L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Politics (400)

    Carlotta Caldonazzo

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March 12, 2018

Il discorso del presidente russo Putin sullo stato della nazione, dedicato alle questioni interne e internazionali, ha suscitato in Italia scarso interesse politico-mediatico e qualche commento ironico. Eppure dovrebbe essere ascoltato con estrema attenzione.

Evitando giri diplomatici di parole, Putin mette le carte in tavola. Egli denuncia il fatto che negli ultimi 15 anni gli Stati uniti hanno alimentato la corsa agli armamenti nucleari, cercando di acquisire un netto vantaggio strategico sulla Russia.

Ciò viene confermato dalla stessa Federazione degli scienziati americani: per mezzo di rivoluzionarie tecnologie, gli Usa hanno triplicato la capacità distruttiva dei loro missili balistici da attacco nucleare.

Allo stesso tempo – sottolinea Putin – gli Usa, uscendo dal Trattato Abm, hanno schierato un sistema globale di «difesa missilistica» per neutralizzare la capacità russa di rispondere a un first strike nucleare.

Sulla scia dell’espansione della Nato ad Est, hanno installato siti missilistici in Romania e in Polonia, mentre altri sistemi di lancio (di missili non solo intercettori ma anche da attacco nucleare) sono su 18 navi da guerra dislocate in aree vicine al territorio russo.

La Russia ha più volte avvertito gli Stati uniti e gli stati europei membri della Nato che, in risposta a tale schieramento, avrebbe adottato delle contromisure. «Nessuno però ci ascoltava, quindi ora ascoltateci», avverte Putin.

Passa quindi al linguaggio della forza, l’unico evidentemente che capiscono a Washington. Dopo aver ricordato che dopo il crollo dell’Urss la Russia aveva perso il 44,6% del suo potenziale militare e che gli Usa e i loro alleati erano convinti che essa non l’avrebbe più potuto ricostruire, Putin mostra su due grandi schermi i nuovi tipi di armi strategiche sviluppati dalla Russia.

Un missile da crociera lanciato dall’aria armato di testata nucleare, con raggio d’azione praticamente illimitato essendo alimentato a energia nucleare, una rotta imprevedibile e la capacità di penetrare attraverso qualsiasi difesa anti-missile.

I missili Kinzhal e Avangard con velocità ipersonica (oltre 10 volte quella del suono).

Il missile balistico intercontinentale Sarmat da 200 tonnellate su piattaforma mobile, con raggio di 18000 km, armato di oltre 10 testate nucleari che manovrano a velocità ipersonica per sfuggire ai missili intercettori.

Un drone sottomarino più veloce di un siluro che, alimentato a energia nucleare, percorre distanze intercontinentali a grande profondità colpendo porti e fortificazioni costiere con una testata nucleare di grande potenza.

Putin rivela le caratteristiche di tali armi perché sa che gli Stati uniti stanno sviluppando armi analoghe e vuole avvertirli che la Russia ormai è al loro livello o a un livello superiore.

Ciò conferma che la corsa agli armamenti nucleari si svolge non sulla quantità ma, sempre più, sulla qualità delle armi, ossia sul tipo di vettori e sulle capacità offensive delle testate nucleari.

Conferma allo stesso tempo il crescente pericolo che corriamo avendo sul nostro suolo armi nucleari e installazioni strategiche Usa, come il Muos e il Jtags in Sicilia.

Il ministro degli esteri russo Lavrov denuncia che «Stati europei non-nucleari membri della Nato, violando il Trattato di non-proliferazione, vengono addestrati dagli Usa all’impiego di armi nucleari tattiche contro la Russia».

L’avvertimento è chiaro, anche per l’Italia. Ma nessuno dei principali partiti ne ha preso atto, cancellando dalla campagna elettorale, con una sorta di tacito accordo, qualsiasi riferimento alla Nato e alle armi nucleari. Come se ciò non avesse niente a che fare con il nostro futuro e la nostra stessa vita.



(il manifesto 6 marzo, pubblicata il 9 marzo)

March 01, 2018

khkh28 feb 2018 — Il piano fu preannunciato tre anni fa, durante l’amministrazione Obama, quando funzionari del Pentagono dichiararono che «di fronte all’aggressione russa, gli Stati uniti stanno considerando lo spiegamento in Europa di missili con base a terra» (il manifesto, 9 giugno 2015).

Ora, con l’amministrazione Trump, esso viene ufficialmente confermato. Nell’anno fiscale 2018 il Congresso degli Stati uniti ha autorizzato il finanziamento di «un programma di ricerca e sviluppo di un missile da crociera lanciato da terra da piattaforma mobile su strada».

È un missile a capacità nucleare con raggio intermedio (tra 500 e 5500 km), analogo ai 112 missili nucleari Cruise schierati dagli Usa a Comiso negli anni Ottanta.

Essi vennero eliminati, insieme ai missili balistici Pershing 2 schierati dagli Usa in Germania e agli SS-20 sovietici schierati in Urss, dal Trattato sulle forze nucleari intermedie (Inf), stipulato nel 1987. Esso proibisce lo schieramento di missili con base a terra e gittata compresa tra 500 e 5500 km.

Washington accusa ora Mosca di schierare missili di questa categoria e dichiara che, «se la Russia continua a violare il Trattato Inf, gli Stati uniti non saranno più vincolati da tale trattato», ossia saranno liberi di schierare in Europa missili nucleari a raggio intermedio con base a terra.

Viene però ignorato un fatto determinante: i missili russi (ammesso che siano a raggio intermedio) sono schierati in funzione difensiva in territorio russo, mentre quelli statunitensi a raggio intermedio sarebbero schierati in funzione offensiva in Europa a ridosso del territorio russo. È come se la Russia schierasse in Messico missili nucleari puntati sugli Stati uniti.

Poiché continua la escalation Usa/Nato, è sempre più probabile lo schieramento di tali missili in Europa. Intanto l’Ucraina ha testato agli inizi di febbraio un missile a raggio intermedio con base a terra, realizzato sicuramente con l’assistenza Usa.

I nuovi missili nucleari statunitensi – molto più precisi e veloci dei Cruise degli anni Ottanta – verrebbero schierati in Italia e probabilmente anche in paesi dell’Est, aggiungendosi alle bombe nucleari Usa B61-12 che arriveranno in Italia e altri paesi dal 2020.

