L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Politics (358)

    Carlotta Caldonazzo

This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

May 01, 2016

Alessandro Pajno, il neo-presidente del Consiglio di Stato, ha presentato al pubblico il frutto dello sforzo del Consiglio quale contributo al riordino della Pubblica Amministrazione che il Governo si accinge a varare. 13 pareri in 50 giorni, con la media di circa un mese per ciascun atto. Quasi 700 pagine di quei 13 pareri, frutto dell’esame dei 481 di cui complessivamente si compongono. Si è trattato di mettere a fuoco il nuovo assetto dell’apparato pubblico – oltre agli 11 decreti del primo pacchetto Madia (gli ultimi tre pareri; Servizi pubblici locali; Forze di polizia e direttori Asl- sono in via di pubblicazione), in un mese e mezzo è stato esaminato anche il nuovo codice dei contratti pubblici e il decreto del processo telematico presso il Tar e il Consiglio di Stato che decollerà il prossimo primo luglio.

La conferenza stampa sull’attività del Consiglio di Stato è il primo di una serie di appuntamenti diretto a creare un canale di comunicazione tra il Consiglio di Stato, i Tribunali amministrativi ed il cittadino. L’obiettivo è quello di informare sull’attività della Giustizia amministrativa, i traguardi raggiunti ed il lavoro che si sta svolgendo. In particolare, questo primo incontro ha riguardato i più recenti pareri del Consiglio di Stato sugli atti normativi del Governo tra i quali la riforma della pubblica amministrazione, il codice dei contratti pubblici e il canone RAI. “Nel dare i pareri”, ha sottolineato Franco Frattini, Presidente della Sezione consultiva degli Atti Normativi ,”abbiamo tenuto fermi tre principi: tendere alla codificazione e, dunque, evitare che lo sfilacciamento di norme faccia perdere di vista l’unitarietà dell’impianto; fare in modo che la riforma funzioni, evitando il più possibile eventuali rischi di blocco; valutarne l’impatto economico e sociale”

April 27, 2016

Articolo pubblicato il 17 aprile 2016 su http://tapnewswire.com/2016/04/top-10-indications-that-isis-is-a-usisraeli-creation/

A cura di Makia Freeman.
Traduzione di Adavede.

L’Isis è una creazione israelo/americana, un fatto evidente come il cielo blu.
Per molti lettori di notizie alternative, questo è già palesemente ovvio, ma questo articolo è stato scritto per la stragrande maggioranza della popolazione del mondo, che ancora non ha idea di chi stia dietro all’avvento dell’Isis.

Non importa per quale nome si facciano passare – Isis, Isil, Is, Daesh – il gruppo è stato deliberatamente ingegnerizzato dagli Stati Uniti ed Israele, per perseguire alcuni obiettivi geopolitici. Sono una organizzazione di terroristi religiosi, fondamentalisti, Sunniti, creata per terrorizzare e rovesciare alcune nazioni arabe Sciite, come la Siria e l’Iraq, ma non si tratta di una organizzazione solamente “islamica”.
Possono essere islamici , e possono patrocinare lo stato islamico, ma stanno lavorando molto per raggiungere gli obiettivi del Sionismo. E’ sorprendente vedere quanta gente sta combattendo per questo. Siamo stati inondati dalla propaganda che riguarda la guerra al terrore, fraudolenta, in particolare termini come “terrorismo islamico” e “Islam radicale” sono comparsi, ma frasi molto più accurate sarebbero “terrorismo Sio-islamico”, e “Sio-Islam radicale”.
Agenzie segrete come il Mossad e la Cia ne tirano i fili.

Ecco qui una lista dei 10 principali indicatori e prove che l’Isis è una creazione israelo-americana

1) Isis è l’acronimo di Mossad

Cominciamo con ciò che è ovvio. Isis è esso stesso un acronimo, non per stato islamico in Iraq e Siria, ma per Israeli Secret Intelligence Service (servizi segreti di intelligence israeliani). E’ solo un altro modo per descrivere il Mossad, la losca agenzia il cui motto è “attraverso l’inganno, puoi portare la guerra”.
In questo video (https://youtu.be/jYONiyG-CZk) i due autori intervistati (il giornalista americano Dan Raviv e il giornalista isreliano Yossi Melman) rivelano che Isis è l’acronimo del Mossad.

2) La precognizione sull’Isis, attraverso documenti trapelati della Dia:

L’americana Dia (agenzia di intelligence della Difesa) è una delle 16 agenzie militari di intelligence americane. Sulla scorta di un documento trapelato, ottenuto da Judicial Watch, la Dia scrive, il 12 agosto 2012 che:

“..c’è la possibilità di instaurare un Principato Salafita, dichiarato o meno, nella Siria dell’est (zone di Hasaka e Der Zor) e questo è esattamente ciò che vogliono i poteri che supportano l’opposizione, di modo da isolare il regime siriano..”

Questo è stato scritto prima della comparsa dell’Isis sulla scena planetaria. Chiaramente l’Isis non è stata una rivolta casuale, ma piuttosto un ben orchestrato e strigliato “gruppo di opposizione”.
I “poteri che supportano l’opposizione” si riferisce a l’arabia saudita, la turchia, e i Gcc ( i paesi della cooperazione del golfo), nazioni come il Qatar, che sono supportati, in cambio, dall’asse americano-inglese-israeliano nella loro battaglia per spodestare il presidente siriano Bashar Al-Assad.
Come ho sottolineato in questo articolo Syrian Ground War.. , gli Stati Uniti stanno appoggiano le nazioni sunnite, mentre la Russia, la Cina e l’Iran quelle Sciite, per cui esiste un potenziale che le cose sfocino in una terza guerra mondiale.

Nel sito Tapnewswire si vedano i flash dei documenti della Dia

(Per maggiori informazioni si guardi il seguente articolo: http://wakeup-world.com/2015/11/24/reality-check-proof-us-government-wanted-isis-to-emerge-in-syria/

Include 7 pagine del documento citato sopra del Pentagono, che incluse i dettagli circa le ragioni per cui il governo stava operando in Siria, prima dell’emergere dell’Isis)

3) L’Isis non ha mai attaccato Israele.

E’ più che mai strano e sospetto che l’Isis non abbia mai attaccato Israele – è un altra indicazione che l’Isis è controllata da Israele. Se l’Isis fosse stato il frutto di una rivolta indipendente e genuina che non era stata segretamente orchestrata dagli Stati Uniti e Israele, perchè mai non avrebbero dovuto tentare di attaccare il regime sionista, che ha attaccato all’incirca tutti i vicini stati mussulmani, a partire dall’anno del suo insediamento, il 1948?
Israele ha attaccato l’Egitto, la Siria e il Libano, e naturalmente ha decimato la Palestina. Israele ha sistematicamente provato a dividere e conquistare i suoi vicini arabi. E si è lamentata continuamente del terrorismo islamico! Ancora, quando l’Isis è comparsa sulla scena come una organizzazione terroristica islamica, barbarica e sanguinaria, apparentemente non ha avuto problemi con Israele e non ha individuato motivi per occuparsi di un regime che ha perpetrato una dose massiva di ingiustizie contro gli Islamici.

Questo spinge la credibilità al un punto di rottura.

Il fatto è che Isis e Israele non si attaccano reciprocamente – essi si sostengono reciprocamente. E’ stato anche scoperto che Israele si è occupata delle cure di alcuni soldati dell’ISIS e di altri ribelli anti-Assad nei suoi stessi ospedali! Si tratta di nemici mortali, o del migliore degli amici?

