenti diplomatici rendono sempre più difficile una conclusione del conflitto; ignorato, finora, l'esperimento della costituzione promulgata nel Rojava
Ammesso che ci sia ancora bisogno di dimostrazioni, gli oltre cinque anni di conflitto in Siria, come le guerre che si sono susseguite dalla metà del secolo scorso, hanno reso evidente che gli esiti degli interventi di una coalizione internazionale a guida unica non sono meno nefasti di quelli delle operazioni militari a più teste. Una delle principali ragioni di queste disfatte è la sistematica mancanza di considerazione degli interessi delle popolazioni coinvolte. Inoltre, rispetto al contesto monopolare a guida statunitense delle “guerre umanitarie”degli anni Novanta e Duemila, nell'ultimo decennio l'assetto mondiale sta mutando, lasciando emergere almeno altre due potenze concorrenti, ossia Cina e Russia. L'impossibilità di imporre un'unica visione del Medio Oriente è appunto una delle cause del protrarsi indefinito del conflitto in Siria, ma solo perché simili cambiamenti geopolitici, invece di favorire una democratizzazione dell'ordine mondiale, sono sfociati nello scontro di più pensieri unici.
Al contempo causa e conseguenza delle catastrofi delle “guerre umanitarie” o “preventive” è l'impotenza degli organismi sovranazionali come l'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), o l'Alleanza atlantica (NATO), anche perché sono espressione di un mondo “bipolare”, diviso nelle sfere di influenza di Stati Uniti e Unione Sovietica. Queste istituzioni, sorte alla fine della Seconda guerra mondiale, hanno una struttura intrinsecamente dialettica: possono esistere e svilupparsi solo se esistono due poli che si controllano a vicenda. Basti pensare all'atteggiamento della Turchia, in particolare dopo il “fallito golpe” di luglio: alle minime tensioni con Washington, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha immediatamente ripristinato le relazioni diplomatiche ed economiche con Mosca. Considerando anche che la Turchia ha il secondo esercito nella NATO dopo quello degli USA, si può comprendere quanto timore abbia suscitato alla Casa Bianca la sua improvvisa “deviazione”. Occorre poi tener presente che gli USA e l'Unione Europea (come dimostra l'accordo su richiedenti asilo e migranti) contano da decenni sul baluardo turco in Medio Oriente e perderlo in un momento in cui diversi attori si contendono il ruolo di potenza egemone sarebbe un danno.
Tuttavia, una pacificazione stabile e duratura non può essere fondata sulla sottomissione delle popolazioni coinvolte agli interessi delle grandi potenze. È un po' come la storia del patto iniquo di cui scriveva il filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau: voi avete bisogno di me perché io sono ricco e voi poveri; stipuliamo dunque un accordo tra noi: permetterò che abbiate l'onore di servirmi a patto che mi diate il poco che vi resta in cambio del disturbo che mi prenderò dandovi degli ordini. Secondo lo stesso Rousseau, un patto simile, ben lungi dal porre fine ai conflitti ne semina di nuovi, poiché ratifica una condizione di diseguaglianza e ingiustizia. Così, sulle spartizioni coloniali (i cui effetti deleteri sono ancora osservabili) se ne innestano altre più indirette, che rendono sempre più complicata una soluzione autentica. Eppure, nel 2014 le Regioni Autonome di Afrin, Jazira e Kobane, multietniche a maggioranza curda, si sono date una costituzione, sotto la guida del Partito dell'unione democratica (PYD, il principale partito curdo siriano). Questa costituzione è stata chiamata contratto sociale, proprio come quello che proponeva Rousseau nell'opera omonima, e i suoi principi fondamentali sono il diritto all'autodeterminazione, il municipalismo democratico e la pacifica coesistenza delle comunità, tra le quali viene sancita l'uguaglianza. Nel preambolo si legge che l'obiettivo è riconciliare il ricco mosaico siriano attraverso una fase transitoria dalla dittatura, dalla guerra civile e dalla distruzione, verso una nuova società democratica in cui saranno preservate la vita civile e la giustizia sociale.
Nella sede dell'ambasciata palestinese di Roma è stato commemorato Nemer Hammad, il giornalista e diplomatico palestinese, scomparso il 29 settembre scorso (esattamente un giorno dopo Shimon Peres). Hammad fu stretto consigliere politico di Yasser Arafat, tra i suoi principali collaboratori nello storico inizio del processo di pace con Israele (1991- '94), arenatosi poi con l'assassinio di Ytzhak Rabin (1995) e la successiva involuzione della politica mediorientale.
Messaggi di cordoglio per la scomparsa di Hammad sono giunti dal Presidente emerito della Repubblica, Napolitano, dalla Vicepresidente della Camera, Marina Sereni, dal capogruppo socialista alla camera, Pia Locatelli”: Hammad, Peres, Rabin e Arafat avevano tracciato un solco per un futuro di pace nel Medio Oriente: strada che Netanyahu, però, oggi non sembra convinto di percorrere", dal presidente della Fondazione "Italiani europei", Massimo D'Alema, e dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris.
“La storia di Nemer Hammad” ha ricordato Stefania Craxi, presidente della Fondazione Craxi “si è intrecciata fortemente a quella della mia famiglia. Ricordo bene ad esempio, quando, nei giorni terribili del sequestro dell' “Achille Lauro", Bettino Craxi, Presidente del Consiglio, si rivolse proprio a lui ( all'epoca ambasciatore a Belgrado, N.d,.R.) per risolvere lo spinoso problema di Abu Habbas".
"E' stato un grande amico dell'Italia, che ha contribuito fortemente allo sviluppo delle relazioni tra il nostro Paese e il suo popolo. Si può dire, anzi, che nella storia di Nemer Hammad in Italia c'è la metamorfosi politica dei palestinesi” ha dichiarato Pier Ferdinando Casini, presidente emerito della Camera “C’è la storia di come la loro causa, all'inizio minoritaria, è stata poi largamente accettata, invece, dall'opinione pubblica italiana.Senza di lui, forse tutto questo non sarebbe stato possibile".
Nato nel 1941 ad Al-Akri (Acri), in Galilea, trasferitosi con la famiglia in Libano in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1948, Hammad, dal 1974 al 2005, era stato rappresentante dell' OLP, e primo "ambasciatore" palestinese, in Italia; rappresentando poi l' Autorità Nazionale Palestinese anche in Jugoslavia (1984- '86). Molto vicino, dopo Arafat, anche al presidente Abu Mazen, nel 2008 era stato da lui incaricato di riorganizzare tutta la comunicazione palestinese, dalla tv all'agenzia ufficiale d'informazione Wafa.
"Diversamente da quanto spesso accade", ha ricordato Najd Hammad, "la famiglia di mio padre, Nemer, poverissima, aveva preferito farlo studiare, anzichè mandarlo subito a lavorare. In quegli anni così difficili, lui e i suoi amici, a volte, per studiare, addirittura eran stati costretti a mettersi, la sera, sotto i lampioni delle strade".
Nemer Hammad, in effetti, da tutti apprezzato, in Italia, per le sue indubbie qualità umane (intelligenza, ragionevolezza, diplomazia), “Stimato dai nostri principali politici, e specialmente dai grandi leader DC" (sono sempre parole di Casini), svolse il suo incarico in Italia in anni sì difficili, ma in cui i partiti avevano posizioni precise, sul Medio Oriente e altri gravi problemi internazionali. Il suo è stato uno sforzo continuo per facilitare la "lunga marcia" dell'OLP, e soprattutto di Al Fattah, sua componente maggioritaria, verso il rifiuto della violenza e del terrorismo - specie contro i civili - come armi di lotta politica: eliminando il più possibile ambiguità e zone d' ombra. Quando egli arrivò in Italia, i palestinesi non erano certo ben visti dall'opinione pubblica, dopo il tragico massacro compiuto da "Settembre Nero" alle Olimpiadi di Monaco del 1972 .
