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Carlotta Caldonazzo
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NATOME: così il presidente Trump, che si vanta del proprio talento nel creare acronimi, ha già battezzato lo spiegamento della Nato in Medio Oriente, da lui richiesto per telefono al segretario generale dell’Alleanza Stoltenberg.
Questi ha immediatamente acconsentito che la Nato debba avere «un accresciuto ruolo in Medio Oriente, in particolare nelle missioni di addestramento». Ha quindi partecipato alla riunione dei ministri degli esteri della Ue, sottolineando che l’Unione europea deve restare a fianco degli Stati uniti e della Nato poiché, «anche se abbiamo fatto enormi progressi, Daesh può ritornare».
Gli Stati uniti cercano in tal modo di coinvolgere gli alleati europei nella caotica situazione provocata dall’assassinio, autorizzato dallo stesso Trump, del generale iraniano Soleimani appena sbarcato all’aeroporto di Baghdad.
Dopo che il parlamento iracheno ha deliberato l’espulsione degli oltre 5.000 soldati Usa, presenti nel paese insieme a migliaia di contractor del Pentagono, il primo ministro Abdul-Mahdi ha chiesto al Dipartimento di Stato di inviare una delegazione per stabilire la procedura del ritiro. Gli Usa – ha risposto il Dipartimento – invieranno una delegazione «non per discutere il ritiro di truppe, ma l’adeguato dispositivo di forze in Medio Oriente», aggiungendo che a Washington si sta concordando «il rafforzamento del ruolo della Nato in Iraq in linea con il desiderio del Presidente che gli Alleati condividano l’onere in tutti gli sforzi per la nostra difesa collettiva».
Il piano è chiaro: sostituire, totalmente o in parte, le truppe Usa in Iraq con quelle degli alleati europei, che verrebbero a trovarsi nelle situazioni più rischiose, come dimostra il fatto che la stessa Nato, dopo l’assassinio di Soleimani, ha sospeso le missioni di addestramento in Iraq.
Oltre che sul fronte meridionale, la Nato viene mobilitata su quello orientale. Per «difendere l’Europa dalla minaccia russa», si sta preparando l’esercitazione Defender Europe 20, che vedrà in aprile e maggio il più grande spiegamento di forze Usa in Europa degli ultimi 25 anni.
Arriveranno dagli Stati uniti 20.000 soldati, tra cui alcune migliaia della Guardia Nazionale provenienti da 12 Stati Usa, che si uniranno a 9.000 già presenti in Europa portando il totale a circa 30.000. Essi saranno affiancati da 7.000 soldati di 13 paesi europei della Nato, tra cui l’Italia, e 2 partner, Georgia e Finlandia.
Oltre agli armamenti che arriveranno da oltreatlantico, le truppe Usa impiegheranno 13.000 carri armati, cannoni semoventi, blindati e altri mezzi militari provenienti da «depositi preposizionati» Usa in Europa. Convogli militari con mezzi corazzati percorreranno 4.000 km attraverso 12 arterie, operando insieme ad aerei, elicotteri, droni e unità navali.
Paracadutisti Usa della 173a Brigata e italiani delle Brigata Folgore si lanceranno insieme in Lettonia.
L’esercitazione Defender Europe 20 assume ulteriore rilievo, nella strategia Usa/Nato, in seguito all’acuirsi della crisi mediorientale. Il Pentagono, che l’anno scorso ha inviato altri 14.000 soldati in Medio Oriente, sta dirottando nella stessa regione alcune forze che si stavano preparando all’esercitazione di guerra in Europa: 4.000 paracadutisti della 82a Divisione aviotrasportata (comprese alcune centinaia da Vicenza) e 4.500 marinai e marines della nave da assalto anfibio USS Bataan. Altre forze, prima o dopo l’esercitazione in Europa, potrebbero essere inviate in Medio Oriente.
La pianificazione della Defender Europe 20, precisa il Pentagono, resta però immutata. In altre parole, 30.000 soldati Usa si eserciteranno a difendere l’Europa da una aggressione russa, scenario che mai potrebbe verificarsi anche perché nello scontro si userebbero non carri armati ma missili nucleari.
Scenario comunque utile per seminare tensione e alimentare l’idea del nemico.
(il manifesto, 14 gennaio 2020)
Intervista video a John Shipton, |
22 NOV 2019 — L’intervista video a John Shipton, padre di Julian Assange – fatta da Berenice Galli (CNGNN), montata e pubblicata da Pandora TV diretta da Giulietto Chiesa – costituisce un documento di grande importanza per la difesa della democrazia, sempre più sotto attacco da parte di un sistema politico-mediatico che usa repressione e mistificazione per mettere a tacere la verità. Per meglio comprendere l’intervista, riassumiamo qui di seguito le vicende che hanno portato alla drammatica situazione in cui si trova oggi Julian Assange. Invitiamo a diffondere al massimo questa informazione, contribuendo in tal modo alla campagna internazionale per la liberazione di Julian Assange.
Julian Assange nasce nel 1971 a Townsville in Australia, da una artista, Christine Assange, e un architetto, John Shipton. A sedici anni, sa già scrivere programmi informatici. Verso la fine degli anni Ottanta diviene membro di un gruppo di hacker noto come International Subversives.
Nel 1991 subisce un'irruzione nella sua casa di Melbourne da parte della polizia federale australiana, con l'accusa di essersi infiltrato nel sistema informatico del Pentagono. Nel 1992 gli vengono rivolti ventiquattro capi di accusa per reati di “pirateria informatica”. Assange è condannato, ma in seguito è rilasciato per buona condotta, dopo aver pagato una grossa multa.
A partire dal 2006 è tra i promotori del sito web WikiLeaks, di cui diviene caporedattore. WikiLeaks nel corso degli anni pubblica documenti da fonti anonime e informazioni segrete su politici corrotti, assassinii politici, repressioni e guerre. Il materiale pubblicato tra il 2006 e il 2009 attira sporadicamente l'attenzione dei media, ma è il caso Chelsea Manning che porta WikiLeaks, nel 2010. al centro dell'interesse internazionale.
Chelsea Manning, attivista statunitense, è accusata di aver fornito a WikiLeaks migliaia di documenti riservati di cui era venuta a conoscenza lavorando quale analista di intelligence dell’Esercito USA durante la guerra in Iraq. Viene per questo condannata a 37 anni di detenzione in un carcere di massima sicurezza. Rilasciata dopo 7 anni di carcere duro, sarà nuovamente incarcerata nel 2019 per essersi rifiutata di testimoniare contro Assange.
Nel 2010 WikiLeaks rende di pubblico dominio oltre 250.000 documenti statunitensi, molti dei quali etichettati come "confidenziali" o "segreti". Tra questi diversi video sulle stragi di civili compiute dagli USA in Iraq e Afghanistan. WikiLeaks viene messa sotto inchiesta in Australia e Julian Assange rischia di nuovo l’arresto.