4) I furgoncini della Toyota

Dov’è che l’Isis ha preso una intera flotta di furgoncini Toyota? Perché così tanti dei suoi scatti fotografici riguardano una flotta di Toyota che corrispondono - corrispondenti cioè, sia per modello che per colore? Come l’articolo della Information Clearing House umoristicamente statuisce.
La storia ufficiale è che l’Isis li avrebbe rubati ai “buoni terroristi” (di Al Nusra), a cui sarebbero stati dati, questi bei veicoli, dal governo degli Stati Uniti. Cosa che sembrerebbe guidare verso almeno un paio di domande. Non ultima delle quali, perchè gli stati uniti riforniscono terroristi di qualsivoglia estrazione con suv di lusso? E a tal proposito, di quanti suv parliamo? Di quanti, con esattezza? In quali garage l’Isis tiene parcheggiata questa massiccia flotta? E perchè sono tutti a marca Toyota? E’ una scelta dei terroristi o un gusto del governo americano? La Toyota se l’è mai presa, per l’associazione tra i suoi trucks e i terroristi?”

Alcuni di questi trucks sono dei veicoli usati che sono partiti dagli Usa o dal Canada e sono arrivati in Siria. Per esempio, questo veicolo che riporta la scritta di un idraulico del Texas, ha fatto scoprire con orrore al suo ex proprietario che il suo vecchio veicolo sarebbe stato adoperato per la guerra, con il suo logo ancora lì su una portiera!

5) Gli skill di prima classe, nell’uso dei social media, dell’Isis.

La storiella delle Toyota ci spinge dritti alla prossima domanda, in merito all’Isis.
Chi si occupa della loro pubblicità? Come hanno fatto ad ottenere così tante foto delle Toyota che se ne vanno in giro? Come sono riusciti ad ottenere quella risma di video (falsi) che ritraggono le decapitazioni? Come ha potuto fare, un barbaro gruppo di assassini, che parlano una lingua molto diversa dall’Inglese, che propinano ideali religiosi fondamentalisti (come la Sharia) e spesso criticano tutto ciò che è occidentale, a gestire con maestria i social media occidentali, per diffondere i loro messaggi, la propaganda e le loro sfide?

6) Il gruppo israeliano SITE è sempre il primo a rilasciare i video dell’Isis.

Un’altra chiave in omaggio che l’Isis è una creazione Usa/Israele è che il gruppo israeliano SITE (Search for International Terrorist Entities) è stato spesso fra i primi a trovare e a rendere pubblici i video ( come la cofondatrice Rita Katz s’è lasciata sfuggire in più di una occasione). Site è stata implicata in una sfilza di video di finte decapitazioni dell’Isis, nel 2014.

False flag falliti! Si ignorino per un momento i brutti lavori svolti con photoshop. Si noti in questa foto come la luce getta ombre sul lato destro della faccia e del collo di un ostaggio, e sul lato sinistro del viso e del collo dell'altro ostaggio.. Parlando di finte decapitazioni, perchè questa Tv di fiction turca mostra una decapitazione che è identica a quelle dell’Isis?

7) Il capo dell’Isis Baghdadi, un agente del Mossad.

Simon Elliot (Elliot Shimon) aka Al-Baghdadi è nato da genitori ebrei ed è un agente del Mossad. Riportiamo di seguito tre traduzioni che intendono asserire con chiarezza che il califfo Al-Baghdadi è in pieno un agente del Mossad e che è nato da padre e madre ebrei. “Il vero nome di Abu Bakr al-Baghdadi è Simon Elliott.. Colui il quale viene chiamato semplicemente “Elliott” è stato reclutato dall’israeliano Mossad ed è stato addestrato in spionaggio e guerra psicologica contro gli arabi e la società islamica. Questa informazione viene attribuita ad Edward Snowden.

8) Comunicazioni trapelate che evidenziano il piano di rovesciamento della Siria.

Julian Assange di Wikileaks ha fatto un gran lavoro per catturare le informazioni circa quello che stava accadendo in Siria, anni prima delle “primavere arabe” e l’attule guerra, iniziata nel 2011.
Ci ha rivelato che William Roebuck, poi chargé d’affaires dell’ambasciata americana a Damasco, stava progettando la destabilizzazione del governo siriano. Le seguenti citazioni inviate da Roebuck a Washington dimostrano come egli stesse evidenziando le debolezze di Assad:

Vulnerabilità:

L’alleanza con Teheran: “Bashar sta camminando sul filo del rasoio nelle sue sempre più forti relazioni con l'Iran, in cerca del supporto necessario, pur non alienandosi del tutto le relazioni con i moderati stati vicini arabi sunniti, così da non essere percepito come qualcuno che favorisca gli interessi sciiti persiani e fondamentalisti. La decisione di Bashar di non sostenere i Talebani. La decisione di Bashar di non partecipare al vertice dei Talabani di Ahmadinejad a Teheran, dopo il viaggio FM Moallem in Iraq, può essere visto come una manifestazione della sensibilità di Bashar all’ottica araba, circa la sua alleanza iraniana.

Possibile azione:
Giocare sulle paure Sunnite dell’interferenza iraniana.
Ci sono timori in Siria che gli iraniani siano attivi e nel proselitismo sciita e nella conversione dei, per lo più poveri, sunniti. Anche se spesso esagerati, tali timori riflettono un elemento della comunità sunnita in Siria che è sempre più sconvolta da e focalizzata sulla diffusione dell'influenza iraniana nel loro paese, attraverso attività che vanno dalla costruzione di moschee fino agli affari. Sulle missioni locali egiziane e saudite qui, (così come sugli importanti capi siriani religiosi sunniti), stanno dando sempre maggiore attenzione alla questione che dovremmo coordinare più strettamente con i loro governi, sui modi per pubblicizzare meglio e focalizzare l'attenzione regionale sulla questione.

9) La Russia bombarda Isis, gli Usa li proteggono.

La pubblicità afferma:”Secondo quanto la politica estera americana in Siria: noi vogliamo combattere l’Isis mentre combattiamo contro il presidente Assad...sebbene l’Isis sta combattendo contro Assad, e i russi stanno aiutando la Siria a combattere l’Isis...per cui dobbiamo combattere la Russia per fermarli dal combattere con la Siria, contro l’Isis..

Se ti sembra folle, è perchè lo è!”

Prima che la Russia entrasse militarmente in Siria, gli Stati Uniti reclamavamo il fatto che essa fosse attaccata dall’Isis, sebbene la Russia fosse capace di fare in pochi mesi ciò che gli Usa non sono stati capaci di fare in anni. Perchè, l’esercito americano è a tal punto incapace, oppure questa è una ulteriore prova che gli Usa hanno finanziato e sostenuto l’Isis per tutto questo tempo? Ci sono stati vari rapporti che ai soldati americani sia stato ordinato di non colpire obiettivi Isis, anche se avessero una chiara visione dei nemici, come questo articolo riporta: “Alcuni piloti degli Stati Uniti che sono tornati dalla guerra contro lo Stato islamico in Iraq stanno confermando che sono stati fermati dal lanciare il 75 per cento dei loro ordigni su obiettivi terroristici, perché non potevano ottenere l'autorizzazione per lanciare l'attacco, secondo un membro di spicco del Congresso.
Non possiamo ottenere l'autorizzazione anche quando abbiamo un chiaro obiettivo di fronte a noi ", ha detto Royce [rappresentante degli Stati Uniti, Ed Royce, presidente della Commissione Affari Esteri della Camera]. "Non capisco per nulla questa strategia, perché questo è ciò che ha permesso all'ISIS il proprio vantaggio e la capacità di reclutamento. Inoltre, perché il portavoce del Dipartimento di Stato, Mark Toner, ha dovuto lottare per festeggiare il fatto che l’ISIS aveva perso Palmyra di recente?