Hammad mise tutto il suo impegno per evitare che l’Italia divenisse un campo di battaglia fra fazioni armate. «L’attacco dei terroristi di Abu Nidal alla sinagoga di Roma e poi all’aeroporto di Fiumicino (ottobre 1982 e dicembre 1985. N.d.R.) fu un colpo alle nostre spalle, collaborammo con i servizi italiani" avrebbe raccontato, molti anni dopo quei fatti, in un'intervista a un quotidiano italiano "Un anno dopo identificammo tre terroristi a Roma che preparavano un attentato, lo segnalammo ai servizi che li arrestarono...Noi volevamo evitare l’equazione palestinesi=terrorismo, eravamo le prime vittime di Abu Nidal”: l' ambiguo leader palestinese, dissidente da Arafat, che in quegli anni uccise sei ambasciatori palestinesi in Europa, compreso, nel 1978, il fratello di Hammad, rappresentante dell' OLP a Parigi. "Nel 1991, poi" ha ricordato il giornalista RAI Alberto La Volpe ( curatore, nel 2002, del "Diario segreto" di Nemer, pubblicato da Editori Riuniti) “Hammad, in Italia, condannò chiaramente l'invasione irachena del Kuwait: diversamente da Arafat, schieratosi, invece (per il probabile timore di perdere consensi alla base, N.d.R.) con Saddam".
Hassan Sala, segretario di Al-Fattah per l'Italia, ha ricordato la lungimiranza di Hammad: “In anni difficili come gli '80, lui aveva idee nuove. Ad esempio, parlare tranquillamente con gli ebrei, almeno qui in Italia"; Salameh Ashour, presidente della Comunità palestinese di Roma e del Lazio, sottolinea il suo grande equilibrio personale, che non si faceva mai vincere dall’emotività: "Proprio durante la guerra del Libano del 1982, quando furono assassinati anche palestinesi in Italia, fu lui a spingermi a partecipare a un incontro con esponenti della cultura ebraica, al quale ero stato invitato da ambienti molto vicini a Papa Wojtyla".
"Fu grazie anche a Nemer, infine" ha ricordato Luisa Morgantini, presidente di Assopace Palestina, "che nel 1980, al vertice di Venezia, la CEE si pronunciò per la prima volta ufficialmente a favore della causa palestinese ( a questo contribuì fortemente anche l' Internazionale socialista: che in quegli anni, quando Arafat e i suoi eran considerati, dall'opinione mondiale, poco piu' che dei terroristi internazionali, con uomini come il cancelliere austriaco Bruno Kreisky e il leader dell'SPD Willy Brandt, si adoperò per far conoscere adeguatamente i termini della questione palestinese. N.d. R.) Oggi, il modo migliore per proseguire la sua battaglia è premere sul nostro Governo perchè riconosca finalmente, senza ambiguità, lo Stato palestinese: basta col dover continuamente piangere morti tra i palestinesi e i civili israeliani".
Lo confesso: il tanto atteso incontro-scontro televisivo Renzi-Zagrebelsky è stato per me fonte di grande sofferenza. E così, credo, anche per molti cittadini, per tutti quei cittadini, cioè, che amano il vero e odiano la finzione.
La sofferenza mi è stata procurata dal trovarmi spettatore di una scoppiettante esibizione del Presidente del Consiglio del nostro Paese, costruita con abili mosse retoriche, ostentate mimiche facciali, artifizi sofistici, continue, insistite, logoranti interruzioni, improvvise deviazioni del discorso, irritanti falsi inchini di fronte all’autorevolezza del proprio interlocutore, ecc ...
Lo spettacolo ha assunto spesso tinte surreali: da una parte c’era chi esponeva pacatissimamente e lucidissimamente le proprie riserve in merito alla proposta governativa di modificazione della Carta costituzionale, analizzando, spiegando, ragionando. Dall’altra, c’era tutta una sarabanda incessante di finti stupori, di accorate delusioni, di celebrazioni del proprio operato, di frecciate denigratorie verso i pentastellati, di punzecchiature velenose verso il malcapitato professore, sempre più imbarazzato e desolato, a volte sconcertato.
Non so quanto i telespettatori siano riusciti a chiarirsi le idee in merito ai reali contenuti e alle possibili implicazioni e conseguenze politiche della riforma costituzionale su cui presto saremo chiamati a pronunciarci.
Per quanto mi riguarda, non ho modificato le mie opinioni. Trovavo inaccettabile detta riforma prima, continuo a trovarla inaccettabile ora. Soprattutto per il motivo (a mio avviso gravissimo) che essa non nasce dal concorso di un’ampia convergenza di forze politiche, né da uno schieramento parlamentare in grado di rispecchiare fedelmente le posizioni politiche maggioritarie del nostro elettorato.
Ed esco offeso e ferito dall’aver assistito a uno spettacolo irritante quanto amaro: ancora una volta la dialettica densa di conoscenza e di pensiero ha finito per essere messa sfrontatamente in un angolo dall’arrogante retorica dei paralogismi. Ovvero, quello che poteva essere, per tutti noi, un momento prezioso di crescita culturale e civile, trascinato sul piano di un insopportabile teatrino dove ha la meglio non chi ha più cose da dire ma chi riesce a non farle dire, non chi ragiona di più ma chi riesce ad impedire di ragionare ...
Dopo l’era orribile dei tanti Bossi e Tremonti che spernacchiavano quelli che leggono i libri, dopo l’era delle macropromesse e dei trionfalismi berlusconiani, delle Ruby e dei “papi”, dei porcellum e delle corna nelle foto di gruppo, sinceramente, dalla sinistra al potere, ci si aspettava qualcosa di meglio ...
L'accordo tra Russia e USA porta sullo scacchiere siriano una tregua traballante, cui dovrebbe seguire un processo di transizione politica; ma Ankara annuncia di proseguire le sue operazioni contro i “terroristi” e la questione curda rischia di alimentare nuove tensioni
La fragile tregua in Siria è principalmente il frutto di un delicato riassetto delle relazioni che interessano il Medio Oriente e le sue potenze regionali, attuali o aspiranti. Ed è proprio questo uno dei fattori che potrebbero determinarne il fallimento. Da un lato la Turchia esercita pressioni per le dimissioni del presidente siriano Bashar al-Assad, ma ha come priorità di evitare che l'alleanza tra Washington e il curdi siriani per combattere i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (Daech) diventi per i curdi siriani e soprattutto per i curdi turchi uno strumento per avanzare richieste di autonomia, o peggio di indipendenza. Dall'altro c'è la Russia, che con l'Iran è tra gli alleati storici di Assad, e considera Daech come minaccia anche interna, dato il pericolo rappresentato dal ritorno dei foreign fighters. La maggior parte delle persone arrestate a seguito degli attentati rivendicati da Daech in Turchia è di provenienza cecena o più generalmente caucasica, come anche lo stretto collaboratore del “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, il georgiano Abu Omar al-Shishani, ucciso lo scorso luglio in Siria. Quanto agli Stati Uniti, che a livello diplomatico sostengono i cosiddetti “ribelli moderati”, sul fronte siriano sono alleati delle Unità di protezione popolare (YPG), falange armata del Partito di unione democratica (PYD) dei Curdi siriani, escluso dai negoziati di Ginevra. Un atteggiamento che ha provocato tensioni con Ankara, che considera le YPG formazioni terroristiche, al pari del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), che continua a essere uno dei bersagli privilegiati della repressione e della propaganda del governo.