Nello stesso anno, mentre Assange è in Gran Bretagna, il tribunale svedese di Stoccolma emette nei suoi confronti un mandato di arresto in contumacia, con l'accusa di aver avuto rapporti sessuali non protetti, seppur consenzienti, con due donne. Assange, presentatosi spontaneamente negli uffici di Scotland Yard, viene arrestato in forza di un mandato di cattura europeo. Assange viene rilasciato su cauzione, ma la Svezia ne chiede l’estradizione dalla Gran Bretagna, col chiaro intento di estradarlo negli Stati Uniti dove lo attende un processo per spionaggio che prevede l’ergastolo o la pena di morte.
Nel 2012 la Corte Suprema britannica decreta la sua estradizione in Svezia. Assange si rifugia, a Londra, nell’Ambasciata dell’Ecuador che gli garantisce il diritto di asilo. Qui resta confinato per sette anni, nonostante che anche una Commissione delle Nazioni Unite denunci il fatto che A ssange è detenuto arbitrariamente e illegalmente in Gran Bretagna
Nel frattempo WikiLeaks prosegue la sua attività. Nel 2016 pubblica oltre 30.000 email e documenti inviati e ricevuti tra il 2010 e il 2014 da Hillary Clinton, Segretaria di Stato dell’Amministrazione Obama. Tra questi una email del 2 aprile 2011, la quale rivela il vero scopo della guerra USA/NATO alla Libia perseguito in particolare da USA e Francia: impedire che Gheddafi usasse le riserve auree della Libia per creare una moneta pan-africana alternativa al dollaro e al franco CFA, la moneta imposta dalla Francia a 14 ex colonie.
La crescente pressione internazionale, esercitata sull’Ecuador soprattutto da Stati Uniti, Gran Bretagna e Svezia, raggiunge il suo scopo. Privato dall’Ecuador del diritto di asilo, Julian Assange viene arrestato nell’aprile 2019 dalla polizia britannica, con l’imputazione di essersi sottratto al mandato emesso dalla Corte Suprema nel 2012.
Il Responsabile ONU contro la tortura, Nils Melzer, dopo avergli fatto visita nel carcere britannico di massima sicurezza, dichiara: "Julian Assange è detenuto in un carcere di massima sicurezza, in condizioni di sorveglianza e isolamento estreme e non giustificate, mostra tutti i sintomi tipici di un'esposizione prolungata alla tortura psicologica. È necessario che il governo britannico lo liberi immediatamente per proteggere la sua salute e la sua dignità. È inoltre da escludere la sua estradizione negli USA".
La vita di Julian Assange, di fatto rapito e detenuto in condizioni inumane (gli viene proibito perfino di vedere i figli), è sempre più in pericolo, sia per i lunghi anni di sofferenze che hanno deteriorato la sua salute, sia per la pericolosa situazione in cui si troverebbe se fosse estradato negli USA. Qui sarebbe in mano a coloro che hanno tutto l’interesse a non farlo arrivare a un processo che, soprattutto se permettesse all’imputato di difendersi, sarebbe estremamente imbarazzante per l’establishment politico-militare.
A Milano il Focus di Idos-Assindatcolf su “Lavoro domestico e programmazione dei flussi di ingresso”
Valgono il 9% del Pil nazionale, ovvero 139 miliardi di euro, versano tasse e contributi generando introiti che ammontano a 25 miliardi di euro, una cifra superiore a quella che lo Stato spende per farsene carico: sono i 2 milioni 455 mila immigrati che nel 2018 erano regolarmente impiegati in Italia. Una forza lavoro indispensabile, soprattutto nel settore della cura e dell’assistenza domiciliare, dove la loro incidenza supera il 70% del totale, ma che di fatto viene penalizzata per una mancanza ormai pluriennale di quote dedicate ad ingressi effettivi di lavoratori stranieri stabili all’interno dei cosiddetti ‘decreti flussi’. E’ questa la fotografica scattata da Assindatcolf, Associazione Nazionale Datori di Lavoro Domestico e da Idos, Centro Studi e Ricerche, autore del Dossier Statistico immigrazione 2019, i cui dati sono stati presentati questa mattina nel corso di un evento organizzato a Milano, presso l’Hotel Michelangelo.
Un’occasione per avviare una riflessione sulla mancata programmazione dei flussi di ingresso e sul lavoro domestico, il settore dei servizi nel quale la presenza di immigrati è in assoluto più alta: su 859.233 colf e badanti regolarmente censiti negli archivi Inps a fine 2018, 613.269 erano immigrati. “Un numero - dichiara Andrea Zini, vice presidente Assindatcolf ed Effe - in costante calo dal 2012 ad oggi, quando i lavoratori stranieri regolarmente impiegati nel comparto erano 823mila. In 7 anni si sono, dunque, persi 210mila posti di lavoro a causa di una politica che non ha saputo riformare il welfare familiare e valorizzare questa forza lavoro, contribuendo al contempo al dilagare del lavoro ‘nero’ o ‘grigio’ che nel settore ha percentuali altissime: si stima, infatti che 6 domestici su 10 siano irregolari, ovvero 1,2 milioni di lavoratori”.
“Dal 2011 in poi - spiega Luca Di Sciullo, presidente Centro Studi e Ricerche Idos - l’Italia ha sostanzialmente bloccato i canali di ingresso legali agli stranieri che intendano venire stabilmente per motivi di lavoro. Tanto che ad oggi, per molti migranti ‘economici’, l’unica possibilità di entrare in Italia è quella di unirsi ai flussi di migranti ‘forzati’ che arrivano come richiedenti asilo, pur non avendo i requisiti per il riconoscimento. Una situazione che da una parte penalizza il mercato del lavoro, lasciando scoperti ambiti a forte domanda di manodopera estera e aumentando il lavoro nero, e che, d’altra parte, complica la già critica gestione dell’immigrazione, sciupando un potenziale beneficio per la società e lo Stato”.
Da qui l’appello congiunto alla politica: “E’ necessario tornare ad una programmazione dei flussi di ingresso, prevedendo quote dedicate a reali nuovi ingressi di lavoratori non stagionali, e modificando anche il sistema di rilevazione del fabbisogno, affinché prenda in considerazione, oltre alle esigenze delle imprese, anche quelle delle famiglie, superando così una delle tante contraddizioni di una gestione miope” concludono Zini e Di Sciullo.