10) L’Isis è sempre la scusa per ulteriori interventi armati:

Infine, si consideri questo: perché è l'ISIS sempre la scusa perfetta per un ulteriore intervento militare in Siria? Data la storia dell'ingerenza straniera in Siria, in particolare dagli Stati Uniti e Israele negli ultimi 70 anni, non è piuttosto conveniente che lo spettro dell'ISIS è la giustificazione offerta per proporre delle no-fly zone, attacchi aerei e truppe di terra? Come altro avrebbero fatto gli Stati Uniti e Israele a conquistare il Medio Oriente, senza il loro scagnozzo, l'ISIS?

Si prega di condividere questo articolo con coloro che non si sono ancora risvegliati alla verità sull'ISIS. Molti lo hanno già intravisto attraverso la propaganda. Una volta che noi siamo in numero sufficiente, l'utilità di questo gruppo terroristico ridicolo, pericoloso e vaudevilliano decadrà - e forse verrà raggiunta una massa critica di persone, per tirare via la tenda e, per una volta, avere un assaggio dei veri burattinai che tirano i fili della guerra.

April 10, 2016

Scambio di accuse tra Armenia e Azerbaijan; l'espansionismo turco e il pragmatismo russo evidenziano l'ennesimo fallimento europeo

Le ultime tensioni tra Mosca e Ankara erano emerse il 24 novembre 2015, quando la contraerea turca aveva abbattuto un jet russo, a margine, per così dire, del conflitto siriano. Al primo aprile, questo è lo scacchiere regionale. A 22 anni dal cessate il fuoco, nuovi scontri si sono verificati tra Armenia e Azerbaijan nel Nagorno-Karabakh, enclave a maggioranza armena e cristiana in territorio azero, la cui indipendenza, proclamata nel 1991, non è riconosciuta dalla comunità internazionale. Dopo il Medio Oriente, anche il Caucaso è dunque (di nuovo) campo di battaglia per la supremazia regionale di Russia e Turchia, senza trascurare il potenziale ruolo dell'Iran, parzialmente riammesso nella comunità internazionale dall'accordo sul programma nucleare e dal suo potenziale apporto alla guerra contro i cartelli del jihad in Siria e Iraq. In tale contesto, la componente etnica e confessionale del Nagorno-Karabakh fa da corollario al dedalo intricato di relazioni internazionali che si è andato instaurando dal crollo dell'Unione Sovietica. Un discorso che vale per il Caucaso, (dove si trovano anche Cecenia, Ossezia e Daghestan), come per i Balcani, non a caso due significative sacche di reclutamento di foreign fighters per l'autoproclamato Stato islamico (Daech).

Il Nagorno-Karabakh è al centro di contese territoriali sin dal suo tentativo di secessione del 1988, quando era ancora una delle Oblast autonome dell'URSS, come Cecenia, Ossezia del Nord e Ossezia del Sud. La politica demografica dell'allora segretario generale del Partito comunista e Presidente del consiglio dei ministri dell'Unione Sovietica Iosif Stalin consisteva nell'ostacolare in tutti i modi la formazione di territori etnicamente compatti, in quanto potenziale fattore di disgregazione. Così, il Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena ma in pieno territorio azero, è rimasto integrato nella compagine sovietica fino al suo dissolvimento. Nel 1991, quando sia Armenia che Azerbaijan hanno proclamato la loro indipendenza, la contesa territoriale è sfociata in una guerra che, secondo le stime, ha provocato circa 30mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati. Un ruolo non indifferente nel raggiungimento della tregua, siglata nel 1994 a Mosca, è stato giocato dall'Iran, che allora dovette fronteggiare la reazione della propria opinione pubblica, in particolare della numerosa minoranza azera che ancora abita nel suo territorio (16% circa della popolazione totale) e che chiedeva a Tehran di sostenere i “fratelli” sciiti azeri contro gli “infedeli” armeni. Gli Azeri, sia in Iran che in Azerbaijan, sono infatti in larga maggioranza musulmani sciiti duodecimani, la stessa religione ufficiale della Repubblica islamica.

Al di là degli sforzi del Gruppo di Minsk, istituito nel 1992 dall'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) per favorire una soluzione diplomatica del conflitto nel Nagorno-Karabakh, a rivendicare il ruolo di arbitro erano (e sono ancora) due potenze regionali rivali: Turchia e Russia, entrambe consapevoli della posizione strategica del Caucaso, ricco di gas naturale e passaggio ideale per i nag kar2gasdotti verso l'Europa. Ankara, che ha con gli Azeri (popolazione di ceppo turco) profondi legami etnici, e con l'Armenia un'altrettanto profonda e storica inimicizia, sostiene Baku, con cui si è apertamente schierata anche la scorsa settimana. La Turchia del presidente Recep Tayyip Erdoğan, inoltre, è preda di deliri espansionistici e nostalgie ottomane, come ha ampiamente dimostrato a proposito della guerra in Siria, che per lui si riduce sostanzialmente alla guerra contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Mosca, dal canto suo, storicamente alleata dell'Armenia nel conflitto con l'Azerbaijan, negli ultimi giorni ha dato prova di un “impeccabile” pragmatismo politico: il Primo ministro Dimitri Medvedev, pur chiedendo a entrambe le parti di porre fine alle ostilità, ha dichiarato che la Russia continuerà a essere il primo esportatore di armi sia in Armenia che in Azerbaijan. In caso contrario, ha spiegato, qualche altro attore regionale potrebbe soppiantarla, distruggendo definitivamente l'equilibrio di forze (peraltro alquanto dinamico) in atto. “Le armi”, ha aggiunto Medvedev, “si possono e si dovrebbero comprare non solo per essere un giorno utilizzate, ma anche come fattore di deterrenza”. Il Cremlino, intanto, offre un contributo significativo alla guerra contro i cartelli del jihad, anche per motivi interni: l'immediato antecedente del cosiddetto “califfato” di Daech è stato fondato nel 2007 in Cecenia, altro territorio caucasico conflittuale. Si tratta dell'organizzazione di Doku Umarov, ucciso dall'intelligence russa nel 2013, in Qatar, e sostituito da Abu Muhammad al-Qatari.

Il 3 aprile l'Azerbaijan ha annunciato unilateralmente un cessate il fuoco e, due giorni dopo, è entrata in vigore una tregua, prodotto della mediazione russa. Ma le accuse reciproche di violazioni e gli scambi di artiglieria suscitano non pochi timori, soprattutto perché l'Unione Europea è oggi molto più debole di quanto non lo fosse negli anni '90, quando sperava di poter costituire un blocco geopolitico in grado di far pesare le proprie decisioni sul piano internazionale.