La debole tregua, ottenuta dopo lunghi e difficili negoziati, arriva infatti in un momento in cui il peso della Turchia nell'assetto regionale è aumentato in modo esponenziale. Un elemento importante, se si considera che già tre anni fa Ankara ha lanciato diverse campagne aeree sulle montagne del Qanadil, in territorio iracheno, senza ricevere moniti seri dalla comunità internazionale. Se il vertice dell'Alleanza atlantica (NATO) di Antalya del maggio 2015 le aveva conferito un importante ruolo “logistico”, le recenti distensioni con la Russia e la possibilità di un asse economico tra i due paesi basato sul progetto del gasdotto Turkish Stream, ne hanno fatto un un importante attore nei conflitti mediorientali. Ciò le ha consentito di inviare truppe di terra in Siria, ufficialmente impegnate contro i cartelli del jihad ma, secondo osservatori locali, mandate a evitare che le formazioni curde siriane possano consolidare il loro controllo del Rojava. A prescindere dall'obiettivo, il loro intervento ha reso ancor più difficile una cessazione delle ostilità, presupposto necessario di una soluzione politica. Eppure da NATO, Russia, USA, Unione Europea nessun tentativo di dissuasione. Infatti, il Governo regionale del Kurdistan (KRG), in Iraq, è stata finora l'unica entità politica in grado di fronteggiare in modo efficace l'avanzata di Daech oltre alle YPG. A Erbil, capitale del KRG, in molti parlano di diritto all'autodeterminazione, fino a prevedere un referendum in un imminente futuro. Intanto, nel Kurdistan siriano, nel marzo 2016 viene proclamata una regione federale nella regione di Rojava, con l'unificazione dei tre cantoni di Afrine, Kobane e Jazire. Tiepida la reazione della Russia, che tra le varie opzioni per la transizione politica immagina anche una soluzione di tipo federale. I primi a opporsi, invece, sono il regime siriano e le opposizioni, le uniche forze rappresentate ai negoziati di Ginevra, ma anche Turchia e USA.
L'indifferenza ufficialmente ostentata dalle diplomazie internazionali, ad esempio di Turchia e USA, ma in parte anche Russia, rischia dunque di aprire un nuovo conflitto regionale sulla questione curda, che coinvolgerebbe Iraq, Siria, Turchia e Iran. Inoltre, ignora deliberatamente l'esperimento istituzionale avviato dal PYD nella regione di Rojava, che potrebbe essere un'interessante proposta di democratizzazione non solo in Medio Oriente. La teoria politica di riferimento è il municipalismo libertario teorizzato dal filosofo statunitense Murray Bookchin, alternativo al modello dello stato-nazione, che in alcune regioni si è rivelato inadeguato: un sistema di comunalismo democratico basato sulle assemblee popolari, organizzate secondo il principio della democrazia diretta. A gennaio 2014 questa regione si era dotata di una sorta di bozza costituzionale, redatta nella forma di un contratto sociale (https://peaceinkurdistancampaign.com/charter-of-the-social-contract/). Uguaglianza di genere, etnia, religione, rispetto delle autonomie, giustizia sociale. Progetto ambizioso, soprattutto in una regione devastata dai conflitti, ma che esprime una volontà di autodeterminazione di cui la comunità internazionale non può non tener conto. Chissà che non sia Rojava il prossimo esportatore di democrazia, magari con la dialettica anziché con le armi.
Se la campagna presidenziale americana diventa una scelta tra la libertà di espressione e la tutela della dignità della persona.
La notizia dell’endorsement di fatto di Clint Eastwood per Donald J. Trump Presidente ha fatto il giro del mondo.
The 86-year-old four-time Oscar winner, durante un’intervista alla rivista Esquire, ha dichiarato di preferire il candidato repubblicano come prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America (per leggere l’intervista http://www.esquire.com/entertainment/a46893/double-trouble-clint-and-scott-eastwood/).
…Parole chiare per Clint!
Trump è sul pezzo (così forse potremmo tradurre correttamente he's onto something, letteralmente “lui è su qualcosa”) perché, secondo Eastwood, ha preso atto che parte dell’opinione pubblica è stanca del political correctness: è per questo che viene “apprezzato”.
Ricorda che When he grew up nessuno si sarebbe sognato di dire, così facilmente come ora, a una persona che è razzista per il solo fatto di aver espresso un legittimo dubbio (fa riferimento alla vicenda relativa ad alcune dichiarazioni di Trump su un giudice di origine messicana).
In sostanza, Eastwood rifiuta la pussy generation nel quale gli U.S.A. stanno vivendo anzi, ritiene che questa kiss-ass generation è un momento triste per la loro storia.
Che cos’è la pussy generation? chiede il Direttore della rivista.
«Tutte queste persone che ti dicono “Oh, non puoi fare questo, non puoi fare quell’altro e non si può dire quello”. Io credo che questi sono i tempi in cui ci troviamo».
Su Hillary Clinton ammette che potrebbe essere una “dura” ma che ha deciso di seguire le orme di Obama, quindi non ritiene di appoggiarla.
La notizia dovrebbe lasciare il tempo che trova, essendo la celebrated star of “The Good, the Bad and the Ugly” un repubblicano convinto da tempo.
Ciò nonostante, le sue dichiarazioni possono accendere, a mio avviso, una riflessione molto importante che sembrerebbe non sia stata tenuta in considerazione dal dibattito politico americano e internazionale.
Mi riferisco alla secolare disputa tra due principi fondamentali delle moderne democrazie occidentali, e segnatamente a quella tra la libertà di espressione e la tutela della dignità della persona.
Oggi più che mai, con lo sviluppo dei mass media e dei social network, l’incontro e lo scontro tra questi due principi è costante, continuo, mai interrotto. Oggi più che in passato la giurisprudenza e la dottrina sono chiamate a stabilire quale dei due principi debba prevalere.
Il bilanciamento a favore dell’uno o a favore dell’altro non è mai scontato. Tuttavia, è possibile affermare, in via generale, che gli ordinamenti di Common Law tendono a favorire una maggiore applicazione del principio di libertà di espressione al contrario di quanto succede negli ordinamenti di Civil Law dove la tutela della dignità della persona è un principio che limita quasi sempre quello della libertà di espressione (ovviamente ci sono le eccezioni).
Le motivazioni di queste scelte risiedono indubbiamente nella storia dei Paesi interessati (per citarne alcuni: USA, Gran Bretagna da una parte, Italia, Francia e Germania dall’altra) e nell’analisi della giurisprudenza delle proprie Corti Costituzionali.
Negli Stati Uniti d’America la libertà di espressione in ogni sua forma è sancita nella Carta Costituzionale dal 1° Emendamento (ripreso poi nel Bill of Rights):
Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances.
Il principio di freedom of speech, or of the press è l’architrave del sistema giuridico e politico statunitense. “James Madison, padre della patria americana e coautore del Federalist con Hamilton e Jay, ne spiegò il principio sottostante in questi termini: nella forma di governo degli Stati Uniti, fondata sulla sovranità popolare, «the censorial power is in the people over the Government, and not in the Governement over the people»[1]”.