Roma, 26 ottobre 2019 – Al richiamo di #despiertachile e #renunciapinera, oggi, in piazza del Popolo si è riunito un nutrito gruppo rappresentante la comunità cilena insieme ad altre comunità latinoamericane, al mondo dell’associazionismo, ad organizzazioni politiche, a movimenti sociali e alla società civile. Una mobilitazione pacifica e solidale a chi in queste tremende giornate sta vivendo in Cile violenze, soprusi, abusi, violazioni di diriti umani e ingiustizie.
ler gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza
foto di Dario Lo Scalzo
L'operazione Fonte di pace ha per il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan una duplice significazione: da un lato è un mezzo per affermarsi come riferimento per tutti i musulmani, arabi e non; dall'altro è un modo per vincere la partita sul fronte interno
Gli ultimi colloqui tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il vicepresidente statunitense Mike Pence, in visita ad Ankara, si sono conclusi con un accordo per un cessate il fuoco di 120 ore, per consentire il ritiro dei curdi dalla zona di sicurezza che si estende per 32 km in territorio siriano, lungo il confine con la Turchia. Un “bisogno” che Washington ha pienamente riconosciuto ad Ankara nel corso di negoziati salutati con tono trionfale sulle reti sociali dal presidente USA Donald Trump. Il disimpegno statunitense in Siria e il via libera all'offensiva militare turca contro le forze curde delle Unità di difesa popolare (YPG) è servita quantomeno a offrire a Erdoğan l'opportunità di acquisire peso nel contesto geopolitico regionale e forza sullo scacchiere politico interno. Infatti, se negli anni '90 la Turchia estese l'area di proiezione della sua potenza sulle popolazioni musulmane e turcofone dei Balcani, del Caucaso e dell'Asia centrale, fino al Xinjiang, regioni storicamente legate alla cultura turca, a partire dal decennio successivo ha concentrato i suoi sforzi nella realizzazione di un progetto detto neo-ottomanesimo, che mina la supremazia religiosa e culturale dell'Arabia Saudita, da decenni centro di irradiazione del wahhabismo. Il progetto di Erdoğan preoccupa anche Mosca, il cui territorio include aree a maggioranza musulmana dalle quali provengono migliaia di miliziani dei cartelli del jihad partiti per la Siria. Anche per questo, dal dicembre 2016, il presidente russo Vladimir Putin è impegnato con i suoi omologhi turco e iraniano, Hassan Rohani, nel processo di pace di Astana per la Siria, cui partecipano rappresentanti del governo siriano e di una dozzina di gruppi dell'opposizione. Peraltro, sempre nel 2016, la Federazione russa ha ospitato a Grozny una conferenza islamica mondiale, la cui dichiarazione finale ha escluso dall'islam sunnita i due due poli tradizionali dell'islam politico del secolo scorso: il wahhabismo, con le sue varianti takfirite, il cui centro di irradiazione è l'Arabia Saudita e i Fratelli musulmani, organizzazione fondata in Egitto da Hasan el-Banna e sostenuta, tra gli altri, da Turchia e Qatar. Basti ricordare, a titolo di esempio, l'accoglienza riservata a Erdoğan in Egitto dopo la rivoluzione del 2011, come il leader islamico in Medio Oriente, o le sue vigorose prese di posizione per la causa palestinese, in favore del movimento Hamas. In questa chiave va probabilmente letto il coinvolgimento da parte di Erdoğan, nell'offensiva in Siria, dell'Esercito siriano libero (ESL), che con Ankara collabora da anni, al punto da aver stabilito la sua base nella provincia di Hatay, e da trovare rifugio e rifornimenti in territorio turco. Così, nel 2013, con il supporto della Turchia, del Qatar e dei Fratelli Musulmani, l'ESL era entrato nella Coalizione nazionale siriana, un'alleanza di forze politiche di opposizione al presidente Bashar al-Assad, fondata a Doha e con sede a Istanbul. Un potenziale strumento per pilotare il corso del conflitto in Siria.
Il sostegno di Ankara ai Fratelli musulmani è motivo di tensioni anche tra Turchia ed Egitto, il cui presidente, Abd al-Fattah al-Sissi, nel 2013 ha conquistato il potere rovesciando il governo eletto di Mohammed Morsi (Fratelli Musulmani). Arrestato dall'esercito egiziano, Morsi è morto lo scorso giugno, secondo Erdoğan non per cause naturali, ma perché sarebbe stato ucciso. Accuse giudicate irresponsabili dal ministro degli Esteri egiziano Sameh Choukri, ma per il presidente turco Morsi si deve considerare un martire, della cui morte sono responsabili i tiranni al potere in Egitto. Dietro la retorica del presidente turco, si cela in realtà un contrasto al contempo politico e geopolitico con al-Sissi, schierato in prima linea con chi annovera i Fratelli musulmani tra le organizzazioni terroristiche, in primis il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il presidente israeliano Benyamin Netanyahu. Con il presidente egiziano, peraltro, Erdoğan ha esteso la competizione anche sul piano energetico: la posta in gioco è la conquista del ruolo di centro nevralgico nella distribuzione di gas in Medio Oriente, con prospettive di guadagno anche nel mercato europeo. Tuttavia, l'Egitto, con Italia, Grecia, Israele, Cipro, Giordania e con l'Autorità nazionale palestinese, ha annunciato la creazione del Forum del gas del Mediterraneo orientale, con sede al Cairo. L'obiettivo è creare un mercato regionale del gas, per rafforzare la sicurezza dell'approvvigionamento di energia, lo sviluppo e la stabilità dell'area. Non potendo puntare sull'espansione della propria influenza attraverso un qualche slancio ideologico (come fece l'ex presidente Gamal Abd al-Nasser) o religioso (come fanno tutt'ora i movimenti islamici), al-Sissi ha optato sin da subito per una politica estera basata su accordi bilaterali di cooperazione economica e militare, soprattutto nel settore della sicurezza e della lotta al terrorismo. Un approccio che interessa parimenti l'Occidente e il Mondo arabo, e un modo per non compromettere la propria posizione geopolitica in una fase in cui l'evoluzione degli equilibri di potenza non è determinabile con ragionevoli margini di errore.