April 02, 2016

L'estrazione del prezioso minerale, indispensabile per la fabbricazione di prodotti high-tech, alimenta guerra e sfruttamento nella Repubblica Democratica del Congo

Coltan è l'acronimo con cui è nota una varietà di columbite-tantalite relativamente ricca di tantalio, prodotta in Australia, ma, soprattutto, nella Repubblica Democratica del Congo, ex Zaire e fino al 1960 colonia belga. Nelle foreste pluviali di questo paese, situate nelle regioni confinanti con Ruanda e Uganda, migliaia di persone, armate di machete, ascia, pala e qualche panno, lavorano in assenza di tutele e a ritmi disumani, per estrarre il prezioso e raro minerale. Molti sono bambini, le cui dimensioni consentono loro di penetrare in profondità nelle miniere. Il mercato del coltan, inoltre, ha dato vita a una serie di “attività collaterali”, come quelle di chi affitta stanze, spesso con prostitute incluse nel prezzo, o di chi “protegge” i minatori dalle bande di rapinatori, all'interno di una sorta di racket delle estorsioni: sia le stanze, che le prostitute, che le milizie armate sono a carico del lavoratore. Così, anche se le retribuzioni sono le più alte del paese, una grossa fetta finisce nelle tasche di trafficanti (di donne) e formazioni armate.

I conflitti che hanno interessato il paese negli ultimi decenni, culminati con una crisi umanitaria ancora in corso, non hanno ricevuto sufficiente attenzione da parte della comunità internazionale, a parte le opere di mediazione sfociate in fragili tregue (la situazione, soprattutto nelle province orientali resta tesa). Basti pensare che uno di questi conflitti si è verificato negli anni '90, lo stesso decennio che ha visto crescere le vendite di coltan del 300 percento. Questo minerale, o meglio il tantalio che contiene, è indispensabile per la fabbricazione di prodotti come telefoni cellulari, satelliti, televisori al plasma, dispositivi MP3 e MP4, fotocamere, ma anche i sistemi computerizzati di razzi spaziali e missili e, in generale, i sistemi elettronici militari. Tutti prodotti che alimentano una parte consistente del mercato internazionale. A nulla sono servite le segnalazioni da eeeparte di organizzazioni umanitarie sul fatto che l'esercito del Ruanda, quando controllava la regione del Kivu, avesse sfruttato prigionieri di guerra per il lavoro nelle miniere. Anzi, la stessa caccia al coltan ha alimentato le rivalità tra fazioni, in parte perché ha reso economicamente strategiche le aree ricche di questo minerale, in parte perché le milizie armate spesso controllavano direttamente le miniere.

Ugualmente devastante l'impatto delle estrazioni di coltan sulle foreste pluviali e, in generale, sull'ecosistema del paese. Per scavare le miniere, infatti, è necessario disboscare, quindi privare la fauna locale del suo habitat naturale. Si stima che la popolazione degli elefanti sia diminuita dell'80 percento, mentre quella degli elefanti ha subito una flessione del 90 percento. Inoltre, il lavoro nelle miniere, che può fruttare dai 10 ai 50 dollari la settimana (quando lo stipendio medio è di 10 dollari al mese), ha provocato il crollo della produzione agricola, impedendo alla popolazione di conquistare la sicurezza alimentare. Per lo stesso motivo, molti bambini abbandonano la scuola per fare i minatori, un ulteriore colpo all'economia. Anche se l'era del colonialismo è finita, la decolonizzazione non è stata un processo verso l'autosufficienza, come aveva auspicato per l'Africa l'ex presidente del Burkina Faso Thomas Sankara, ucciso nel 1987 nel colpo di stato organizzato dal suo ex alleato Blaise Compaore. Il coltan, come il petrolio libico o gli scisti bituminosi del Congo Brazzaville, fa gola a multinazionali che trattano prodotti di fondamentale importanza per i mercati internazionali. Lo stesso meccanismo che privilegia agricoltura e pesca industriali, basate sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, rispetto a quelle su scala familiare, che al contrario potrebbero creare uno sviluppo solido ed ecosostenibile.

March 20, 2016

All'indomani dell'accordo con Bruxelles sui rifugiati, Ankara non cambia atteggiamento: repressione delle minoranze e dei dissensi interni e interventi “indiretti” nel Kurdistan siriano

 

Mentre l'Unione Europea conclude con la Turchia un accordo su rifugiati e migranti, Ankara continua le sue operazioni militari nelle regioni sud-orientali, a maggioranza curda. Dal fallimento del cessate il fuoco con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), gli sfollati interni sono oltre 350mila, ma il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan continua a mettere in atto la sua linea dura, forte della maggioranza assoluta in Parlamento (ottenuta lo scorso novembre, al secondo tentativo di elezioni parlamentari nel paese) e del tacito assenso della comunità internazionale. Ponendo sullo stesso piano quelli che ufficialmente ha individuato come “nemici”, il PKK e i cartelli del jihad del cosiddetto “Stato islamico” (Daech), Ankara aveva già lanciato un chiaro messaggio: nessuno si intrometta nella questione kurda. Così, nessuna istituzione sovranazionale ha avuto alcunché da obiettare sul sostegno turco ai Nipoti di Saladino, formazione armata curda integrata nell'Esercito siriano libero (ESL).


Una qualsiasi forma di autonomia nelle regioni curde siriane è, dal punto di vista del governo turco, una minaccia alla propria integrità territoriale, da scongiurare ad ogni costo. Un atteggiamento analogo a quello mostrato nei confronti della minoranza politica, in occasione dell'ingresso in Parlamento di rappresentanti del Partito democratico dei popoli (HDP, partito moderato filocurdo), a seguito del quale tutte le trattative per un governo di coalizione sono fallite. Se all'interno, anche nei confronti del dissenso, Ankara sceglie la linea della repressione, al di fuori dei suoi confini predilige l'intervento indiretto. In Turchia, infatti, hanno il loro quartier generale i Nipoti di Saladino, potenziali fattori di indebolimento del PYD e di destabilizzazione di un'eventuale regione autonoma curda in Siria. Il paradosso è che Mahmoud Abou Hamza, comandante dei Nipoti di Saladino ha dichiarato ultimamente che la sua organizzazione gode del sostegno degli Stati Uniti: “La Turchia non ci sostiene con le armi. Le nostre armi sono americane”.

Dunque, gli USA, che sostengono il PYD elogiandone i successi contro Daech, sono al contempo alleati di una fazione curda costituita per combattere il PYD e le sue Unità di difesa popolare (YPG): “Loro sono contro i Curdi. Questi gruppi tentano di scatenare una guerra settaria tra Arabi e Kurdi … Se non si ritirano da Tal Rafat e dalla base aerea di Menagh, noi li combatteremo nell'area tra Jarablus e Azaz”, una zona attualmente controllata dai cartelli del jihad. Come sulla questione rifugiati, anche sulla guerra in Siria (che ne è la causa) la comunità internazionale si limita a fornire aiuti ad alcune parti in causa, che non sempre sono in accordo tra loro. Il risultato è lo stesso degli ultimi decenni: intervenire nei conflitti presenti seminando conflitti futuri.