Si tratta di un principio che fonda l’intero ordinamento costituzionale, l’intero Stato americano: la libertà di espressione equivale a dire che la sovranità appartiene al popolo.
Ciò posto, secondo Eastwood negli States di questi tempi non si può parlare liberamente. In coerenza con quanto ritiene e in modo palese sceglie Trump perché il candidato repubblicano dice what’s on his mind anche se sometimes it's not so good o addirittura se dice a lot of dumb things.
Eastwood, da “vero” americano (?), difende la libertà di espressione e probabilmente vede nel candidato repubblicano alla Casa Bianca colui il quale, una volta eletto Presidente, potrebbe maggiormente garantire e tutelare tale principio.
Hillary Clinton, invece, viene osservata come la naturale prosecutrice delle politiche Obamiane, caratterizzate da una maggiore attenzione verso le minoranze e le fasce deboli della società americana[2] : ergo una politica orientata alla tutela della dignità della persona.
E’ così?
Direi di no. Non tutte le leggi adottate da Obama, ovviamente, erano dirette in favore dei più deboli o comunque per la tutela della dignità della persona né lo saranno, probabilmente, quelle della Clinton.
Del pari, non saranno “un sacco di cose stupide” dette da Trump a poter stabilire che, qualora eletto, questi attui politiche a tutela della libertà di parola e di stampa, ovvero che non ponga in essere iniziative in favore della dignità della persona.
Per concludere, ciò non toglie la possibilità che l’idea della star possa essere ritenuta corretta da moltissimi altri elettori, soprattutto nell’ambito di una campagna elettorale dove contano più gli slogan che i contenuti programmatici e politici (n.b. quello di Trump è per l’appunto “I am Your Voice” - “Make America Great Again”).
E in tal senso, vista la sensibilità del popolo americano alla libertà sancita dal primo emendamento, le probabilità di vittoria per Trump risulterebbero concrete.
A ciò si aggiunga che la spregiudicata campagna elettorale del miliardario newyorkese non sembra incontrare un’efficace risposta dalla Clinton che, sebbene proponga questioni politiche rilevanti e forse più realistiche (rivolte maggiormente in favore delle nuove generazioni di cittadini americani?), non dispone, a mio avviso, di quella eccezionale capacità comunicativa del suo illustre predecessore, Barack Obama.
Yes we can…again? Agli elettori americani la decisione.
[1] DE CAIRA Riccardo, La libertà di espressione negli Stati Uniti d’America, Rivista trimestrale di diritto pubblico, Giuffré Editore, 2010
[2] E’ chiaro che i nessi qui proposti possono essere considerati semplici e generici. Tuttavia, si può accettare il fatto che Obama viene rappresentato dalla pubblica opinione come un politico attento ai più deboli. Con riferimento alla Clinton si può evidenziare che in campagna elettorale abbia più volte sostenuto di voler attuare politiche per uno Stato più inclusivo e giusto e in favore della middle class, proseguendo, quindi, almeno a parole, alcune delle politiche tanto care a Obama.
In questo momento, la democrazia in Brasile è minacciata fortemente, sulla base di un impeachment illegale della presidente Dilma Rouseff.
La accusa è di aver praticato "pedaladas fiscais", pratica comune fatta in diversi governi precedenti, da governatori di diversi stati brasiliani e che mai, precedentemente sono stati inquisiti.
Di recente, alcune perizie promossa dal senato e dal ministero pubblico federale, hanno dimostrato che in realtà, non è esistita nessuna irregolarità.
Il 19 luglio, è stato istituito a Rio de Janeiro, un tribunale internazionale, sul modello del tribunale dell' AIA, per i diritti, dove hanno partecipato diverse autorità che operano nel settore della tutela dei diritti umani, e all' unanimità, la presidente Dilma è stata riconosciuta innocente.
Non esistono prove che la incriminano, vogliono allontanarla per garantirsi l' immunità.
Dilma è stata la politica che ha dato la più grande autonomia per investigare sui crimini legati alla corruzione nella storia del paese.
Il governo illegittimo Michel Temer sta distruggendo in tempo record tutto quanto fatto in precedenza come, per esempio, i benefici sociali raggiunti dai governi precedenti, cercando di attuare un programma neo liberale e ultra conservatore, non approvato dalla popolazione brasiliana.
La stampa mondiale ( le Monde, El país, Der spiegel, the guardian, Washington post, the new York time, al Jazeera, the intercept e molti altri, hanno dimostrato grande interesse nel verificare lo stato reale delle cose, e hanno pubblicato regolarmente articoli in relazione al golpe in corso.
Il popolo brasiliano sta ricevendo crescente attestati di solidarietà, da diversi parlamentari di tutto il mondo ( paese europei, America latina, Stati uniti, Parlamento europeu, ONU e tanti altri) che dimostrano preoccupazione in merito alla crisi democratica brasiliana, giudicata un colpo di stato.
Purtroppo la stampa brasiliana si sta rendendo protagonista di un processo di disinformazione sociale, ovvero non informa i brasiliani secondo il manuale del giornalismo autonomo e independente,facendo da esempio a tutti i giornalisti indepenti, blogs , e ai social media.
Per questo motivo, pensiamo che sia di fondamentale importanza poter contare sul vostro lavoro, per dimostrare in maniera imparziale alla comunità italiana ciò che sta realmente avvenendo in Brasile.
Secondo il ultimi sondaggi, il 70% della popolazione non approva l' operato del signore Temer, un esempio ci viene anche da quanto è avvenuto all'inaugurazione delle olimpiadi del 5 agosto, quando il giorno prima la torcia olimpica è stata spenta dalla popolazione in rivolta contro il golpe.
Il mese di agosto, come anche il periodo precedente all ' allontanamento della presidente Rouseff, sarà un mese di lotta a favore della democrazia, in tutto il Brasile e in tanti altri paesi del mondo, le manifestazioni sono denominate " fora Temer" e " Volta querida".
I movimenti sociali democratici porteranno nuovamente milioni di persone nelle strade , sia in Brasile che all ' estero, dove stiamo organizzando delle attività in almeno venti città.
Siamo sicuri che la comunità italiana non resterà indifferente a quanto sta accadendo , ed abbiamo la certezza che quello che stiamo denunciando sia di grande importanza anche per il popolo italiano.
Siamo a dispozicione per fornire maggiori informazioni e confidiamo nella vostra profissionalita, e nel valore dell vostro lavoro, affinché questi eventi non passino inosservati in Italia, in nome della democravia brasiliana
Brasiliani in Italia contro il Golpe
Responder Responder a todos Encaminhar Mais
Clique para Responder, Responder a todos ou Encaminhar
Dall'inizio di agosto, gli Stati Uniti hanno rafforzato il loro impegno sul quarto fronte della guerra dichiarata ai cartelli del jihad oltre ad Afghanistan, Iraq e Siria; ma i fattori di divisione più preoccupanti vengono dall'interno dell'Alleanza Atlantica
Dalla morte del colonnello Muammar Gheddafi, il cammino della Libia verso l'instaurazione di uno stato di diritto, e persino verso l'instaurazione di uno stato, si può a buon diritto definire un'Odissea. Odyssey Dawn era il nome dato da Washington alle operazioni militari del 2011, nelle quali un ruolo importante fu giocato da Francia e Gran Bretagna. L'intervento, che ufficialmente avrebbe dovuto proteggere i civili da Gheddafi spianando la via al processo democratico, ha finito per destabilizzare l'intera regione, come dimostra il colpo di stato in Mali del 2012. In Libia, intanto, le milizie un tempo artificialmente alleate per rovesciare il regime, non trovano un accordo: il conflitto si polarizza gradualmente e si arriva alla formazione di due governi rivali, l'uno con sede a Tobruk e riconosciuto dalla comunità internazionale, l'altro con sede a Tripoli e vincitore delle elezioni del 2012. Dall'inizio del 2015 gruppi islamici che si proclamano affiliati ai cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (Daech) iniziano a prendere il controllo di alcune aree, in particolare a Sirte e Derna. Tutto questo malgrado la presenza in territorio libico (non sempre dichiarata) di truppe speciali statunitensi, britanniche, francesi e italiane. E malgrado l'imposizione, di fatto, da parte della comunità internazionale di un governo di accordo nazionale (GNA), non votato da nessuno dei due parlamenti rivali e non riconosciuto dai due rispettivi presidenti.