Con l'Arabia Saudita, anch'essa un tempo provincia ottomana, la Turchia ha avuto, fino agli anni '90 del secolo scorso, buone relazioni economiche, diplomatiche e militari: negli anni '90 il Consiglio di cooperazione del Golfo (di cui l'Arabia Saudita ospita la sede) ha concesso ad Ankara aiuti per circa sei miliardi di dollari, una sorta di risarcimento per le perdite subite durante la guerra del Golfo. Riyadh ha sostenuto politicamente ed economicamente la Turchia persino in occasione dell'invasione turca di Cipro, nel 1974, in favore della quale si pronunciarono solo Iran, Afghanistan, Pakistan e Libia. Tuttavia, negli ultimi anni le relazioni turco-saudite si sono deteriorate, soprattutto da quando l'AKP ha consolidato la sua supremazia politica nel paese. Le tensioni si sono acuite nel 2017, quando, nella crisi diplomatica tra il Qatar e gli altri paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG), Ankara si schierò con Doha e inviò persino un contingente a difesa del governo qatariota, in caso di tentativo di colpo di Stato eterodiretto da parte di Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti. Per questa ragione Mohammed bin Salman, intimorito da quello che ha definito espansionismo turco, aveva minacciato sanzioni contro Ankara. La presenza militare turca nell'emirato del Golfo risale infatti già al 2015, dopo un accordo bilaterale di cooperazione difensiva firmato dai due paesi l'anno precedente. In Qatar, Ankara può contare inoltre sulla base militare Tariq bin Ziyad e negli ultimi anni ha rafforzato l'alleanza politica e militare con Doha. Un nuovo picco di tensioni diplomatiche tra i due paesi è stato raggiunto nell'ottobre 2018 a seguito dell'uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi (da tempo residente negli Stati Uniti, dove scriveva per il Washington Post) nel consolato di Riyadh a Istanbul. Un caso controverso, di cui Erdoğan ha attribuito la responsabilità al governo saudita, in difesa del quale si era peraltro schierato due mesi prima, quando la ministra degli Esteri canadese Chrystia Freeland aveva espresso preoccupazione per episodi di detenzione arbitraria, in Turchia, di attivisti per i diritti umani. In tal modo, il presidente turco mantiene con alcuni alleati relazioni diplomatiche sul filo della tensione, proponendosi come indispensabile ago della bilancia degli equilibri regionali.
D'altronde, il progetto neo-ottomano include, se non il controllo sui luoghi santi dell'islam, almeno la possibilità di estendere l'area di proiezione di potenza della Turchia anche tra i musulmani arabi, storicamente zona di influenza di Riyadh. Il neo-ottomanesimo riprende infatti la sintesi turco-islamica concepita da Necmettin Erbakan e da Turgut Özal, ex primo ministro ed ex presidente della Repubblica di Turchia, negli anni '70, quando costituì una coalizione di governo con il Partito repubblicano del popolo (CHP): una fusione di nazionalismo (ideologia pericolosa per una società che ha mantenuto la struttura comunitaria dell'impero ottomano), militarismo, kemalismo e “valori morali” dell'islam ottomano, che avrebbero dovuto rafforzare l'ordine incarnato dal nazionalismo turco. Nel 1983, questa sintesi fu adattata al contesto successivo al colpo di Stato del12 settembre 1980, nella veste di un nuovo nazionalismo, fondato non sull'appartenenza etnico-culturale, ma sull'unità comunitaria dei cittadini musulmani, che avrebbe dovuto, secondo i piani, portare all'assorbimento graduale delle etnie minoritarie. Negli anni Duemila, Erdoğan e il suo partito hanno integrato quindi tali idee in una teoria elaborata dall'ex presidente Ahmet Davutoğlu, nel suo pamphlet Profondità strategica (2001). Tra i suoi punti cardine, ci sono relazioni di buon vicinato con i paesi vicini (zero nemici) ed espansione per vie diplomatiche della proiezione della potenza turca nei territori un tempo di dominazione ottomana. Anche se, quando prese le distanze da Erdoğan (essendo in disaccordo con la sua politica autoritaria e con il presidenzialismo), aveva giurato di non criticare mai pubblicamente il presidente, lo scorso luglio, Davutoğlu in un'intervista ha accusato l'AKP di essersi allontanato dai suoi obiettivi originari. Il partito ha pertanto avviato una procedura di espulsione a suo carico, ma il 13 settembre, Davutoğlu ha annunciato le sue dimissioni e l'intenzione di fondare una forza politica alternativa, biasimando la scelta di Erdoğan di far ripetere le elezioni amministrative a Istanbul. Simili espressioni di dissenso nei confronti del presidente sono arrivate anche da altre personalità di spicco del partito, tra le quali l'ex presidente Abdullah Gül e l'ex primo ministro Ali Babacan.
L'operazione Fonte di pace, dunque, offre a Erdoğan l'occasione di giocarsi la carta curda in funzione propagandistica, per aumentare i suoi consensi in primo luogo rispetto a quelli che un tempo erano suoi alleati di partito (e che quindi condividono il progetto neo-ottomano). In tale contesto, l'operazione Fonte di pace spiana la via al presidente turco per chiudere una partita aperta a metà degli anni '70 del secolo scorso, quando l'ex presidente siriano Hafez al-Assad, che sosteneva sia il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), sia l'Esercito armeno segreto per la liberazione dell'Armenia (ASALA), offrì asilo alla guida del PKK Abdullah Öcalan. In secondo luogo, l'attacco alle postazioni curde siriane può essere uno stratagemma per sottrarre voti ai partiti nazionalisti: il Partito di azione nazionalista (MHP), fondato nel 1969 dal colonnello Alparslan Türkeş e guidato dal 1997 da Devlet Bahçeli; e il Partito del bene, creato nel 2016 da Meral Akşener, uscita dall'MHP perché giudicava la linea di Bahçeli troppo accondiscendente nei confronti di Erdoğan. L'MHP, noto anche per il suo braccio armato, i Lupi grigi, aderisce al panturchismo e si oppone in linea di principio al dialogo con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) e a un qualsiasi negoziato politico con il Partito democratico dei popoli (HDP). A differenza dell'MHP, il Partito del bene di Meral Akşener (che si definisce una forza politica di centro) include nel suo programma il kemalismo e non è contrario all'integrazione della Turchia in Europa. A proposito di kemalismo, un'altra minaccia interna per Erdoğan potrebbe venire dal CHP di Kemal Kılıçdaroğlu, che lo scorso giugno alle elezioni amministrative ha riconquistato il comune di Istanbul dopo 25 anni di amministrazione quasi ininterrotta dell'AKP. Nondimeno, la dialettica politica interna turca era e resta fortemente influenzata dalle scelte geopolitiche degli USA, che soprattutto nella fase monopartitica (1923-1950), hanno contato sullo Stato profondo della Turchia repubblicana, costituito principalmente da militari kemalisti e paramilitari nazionalisti. In seguito, con l'avvento del multipartitismo, Washington ha optato per la linea del divide et impera, strumentalizzando e talvolta fomentando lo scontro di fazione all'interno degli apparati profondi, inclusi quelli maggiormente legati al crimine organizzato locale. Risultato, esercito e magistratura, per anni portavoce e promotori del kemalismo, hanno ordito colpi di Stato a cadenza quasi decennale, spesso realizzati dagli stessi uomini su cui Washington contava in Turchia. Ad esempio, Türkeş, orchestratore del colpo di Stato del 1960 e membro del Comitato di unità nazionale allora creato, era tra i sedici ufficiali turchi che nel 1948 furono addestrati negli USA per fondare la Gladio turca, denominata kontrgerilla. Egli stesso, alla fine degli anni '60, fondò da un lato l'MHP, dall'altro i Lupi grigi, che vantano di avere dei servizi di intelligence meglio organizzati di quelli di Stato e nella cui orbita si è formata Meral Akşener, con il nome in codice Asena, la donna-lupo del mito di fondazione turco. Tra le manifestazioni fenomeniche della longa manus di Washington sullo Stato profondo turco c'è infine il predicatore islamico Fethullah Gülen, dal 1999 rifugiato negli USA, che sin dagli anni '80 aveva infiltrato i suoi uomini nelle istituzioni, come l'università, l'esercito, la burocrazia e la polizia. A lui si rivolsero infatti, per avere sostegno politico, prima Turgut Özal nel 1989, che si presentò come garante degli interessi statunitensi in Turchia, poi Erdoğan negli anni Duemila. Anche per questo, la visita ufficiale di Mike Pence ad Ankara pone non pochi interrogativi sul presente e sul futuro della regione. Con un occhio all'Iraq.