In Italia, i nuovi Cruise sarebbero con tutta probabilità di nuovo posizionati in Sicilia, anche se non necessariamente a Comiso. Nell’isola vi sono due installazioni Usa di primaria importanza strategica.

La stazione Muos di Niscemi, una delle quattro su scala mondiale (2 negli Usa, 1 in Australia e 1 in Sicilia) del sistema di comunicazioni satellitari che collega a un’unica rete di comando tutte le forze statunitensi, anche nucleari, in qualsiasi parte del mondo si trovino.

La Jtags, stazione di ricezione e trasmissione satellitare dello «scudo anti-missili» statunitense, che sta per divenire operativa a Sigonella. È una delle cinque su scala mondiale (le altre si trovano negli Stati uniti, in Arabia Saudita, Corea del Sud e Giappone). La stazione, che è trasportabile, serve non solo alla difesa anti-missile ma anche alle operazioni di attacco, condotte da basi avanzate come quelle in Italia.

«Gli Stati uniti – spiega il Pentagono nel rapporto «Nuclear Posture Review 2018» – impegnano armi nucleari, dispiegate in basi avanzate in Europa, per la difesa della Nato. Queste forze nucleari costituiscono un essenziale legame politico e militare tra Europa e Nord America».

Legandoci alla loro strategia non solo militarmente ma politicamente, gli Stati uniti trasformano sempre più il nostro paese in base avanzata delle loro armi nucleari puntate sulla Russia e, quindi, in bersaglio avanzato su cui sono puntate le armi nucleari russe.

 

(il manifesto, 27 febbraio 2018)

February 27, 2018

21 feb 2018 — C’è un partito che, anche se non compare, partecipa di fatto alle elezioni italiane: il Nato Party, formato da una maggioranza trasversale che sostiene esplicitamente o con tacito assenso l’appartenenza dell’Italia alla Grande Alleanza sotto comando Usa.

Ciò spiega perché, in piena campagna elettorale, i principali partiti hanno tacitamente accettato gli ulteriori impegni assunti dal governo nell’incontro dei 29 ministri Nato della Difesa (per l’Italia Roberta Pinotti), il 14-15 febbraio a Bruxelles.

I ministri hanno prima partecipato al Gruppo di pianificazione nucleare della Nato, presieduto dagli Stati uniti, le cui decisioni sono sempre top secret. Quindi, riunitisi come Consiglio Nord Atlantico, i ministri hanno annunciato, dopo appena due ore, importanti decisioni (già prese in altra sede) per «modernizzare la struttura di comando della Nato, spina dorsale della Alleanza».

Viene stabilito un nuovo Comando congiunto per l’Atlantico, situato probabilmente negli Stati uniti, allo scopo di «proteggere le linee marittime di comunicazione tra Nord America ed Europa». Si inventa in tal modo lo scenario di sottomarini russi che potrebbero affondare i mercantili sulle rotte transatlantiche.

Viene stabilito anche un nuovo Comando logistico, situato probabilmente in Germania, per «migliorare il movimento in Europa di truppe ed equipaggiamenti essenziali alla difesa». Si inventa in tal modo lo scenario di una Nato costretta a difendersi da una Russia aggressiva, mentre è la Nato che ammassa aggressivamente forze ai confini con la Russia. Su tale base saranno istituiti in Europa altri comandi della componente terrestre per «migliorare la risposta rapida delle nostre forze».

Previsto anche un nuovo Centro di Cyber Operazioni per «rafforzare le nostre difese», situato presso il quartier generale di Mons (Belgio), con a capo il Comandante supremo alleato in Europa che è sempre un generale Usa nominato dal presidente degli Stati uniti.

Confermato l’impegno ad accrescere la spesa militare: negli ultimi tre anni gli alleati europei e il Canada l’hanno aumentata complessivamente di 46 miliardi di dollari, ma è appena l’inizio. L’obiettivo è che tutti raggiungano almeno il 2% del pil (gli Usa spendono il 4%), così da avere «più denaro e quindi più capacità militari». I paesi europei che finora hanno raggiunto e superato tale quota sono: Grecia (2,32%), Estonia, Gran Bretagna, Romania, Polonia.

La spesa militare dell’Unione europea – è stato ribadito in un incontro con la rappresentante esteri della Ue Federica Mogherini – deve essere complementare a quella della Nato.

La ministra Pinotti ha confermato che «l’Italia, rispettando la richiesta Usa, ha cominciato ad aumentare la spesa per la Difesa» e che «continueremo su questa strada che è una strada di responsabilità». La via dunque è tracciata. Ma di questo non si parla nella campagna elettorale.

Mentre sull’appartenenza dell’Italia all’Unione europea i principali partiti hanno posizioni diversificate, sull’appartenenza dell’Italia alla Nato sono praticamente unanimi. Questo falsa l’intero quadro.

Non si può discutere di Unione europea ignorando che 21 dei 27 paesi Ue (dopo la Brexit), con circa il 90% della popolazione dell’Unione, fanno parte della Nato sotto comando Usa. Non si possono ignorare le conseguenze politiche e militari – e allo stesso tempo economiche, sociali e culturali – del fatto che la Nato sta trasformando l’Europa in un campo di battaglia contro la Russia, raffigurata come un minaccioso nemico: il nuovo «impero del male» che attacca dall’interno «la più grande democrazia del mondo» con il suo esercito di troll.