Nel 2016 Washington ha messo in atto un piano, con l'obiettivo dichiarato di sostenere il governo di accordo nazionale, favorire la stabilizzazione e combattere i gruppi affiliati a Daech. Anche questa nuova serie di operazioni, coordinata dalla AFRICOM (comando delle truppe USA in Africa) fa riferimento all'Odissea, ma si articola in tre fasi. La prima, Odyssey Resolve, avviata all'inizio di quest'anno, comprende voli di ricognizione e supervisione congiunti a operazioni di intelligence; con la seconda, Junction Serpent, subentra la raccolta informazioni su “eventuali” bersagli da colpire, magari su richiesta del GNA e sotto la copertura della risoluzione ONU 2259 del 2015. I raid contro questi bersagli, infine, fanno parte della terza fase Odyssey Lightning: bombardamenti di supporto all'assedio di Sirte (città natale di Gheddafi, ultimamente sotto il controllo dei cartelli del jihad) da parte dell'esercito che fa riferimento al GNA. Un intervento controverso, definito illegale sia dal governo di Tripoli che dall'ambasciatore russo in Libia, ma soprattutto una mossa rischiosa, visti i risultati delle operazioni internazionali degli ultimi decenni. Come ha osservato il generale Sean MacFarland, comandante USA in Iraq, i successi militari non indeboliscono Daech, ma ne determinano la riorganizzazione in altri luoghi o secondo diverse modalità, come, ad esempio, l'adozione di tattiche di guerriglia. È quanto accaduto ad al-Qaeda in Afghanistan, mentre in Iraq, Siria e Libia i cartelli del jihad sono stati un “rifugio” di molti ex sostenitori dei regimi rovesciati.
Concentrando gli sforzi sulla guerra dichiarata al terrorismo, la comunità internazionale sembra dimenticare che non è questo il principale problema della Libia, ma l'assenza di uno stato e l'estrema difficoltà di fondare istituzioni in grado di gestire il paese. Inoltre, lo stesso aggrava le tensioni internazionali, acuite dagli ultimi sviluppi della situazione politica (e militare) in Turchia e dal recente riavvicinamento tra Ankara e Mosca, essenzialmente economico ma ricco di ripercussioni sul piano geopolitico. Tensioni che si riflettono in conflitti che, sia in Medio Oriente che in Libia, vengono portati avanti da numerosi gruppi che si contendono il controllo di un territorio e hanno, ciascuno da solo o con alleanze posticce, reti di alleanze a livello internazionale. È emblematico il caso del generale libico Khalifa Haftar, che nel 2014 ha lanciato l'operazione “dignità” nell'Est del paese, ufficialmente contro le milizie islamiche, e nel marzo 2015 ha guidato un'offensiva militare per “liberare” Tripoli dai combattenti di Fajr Libia, coalizione di gruppi islamici. Comandante dell'esercito durante il regime di Gheddafi, dopo la sua caduta Haftar ha ottenuto il sostegno di Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed è sospettato di avere legami con l'intelligence USA. Infine, lo scorso aprile, guidando una campagna per sottrarre Benghasi e, nelle intenzioni, Sirte da Daech, è arrivato anche il sostegno della Francia. Il suo peso politico in Libia, che va ben oltre la sua carica ufficiale di comandante dell' “esercito nazionale” e ministro della difesa del governo di Tobruk, rappresenta un ostacolo quasi insormontabile per il GNA.
Gli intrecci di alleanze che si sono avvicendati e sovrapposti dopo la fine della guerra fredda si stanno rivelando come altrettanti fattori di destabilizzazione. Si pensi ai privilegi di cui gode l'Arabia Saudita, importante esportatore di petrolio ma anche baluardo contro l'influenza iraniana in Medio Oriente. Il rapporto della Commissione congiunta di inchiesta statunitense, costituita immediatamente dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, oltre a sostenere la possibilità (pur precisando la necessità di prove, quindi di ulteriori ricerche) di contatti tra gli attentatori e “individui connessi al governo saudita”, evidenzia la scarsa collaborazione di Riyadh e il suo rifiuto di condividere informazioni su persone sospette e indagate dall'FBI, in quanto persone a conoscenza di segreti riguardanti la sicurezza nazionale. Nello stesso rapporto (secretato dall'ex presidente USA George W. Bush) si legge, peraltro, che l'FBI non aveva individuato queste reti di contatti prima degli attentati proprio in virtù dell'alleanza tra USA e Arabia Saudita. Ultimamente, poi, è la Turchia a suscitare tensioni. Dopo il “golpe fallito”, il comportamento del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha provocato in Europa dure reazioni, mentre le pressioni di Ankara su Washington per l'estradizione del predicatore islamico Fethullah Gülen hanno aperto un pericoloso contrasto con gli USA. Eppure la NATO ha reso la Turchia (seconda potenza militare dell'alleanza dopo gli USA) indispensabile nella “guerra al terrorismo”, anche se il principale obiettivo turco in Siria sono i Curdi del Partito di Unione Democratica più che i cartelli del jihad. Dal canto suo, l'Europa ha reso la Turchia indispensabile nella gestione del flusso dei profughi dalla Siria, arrivando persino a definirla “paese sicuro”, dimenticando i bombardamenti continui nelle regioni a maggioranza curda. A volte gli alleati possono rappresentare una minaccia più grave dei nemici stessi.
Che il tentativo di colpo di stato del 15 luglio rappresenti un punto di svolta nella storia della Repubblica turca, è certo; ma la pista del golpe “autodiretto” potrebbe essere più una speranza che una soluzione, mentre l'ipotesi del golpe fallito suscita preoccupazioni sul futuro della Turchia, paese membro della NATO e importante tassello nello scacchiere regionale
Per analizzare le ipotesi avanzate da esperti e osservatori sul “golpe fallito” del 15 luglio, può essere utile risalire al punto di partenza della parabola ascendente del presidente Recep Tayyip Erdoğan: l'alleanza con i Fethullahçı, seguaci del predicatore Fethullah Gülen, il cui movimento, nato negli anni '80, ha guadagnato progressivamente terreno nei settori chiave della società: istruzione, soprattutto privata, scuole coraniche, moschee, accademie di polizia. Al punto che nel 2010 è stata vietata la pubblicazione dell'Esercito dell'Imam, saggio sulle “infiltrazioni” del movimento di Gülen nella società e nelle istituzioni turche: le bozze sono state distrutte e l'autore, il giornalista Ahmet Şık, condannato a un anno di carcere. Sono stati i Fethullahçı infatti a permettere al Partito giustizia e sviluppo (AKP) di Erdoğan di vincere le elezioni del 2002, anche se Gülen era già in esilio volontario negli USA dal 1999. Da allora il primato dell'AKP è sempre più solido, un fenomeno che potrebbe destare perplessità in un paese la cui costituzione prevede esplicitamente che l'esercito, costruito da Mustafa Kemal Atatürk sul modello giacobino, intervenga in caso di minaccia per i “valori kemalisti” (quindi, tecnicamente, se ad attuarlo sono i militari non si dovrebbe neppure parlare di “golpe”), pilastri della costituzione patria del 1924: primo fra tutti, la laicità dello Stato.