March 19, 2016

In un paese dove vigono ancora le corporazioni medievali tutto tende a perpetuarsi. Questa volta è il caso dell’ordine dei giornalisti nostrano, unico al mondo. Circa un anno e mezzo fa, lancia in spalla il presidente, Enzo Jacopino, aveva denunziato la conduttrice televisiva Barbara D’Urso per “abuso di professione giornalistica”, reato che lo stesso ordine vuole punito con il carcere fino a 2 anni.

la colpa della presentatrice di Mediaset era quella di trattare casi di cronaca nera senza “rispondere a quelle regole deontologiche che impongono precisi doveri ai giornalisti”. Ma il caso vuole che la D’Urso non sia mai stata iscritta all’ordine dei giornalisti per stessa ammissione dell’Ordine, e quindi non si possa accusare di aver violato regole imposte ai giornalisti: un totale controsenso col solo obiettivo di far condannare una persona che svolgeva e svolge il suo lavoro ed esprime le sue opinioni. Ancora una volta il carattere autoritario, corporativo e illiberale di un Ordine che dovrebbe vedere la difesa del diritto alla libertà di espressione e di parola come un valore assoluto,articolo 21 della Costituzione, è esploso virulento, ma ha fatto cilecca: il giudice di Monza ha buttato nel cestino la denuncia contro Barbara D’Urso, accusata di abuso della professione giornalistica. Il gip del tribunale di Monza Giovanni Gerosa, richiamando altre sentenze della Corte Costituzionale, ha deciso per l’archiviazione, richiesta dallo stesso pm, Walter Mapelli, “in ragione della tutela dei diritti fondamentali, quali quello di libertà di manifestazione del pensiero”, articolo 21 della Costituzione. Allora, però, ora si pone un altro quesito: a cosa serve tenere in piedi un Ordine dei giornalisti se è una minaccia alla libertà d’espressione? Non è che basti e avanzi il nostro codice penale per tutelarci dagli abusi di questa?

March 18, 2016


Migliaia di profughi siriani arrivano ogni giorno in Grecia. Nonostante le difficoltà economiche, grande è la solidarietà del popolo greco.

 

Sono migliaia i profughi siriani che arrivano in Grecia. Centinaia ogni giorno. Il flusso è continuo da mesi, arrivano con barconi più o meno sgangherati, ma anche con enormi gommoni dal valore di migliaia di euro. Alcuni hanno il salvagente. Non tutti possono permetterselo economicamente. Un salvagente arriva a costare anche cinquecento euro, ma in molti casi può salvare la vita dei propri figli. Molte famiglie che arriva sulle coste greche sono state vittime dell'ignobile tratta dei profughi che avviene in maniera organizzata sulle coste turche. I profughi vengono concentrati, organizzati e in molti casi costretti a partire da chi ogni giorno diventa sempre più ricco sfruttando la disgrazia altrui. Una solo una piccola parte di loro può comprarsi un gommone e sceglie se e quando affrontare il viaggio.
La stragrande maggioranza sono nuclei familiari, uomini e donne con i propri figli. Arrivano sulle coste delle isole greche più vicine alla Turchia. Le  immagini che ogni giorno arrivano nelle case di tutta la Grecia tramite la televisione sono agghiaccianti e eloquenti del dramma che in migliaia stanno vivendo grazie all'idiozia della guerra.

Sono tantissime le persone ammassate nei porti, nelle piazze e nei giardini delle piccole cittadine delle isole. Non hanno niente con se. Ma se pur liberati di tutti quei particolari e oggetti che immediatamente ci comunicano lo stato sociale e culturale di una persona, guardandoli, ci si può immediatamente rendere conto che non sono per niente diversi da noi.
L'unica differenza è il foulard che copre la testa delle donne. Non stanno arrivando sulle coste europee per per motivi economici o per trovare un futuro migliore di quello che pensavano di avere in Siria in un recente passato. Fuggono dalle bombe. Sono persone di ogni genere. Ingegneri, dottori,   insegnanti, commercianti, tecnici, operai, impiegati, agricoltori etc.. tutta gente che un lavoro ce l'aveva. Questo lo si capisce immediatamente con uno rapido sguardo, in molti, non potendosi portare con se altro, hanno con se il proprio smartphone, come a voler tenere stretta a se l'ultima particella di una normalità che si sono lasciati alle spalle.

Appena arrivati sulle coste greche trovano la solidarietà di molte centinaia di volontari che da mesi si alternano sulle isole più esposte all'arrivo dei profughi, offrendo soccorso e logistica per organizzare nella maniera migliore le centinaia di persone che ogni giorno arrivano. È un lavoro difficile, tutti devono mangiare, devono bere, devono dormire, e devono avere dei servizi igenico sanitari di base. Tutto questo in uno spazio limitato e  geograficamente isolato come le isole dove le strutture sanitarie e di emergenza sono piccole e a misura di una popolazione che spesso conta solo poche centinaia di persone.
In genere i profughi passano sulle isole solo pochi giorni e poi vengono imbarcati sui traghetti e portati sulla terra ferma.
Questi che sono arrivati sui barconi al freddo e alle intemperie, che sono rimasti accampati per alcuni giorni sulla banchina del porto in tende di fortuna, che sono riusciti a restare uniti ai propri figli, questi sono i "fortunati". Per altri, molti altri, questa "fortuna" non c'è stata.
Sono centinai i morti annegati, in maggioranza sono bambini. Sono strazianti le immagini delle loro salme allineate sulle spiagge. Ancora più straziante sono le immagini dei loro genitori li a piangerli.

In tanti hanno perso un pezzo della propria famiglia. Sono centinaia i bambini orfani o non accompagnati che si contano nei centri di accoglienza gestiti dalle varie organizzazioni non governative in azione sul territorio greco. Questa è un'enorme tragedia nella tragedia.
Pescatori, nonnine e semplici persone delle isole sono diventati eroi di tutti i giorni offrendo soccorso e ospitalità ai profughi. Le storie che conosciamo ci arrivano tramite la televisione, sono storie emozionanti e commoventi, a raccontarle sono le stesse persone che le hanno vissute.

Si ascoltano con un nodo alla gola che spesso tarda ad andarsene e che per alcuni minuti ti costringe a stare in silenzio. È un silenzio rispettoso verso la figura di un pescatore con il viso bruciato dal sole che racconta di aver salvato con la sua piccola barca decine di persone in mezzo al mare, che piange ricordando di aver fatto il possibile, senza riuscirci, per salvare un bambino assiderato dal freddo, oppure il racconto di una vecchietta vestita di  nero che tiene in braccio un bambino piccolo, lo nutre con un biberon mentre ci racconta che è l'unico superstite della sua famiglia. Anche questa vecchietta piange raccontando la storia di questo neonato, piange pensando a come la disgrazia dell'umanità non finisce mai e si ripete in maniera perpetua, la tragedia della fame e delle mille sofferenze che lei stessa ha vissuto durante la sua infanzia nella seconda guerra mondiale e poi nella guerra civile si ripete nella tragedia del popolo siriano.