Centinaia di giovani cinesi, davanti al Consolato britannico a Hong Kong, cantano «Dio Salvi la Regina» e gridano «Gran Bretagna salva Hong Kong», appello raccolto a Londra da 130 parlamentari che chiedono di dare la cittadinanza britannica ai residenti dell’ex colonia.
La Gran Bretagna viene fatta apparire così all’opinione pubblica mondiale, specie ai giovani, quale garante di legalità e diritti umani. Per farlo si cancella la Storia.
E’ quindi necessaria, prima di altre considerazioni, la conoscenza delle vicende storiche che, nella prima metà dell’Ottocento, portano il territorio cinese di Hong Kong sotto dominio britannico.
Per penetrare in Cina, governata allora dalla dinastia Qing, la Gran Bretagna ricorre allo smercio di oppio, che trasporta via mare dall’India dove ne detiene il monopolio.
Il mercato della droga si diffonde rapidamente nel paese, provocando gravi danni economici, fisici, morali e sociali che suscitano la reazione delle autorità cinesi.
Ma quando esse confiscano a Canton l’oppio immagazzinato e lo bruciano, le truppe britanniche occupano con la prima Guerra dell’Oppio questa e altre città costiere, costringendo la Cina a firmare nel 1842 il Trattato di Nanchino.
All’Articolo 3 esso stabilisce: «Poiché è ovviamente necessario e desiderabile che sudditi britannici dispongano di porti per le loro navi e i loro magazzini, la Cina cede per sempre l’isola di Hong Kong a Sua Maestà la Regina di Gran Bretagna e ai suoi eredi».
All’Articolo 6 il Trattato stabilisce: «Poiché il Governo di Sua Maestà Britannica è stato costretto a inviare un corpo di spedizione per ottenere il risarcimento dei danni provocati dalla violenta e ingiusta procedura delle autorità cinesi, la Cina acconsente a pagare a Sua Maestà Britannica la somma di 12 milioni di dollari per le spese sostenute».
Il Trattato di Nanchino è il primo dei trattati ineguali attraverso cui le potenze europee (Gran Bretagna, Germania, Francia, Belgio, Austria e Italia), la Russia zarista, il Giappone e gli Stati Uniti si assicurano in Cina, con la forza delle armi, una serie di privilegi:
la cessione di Hong Kong alla Gran Bretagna nel 1843,
la forte riduzione dei dazi sulle merci straniere (proprio mentre i governi europei erigono barriere doganali a protezione delle proprie industrie),
l’apertura dei principali porti alle navi straniere,
il diritto di avere aree urbane sotto propria amministrazione (le «concessioni») sottratte all’autorità cinese.
Nel 1898 la Gran Bretagna annette a Hong Kong la penisola di Kowloon e i cosiddetti New Territories, concessi dalla Cina «in affitto» per 99 anni.
Il vasto malcontento per tali imposizioni fa esplodere verso la fine dell’Ottocento una rivolta popolare – quella dei Boxer – contro cui interviene un corpo di spedizione internazionale di 16 mila uomini sotto comando britannico, al quale partecipa anche l’Italia.
Sbarcato a Tianjin nell’agosto 1900, esso saccheggia Pechino e altre città, distruggendo numerosi villaggi e massacrandone la popolazione.
Successivamente, la Gran Bretagna assume nel 1903 il controllo del Tibet, mentre la Russia zarista e il Giappone si spartiscono la Manciuria nel 1907.
Nella Cina ridotta in condizione coloniale e semicoloniale, Hong Kong diviene la principale porta dei traffici basati sul saccheggio delle risorse e sullo sfruttamento schiavistico della popolazione.
Una massa enorme di cinesi è costretta ad emigrare soprattutto verso Stati Uniti, Australia e Sud-Est asiatico, dove è sottoposta a condizioni analoghe di sfruttamento e discriminazione. Sorge spontanea una domanda: su quali libri di storia studiano i giovani che chiedono alla Gran Bretagna di «salvare Hong Kong»?
(il manifesto, 17 settembre 2019)
Se la disgregazione delle classi lavoratrici ha praticamente estromesso dallo scenario politico le forze che ne rappresentavano le istanze all'interno del sistema democratico, i modelli relazionali che si manifestano attraverso la Rete e le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione hanno accelerato il dissesto di un tessuto sociale già schiacciato dagli ingranaggi del capitalismo globalizzato
Molte delle crisi politiche e delle rivoluzioni che si sono verificate nel corso della storia affondano le loro radici in un processo di trasformazione radicale delle società interessate. Un esempio fra tutti, la Rivoluzione francese sopraggiunse quando la borghesia, forte del suo peso economico, non poteva più tollerare la supremazia politica della nobiltà e del clero, cardine dell'Ancien Régime. Fenomeni di questo tipo riguardano non solo le società moderne, ma anche, con le dovute differenze storiche, le società antiche, come, ad esempio, quella ateniese del V secolo a.C.: la costruzione di una flotta da guerra su proposta di Temistocle da un lato gettò le basi per un mutamento sensibile degli equilibri politici interni (verso l'instaurazione della «democrazia ateniese», considerata dagli aristocratici una dittatura della maggioranza), dall'altro permise ad Atene di controllare le rotte commerciali marittime e di imporre per qualche decennio la sua talassocrazia nell'Egeo. Nel caso della Rivoluzione francese, la partecipazione delle masse popolari urbane e rurali fu strumentalizzata dalla borghesia che, portando avanti l'istanza di libertà ponendo l'accento sulla sua accezione mercantilistica, neutralizzò progressivamente le rivendicazioni di uguaglianza, imponendosi come classe dominante al posto di nobiltà e clero. Il mutamento degli equilibri tra le forze produttive innescò dunque una rivoluzione politica, che tuttavia non scardinò i rapporti di classe. Di conseguenza, le classi operaie e contadine rimasero in una condizione subalterna, escluse di fatto dal contratto sociale, quindi anche dalla rappresentanza politica. Fu solo nel corso del XIX secolo, dopo la prima rivoluzione industriale e in misura maggiore dopo la seconda, che in Europa occidentale (in particolare in Inghilterra, in Francia e nell'area tedesca) i socialisti portarono al centro del dibattito filosofico-politico i meccanismi di alienazione e oppressione intrinseci al sistema economico capitalista, basato sullo sfruttamento, da parte dei proprietari dei mezzi di produzione, del lavoro delle masse operaie proletarie nelle fabbriche, primo gradino essenziale del ciclo di produzione-consumo delle merci. Per questo, già agli inizi del XIX secolo, in Inghilterra, primo paese industrializzato, furono varate leggi per regolare i rapporti tra proprietari delle fabbriche e operai, con particolare attenzione alla questione del lavoro minorile. Misure insufficienti, tuttavia, a tutelare i lavoratori e, ancor più, a ridurre le diseguaglianze sociali.