Eppure, già prima di Erdoğan, a puntare sull'islamizzazione della società era stato il generale Kenan Evren, autore del golpe del 1980, secondo alcuni caldeggiato o addirittura sostenuto dagli Stati Uniti per costruire un baluardo turco in un Medio Oriente in pieno riassetto geopolitico dopo la rivoluzione dell'ayatollah Khomeini in Iran, nel 1979, e per impedire l'ascesa delle forze della sinistra, che avrebbero potuto stabilire una “pericolosa” alleanza con i kemalisti. Insomma, dell'intervento in difesa dei valori repubblicani e laici c'era solo l'aspetto: il governo di Turgut Özal, controllato dai militari, ha adottato infatti una linea politica concentrata sulla privatizzazione e liberalizzazione dell'economia e sulla “tolleranza” delle confraternite religiose, due elementi contrari alla politica kemalista, ma utili per debellare i movimenti di sinistra. In particolare, hanno favorito l'ascesa di una nuova borghesia, mentre la fondazione di scuole religiose (perlopiù private) ha spianato la via alla nascita di una borghesia islamica. È qui che è nato il movimento di Gülen. Prima prezioso alleato, poi avversario pericoloso per Erdoğan, sempre per lo stesso motivo: la sua presenza radicata nel tessuto sociale. Un ostacolo che il presidente turco ha cercato di superare espugnando gradualmente tutte le sue roccaforti: in questo quadro andrebbe letta l'organizzazione da parte di Erdoğan della rete dei mukhtar (rappresentanti di quartiere o di piccoli centri urbani, eletti alle amministrative tra i non iscritti a partiti politici), nel 2015, con il pretesto della lotta al terrorismo, ma in realtà per ottenere un maggior controllo della società.
La rottura ufficiale tra Erdoğan e Gülen risale al 2013, quando il ricco predicatore (che intanto aveva espanso la sua rete di scuole in tutto il mondo, soprattutto negli USA) ha aspramente criticato la brutale repressione del governo turco delle proteste di Gezi park. Una buona occasione per Erdoğan per disfarsi del suo antico alleato in un momento di forza. Infatti, già nel 2007 l'AKP era riuscito a far eleggere presidente della repubblica Abdullah Gül, e, al contempo, a indebolire gradualmente il peso politico dell'esercito, fino ad arrivare al successo del referendum costituzionale del 2010: uno degli emendamenti proposti prevede che i militari accusati per tentativi di golpe siano giudicati da tribunali civili. Nel 2007, intanto, sono iniziati i maxi-processi a presunti membri di Ergenekon, una struttura parallela di Stato nata in piena guerra fredda sul modello di Gladio, che negli anni '70 in Turchia ha innescato la spirale di violenze politiche sfociata nel golpe del 1980. Tra le inchieste avviate c'è quella sul presunto piano Balyoz (ordito, secondo l'accusa, dai militari per rovesciare il governo dell'AKP), che nel 2014 la Corte costituzionale turca ha definito una montatura, annullando le precedenti sentenze di condanna.
Secondo diversi osservatori lo scandalo di corruzione che ha investito l'AKP e la stessa famiglia di Erdoğan alla fine del 2013 sarebbe stato scoperto (o costruito) dalla magistratura controllata dai Fethullahçı, per indebolire il presidente turco. Se fosse vero sarebbe stato un flop, anche perché l'AKP era in piena ascesa, nel mondo arabo, per la reazione all'incidente della freedom flotilla del 2010, in Occidente per il sostegno di Ankara all'Esercito siriano libero e per la creazione della Coalizione nazionale siriana, nata nel 2012 e dal 2013 con quartier generale a İstanbul. In questo modo Erdoğan ha avuto via libera persino per annullare la dialettica interna al suo partito, come dimostra l'uscita di scena forzata, a maggio, dell'ex primo ministro Ahmet Davutoğlu. Al di là delle conferenze stampa, il pomo della discordia, sia con Davutoğlu che con Gülen, è il progetto di Erdoğan di trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale e la sua scelta di comportarsi come se questo ordinamento fosse già in vigore (che sia questo il vero golpe?). Progetto silenziosamente avallato dall'Unione Europea con l'accordo su migranti e rifugiati e dalla NATO che continua a non poter rinunciare all'esercito di Ankara, il secondo per dimensioni dopo quello statunitense.
Riepilogando, Erdoğan ha iniziato la sua ascesa sulla scia dell'islamizzazione della società favorita dal colpo di stato del 1980, formalmente organizzato e attuato da militari, mettendo a frutto l'eredità politica di Necmettin Erbakan e alleandosi con Gülen, l'unico a potergli garantire una solida base per guadagnare potere limitando il peso politico dell'esercito. Se fosse vero il coinvolgimento di Gülen nel tentato golpe del 15 luglio, sarebbero quindi da spiegare le posizioni lealiste della polizia, visto che quest'ultima è una sua roccaforte, non l'esercito “giacobino”. A meno che Erdoğan non sia riuscito a “purificare” le strutture dello Stato dalla presenza dei Fethullahçı ben prima delle ultime epurazioni. In questo quadro si potrebbe interpretare la forte “pressione” esercitata dal presidente turco sul capo dell'intelligence, Hakan Fidan, cui lo scorso anno ha di fatto impedito di dimettersi (nonostante il parere favorevole dell'allora primo ministro Davutoğlu). Quanto all'ipotesi che sia stato lo stesso Erdoğan a organizzare il golpe fallito per legittimare arresti arbitrari, non sembra che finora Ankara abbia avuto bisogno di pretesti, né per limitare le libertà fondamentali, né per giustificare l'uso della forza (basti pensare alle migliaia di sfollati curdi del Sud-est del paese o al rifiuto della comunità internazionale di affrontare seriamente il caso di Abdullah Öcalan). Se poi fosse stato davvero un tentativo dell'esercito di “salvare” la costituzione patria dal nuovo sultano, il suo fallimento significherebbe il tramonto definitivo della Turchia di Atatürk, uno Stato ma soprattutto una cultura.
15 novembre 2015, Parigi: Bataclan, il concerto della Rockband del momento; 22 marzo 2016, Bruxelles: sala partenze dell’aeroporto ...; 1 luglio 2016, Dacca: cena di chiusura della stagione lavorativa; 14 luglio 2016, Nizza: festeggiamenti in onore della giornata di festa nazionale sul lungomare affollato di vacanzieri; 26 luglio 2016, Rouen: una chiesa violata, un anziano parroco sgozzato....
Azioni terroristiche ....attacchi senza un reale filo conduttore...
Eppure sono “Brandelli di vita quotidiana portati via alla normalità per diventare momenti di paura e di morte...”
Ecco cosa sono gli attacchi terroristici, nulla più di questo...e la religione è solo un pretesto; l’ideologia o la provenienza geografica sono solo illusioni e l’unico risultato è l’ODIO.