 

(il manifesto, 20 febbraio 2018)

February 11, 2018
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 Erdogan (a sin.) con Mattarella

Dalla sua entrata nell'Organizzazione del trattato dell'Atlantico del Nord (NATO), Ankara è passata dal profilo di alleato mansueto e utile a quello di partner indispensabile; ora, forte della sua posizione e delle relazioni tattiche con Russia e Iran, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan presenta il conto ai suoi vecchi alleati

 

L'operazione Ramo di ulivo, lanciata dalla Turchia nella regione siriana di Afrin nella notte tra il 19 e il 20 gennaio, ha sostanzialmente due finalità strategiche. Erdoğan infatti intende da un lato affermarsi sullo scenario politico interno come l'unica figura in grado di difendere i confini della Turchia e la sicurezza nel suo territorio, dall'altro imporsi come interlocutore indispensabile nel futuro assetto strategico dell'intera regione. Ambiguità e pragmatismo, con cui Ankara ha dato una veste di legittimità alle sue aspirazioni egemoniche, le hanno consentito di costruirsi un ruolo di attore di primo piano tra i Balcani e il Medio Oriente sin dai tempi della guerra fredda. Gia nel 1950, l'anno successivo alla fondazione della NATO, la Turchia contribuì con 5.000 uomini al contingente dell'Organizzazione delle nazioni unite (ONU) a guida statunitense impegnato nella guerra tra le due Coree, che si concluse nel 1953. Fu questo il “pagamento anticipato” dell'ingresso nell'Alleanza atlantica, avvenuto ancor prima della fine del conflitto, nel 1952. Una decisione che causò una svolta nella politica estera turca, che il padre della patria Atatürk immaginava orientata essenzialmente all'area eurasiatica, quindi tesa a stabilire buone relazioni con l'Unione Sovietica. Tale cambiamento (che non comportò una rottura completa delle relazioni con Mosca) permise alla Turchia di potenziare il proprio esercito grazie al sostegno della NATO, ma soprattutto di Washington, con cui Ankara stabilì relazioni bilaterali solide. Infatti, il dominio sovietico sul Mar Nero rendeva indispensabile per il blocco occidentale il controllo degli Stretti, che il Trattato di Losanna del 1923 aveva assegnato alla Turchia.

 

Tale strategia ebbe il suo coronamento a partire dagli anni '90 del XX secolo, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, nei due decenni in cui la Cina rimase sostanzialmente estranea alle dinamiche che posero le basi del nuovo (dis)ordine mondiale, i cui esiti disastrosi hanno nel conflitto siriano la loro manifestazione più evidente. Nel ventennio tra anni '90 e primi anni 2000, la Turchia si impose di fatto come pedina indispensabile del controllo statunitense nei Balcani e in area caucasica, facendo leva nel primo caso sui legami culturali e religiosi con le popolazioni musulmane, nel secondo sui legami “etnici” con gli azeri. In tal modo ottenne da sola, nell'ambito della globalizzazione, lo stesso peso geopolitico dell'Unione Europea, concepita inizialmente come strumento per impedire eventuali tentativi di espansione sovietica a Ovest, poi (a partire dal trattato di Maastricht del 1992) come mediatore in vista dell'estensione del sistema di alleanze USA. Un piano strategico nel quale la Germania avrebbe dovuto gestire la “transizione” nei paesi dell'Europa orientale, mentre la Francia avrebbe dovuto curare i rapporti con la sponda meridionale del Mar Mediterraneo. Nondimeno, dal momento in cui Washington si impose come unica potenza mondiale, l'ONU, fondata dopo la seconda guerra mondiale per limitare al massimo il diritto di ricorrere alla guerra per dirimere i conflitti, divennero sempre più manifestamente mezzi per stabilire il suo controllo americano su regioni un tempo a vario titolo comprese nella sfera di influenza sovietica.

 

Se la Turchia può rimproverare agli USA di sostenere quelli che considera i “terroristi” delle Unità di difesa popolare siriane (YPG curde) è quindi anzitutto a causa della perdita di credibilità degli organismi sovranazionali, in primis dell'ONU, le cui risoluzioni acquistano un'efficacia direttamente proporzionale alla loro utilità per Washington e i suoi alleati, e dell'Unione Europea. In secondo luogo, Ankara può facilmente trarre profitto dalla linea dei “due pesi e due misure” adottata da Europa e USA nelle relazioni internazionali. Tale linea è divenuta particolarmente evidente dagli anni '90, quando gli Stati Uniti, rimasti l'unica potenza mondiale dopo la caduta dell'URSS, hanno di fatto modificato le regole internazionali sul ricorso alla guerra stabilite dalla Carta dell'ONU nel 1945. Uno sviluppo di cui è particolarmente responsabile il governo USA di William Jefferson Clinton (1993-2001), che attribuì alla Turchia il ruolo di “gendarme” della globalizzazione nei Balcani (di concerto con la Germania) e in Medio Oriente. In quest'ultimo scenario, tra i maggiori disastri provocati dal monopolarismo mondiale a guida statunitense spiccano la libertà di Israele di ignorare le risoluzioni ONU e le difficili condizioni del popolo curdo. Per il primo caso basti citare che l'iniziativa del presidente USA Donald John Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele affonda le sue radici in una legge approvata dal Congresso nel 1995 (che autorizzava il trasferimento della rappresentanza diplomatica di Washington da Tel Aviv a Gerusalemme). Nel secondo caso, il sostegno statunitense alle forze curde siriane delle Unità di difesa popolare (YPG) nella guerra contro i cartelli del jihad non solo non ha impedito che la Turchia le prendesse come obiettivo delle operazioni militari lanciate nel gennaio scorso, anzi, al contrario, viene utilizzato da Ankara come strumento di pressione sugli Stati Uniti. Il governo turco infatti ha invitato domenica scorsa Washington a “recuperare le armi inviate ai terroristi”, da una posizione di forza: il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), cui sono affiliate le YPG in Siria, è nella lista delle organizzazioni terroristiche non solo in Turchia, ma anche negli Stati Uniti e in Europa. Inoltre, l'alleanza recentemente stipulata con Mosca e Tehran per la gestione dei colloqui di pace tra le fazioni in guerra in Siria ha aumentato il peso di Ankara nella regione.

 

Così, Erdoğan con l'operazione Ramo di ulivo sta tentando di imporre il proprio ruolo nei Balcani e in Medio Oriente, non più come gendarme degli USA ma come soggetto politico con una propria visione strategica. Nei Balcani devastati dalle politiche miopi di Bruxelles e Washington esercita un controllo culturale attraverso la fondazione e il finanziamento di moschee e centri islamici. In Siria invece punta a privare i curdi del controllo dei loro territori e di un qualsiasi peso politico in futuri negoziati di pace. Domenica il presidente turco ha sottolineato per l'ennesima volta la continuità tra Impero ottomano e attuale Repubblica di Turchia, ossia quella rinata dopo il rocambolesco tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016, unita attorno al “nuovo” padre della patria, che mira a garantire l'unità del paese (che in realtà significa repressione del dissenso) e la sua sicurezza interna ed esterna (contro i nemici del PKK). Domenica scorsa il Partito democratico dei popoli (HDP, partito turco filo-curdo) ha eletto i suoi nuovi due dirigenti, visto che poche sono le speranze di liberare dal carcere i precedenti. Messa a tacere ogni dialettica istituzionale, il nuovo sultano presenta il conto ai vecchi alleati.