Ogni giorno migliaia di profughi raggiungono Atene e da li, fino a pochi giorni fa, si mettevano in cammino per arrivare alla frontiera. Pochi vogliono restare in Grecia, quasi tutti sono decisi a proseguire il proprio viaggio verso altri paesi. Adesso i confini sono chiusi, ma sono in molti a non saperlo, non è facile far arrivare l'informazione a tutti. È così che molti affrontano il viaggio a piedi, dirigendosi comunque verso il confine nord. Gruppi composti da
numerose persone, con bambini di ogni età al seguito, avanzano a passo d'uomo.
Al ridosso della linea di confine sbarrata si è formata una tendopoli di migliaia di persone che aspetta in vano la possibilità di continuare il proprio viaggio. Vivono in tende di ogni tipo e negli ultimi dieci giorni hanno dovuto sopportare piogge battenti e basse temperature. Molti bambini sono malati, con febbre e raffreddore.
Si calcola che, dall'inizio dell'ondata di profughi, hanno attraversato la Grecia più di 900.000 persone. Sono tanti, sono tanti soprattutto se pensiamo che la Grecia è un paese in crisi e con limitatissime possibilità. Ma la solidarietà non si ferma. In ogni città vengono raccolti generi di prima necessità come cibo in scatola, frutta secca, biscotti, latte UHT, latte in polvere, carta igienica, sacchi a pelo, medicinali etc.. I generi raccolti devono avere un alto  contenuto calorico ed essere confezionati in maniera singola, devono essere in poche parole adatti a condizioni di sopravvivenza, perché proprio queste sono le condizioni che affrontano le famiglie ammassate ai confini da giorni.
L'Europa che spesso si è riempita la bocca con parole di civiltà, che si è presa la briga di andare a ristabilire con guerre e con missioni militari i diritti umani di questo o di quell'altro paese, che si vanta di essere un baluardo in difesa di democrazia e giustizia e contro la barbarie. Adesso che potrebbe   dimostrarlo concretamente il proprio attaccamento ad una cultura che mette al centro l'uomo e l'umanità e che ha radici nella storia più remota, cosa
fa? Chiude le frontiere.
Sembra che i confini della Grecia non siano i confini dell'Europa.
eereIl problema causato dall'arrivo dei profughi viene usato in Europa come ennesimo attrezzo di pressione e ricatto economico per estorcere il più possibile alla Grecia.
Per un lungo periodo l'Unione Europea ha cercato di convincere il governo greco che la soluzione migliore per arginare l'ondata dei profughi era quello di respingere le loro imbarcazioni. Questo, che non è stato accettato dal governo, come potete immaginare avrebbe causato la morte di un numero enorme di persone. Infatti è impensabile respingere un'imbarcazione con bambini, specialmente dopo un viaggio ai limiti della sopportazione umana. Intanto, gli stessi che proponevano di applicare questa barbarie ai danni dei profughi siriani, hanno versato ragguardevoli somme di denaro alla Turchia per la gestione dei profughi siriani, profughi che in parte la Turchia stessa produce appoggiando economicamente lo Stato Islamico e bombardando le  postazioni Kurde che di fatto sono l'unica vera resistenza sul campo contro l'Isis.

Il ministro dell'economia tedesco Schäuble ha dichiarato meno di una settimana: "la Grecia non deve usare la questione profughi come scusa per ritardare la valutazione sulle riforme".
Altri ministri dei "nuovi" membri dell'Unione Europea hanno spudoratamente intimato alla Grecia di tenersi i profughi in cambio di una revisione del debito. È grande la fiera delle atrocità dette da primi ministri e vari di tutta Europa sulla questione profughi.
Il governo greco ha provveduto fino ad oggi a fornire almeno tre pasti al giorno a tutti.
Lunghe file di persone aspettano pazientemente il proprio turno ai punti di ristoro organizzati dal governo e dai volontari. I rifornimenti che vengono comprati dalle varie organizzazioni e destinati ai profughi sono stati esentati dalla tassa dell'IVA e un listino prezzi speciale con prezzi ribassati è stato imposto dal governo a tutti gli autogrill che si trovano sul percorso da Atene alla frontiera nord della Grecia, questo per evitare sciacallaggi commerciali ai danni dei profughi siriani.


Verranno dati dei contributi economici dal governo a coloro che decideranno di ospitare famiglie con bambini a casa propria. Il contributo varia a seconda dei casi e può arrivare fino a 800 euro al mese.
Su tutto il territorio greco sono in funzione degli hot spot ovvero dei centri di accoglienza dove i profughi possano stazionare in condizioni meno precarie. Ogni giorno migliaia di profughi vengono invitati a soggiornare nei centri di raccolta dislocati su tutto il territorio greco.
Se da una parte la reazione xenofoba dell'Europa è disarmante, anche all'interno della Grecia si ascoltano proposte deliranti. Il nuovo leader di Nea Dimokratia, Kiriakos Mitsotakis ha proposto che gli hot spot siano di tipo chiuso, ovvero una sorta di lager da dove i profughi non possano uscire e contemporaneamente vede la risoluzione del problema nel cambio di definizione e quindi del loro trattamento. Da profughi come vengono accolti e definiti adesso a clandestini illegali, con il trattamento che ne consegue. Ancora peggio è la soluzione proposta da Chrisi Avghi, il partito nazista greco che sempre di più sembra essere in buona compagnia in Europa. Loro hanno proposto la chiusura forzata dei profughi in campi di concentramento, come Nea Dimokratia, con la differenza dell'obbligo dei lavori forzati. Questo per ripagare "l'ospitalità". Per il momento la solidarietà del popolo greco verso i profughi è più forte. Questo, secondo me, per due ragioni fondamentali.
La prima è che le famiglie di profughi siriani assomigliano in maniera perfetta alle famiglie greche, sia somaticamente che nel modo di vestirsi, a parte il particolare del foulard in testa alle donne.
Nel loro esodo dalle coste turche il popolo greco rivede in qualche maniera la propria storia, rivive l'esodo dei greci dall'Asia Minore avvenuto nel 1922, quando intere famiglie di greci furono allontanate in massa dalle coste turche dell'Egeo dove vivevano da sempre.
Venne cioè fatta una pulizia etnica che coinvolse milioni di grecofoni. Questi bambini in braccio ai propri genitori che sbarcano sulle isole greche sono drammaticamente uguali alle foto in bianco e nero dei libri di storia, l'unica differenza è l'abbigliamento moderno, le facce sono le solite.
Penso che se le stesse scene di sbarchi fossero con famiglie dell'Africa nera la reazione sarebbe ben diversa. Sarebbero in molti meno a immedesimarsi con quelle famiglie, con quei bambini.
La seconda ragione è il lavoro ottimo che sta facendo la televisione di stato ERT, ripristinata da pochi mesi dopo la chiusura forzata da parte dell'ex governo di Nea Dimokratia.
Ogni giorno viene fatto il punto della situazione sia in TV che via radio e le raccolte di generi alimentari e il lavoro dei volontari vengono coordinati in maniera organizzata da uno speciale notiziario che va in onda più volte al giorno. I profughi sono descritti per ciò che sono, cioè come profughi e non come clandestini. Vengono descritte le loro condizioni precarie e le difficoltà che ne derivano. Vengono raccontare le loro storie. Il tentativo della televisione di stato è mirato ad abbassare il sentimento fisiologico di insicurezza che un popolo ha rispetto all'invasione di migliaia di persone straniere che avviene ogni giorno. Non voglio neanche immaginare ciò che sarebbe successo se la gestione mediatica fosse stata monopolizzata dalle tv private, sicuramente ci sarebbero già stati atti tremendi di razzismo.
In Italia, da una ricerca veloce che ho fatto prima di scrivere questo articolo, il problema profughi siriani sembra non esistere. In alcuni articoli vengono addirittura descritti come dei benestanti che arrivano alle 11 di mattina con i gommoni nei porticcioli delle isole greche e la prima cosa che fanno è andare a cercare un bar per connettersi a internet con il proprio smart phone e magari farsi un selfie davanti al molo.
Dell'apocalisse che migliaia di famiglie vivono per mare e per terra non vi è traccia o quasi.

March 05, 2016

Informazione a servizio della casta. Sono anni che denunziamo lo “scempio” che viene fatto dell’informazione in Italia. In una corretta democrazia l’informazione dovrebbe essere libera, al servizio dei cittadini, non controllabile tranne che dal codice penale: da noi avviene esattamente il contrario. In Italia non c’è mai stata libertà di informazione. I finanziamenti pubblici allettano gli editori, e pure tanto, specialmente quando di milioni ne vengono sganciati a piene mani. I politici lo sanno, sanno che sono la loro sopravvivenza, e da compassati maestri ne promettono e danno tanti, devi essere però amico dell’amico altrimenti “niet”, non se ne parla proprio, sono in gioco il tenore di vita, i privilegi, le amanti ed il potere. Chi potrebbe avallare tutto ciò se non l’informazione?