Tra la fine del XIX e l'inizio del XX, con l'avvento della società industriale di massa, si iniziò a pensare di sfruttare il lavoratore non solo come forza lavoro, ma anche in quanto consumatore, ponendolo quindi ai due estremi della filiera produzione-consumo. Si resero pertanto necessarie misure che migliorassero le sue condizioni di vita, almeno quel tanto da renderlo un potenziale consumatore, per dare slancio alla crescita e all'espansione economiche. A patto, tuttavia, che fosse possibile orientare i comportamenti, influenzando i gusti al fine di orientare i consumi. Ciò significa che da un lato nacque e si diffuse gradualmente un codice di comunicazione pubblicitaria, dall'altro fu escogitato un sistema di bisogni indotti, che faceva apparire i prodotti da smaltire sul mercato come qualcosa di desiderabile, persino necessario. Una misura che consentì al capitalismo di sopravvivere e di espandersi malgrado la linea protezionista adottata dalle grandi potenze del tempo. Contestualmente, le metropoli industrializzate, caratterizzate da ritmi di vita frenetici e da modalità relazionali funzionali all'economia di mercato ma disfunzionali allo sviluppo della personalità individuale, imposero un rigido sistema di ruoli sociali, che tendeva a strutturare l'esistenza umana in base alle esigenze del capitale. Pena, l'emarginazione dalla società, che per molti artisti e intellettuali rappresentava invece una scelta esistenziale. In altri termini, come l'industrializzazione era andata di pari passo con la devastazione miope degli ecosistemi naturali, così la capacità di gestire, attraverso modelli comportamentali, le naturali vite degli individui mirava a indurre questi ultimi a lasciarsi integrare docilmente dagli ingranaggi del capitalismo, che così avrebbe potuto superare le sue cicliche crisi di crescita. Contro un tale stato di cose, i movimenti di massa di contestazione culturale, politica ed economica degli anni '60 e '70 del XX secolo misero in discussione il principio cardine del capitalismo, quello del profitto, lanciando al contempo la riflessione sull'impatto ambientale delle attività umane (ecologia politica). Le dinamiche interne alla società di massa avevano dunque gettato le basi per la nascita di spinte contrarie, altrettanto di massa.
Ciononostante, malgrado i progressi ottenuti in termini di diritti civili e di tutela del lavoro salariato, le forze politiche che portarono avanti tali spinte, in quanto organizzazioni di massa, non riuscirono a prosciugare la linfa vitale del capitalismo. Ad esempio, nei regimi sorti dalle rivoluzioni comuniste, in primis quello sovietico, si finì per sostituire al dominio della borghesia quello della burocrazia, senza scardinare la struttura portante della società classista. In secondo luogo, nel decennio che precedette il crollo dell'Unione sovietica, dagli Stati Uniti giunse un nuovo modello, successivamente imposto su scala mondiale dalla globalizzazione. Si trattava di un modello al contempo economico (neoliberista) e socio-culturale (il cosiddetto edonismo reaganiano), che unito a una serie di operazioni stay behind disgregò dall'interno e dal basso le forze politiche che avevano portato avanti fino ad allora le istanze delle classi lavoratrici, già vittime della strategia della tensione. Nel corso degli anni '90, questa proiezione del soft power dell'unica potenza mondiale rimasta, si insinuò anche nei paesi che erano appartenuti alla sfera di influenza sovietica, dove si affiancò all'insorgere o al risorgere di nazionalismi e particolarismi etnici e confessionali. Ciò che oggi viene chiamato populismo o sovranismo non è altro, in realtà, che il riflesso di quei deliri collettivi eterodiretti (i cui riflessi catastrofici sono ormai evidenti, dai Balcani al Medio Oriente) sui suoi stessi mandanti. Il principio secondo il quale l'alleato di oggi è quello contro cui ci si scaglia domani fu applicato, d'altronde, anche all'ascesa del nazifascismo nell'Europa degli anni '20-30 del secolo scorso. In terzo luogo, a partire dagli anni '60 del secolo scorso (in Italia dagli anni '70; https://www.youtube.com/watch?v=kywmDZVjTnw), la diffusione progressiva di eroina tra i giovani delle società occidentali, molti dei quali prendevano parte o erano vicini agli ambienti della contestazione di sinistra, da un lato fiaccò lo spirito critico e le espressioni di dissenso, dall'altro, soprattutto con il diffondersi della tossicodipendenza e della fobia dell'AIDS, istigò diffidenza reciproca disintegrando il sistema di relazioni sociali proposto dai movimenti di protesta. A ciò si aggiunse, in particolare a partire dagli anni '80, la stigmatizzazione del tossicodipendente, che, ben lungi dall'attenuare il fenomeno, è stato uno dei motivi della sua diffusione tra i giovani che intendono dare di sé un'immagine di ribelli. Alle varie forme di rivolta, animate da progetti sociali, culturali e politici, subentra quindi una tendenza a esprimere il proprio disagio attraverso gesti e comportamenti auto-distruttivi.