February 07, 2018

gdsgdgSalvini: "Un obbligo di 6-8 mesi, ragazzi e ragazze potranno scegliere se farlo civile o militare. Meglio militare: educa all'uso delle armi, evitando disastri come quello di Macerata. E integra chi è venuto dall'altra parte del mondo crescendolo nell'amore per l'Italia". 

 

Si leggono sui quotidiani le dichiarazioni di intenti del leader della Lega Salvini circa la reintroduzione del servizio di leva obbligatorio: insomma, come dice un noto scrittore americano "A volte ritornano". Le opinioni non possono essere che discordanti. Chi vorrebbe andare a fare la naja al giorno d'oggi? Pochini fra i nostri ragazzi credo. Da molti si dice che il servizio militare sia tempo gettato alle ortiche. La vita è tanto comoda in casa con mamma e papà, no? Meglio tirare a campare, fare i bamboccioni che crescere quasi di colpo. Meno rogne, meno regole, meno, anzi, assolutamente niente disciplina. Guardate che qui non sto affatto propugnando le idee del buon Salvini che il militare l'ha fatto e proprio in quella caserma milanese oggi adibita a ricovero o rifugio migranti, la caserma Montello. Però… però qualche ragione l'ha pure quando dice che la Naja militare "Educa a un uso responsabile consapevole dell'arma, come avviene in Svizzera, anche per evitare i disastri che vediamo in questi giorni e quando sei in camerata non conta nulla dove sei nato. E un servizio di leva obbligatorio, civile o militare ma soprattutto militare, aiutarebbe l'integrazione di ragazzi che sono venuti qui dall'altra parte del mondo e che cresceranno con l'amore per l'Italia. Credo poi – Continua Salvini - che per i nostri ragazzi sia meglio battagliare in Parlamento per il servizio militare obbligatorio che per la liberalizzazione di alcune droghe. Mio figlio ha 14 anni e io spero che un giorno possa dire che il suo papà ha fatto qualcosa di concreto. "

E per quanto concerne all'aggravio delle spese statali per il mantenimento di un esercito di leva Salvini afferma che: "Se si vuole i soldi si trovano. Non credo nel solo servizio civile, perché se uno vuole oggi ha mille possibilità. Quindi meglio un obbligo di 6-8 mesi, per ragazzi e ragazze che potranno scegliere se farlo civile o militare. Molti Stati che hanno disarmato ora stanno tornando sui propri passi". Credo comunque che la vecchia Naja di buona memoria qualche successo l'avesse ottenuto ritengo io: aveva fatto in modo che ragazzi del nord e ragazzi del sud si amalgamassero fra loro, conoscessero le rispettive culture fondendole poi comunque in quella nazionale. Si sentivano soprattutto italiani e non più solo siciliani o piemontesi. E guardate che non fu poco! I ricordi di chi scrive, ormai lontani tanti anni da quei tempi, sono comunque positivi. Frequentavo l'università ma non pensai che il servizio militare fosse la perdita di diciotto mesi della mia vita e che avrebbe compromesso i miei studi. Infatti non fu così. Ero felice di indossare la divisa alpina dell'esercito italiano come avevano fatto a loro tempo, mio padre e mio nonno e che lo si voglia credere o no fui arricchito da quell'esperienza. Quando uscii per l'ultima volta dalla "Cesare Battisti" di Merano sapevo di avere una certezza in più nella mia vita.





Silvio Foini

January 27, 2018

hjfhfgL'ITALIA NEL PIANO NUCLEARE DEL PENTAGONO

Comitato promotore della campagna #NO GUERRA #NO NATO

Italia

25 gen 2018 

Il Nuclear Posture Review 2018, il rapporto del Pentagono sulla strategia nucleare degli Stati uniti, è attualmente in fase di revisione alla Casa Bianca. In attesa che sia pubblicata la versione definitiva approvata dal presidente Trump, è filtrata (più propriamente è stata fatta filtrare dal Pentagono) la bozza del documento di 64 pagine.

Esso descrive un mondo in cui gli Stati uniti hanno di fronte «una gamma senza precedenti di minacce», provenienti da stati e soggetti non-statali. Mentre gli Usa hanno continuato a ridurre le loro forze nucleari – sostiene il Pentagono – Russia e Cina basano le loro strategie su forze nucleari dotate di nuove capacità e assumono «un comportamento sempre più aggressivo anche nello spazio esterno e nel cyberspazio».

La Corea del Nord continua illecitamente a dotarsi di armi nucleari. L’Iran, nonostante abbia accettato il piano che gli impedisce di sviluppare un programma nucleare militare, mantiene «la capacità tecnologica di costruire un’arma nucleare nel giro di un anno».

Falsificando una serie di dati, il Pentagono cerca di dimostrare che le forze nucleari degli Stati uniti sono in gran parte obsolete e necessitano di una radicale ristrutturazione. Non dice che gli Usa hanno già avviato, nel 2014 con l’amministrazione Obama, il maggiore programma di riarmo nucleare dalla fine della guerra fredda dal costo di oltre 1000 miliardi di dollari.

«Il programma di modernizzazione delle forze nucleari Usa – documenta Hans Kristensen della Federazione degli scienziati americani – ha già permesso di realizzare nuove tecnologie rivoluzionarie che triplicano la capacità distruttiva dei missili balistici Usa».

Scopo della progettata ristrutturazione è, in realtà, quello di acquisire «capacità nucleari flessibili», sviluppando «armi nucleari di bassa potenza» utilizzabili anche in conflitti regionali o per rispondere a un attacco (vero o presunto) di hacker ai sistemi informatici.

La principale arma di questo tipo è la bomba nucleare B61-12 che, conferma il rapporto, «sarà disponibile nel 2020». Le B61-12, che sostituiranno le attuali B-61 schierate dagli Usa in Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia, rappresentano – nelle parole del Pentagono – «un chiaro segnale di deterrenza a qualsiasi potenziale avversario, che gli Stati uniti posseggono la capacità di rispondere da basi avanzate alla escalation».