Grazie ai soldi del 'nuovo' canone Rai, si finanziano anche gli editori. Un disegno di legge rivede i criteri di finanziamenti pubblici destinati al settore editoriale, inserendovi anche i proventi dell'imposta/canone Rai. Per ora l'uovo e' stato preparato alla Camera, poi passerà al Senato e, per certe cose -si sa- i tempi sono spediti.

In un’audizione alla commissione Cultura della Camera, lo scorso 26 gennaio, il direttore della Fieg (Federazione Italiana Editori Giornali) aveva espresso parere positivo sul Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione e le deleghe al governo per la ridefinizione del sostegno pubblico all'editoria (più soldi nostri per i loro associati); ed aveva chiesto che una quota delle maggiori entrate che si dovessero verificare dal pagamento del canone Rai in bolletta elettrica sarebbero dovute andare all'editoria, cioè anche alla carta stampata, nell'ottica del pluralismo dell'informazione.

C’era da scommettere che il disegno di legge venisse subito approvato! Anche perchè grossi appuntamenti elettorali bussano alla porta. Tra le varie fonti dei fondi per finanziare il tutto, e' prevista una quota, sino ad un massimo di cento milioni, delle eventuali maggiori entrate versate per il canone tv (maggiori rispetto alla cifra fissata -1,7 miliardi all'anno per il periodo 2016-18- che il Governo ha previsto... lasciando un “buco” per il dopo). Così, grazie ai soldi del 'nuovo' canone Rai, si finanziano anche i 'nemici'.

Esclusi da questi benefici i giornali di partito e sindacali (non ci crediamo!), nonché quelli quotati in Borsa e quelli di carattere tecnico, aziendale e scientifico. L'aspetto più interessante e sintomatico è quello dei beneficiari, incluse le testate online, che potranno continuare a campare anche se sono letti e seguiti dai loro “intimi”: imprese con prevalenza di capitale di cooperative; fondazioni o enti no-profit; giornali di minorane linguistiche o in italiano diffuse all'estero: giornali per nonvedenti e, -potevano mancare?- i giornali delle associazioni di consumatori iscritte in apposito elenco (immaginiamo sia il CNCU - Consiglio nazionale consumatori e utenti, istituito presso il ministero dello Sviluppo Economico e a cui sono iscritte la quasi totalità delle associazioni che, di riffa o di raffa, prendono soldi dallo Stato eccezion fatta per L’ADUC che per sua scelta ha deciso di non prendere soldi). Associazioni che proprio in questi giorni, in passato -e presumiamo anche in futuro- “tuonano” contro l'imposta/canone, alcune addirittura vaneggiando di impossibili class action (le class action non si possono fare in materia fiscale) per non pagarlo.
Cosa c'è di meglio -nella logica e nel diritto- che farsi pagare per parlare male del tuo pagatore: si vuole che così sia per garantire quello che viene chiamato pluralismo... basta che sia fine a se stesso e non dia fastidio al “manovratore”.

February 14, 2016

Oltre l'ondata di sentimenti e risentimento, l'omicidio del giovane ricercatore italiano riporta in superficie vecchie perplessità sulla leggerezza con cui gran parte dei paesi occidentali, potenti o meno, stabilisce rapporti economici, quindi anche diplomatici, con paesi i cui governi vengono costantemente richiamati dalle organizzazioni umanitarie per le sistematiche violazioni dei diritti umani. Basti citare le recenti visite ufficiali della cancelliera tedesca Angela Merkel in Turchia, o l'accordo tra Washington e Ankara dello scorso anno. Trattative in entrambi i casi motivate dall'esigenza di cooperare con la Turchia sia sulla questione migranti e rifugiati, che nella lotta ai cartelli del jihad dell'autoproclamatosi “Stato islamico” (conosciuti come Daech, ISIS o IS). Ovvie le considerazioni sul ruolo strategico della Turchia, dove, peraltro, lo scorso novembre si è tenuta l'ultima riunione del G20, nella città di Antalya, ma è alquanto discutibile l'atteggiamento del governo turco e del suo presidente Recep Tayyip Erdoğan in materia di libertà di stampa e di espressione e sulla questione curda: giornalisti in carcere, testate chiuse, interruzione unilaterale dei colloqui di pace con la guida del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) Abdullah Öcalan, mesi di militarizzazione e devastazione delle regioni sud-orientali della Turchia.

Come se non bastasse, il Segretario di Stato statunitense John Kerry ha avanzato l'ipotesi di un intervento di terra in Siria, nel caso in cui il presidente siriano Bashar al-Assad “non terrà fede agli impegni presi e l'Iran e la Russia non lo obbligheranno a fare quanto promesso”. Un'ulteriore legittimazione, per quanto implicita, della linea politica (interna e internazionale) di Ankara. Nessuna obiezione ufficiale finora sui bombardamenti dell'artiglieria turca nel Nord della Siria, contro postazioni delle Unità di difesa popolare (YPG, che fanno riferimento al Partito di unione democratica – PYD –, vicino al PKK turco). Nessun dubbio della comunità internazionale sulle motivazioni ufficiali fornite dalle autorità di Ankara, che hanno presentato queste operazioni come “rappresaglia”. Nei giorni scorsi, infatti, secondo fonti militari turche, unità dell'esercito governativo siriano avrebbero sparato mortai nella provincia turca di Hatay, vicino a Çalıboğazı, mentre dalla città siriana di Maranas, controllata dalle PYD, sono stati sparati colpi contro la regione turca di Akçağbağlar. Una versione che sembra essere stata accettata senza battere ciglio dalla comunità internazionale. Similmente, Nazioni unite, Alleanza atlantica (NATO), Unione europea non hanno neppure tentato di mettere in discussione le intenzioni di Ankara di inviare truppe di terra in Siria (annunciata in un momento in cui le PYG stanno guadagnando terreno a scapito di Daech), né hanno tentato di dissuadere l'Arabia Saudita, che ha inviato jet nella base turca di İncirlik e con Ankara è pronta a un intervento di terra.

Proprio l'Arabia Saudita, un altro paese che si può a buon diritto annoverare tra gli interlocutori discutibili dei governi occidentali. Basti ricordare lo scandalo che ha destato per l'arresto, la detenzione e la condanna del blogger Raif Badawi a dieci anni di carcere e mille frustate (per aver fondato il forum Free Saudi Liberals e aver criticato alcuni capi religiosi), o per l'uccisione di 47 condannati a morte, tra i quali l'imam sciita Nimr al-Nimr. Alla luce dei repentini cambiamenti di rotta diplomatici attuati dalle grandi potenze (e dai loro satelliti), ci si potrebbe dunque domandare se la dinastia saudita o il Partito giustizia e sviluppo (AKP) turco di Erdoğan faranno un giorno la fine di altri ex-alleati dell'Occidente, come il fu colonnello libico Muammar Gheddafi (ucciso anche grazie all'intervento internazionale in Libia) o il fu presidente iracheno Saddam Hussein (condannato a morte dal “nuovo” Iraq nato dopo l'invasione iniziata nel 2003, ma un tempo sostenuto da Stati Uniti e Nato, durante la guerra con l'Iran). Ma soprattutto, ci si potrebbe interrogare su quante guerre e quanti disastri politici e umanitari continuerà a produrre questo atteggiamento, opportunista ma anche miope, prima che ci si decida a cambiare definitivamente sistema. O almeno a chiedere alla cittadinanza se preferisca “donare” 3 miliardi di euro alla Turchia perché fermi i profughi diretti in Europa, oppure concedere respiro all'economia della Grecia, dissestata da decenni di governi corrotti, peraltro legittimati dalla stessa Unione Europea.