Siamo caduti nella trappola della paura e i gruppi che si organizzano per ripulire paesi e città dai cittadini stranieri, musulmani e non musulmani... (in fondo non importa: l’importante è che chiunque è diverso da me, sia cacciato via!!) non sono altro che la negazione della Civiltà, della Democrazia e della Libertà di ogni uomo a sperare in un futuro dignitoso.
Abbiamo passato secoli ad erigere confini tra i popoli, a difendere territori e beni, ad alimentare l’intolleranza e il disprezzo e abbiamo dimenticato che non esistono razze superiori o religioni giuste...esiste, come sosteneva Einstein già nel 1933, soltanto la Razza Umana.
Quando arrivò negli Stati Uniti, anche al grande scienziato Albert Einstein gli impiegati dell'ufficio immigrazione chiesero di indicare su un modulo a quale razza appartenesse. E Einstein spiazzò tutti scrivendo: «umana». Allora sembrò una provocazione: era il 1933 e lo scienziato, fuggiva dalla sua Germania proprio perché erano iniziate le persecuzioni contro gli ebrei come lui.
Eppure aveva perfettamente ragione: gli uomini non hanno razze. O, meglio, la razza umana è una sola, con infinite variazioni al suo interno. Anche quando esprimiamo nobili e sacrosanti propositi, come nelle solenni dichiarazioni «Rifiuto ogni discriminazione per religione, genere, razza...», in realtà stiamo commettendo un errore.
Per fortuna, la scienza si è resa conto che dividere gli uomini in razze è semplicemente un errore. Quello che si può fare è individuare "popoli" o "etnie", cioè gruppi identificati da un insieme di caratteristiche che, nel loro complesso, li rendono unici. Ma non (o almeno non solo) caratteristiche fisiche, come il colore della pelle o dei capelli: decisivo, per identificare un popolo, è riconoscere una cultura comune. Come c'insegnavano gli antichi.
Ma purtroppo non basta cancellare la parola “razza” per cancellare l'atteggiamento di chi insulta le persone che ritiene "diverse" da sé.
E allora dobbiamo essere concreti e interrogarci sugli errori fatti fino ad ora, su come abbiamo gestito i flussi di uomini che, nel corso degli ultimi decenni hanno preferito affrontare i pericoli dei deserti, le insidie del mare, la cattiveria degli sfruttatori e degli aguzzini, per cercare, oltre i confini della propria Patria, una vita dignitosa, lontana dalle guerre, dalla fame e dall’assoluta assenza di libertà.
Quante delle nostre politiche migratorie sono basate sullo studio della Geopolitica, sulla conoscenza delle motivazioni profonde che portano interi popoli a cercare “vita” in terre lontane?
Credo che il massiccio fenomeno migratorio che stiamo vedendo sotto i nostri occhi, meriti una analisi più attenta, più accurata e soprattutto intesa a cercare soluzioni.
Quello che avviene nelle nostre città ha bisogno di una gestione esperta, che tenga conto dei pericoli che sono nascosti nei cittadini immigrati di seconda generazione, che frequentano le scuole dei nostri figli, che occupano posti di lavoro al fianco dei coetanei “nativi” e non certo per trovare ragioni di opposizione, ma piuttosto per cercare punti di incontro, reali scambi culturali e condivisioni.
In fondo esiste una precisa e puntuale normativa che spinge in questa direzione e sono sempre più convinta che la civile convivenza non possa non passare attraverso la reale conoscenza della legislazione, della cultura e delle abitudini del Paese che ci ospita. L’abbiamo visto nei nostri padri, che nel dopoguerra hanno lasciato campagne e abitazioni, per aspirare ad una vita migliore per se e per i propri figli...nulla di strano, dunque, nelle motivazioni di base che portano giovani disperati e numerose famiglie a tendere alla vita (migliore) in un Paese lontano dal proprio!
Ma non possiamo cavalcare la PAURA...questa distruggerà ogni buon proposito e alla fine distruggerà tutti noi!
Il primo segnale concreto, Domenica 31 luglio: una giornata memorabile!
23 mila musulmani sul territorio italiano hanno risposto all’appello del Prof. Foad Aodi, Presidente del Co-mai e del Movimento Uniti per Unire e Focal Point per l’Integrazione in Italia per l’Alleanza delle Civiltà (UNAOC) ed hanno portato il loro saluto a tutte le Chiese di Italia. Il messaggio del Presidente Aodi “Solo con l’unione possiamo far desistere gli assassini delle religioni dalla loro opera di massacro. Siamo stanchi di violenza che non ha Dio e siamo stanchi delle strumentalizzazioni del mondo arabo e musulmano ...”
... ancora il Presidente Aodi rinnova l’invito a tutte le comunità musulmane ad andare “oltre le divisioni di cultura di provenienza, di ideologia politica e di religione per sconfiggere il male comune”.
Questa è l’unica strada possibile!
Nella storia della Repubblica turca, il ruolo dell'esercito è da sempre quello di garante dei princìpi di laicità e ordine pubblico cui si ispirava Mustafa Kemal Atatürk; gli ultimi due colpi di stato militari riusciti, nel 1980 e nel 1997, molto diversi tra loro, sono stati realizzati in momenti di grave instabilità politica: i conflitti armati tra formazioni di destra e di sinistra nel primo caso, una “rischiosa” islamizzazione della società nel secondo
La schiacciante vittoria dell'AKP alle elezioni parlamentari del 2002 ha innescato in Turchia sviluppi politici simili a quelli degli anni '80 e '90, connessi con due colpi di stato militari che, sia pure con modalità diverse, avevano come obiettivi primari la liquidazione delle forze della sinistra e l'imposizione di ordine e stabilità. Quello del 1980, guidato dal generale Evren, aveva favorito l'ascesa di Turgut Özal, un “tecnocrate” incaricato di pianificare imponenti riforme di stampo liberista. Evren, a differenza degli ufficiali che avevano realizzato i colpi di stato del 1960 e del 1971, rigorosamente laici, utilizzava le confraternite religiose, profondamente radicate a livello sociale, senza che queste arrivassero a diventare soggetti politici. Ma dopo la vittoria elettorale del 1983, il partito della Madrepatria (ANAP) fondato da Özal mise in atto la sua vera linea politica: una sintesi di eredità islamica e ottomana, entrambe respinte dalle forze politiche che avevano fondato la moderna repubblica turca, militari e kemalisti (questi ultimi rappresentati dal Partito repubblicano del popolo – CHP).Özal infatti si serviva delle confraternite religiose, allora messe al bando, per assicurarsi un capillare controllo della società, ma a differenza di Evren, permise ad esse di emergere sulla scena politica. A ciò aggiungeva una politica estera pragmatica, filo-statunitense e filo-europea, esemplificata dall'adesione alla prima guerra del Golfo. Unica “concessione” ai nazionalisti laici fu l'istituzione in ogni villaggio di corpi paramilitari per combattere il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).
In tale contesto, si inserì appunto Necmettin Erbakan, che nel 1983 fondò il Partito della prosperità (RP), primo partito islamico turco, con una struttura simile alle confraternite religiose. A differenza di Özal, Erbakan introdusse nella sua retorica politica le aspirazioni dei nostalgici della grandezza ottomana, anti-occidentali e scontenti del liberismo degli anni precedenti: “sviluppo spirituale”, giustizia sociale, lotta alla corruzione, contrasto a “capitalismo, imperialismo e sionismo”. Nella sua ottica, la religione sarebbe stata un efficace collante sociale, utile anche nella soluzione della “questione curda” (molti curdi sunniti vengono cooptati in questo modo). Un ruolo essenziale era giocato inoltre dai legami internazionali dell'RP con le comunità turche all'estero e con i musulmani balcanici e caucasici. Dopo un decennio di marginalizzazione, l'RP ottenne grandi successi all'inizio degli anni '90, talvolta servendosi di alleanze tattiche con l'MHP. Divenuto primo ministro, Erbakan fu però costretto alle dimissioni da un nuovo golpe dei militari, che nel 1997 intimarono al governo di imporre controlli e restrizioni alle formazioni religiose, nel rispetto della laicità sancita dalla costituzione. Erbakan si dimise, il suo partito venne sciolto e dalle sue ceneri, nel 2001, nacque appunto l'AKP.