Come documenta la Federazione degli scienziati americani, quella che il Pentagono schiererà nelle «basi avanzate» in Italia ed Europa non è solo una versione ammodernata della B61, ma una nuova arma con una testata nucleare a quattro opzioni di potenza selezionabili, un sistema di guida che permette di sganciarla a distanza dall’obiettivo, la capacità di penetrare nel terreno per distruggere i bunker dei centri di comando.

Dal 2021 – specifica il Pentagono – le B61-12 saranno disponibili anche per i caccia degli alleati, tra cui i Tornado italiani PA-200 del 6° Stormo di Ghedi. Ma, per guidarle sull’obiettivo e sfruttarne le capacità anti-bunker, occorrono i caccia F-35A.

«I caccia di nuova generazione F-35A – sottolinea il rapporto del Pentagono – manterranno la forza di deterrenza della Nato e la nostra capacità di schierare armi nucleari in posizioni avanzate, se necessario per la sicurezza». Il Pentagono annuncia quindi il piano di schierare F-35A, armati di B61-12, a ridosso della Russia. Ovviamente per la «sicurezza» dell’Europa.

Nel rapporto del Pentagono, che il senatore democratico Edward Markey definisce «roadmap per la guerra nucleare», c’è dunque in prima fila l’Italia. Interessa questo a qualche candidato alle nostre elezioni politiche?

(il manifesto, 23 gennaio 2018)

January 15, 2018
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 Teheran

I toni sproporzionatamente aggressivi del presidente degli Stati Uniti Donald Trump nei confronti dell'Iran riproducono una dinamica piuttosto ricorrente, soprattutto nelle fasi di transizione e assestamento dell'assetto geopolitico mondiale: i governi alleati di oggi sono i peggiori nemici di domani.

 

La questione del controllo delle potenze straniere sull'Iran emerse per la prima volta alla fine del XIX secolo, durante il regno degli ultimi shah della dinastia turkmena dei Qajar (che guidò il paese dal 1786 al 1925), in concomitanza con due processi concomitanti. In primo luogo, le idee che animavano il dibattito politico-ideologico europeo sui sistemi di governo costituzionali e sulle funzioni del Parlamento penetrarono gradualmente tra gli intellettuali, tra i funzionari e soprattutto tra ulema (clero sciita) e mercanti. Un processo favorito, oltre che dall'aumento dei contatti diplomatici ed economici con l'Europa, anche dalle attività degli intellettuali iraniani in esilio a Costantinopoli e a Calcutta. Infatti, nella seconda metà del XIX secolo, laici, riformisti e religiosi crearono società segrete e, tra XIX e XX secolo, anche organizzazioni la cui struttura era ispirata ai soviet russi. In secondo luogo, negli ultimi decenni dell'800, dopo la sconfitta francese contro la Prussia, le potenze europee dirottarono le loro rivalità al di fuori del vecchio continente, trasformando i conflitti per l'egemonia sull'Europa in una corsa al colonialismo imperialista. In tale contesto l'Iran divenne teatro dello scontro tra Gran Bretagna e Impero russo zarista, che se ne contesero il controllo ostacolandone lo sviluppo e “dirigendo” i cambiamenti socio-politici, persino quelli che, come la rivoluzione costituzionale, avevano tra gli scopi principali l'indipendenza.

 

Britannici e russi furono i primi istituti bancari iraniani, di cui il primo fu la britannica Imperial Bank of Persia, fondata nel 1889, che inizialmente aveva anche il diritto di sfruttare le risorse minerarie. Di poco successiva fu la fondazione, su iniziativa russa, della Banque des Prêts, poi chiamata Banque d'Escompte de Perse. La creazione di queste banche fu al contempo il risultato e la causa del crescente indebitamento nei confronti delle potenze occidentali degli shah Qajar, che con il loro dispendioso apparato dissestarono le finanze e l'economia del paese, riducendolo a una condizione di semi-colonia. Ad esempio, la fondazione della Imperial Bank of Persia fu autorizzata dallo shah Naser al-Din per pagare parte della cauzione stabilita dall'accordo per la concessione al barone britannico Julius de Reuter del controllo di strade, telegrafi, stabilimenti industriali e dell'estrazione di minerali (1872). Accordo che lo shah aveva dovuto annullare su pressione della Russia e dei cortigiani filorussi. Inoltre, dal punto di vista politico, uno dei problemi principali dei Qajar era lo scarso controllo del paese, per la tendenza a governare più secondo il modello dei capi tribù che secondo i criteri di una monarchia moderna. Basti pensare che l'unico esercito moderno in Iran era la Brigata cosacca, corpo di guardia della dinastia regnante, fondato nel 1879 e comandato da ufficiali russi fino alla rivoluzione bolscevica del 1917.

 

Anche per questo qualsiasi riforma fiscale per risanare il bilancio era difficile da elaborare e da attuare. Pertanto, nel 1897 il primo ministro iraniano Amin a-Dauleh si rivolse a una squadra di consulenti belgi guidata da Joseph Naus. Il cambiamento, che riguardò soprattutto tasse e dazi doganali, aumentò le entrate fiscali della monarchia iraniana (il successo valse a Naus addirittura la nomina a ministro), ma accrebbe anche il malcontento dei mercanti (per il timore di un aumento delle tasse) e dei cortigiani (gelosi dei loro privilegi). In Iran non esisteva una borghesia, ma la classe mercantile (i cosiddetti bazarì) alla fine del XIX secolo, grazie all'incremento dei commerci aveva conquistato un notevole peso all'interno della società. Perciò l'ostilità dei mercanti nei confronti della dinastia regnante fu determinante sia nella protesta del tabacco del 1891, sia nella rivoluzione costituzionale del 1906. Un contributo decisivo al successo di questi moti venne poi dagli ulema, il cui rapporto di interdipendenza con la monarchia si incrinò tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Ciò è da imputarsi in buona parte ai tentativi degli ultimi sovrani Qajar di “intromettersi” in settori chiave del potere religioso, quali l'istruzione e i tribunali.