La rivoluzione digitale che ha accompagnato la globalizzazione nell'ultimo decennio del XX secolo e nei primi decenni del XXI, ha prodotto una nuova società di massa nella quale gli individui, isolati dal tessuto sociale polverizzato dall'egoismo dilagante e schiacciato tra gli ingranaggi del mercato, si illudono di ricostruire una comunità virtuale ideale, fatta di amici (magari followers) e nemici, accrescendo in realtà il proprio isolamento e, con esso, la propria vulnerabilità. Uno spazio in cui ciascuno può riprodurre il proprio modello di società e, prima ancora, i propri modelli di sé e degli altri. Il prezzo di tale illusione è una condizione quasi permanente di alienazione iperconnessa in cui l'individuo, anziché rivendicare i propri diritti all'interno della società materiale, ripiega nell'elaborazione di una realtà virtuale, in cui proietta e realizza le aspirazioni che rinuncia a perseguire concretamente. In tal senso, lo schermo diviene al contempo lo specchio delle pulsioni profonde e il nuovo palcoscenico delle loro manifestazioni in una dimensione che si pone al di fuori dei limiti naturali della condizione umana. In altri termini, se l'esistenza concreta restringe in una certa misura il campo dell'agire, le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione offrono una via di fuga verso un mondo illusorio, costruito a immagine e somiglianza di ciò che, istante per istante, vorremmo essere. A differenza di quanto avveniva nella società di massa della fine del XIX secolo e degli inizi del XX, nella società di massa digitale, l'individuo sperimenta simultaneamente due tipi di percezione di sé, l'alienazione sul piano dell'esistenza concreta e l'onnipotenza data dalla Rete, con una tendenza prevalente a preferire le sensazioni e le emozioni suscitate dalla seconda, il che spiegherebbe almeno in parte la diffusione di fenomeni di dipendenza dalla Rete. L'opposizione originaria tra reale e virtuale tende pertanto a lasciare il posto alla sovrapposizione di due realtà parallele separate e al contempo messe in contatto dallo schermo, che consente all'individuo di mascherare a se stesso la propria angoscia esistenziale rifugiandosi nel digitale. Quest'ultimo costituisce infatti una dimensione in cui l'uomo può specchiarsi per vedere non il sé autentico, bensì una sua immagine ritoccata secondo le proprie inclinazioni e pulsioni passeggere. Inoltre, le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione sono un veicolo di idee, gusti e mode ben più potente di quanto non lo fossero la radio e la televisione, proprio in virtù di questa illusione di rispecchiamento, che induce l'individuo a percepire la Rete come un campo di azione assolutamente libero.
Il 5 settembre scorso Roma ha ospitato l'ottava conferenza internazionale "Russia ed Europa: temi di attualità del giornalismo internazionale contemporaneo". La conferenza è stata organizzata dalla rivista “Affari internazionali” con il sostegno del Ministero degli affari esteri e dell'Agenzia federale per la stampa e i mass media della Federazione russa.
Si è discusso principalmente della Russia all'interno del complesso paradigma del discorso politico europeo, dell'impatto dei media moderni sulla trasformazione delle élite politiche nell'Europa orientale, centrale e occidentale e la trasformazione sistematica e funzionale delle notizie dei media in Russia ed Europa. Obiettivo: quello di coprire le questioni di interazione tra media russi ed europei.
Il ben venuto è stato è stato dato dalla nuova responsabile del centro della cultura e scienza russa di Roma che ha ospitato la manifestazione, la giornalista Dariya Pushkova. Nutrito il numero degli interventi. Significativi quelli dell’ ambasciatore russo in Italia e San Marino, Sergey Razov; di Tatiana Naumova, vicedirettore dell'Agenzia federale per la stampa e le comunicazioni di massa della Federazione russa; di Armen Oganesyan, caporedattore della rivista "International Affairs" e di Alexandr Bikantov, capo del centro stampa e vicedirettore del dipartimento Informazione e stampa del ministero degli Affari esteri. Per l’Italia gli apporti di Virgilio Violo Virgilio Violo, presidente della Free Lance International Press, di Tiberio Graziani, Presidente di Vision & Global Trends, Istituto internazionale di analisi globali, del Dr. Djawed Sangdel, professore di Leadership e imprenditoria, Università svizzera UMEF, di Giorgio Bianchi, premiato fotoreporter, fotografo documentarista e regista, di Giulietto Chiesa, uno dei i più noti giornalisti italiani, di Srdja Trifkovic, giornalista, autrice, editrice per la rivista Chronicles.
Il dialogo tra i popoli è l’elemento più importante per eliminare le tensioni e preservare la pace e chi , se non i media, possono dare un contributo decisivo perché ciò avvenga? Per renderlo possibile l’informazione deve essere imparziale e non di parte. Questo il messaggio di tutti i relatori. L’evento, che si ripete ogni anno, è stato sottolineato, vuole essere un’apertura di dialogo per una maggiore comprensione e servizio sull’affibilità delle fonti informative, vedi “fak news” che imperversano soprattutto su Internet. La comunità europea dei media con questo tipo di approccio ha la possibilità di onorare il compito che la società civile ha assegnato loro, quello di onorare la verità nell’informazione: "I m
ass media sono oramai diventati un riflesso di quelle crescenti tensioni politiche tra i diversi paesi che si possono vedere oggi in Europa. L'obiettivo della nostra conferenza è di trovare un modo pacifico di comunicare e discutere le questioni più importanti - e quindi difficili - delle relazioni internazionali. Riteniamo che la valutazione di tutti i movimenti politici in Russia e nei paesi europei debba essere obiettiva, equilibrata e imparziale ” ha sottolineato Armen Oganesyan.
La conferenza si tiene ogni anno in diversi paesi. L'elenco dei partecipanti include tradizionalmente direttori di media europei, politici, diplomatici, scienziati, politici e gestori di società di media internazionali.
La prima si svolse nel novembre 2011 a Parigi e dimostrò l'importanza della collaborazione tra media russi ed europei per i giornalisti e il loro pubblico. Ebbe una risonanza significativa nei mass media sia russi che europei e fu definita "l'evento più importante nello spazio mediatico internazionale". Le sessioni principali furono: interessi nazionali e giornalismo internazionale, problemi di accesso alle informazioni per i media in Russia e in Europa, il ruolo dei media nelle relazioni tra due paesi e il loro impatto sul clima internazionale e il giornalismo internazionale: standard etici e comuni regole etiche internazionali.
La seconda conferenza si tenne nell’ ottobre 2012 a Berlino e fu dedicata alle questioni della rappresentanza degli interessi nazionali nel giornalismo internazionale, allo sviluppo di un clima internazionale attraverso i media, alle nuove opportunità tecnologiche per i media internazionali, alle condizioni di lavoro in Europa per i media di lingua russa.
Nel dibattito politico italiano, le forze politiche di destra vengono spesso accusate di vincere cavalcando la paura dilagante, etichettata come “paura del diverso” o “xenofobia”; una trappola linguistica, in cui i partiti che si definiscono o sono identificati come “di sinistra” cadono da decenni
Dopo il crollo dell'Unione sovietica una delle principali preoccupazioni della sinistra italiana era dimostrare di non aver nulla a che fare con il “vecchio regime” e di essere pienamente in grado di “gestire la transizione”, ossia la globalizzazione e l'imposizione del neoliberismo in un ordine mondiale guidato dalla superpotenza statunitense.
Un atteggiamento inutilmente remissivo e suicida, che ha consentito lo sgretolamento progressivo delle conquiste sociali dei decenni precedenti rinunciando a portare avanti in modo serio la questione dell'equità e della giustizia sociale, e ha spianato la strada all'ascesa di Silvio Berlusconi. In altri termini, respingendo in blocco l'eredità comunista, ha anzitutto offerto il fianco alla propaganda dei partiti liberisti consentendo a questi di imporre all'immaginario collettivo, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, l'infondata identificazione concettuale tra uguaglianza (quindi anche equità e giustizia sociale) e Stato autoritario; di conseguenza, la sinistra ha perso il suo potere rappresentativo in una società in rapida evoluzione, in cui il “mercato del lavoro” disintegrava progressivamente la solidarietà di classe in una miriade di istanze corporative di matrice individualista.