Memori dell'esperienza di Erbakan, i quadri dell'AKP, in particolare Abdullah Gül e l'allora sindaco di Ankara Erdoğan, hanno tentato una strategia più pragmatica, assegnando il ruolo che in passato era delle confraternite religiose al movimento del predicatore islamico Fethullah Gülen, in esilio volontario negli USA dal 1999, che coniuga da sempre un islam moderato (è stato il primo leader islamico a condannare gli attentati dell'11 settembre 2001) e orientato al sociale, con una politica estera filo-occidentale e filo-europea. Il suo movimento, Hizmet, ha milioni di seguaci in Turchia, soprattutto nella polizia (meno nell'esercito, elemento che ha destato perplessità su un suo possibile coinvolgimento nel tentativo di colpo di stato di quest'anno), nella magistratura, nei media e nell'istruzione, apparati chiave per il controllo di una società. Quindi, se da un lato Erdoğan sperava di volgere a suo favore l'influenza da lui esercitata a distanza, dall'altro ha sempre covato una profonda diffidenza. Dopo una prima rottura nel 2010 (in occasione della spedizione della Freedom Flotilla), la loro fragile alleanza si è infranta nel 2013, quando Gülen condannò la brutale repressione delle proteste di Gezi Park. Emblematico di questo sviluppo è l'imponente inchiesta della magistratura sulla presunta organizzazione eversiva Ergenekon: nel 2013 erano state condannate più di 250 persone, tra cui diversi alti ufficiali dell'esercito (le forze armate, per Erdoğan come in passato per altri leader islamici, sono un settore da controllare, anche servendosi di un alleato “infido” come Gülen), ma la sentenza è stata annullata lo scorso aprile dalla Corte Suprema turca, che ha definito il processo una montatura di settori della magistratura vicini a Gülen. Sempre nel 2013, decine di personaggi legati al governo dell'allora primo ministro Erdoğan sono finiti sotto processo per corruzione, altro episodio che Ankara ha definito un tentativo di golpe da parte dei gülenisti.
Tanto la dinamica del tentativo fallito di golpe da parte di alcune frange dell'esercito turco, quanto il botta e risposta tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il suo ex alleato, ora avversario politico, Fethullah Gülen sono solo alcuni dei sintomi delle lacerazioni che dilaniano la società turca e del difficile equilibrio tra il passato ottomano e l'eredità del padre della patria Mustafa Kemal Atatürk
In alcune delle immagini che mostrano la reazione popolare al colpo di stato del 16 luglio (http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/16/foto/golpe_fallito_in_turchia_la_festa_dei_sostenitori_di_erdogan-144215450/1/?ref=nrct-4#1), si vedono manifestanti esibire il gesto tipico dei “lupi grigi”, formazione laica di estrema destra nota in Italia per la vicenda di Ali Ağca e che ha come referente politico il Partito del movimento nazionalista (MHP). Lo stesso la cui fondazione, nel 1969, ha polarizzato i contrasti politici, sfociati negli anni '70 in conflitti armati e culminati con il colpo di stato del generale Kenan Evren. Un tentativo di riportare “ordine e stabilità” soffocando le forze di sinistra con l'appoggio delle confraternite religiose allora al bando. Lo scioglimento da parte di Evren di tutti i partiti ha finito per favorire, di fatto, la nascita di una forma tipicamente turca di islam politico, alternativa ai Fratelli musulmani nel mondo arabo e alla rivoluzione islamica iraniana e rappresentato oggi dal partito Giustizia e sviluppo (AKP) di Erdoğan. Tuttavia, all'interno dell'MHP, con cui Erdoğan ha rapporti politici opportunistici, è in atto una scissione: la guida storica di Devlet Bahçeli viene messa in discussione dall'ascesa di Meral Akşener, la cui corrente imputa a lui la sconfitta elettorale del giugno 2015 e la perdita di consensi in favore dell'AKP.
La Akşener, che si è distinta negli ultimi decenni per affermazioni imbarazzanti sulla “razza armena” e sulla necessità di liquidare la questione curda manu militari, punta a rendere l'MHP un interlocutore forte, indispensabile per l'AKP, e forse una possibile alternativa ad esso. La scorsa settimana, durante le celebrazioni della festa di fine Ramadan, il contrasto tra le due correnti è sfociato in tafferugli. Divisioni che alimentano un'instabilità mal celata dalle dimostrazioni di forza del governo, che continua a ignorare la frammentazione politica in atto negli ultimi anni. A partire dai risultati delle elezioni parlamentari del giugno 2015, che hanno segnato l'ascesa del Partito democratico dei popoli (HDP), filo-curdo e più volte accusato dal governo di essere il volto politico del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Questo partito da un lato dà voce al malcontento popolare nei confronti della linea repressiva e accentratrice di Erdoğan, dall'altro raccoglie i consensi di quanti vorrebbero una politica più attenta al vero sviluppo economico, alla giustizia sociale, alla parità di genere e ai diritti fondamentali dell'individuo. Molti dei suoi elettori sono gli stessi che nel 2013 hanno organizzato le proteste di Gezi Park, brutalmente represse dal governo, e che lo scorso anno sono scesi in piazza in minigonna per manifestare contro lo stupro e l'assassinio di Özgecan Aslan. Di fronte a simili istanze, l'annullamento delle elezioni (le parlamentari di giugno 2015 sono state nuovamente indette a novembre, dopo il fallimento delle trattative per la formazione di un governo di coalizione) e le continue accuse di “terrorismo”non possono essere una soluzione valida, come non lo sono le alleanze posticce con l'ultradestra nazionalista.
D'altro canto, l'isolamento politico di Erdoğan ha coinciso con una rischiosa deriva islamico-radicale e autoritaria: lo scorso anno il presidente turco (che, occorre notare, agisce come se già fosse stato instaurato il sistema presidenziale) ha interrotto il processo di pace con il PKK e ha imposto nuove elezioni parlamentari dopo la sconfitta di giugno. Non pago della vittoria elettorale del novembre 2015, ha messo a tacere non solo media e giornalisti non allineati, ma anche la dialettica interna alimentata dall'ex primo ministro Ahmet Davutoğlu, uscito di scena lo scorso maggio. A differenza di quest'ultimo, il presidente sostiene infatti una linea accentratrice e basata su un consenso plebiscitario, come dimostra il giro di vite sulle libertà di stampa e di espressione e gli anacronistici tentativi di riforma della “morale pubblica”. In questa chiave, le opposizioni hanno letto la sua proposta di concedere la cittadinanza turca ai profughi siriani, contro la quale si sono schierate in modo compatto. Simili sviluppi, uniti all'instabilità economica e allo stato di emergenza permanente nel Sud-est del paese (bombardato quotidianamente dall'artiglieria di Ankara), in un momento in cui la Turchia è chiamata ad avere un ruolo chiave nelle vicende mediorientali, somigliano fin troppo ai contesti dei precedenti colpi di stato.