 

La situazione esplose quando nel 1890 Naser al-Din concesse al maggiore britannico Gerald F. Talbot il monopolio sulla produzione, la vendita e l'esportazione di tabacco per cinquant'anni, in cambio di 15 mila sterline l'anno più un quarto dei profitti. Un accordo che distrusse il mercato locale di un prodotto molto popolare, quindi non solo colpì i mercanti, ma ridusse in miseria una parte consistente dei ceti più vulnerabili, che traevano sostentamento dalla coltivazione e dalla lavorazione del tabacco. Consapevoli di ciò, le autorità iraniane tentarono di mantenere segreta la concessione, ma un giornale fondato dalla diaspora iraniana a Costantinopoli diffuse la notizia. Quando la protesta dilagò tra i mercanti partendo da Shiraz, la guida religiosa di questa città, esiliata in Iraq, entrò in contatto con religiosi e intellettuali di origine persiana e convinse il leader sciita di Najaf a emettere una fatwa che vietasse il consumo e la vendita di tabacco. A causa del boicottaggio sistematico che questo divieto innescò, lo shah annullò la concessione.

 

Russia e Gran Bretagna intervennero nuovamente quando, nel 1896, Naser al-Din fu ucciso: la Brigata cosacca prese il controllo di Tehran, mentre sul trono fu insediato il figlio di Naser a-Din, Muzaffar a-Din. Al malcontento generato dalle riforme fiscali si aggiunse quindi la crescente preoccupazione per l'ingerenza straniera. Con il parere contrario della Russia, nel 1901 il nuovo shah concluse un accordo con il miliardario britannico William Knox D'Arcy: la Gran Bretagna avrebbe avuto il controllo delle riserve petrolifere iraniane per 60 anni, in cambio di 20 mila sterline e del 16% dei profitti. Nel 1909 i diritti passarono alla neo-fondata Anglo-Persian Oil Company, che nel 1935 divenne Anglo-Iranian Oil Company. La stessa compagnia fu accusata di monopolizzare i proventi del petrolio tenendo segreti i guadagni effettivi, quindi nazionalizzata nel 1952 dal Parlamento iraniano su impulso, tra gli altri, di Mohammad Mossadegh, poi eletto Primo ministro. Ciò innescò la serie di avvenimenti culminata con il colpo di stato che lo depose nel 1953, fu ordito dall'intelligence statunitense: l'Operazione Ajax stroncò l'opposizione laica allo shah Mohammad Reza, le cui violazioni dei diritti umani allora non preoccupavano Stati Uniti e Gran Bretagna.

La convenzione D'Arcy dunque accese ulteriormente il dibattito politico iraniano: tra gli intellettuali riformisti, religiosi e laici, si fece strada l'idea che solo un regime costituzionale, con un Parlamento, avrebbe posto fine all'arbitrio della monarchia, quindi alla dipendenza dell'Iran dalle potenze straniere. Un'ingerenza che preoccupava anche gli ulema, consolidando la loro alleanza con i mercanti e gli artigiani di Tehran e con gli intellettuali riformisti. La rivoluzione costituzionale del 1906 rappresentò quindi un salto di qualità nei metodi rispetto al boicottaggio del tabacco: durante gli scontri con le autorità, molti ulema si rifugiarono nei santuari di Qom, mentre migliaia di mercanti e artigiani chiesero protezione alla delegazione britannica, tutti portando avanti forme di protesta pacifiche organizzate. Lo shah convocò un Parlamento (formato da mercanti, religiosi, funzionari e latifondisti) e ratificò una Costituzione che limitava i suoi poteri, ma morì poco più di un mese dopo. Temendo che l'instabilità politica ostacolasse i loro interessi, Russia e Gran Bretagna conclusero un accordo per spartirsi le zone di influenza in Iran (1907): alle autorità locali rimaneva praticamente solo il controllo della regione centrale. Così, quando nel 1908 lo shah Mohammad Ali, con il sostegno della Brigata cosacca, tentò il colpo di stato per restaurare la monarchia assoluta, Londra e San Pietroburgo (quest'ultima inizialmente schierata con lo shah) intervennero direttamente. Costituzione e Parlamento furono ripristinati e lo shah abdicò in favore del figlio Ahmad, ultimo sovrano della dinastia Qajar.

 

Alla Gran Bretagna, che non voleva perdere il suo primato economico (in vista del quale il controllo politico era un mezzo), si aggiunsero nel 1910 gli Stati Uniti, che dal secondo dopoguerra tentarono in tutti i modi di imporsi in Medio Oriente, quindi anche in Iran, in funzione anti-sovietica. Basti citare L'Iran-Contras affaire (1985-1986), in cui fu coinvolto anche l'allora presidente USA Ronald Reagan, oltre alla già menzionata operazione Ajax del 1953, con la quale Gran Bretagna e Stati Uniti deposero il Primo ministro Mossadegh, anche organizzando contro di lui manifestazioni di protesta. Il pretesto fu il referendum per lo scioglimento del Parlamento e l'obiettivo era ripristinare il potere “legittimo” dello shah Muhammad Reza, ma il colpo di stato contro Mossadegh fu in realtà una mossa per evitare che il suo governo, sotto l'embargo britannico, intavolasse trattative con l'Unione Sovietica per il commercio del petrolio. Il risultato fu il logoramento delle forze politiche laiche che si opponevano all'arbitrio dello shah e alla subordinazione degli interessi iraniani a quelli di potenze straniere. Lo shah fu poi rovesciato dalla rivoluzione islamica del 1979: shah mat, scacco matto, ossia “il re (shah) è morto”, ma nella logica di potenza, morto uno shah se ne fa sempre un altro.

January 04, 2018
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 Aleksey Navalny

Novità elettorale natalizia in Russia, protagonista Babbo Natale. Il partito ''Russia Unita'' ha pubblicato un video dove una bambina chiede a Babbo Natale di far vincere le elezioni a Vladimir Putin, ciò mentre proprio la Commissione elettorale centrale del Cremlino aveva accusato Aleksey Navalny, oppositore di Putin, di usare bambini per i suoi scopi elettorali.

Nel video la bambina chiede a BABBO NATALE di far diventare presidente Vladimir Putin, la scena si svolge proprio mentre scorrono immagini di Putin che parla in televisione, e promette che se verrà esaudito questo suo desiderio non chiederà altro a Babbo Natale e questi gli risponde che ha già ricevuto molte richieste del genere.