January 19, 2016

L'attentato a Ouagadogou ha riportato in scena la rivalità tra al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) e Daesh; il richiamo al califfato e la lotta per la conquista delle rotte del contrabbando in Africa del Nord.

Sia in Medioriente che in Nord Africa, tra le maggiori fonti di finanziamento dei gruppi terroristici che si richiamano al salafismo e al takfirismo (i takfiristi sono coloro che bollano come miscredente, appunto kafir, chiunque non condivida la loro concezione dell'islam) ci sono i traffici illeciti e il contrabbando. Petrolio, armi e reperti archeologici in Siria e Iraq, armi, cocaina e migranti nel Sahel, dove queste formazioni, organizzate come veri e propri cartelli, traggono guadagno anche dai riscatti dei rapimenti. Quanto alla propaganda, regione che vai, schacchiere geopolitico che trovi. Quindi, il cosiddetto stato islamico (Daech o IS) ha esordito lanciando anatemi contro l'infausto accordo Sykes-Picot ( accordo segreto tra i governi del Regno Unito e della Francia, che definiva le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente in seguito alla sconfitta dell'impero ottomano nella prima guerra mondiale) e la corruzione dei funzionari iracheni, che speculavano sulla penuria di generi alimentari. In risposta, Aqmi ultimamente ha compiuto un vero e proprio salto di qualità nella realizzazione di video di propaganda, alzando il tono del conflitto. Culmine di questo “progresso” è stato il video di rivendicazione dell'attentato di Ouagadogou, in cui Abou Obeida Yousseh al-Annabi, considerato il numero due di Aqmi, accusa l'”Occidente” di aver disintegrato l'antico califfato smembrandolo in tanti staterelli deboli, a capo dei quali ha poi insediato suoi complici. Due gli elementi che spiccano nel suo discorso: l'appello alla liberazione di Ceuta e Melilla, enclaves spagnole in territorio marocchino (zone di reclutamento di Daesh), e la condanna del controverso accordo sottoscritto a Skhirat, in Marocco, il 17 dicembre scorso dai rappresentanti dei due parlamenti libici di Tripoli e Tobruk. Nello stesso video, inoltre, compare un combattente originario di Melilla, enclave spagnola in territorio marocchino, Abou Nasser al-Andaloussi, che in precedenza aveva esortato al terrorismo i “fratelli di Spagna”.

L'accordo di Skhirat rischia dunque di produrre gli stessi effetti, mutatis mutandis, della costituzione irachena del 2006, varata sotto l'egida di Washington. Infatti, a parte i rappresentanti libici che lo hanno firmato e la comunità internazionale che lo ha accolto come un episodio “storico”, il testo ha sollevato numerose polemiche all'interno di entrambi i parlamenti della Libia, mentre gli ulema (esperti di scienze religiose nell'islam) di Tripoli lo hanno già respinto in quanto “viola la sharia” (legge islamica). Un particolare rilievo riveste l'atteggiamento diffidente del generale Khalifa Haftar, capo delle milizie che fanno riferimento al parlamento di Tobruk e punto di riferimento del governo egiziano in Libia, per la sua opposizione alle forze ispirate all'islam politico radicale. Ex-ufficiale del colonnello Muammar Gheddafi, in seguito unitosi al Fronte nazionale per la salvezza della Libia (Fnsl), Haftar ha trascorso diversi anni negli Stati Uniti insieme ad altri combattenti, durante la presidenza di Ronald Reagan. Un periodo che gli è costato l'accusa di essere un agente dell'intelligence Usa (si veda, ad esempio, http://www.theguardian.com/world/2014/may/22/libya-renegade-general-upheaval). Sta di fatto che, malgrado l'approvazione dell'accordo di Skhirat da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Onu), il panorama politico libico appare troppo fragile per gestire autonomamente una transizione democratica.

Intanto, l'attentato di Ouagadogou ha ristabilito definitivamente l'alleanza tra i capi di due importanti cartelli terroristici che operano nel Sahel, entrambi algerini ed ex-miliziani del Gruppo islamico armato (Gia, attivo negli anni '90 in Algeria e responsabile dell'ondata di attentati in Francia nel 1995): quello di Abdelmalek Droukdel, alla guida di Aqmi da quando venne fondata nel 2007, a partire dal Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc – nato come “alternativa” al Gia nel 1998), e quello di Mokhtar Belmokhtar, alias il guercio o mr. Marlboro, in riferimento alle ricchezze accumulate con il contrabbando di sigarette. Il rapporto tra i due si era progressivamente deteriorato (Droukdel era più per un'applicazione progressiva della legge islamica e contrario alla distruzione dei mausolei, da lui considerata una provocazione inutile), finché Belmokhtar, nel 2012 (poco dopo l'inizio dell'intervento francese in Mali), esce da Aqmi e si unisce al Movimento per l'unicità di Dio e il jihad nell'Africa occidentale (Mujiao), fondando il gruppo al-Morabitoune (gli Almoravidi). Quest'ultimo, a marzo 2015, in un momento di calo di consensi per Aqmi, ha progettato ed eseguito l'attentato di Bamako, con una modalità insolita: un commando ha aperto il fuoco nel bar la Terrasse, uccidendo cinque persone, tra cui due francesi (due mesi dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo, che aveva ricevuto il plauso di Belmokhtar). È sempre il gruppo del guercio a compiere l'attentato del 13 novembre 2015, contro l'hotel Radisson Blu di Bamako, capitale del Mali, rivendicato anche da Aqmi. Qualche giorno dopo, Droukdel comunica ufficialmente l'alleanza tra Aqmi e al-Morabitoune, stipulata con il sangue dell'hotel Radisson.

La nuova unione potrebbe essere una risposta ai tentativi dei cartelli del jihad affiliati all'autoproclamatosi califfo al-Baghdadi di guadagnare terreno in Libia, tracciando percorsi più sicuri per le rotte del narcotraffico. Che riguardi l'oppio di provenienza afgana o la cocaina proveniente dall'America latina, si tratta di un mercato fruttuoso, che dal cosiddetto Highway 10 (il decimo parallelo, che passa per la Guinea e la Guinea Bissau) può portare ogni tipo di merce illegale fino alle piazze europee. In questo, la Libia è l'alternativa ideale rispetto al Marocco, paese più stabile e dalle frontiere più controllate. Se l'accordo di Skhirat e la relativa risoluzione Onu aprissero la strada a un nuovo intervento internazionale in Libia, per le rotte del narcotraffico (e per altri commerci illegali) sarebbe un ottimo passo avanti. Quanto al Burkina Faso, l'attentato di Ouagadogou è stato un duro colpo per il governo del presidente Marc Christian Kaboré, che poco dopo la sua elezione (la prima democratica dopo il colpo di stato) aveva emesso, lo scorso 21 dicembre, un mandato di cattura internazionale contro l'ex presidente Blaise Compaoré, accusato dell'omicidio di Thomas Sankara.

© 2022 FlipNews All Rights Reserved