Come accennato in precedenza le autorità avevano accusato Alexei Navalny di usare e ingannare i giovani. Motivo di tali accuse le proteste del 26 marzo e del 12 giugno scorso nelle quali migliaia di

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 VIDEO

giovani sono scesi in piazza. In seguito a ciò il Consiglio della Federazione Russa ha presentato una proposta di legge per impedire ai minori di partecipare a manifestazioni non autorizzate.

E’ iniziata la campagna elettorale in vista delle elezioni del 18 marzo 2018 e Vladimir Putin non avrà rivali, vari sondaggi lo danno al 55-63% di consenso, cosa che gli permetterebbe di rimanere alla guida del paese fino al 2024.

In questi ultimi tempi il principale oppositore di Putin e' stato Alexey Navalny , fondatore del Partito del Progresso, protagonista di molte manifestazioni nel paese e, proprio a causa di queste manifestazioni non autorizzate e alcune vicende finanziarie, è' stato condannato per due volte, ciò che gli ha precluso il permesso ad essere candidato. In seguito a ciò ha tentato di raccogliere le 300.000 firme richieste per la candidatura, ma è stato nuovamente arrestato e la sua esclusione dalle elezioni e' stata confermata definitivamente dalla Corte Suprema.

Gli altri partiti per queste elezioni sono il Partito Comunista di Gennadij Zyuganov. Sfiorò la vittoria nel 1996 contro Boris Yeltsin, ma nelle successive elezioni sono arrivate solo sconfitte. Negli ultimi tempi si sta cercando di ringiovanirne la classe dirigente. Per il momento il candidato che dovrà essere il premier è ancora in lista di attesa.

Il partito liberale che punterà ancora su Vladimir Zhirinovsky, i socialdemocratici avranno come leader Sergey Mironov, i verdi Anatoly Batashev, i comunisti di Russia Maxim Suraikin e il partito di centro sinistra Yabloko, Grigory Yavlinsky. C'e' anche un partito monarchico a memoria dell'impero russo e sarà guidato da Anton Bakov.

Altri nomi in odore di candidatura sono il vice primo ministro Dmitry Rogozin, la giornalista Irina Prokhorova, l'attore Ivan Okhlobystin e un volto televisivo, Ksenia Sobchak.

January 04, 2018
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 Putin con il card. Parolin

In questi ultimi tempi molti media parlano di un possibile viaggio di papa Francesco a Mosca, sembra che il Vaticano stia preparando questa ipotesi. Ultimamente tra Vaticano e Putin esiste una nuova politica, soprattutto per quanto riguarda quella estera, e nel messaggio di fine anno di auguri ai leader mondiali Putin ha sottolineato nella missiva indirizzata alla Santa Sede: “che la speranza del dialogo costruttivo per proteggere la pace e i valori umani tra Russia e Vaticano continui ”.

Le visite di Putin in Vaticano, le telefonate con Papa Francesco, hanno creato relazioni di fiducia, ha dichiarato Alexander Avdeev l'ambasciatore russo presso il Vaticano e prelude ad una visita del pontefice in Russia.

Naturalmente sarà interessante anche l'incontro con il Patriarca Kirill, già incontrato il 12 febbraio nel 2016 a Cuba e quella data fu già di per se un evento storico: la chiesa d'occidente e quella d'oriente si divisero nel grande scisma del 1054.

Nel 2017 ci sono stati degli avvenimenti importanti per le relazioni tra Vaticano e Russia e ciò rende sempre più probabile il viaggio di Papa Francesco a

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 Reliquia di San Nicola Bari

Mosca.   Nel maggio scorso, dopo 930 anni, la reliquia di San Nicola dalla Cattedrale di Bari ha raggiunto la capitale russa e in agosto c’è stata la visita del Cardinale Pietro Parolin che ha incontrato il Patriarca Kirill e Putin.

Tutto ciò fa pensare che il 2018 sarà l'anno di Papa Francesco e Putin, oppure sarà un anno che rimarrà nelle date della storia, e cioè del riavvicinamento tra chiesa cristiana e chiesa ortodossa ....staremo a vedere

January 04, 2018

Armi Italia 720x480Dovremmo smetterla di aiutare i paesi del Terzo Mondo, quelli in via di sviluppo, smettere di ”aiutarli a casa loro”, per lo meno non con il modo spesso portato avanti finora.

Smetterla di approntare “missioni di pace”, avvallate dall’ONU, supportate dai caschi blu, far passare convogli di aiuti umanitari e a seguire tonnellate di bombe, cibo in scatola e milioni di mine antiuomo, supporto logistico e fiumi di armi.

Dovremmo smetterla di indignarci, quando scopriamo che il nostro Ministero della Difesa, allora presieduto dalla signora Pinotti, non andava propriamente a intrattenere “relazioni diplomatiche” con l’Arabia Saudita. Improvvisamente svegliarci un mattino e candidi come un fiocco di neve esclamare indignati…”Oh ma che schifo in Yemen! Bombe italiane che hanno ucciso bambini”

Smetterla, perché la stessa identica cosa avviene da anni in Palestina con le forniture Beretta, Melara, Finmeccanica ecc.

Smetterla di sorprenderci se con quelle stesse armi, in Palestina, qualcuno sparerà alle ginocchia dei bimbi, così da renderli infermi, oppure farà fuoco mirando ai genitali degli uomini, affinché non si possano riprodurre, o ancora piangere quando nei raid israeliani sui campi profughi i civili vengono uccisi con i Mangusta di produzione tutta italiana.

Smetterla di far finta di non sapere che l’Italia da anni è il maggiore esportatore dell’Unione Europea di sistemi militari e di armi leggere dirette verso Israele, con medie di 500 milioni di euro l’anno per esportazione di sistemi militari (dati del Rapporto UE).

Smetterla di dirci “italiani brava gente”, quando da tempo siamo nella “top ten” mondiale dei paesi che esportano più armi. Vicini ai 15 miliardi di forniture d’armi nel 2016, un fatturato raddoppiato dal 2015, e quadruplicato dal 2014, dove oltre il 60% delle nostre armi sappiamo bene finirà in paesi fuori dall’Unione Europea e dalla NATO, paesi coinvolti in guerre, in stermini di massa, in omicidi di Stato.

Smetterla di lavarci la coscienza scrivendo “Verità per Giulio Regeni”, quando siamo legati da anni all’Egitto con tutti i tipi di forniture commerciali, quella di armi in primis fra tutte.

Smetterla di piangere mano sul petto e posa solenne i nostri militari morti all’estero, quando poi in Iraq a Baghdad e a Nassiriya, i terroristi sparavano contro i nostri carabinieri con delle armi Beretta.

Magari stupirci se scopriremo un giorno che, nella “missione umanitaria” italiana in Niger, oltre alla lotta al traffico di esseri umani e al terrorismo internazionale, indisturbato qualcuno con le armi faceva affari.

Sì, per compassione, se non per coerenza, bisognerebbe smetterla una buona volta, dal momento in cui la stessa identica cosa avveniva in Bosnia e in tutta la Ex-Jugoslavia, già 25 anni fa, nell’estate del 1993: da una parte migliaia di volontari civili venuti da tutto il mondo, in marcia verso Sarajevo e Mostar, tentando di riallacciare il dialogo fra le popolazioni, istituire una tregua, porre fine alla guerra, mentre dall’altra i governi europei, la NATO e l’ONU realizzavano e proteggevano a suon di bombe sganciate dal cielo, “corridoi umanitari” non tanto per garantire una via di fuga alle migliaia di profughi e disperati, bensì il passaggio delle merci, di tutti i tipi di merci, specie quelle con cui si alimentano le guerre. Era il 7 di agosto del 1993,  sulla strada che va a Sarajevo, col sottofondo di cicale in amore, quando la radio gracchiò: di qua c’eravamo noi volontari civili, a migliaia in ascolto, dal cui  passaggio nasceva una miracolosa quanto fragile tregua, dall’altra parte della nostra radio da campo, Umberto Playa, Responsabile Unità di Crisi del Ministero degli Esteri, concitato ci avvisava, su delega Farnesina, di fermarci,  che dovevamo arrestare subito la marcia di pace, che di ora in ora il nostro proseguire diventava sempre più pericoloso. A seguire, l’allora Ministro degli Esteri, ci informò che la Nato il giorno dopo e quello ancora  successivo avrebbe effettuato un “bombardamento dimostrativo” poco più avanti, proprio lungo la strada che ci avrebbe condotto a Sarajevo e difatti il “bombardamento amico” poco più avanti,il giorno seguente avvenne.

Fu così, che l’allora marcia della pace “Mir Sada”, con la fragile tregua al suo passaggio, si arrestò.

Quel giorno fummo in molti a perdere come un senso di verginità interiore, un candore che ci faceva sentire “buoni” e a capire che eravamo noi occidentali, con le nostre bombe e le nostre armi, i “cattivi” . Fummo allora ingenui testimoni di eventi di guerra e del traffico d’armi e vite umane, lo stesso che ha poi contraddistinto tutti gli anni a seguire, fino ad oggi.

Anche Padre Albino Bizzotto, fra i promotori della marcia, gridò allora di smetterla.   In quel giorno caldo e riarso dal sole, in un campo, Albino prese coraggio e voce, e con l’amaro in bocca e lo sguardo abbassato disse: “Le condizioni in questo momento non ci permettono oggettivamente di passare senza il sacrificio sicuro di qualcuno di noi. E’ arrivato il momento, non soltanto di chiedere aiuto, ma di chiedere con determinazione, di pretendere, dai nostri governi e dalla Comunità Internazionale, di assumere la responsabilità perché siano garantiti i nostri diritti umani elementari. Noi non accettiamo, che vengano difese le merci, che possano passare le merci, e invece le persone portatrici di pace non abbiano la possibilità e il diritto di passare.”

Ancora prima di Albino in questi stessi giorni nel dicembre di 34 anni fa, ci fu un giornalista che ci diceva di smetterla di pensare che la Mafia fosse un problema del Sud, uno di quei giornalisti veri, che il proprio lavoro lo faceva bene, con passione e fino in fondo.

Un giornalista siciliano, che autofinanziato con fondi propri aveva realizzato un giornale indipendente, “I siciliani”, dove era apparsa un’inchiesta scottante. Aveva fatto nomi e cognomi degli allora esecutori mafiosi, collegandoli poi ai mandanti, alle teste pensanti di uno Stato di mafia, insediati ormai da anni fra le più alte cariche del paese Italia e non solo.

Non possiamo ora stupirci, quando di fronte a Enzo Biagi, nella sua ultima intervista, oltre 30 anni fa, un giornalista indipendente, già ci ammonì:   “Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante; i mafiosi non sono quelli che ammazzano, quelli sono solo gli esecutori.” […]  “I mafiosi sono quelli che stanno ai livelli più alti e incensurati. Un’organizzazione che riesce a manovrare 100.000 miliardi l’anno (delle allora lire) più del bilancio annuale dello Stato Italiano, è in condizione di armare degli eserciti, è in grado di possedere delle flotte, di avere un esercito proprio, e di fatti sta accadendo che la mafia si sia pressoché impadronita almeno in Medio Oriente del commercio delle armi, del mercato delle armi. Diciamo che di questi centomila miliardi di giro, un terzo circa resta in Italia e allora bisogna pure impiegarlo in qualche modo… bisogna riciclarlo, ripulirlo, reinvestirlo e allora, ecco le banche, le nuove banche, questo pullulare, questo proliferare di banche nuove ovunque, servono apposta per riciclare.  Il Generale Dalla Chiesa lo aveva capito, Dalla Chiesa aveva avuto questa grande intuizione, quella che lo portò alla morte; intuì che era dentro le banche che bisognava frugare, che lì c’erano decine di migliaia di miliardi insanguinati, che venivano immessi dentro le banche e che ne uscivano per andare verso opere pubbliche.  La mafia non è più un problema siciliano e nemmeno italiano, ma europeo.”

Quel giornalista si chiamava Giuseppe Fava,  pochi giorni dopo aver rilasciato l’intervista, il 5 gennaio del 1984, pagò con la vita proprio perché fece bene il suo lavoro.

Siamo arrivati al 2018. Forse sarebbe l’ora di smetterla con le armi.

 

Per gentile concessione dell'agenzia di Stampa Pressenza

 

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