Inoltre, poiché era tale potere concreto a fondare l'efficacia comunicativa dei suoi discorsi, la sinistra ha perso la capacità di attrarre chi dissentiva o era relegato ai margini del sistema di produzione capitalista, mentre la progressiva diffusione delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione gettava le basi di una nuova società di massa, iperconnessa e fluida, nella quale l'imposizione di un pensiero unico passa per il controllo della “rete” e per l'abilità nell'orientarla. Ciò avviene peraltro secondo un meccanismo simile alla tendenza delle grandi imprese multinazionali e degli organismi finanziari più potenti a imporre la propria egemonia sulle piccole realtà economiche e sui piccoli sistemi produttivi, magari di sussistenza. D'altronde, la nuova concezione imposta dalla retorica dominante della “democrazia” come culla del libero mercato ha favorito l'affermazione di un nuovo tipo di figura politica, strettamente legata al mondo dell'economia, adatta a guidare lo “stato-impresa”. Come sosteneva Pier Musso sul mensile francese Le Monde diplomatique, si tratta di un modello inaugurato da Berlusconi e portato avanti oggi da presidenti come quello statunitense Donald Trump o quello francese Emmanuel Macron.
Secondo una tendenza analoga a quella della sinistra italiana degli anni '90 e 2000, da qualche anno si assiste a un'insistenza, da parte di quanto resta delle forze politiche che si riconoscono o vengono classificate come di sinistra, su due temi: il timore per l'ascesa di forze politiche reazionarie e la necessità di opporsi a queste ultime superando i pregiudizi e la “paura del diverso”. Due argomenti, peraltro, non di per sé fuori luogo, ma il cui insistente sbandieramento su tutti i mezzi di comunicazione di massa, dalla tradizionale TV alle reti sociali, induce a fraintendere la radice del deterioramento del tessuto sociale nelle società europee attuali, in particolare in quelle dei paesi con economie più fragili, Italia e Grecia in primis.
In virtù di un tale meccanismo, si afferma paradossalmente la tesi degli avversari politici, quei “reazionari” ai quali si dice di opporsi: la vera paura che induce gli elettori a votare “a destra” (oppure a non votare) è la paura dell'altro e la conseguente chiusura nella paranoia securitaria. Così, se la rinuncia all'utopia dell'uguaglianza e della solidarietà per conquistare l'”elettorato moderato” tra gli anni '90 e gli anni 2000 portò la sinistra ai margini della scena politica italiana, ora la rinuncia a un sano materialismo dialettico che punti il dito sulla vera causa della “paura” rischia di farne sparire i pallidi epigoni. Si tratta di una strategia che con quella adottata negli anni '90 ha in comune, oltre alla vocazione suicida, la perdita di quel senso di responsabilità collettiva che caratterizzava i discorsi degli esponenti del fu Partito comunista italiano (PC). In altri termini, l'unico modo che quanto rimane della sinistra ha di sopravvivere è affermare con convinzione e precisione argomentativa che la cosiddetta “paura dei migranti” di cui si parla tanto sui media e sulle reti sociali, quella strumentalizzata e cavalcata in senso xenofobo dalle destre, non è in realtà che una manifestazione dell'incertezza e delle profonde disfunzioni che caratterizzano le società europee in questa fase storica, prime tra tutte il precariato, lo sfruttamento brutale del lavoro e l'impoverimento.
In particolare, per quel che concerne l'Italia, dove, secondo un'indagine Istat del 2017, oltre cinque milioni di persone vivono in povertà assoluta, ciò che davvero preoccupa non è l'arrivo di rifugiati e migranti economici, ma l'assenza di giustizia sociale.
Infatti, la forma di discriminazione che è alla base di tutte le altre è economica e da questa dipendono le altre forme, da quella di genere a quella etnica, da quella culturale a quella religiosa: parole come straniero o extra-comunitario hanno connotazioni diverse a seconda che riguardino un ambasciatore, un turista o un povero alla disperata ricerca di un “porto sicuro” o di un lavoro, magari di un “posto sicuro”. Basti citare un esempio recente: a nessuno è venuto in mente di classificare i due turisti statunitensi accusati dell'omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega come extra-comunitari, né qualcuno ha invocato decreti sicurezza o espulsioni. Più in generale, un ambasciatore o un ricco uomo d'affari, in qualunque paese del mondo, saranno difficilmente oggetto di discriminazioni, insulti o aggressioni motivate da odio razziale. Si verifica quindi un fenomeno analogo a quello osservato in occasione dei dibattiti sull'imposizione di obblighi religiosi (ad esempio nei paesi islamici), che riguardano per lo più le classi dominati mentre nelle classi dominanti si riduce spesso a finzione propagandistica finalizzata alla conquista e al mantenimento del potere. Persino le discriminazioni di genere sono condizionate in varia misura, a seconda dei contesti, dall'appartenenza o meno alle classi dominanti. Conseguentemente, il fatto che il lavoro sia sempre più raramente fonte di dignità, di autonomia e di indipendenza oltre che di sostentamento materiale (eppure, non era forse questa una delle basi per l'affermazione della borghesia come classe dominante?) ha accentuato il feticismo delle merci di cui scriveva Karl Marx. In altri termini, la borghesia, una volta affermatasi come classe dominante, ha fatto proprio il sistema dei privilegi che fondava l'Ancien Régime, mutando il criterio della discriminazione: dalla nobiltà di sangue alla proprietà dei mezzi di produzione. Oggi, al feticismo delle merci si aggiunge quello della rete, dell'apparire, dell'attrarre seguaci (“followers”) e del potere di influenzare opinioni e tendenze: nell'attuale società di massa iperconnessa, l'uomo produce non solo (forse quasi non più) merci, ma soprattutto dati. Un prodotto che si vende e si acquista, quindi ha un suo specifico valore di scambio, che cresce in misura direttamente proporzionale alla sua pertinenza nel controllo delle collettività e degli individui e all'importanza che tale controllo ha nelle singole società. È il capitalismo della sorveglianza, messo in moto dal profitto generato dall'estrazione di dati che riguardano la quotidianità e spesso l'intimità dei singoli.
In un contesto simile, parole come trasparenza, legalità, sicurezza e integrazione hanno subito una risemantizzazione significativa del pensiero unico che si tende ad affermare in questa fase di transizione. Così la trasparenza, con il pretesto del diritto di informarsi su quanto incide sulle condizioni della collettività, diventa l'etichetta che nasconde lo strumento autoritario del controllo della vita privata degli individui sotto il paravento della garanzia di correttezza. Analogamente legalità viene spesso impiegato come carico di impliciti repressivi, come se il rispetto della legge fosse prerogativa di società guidate da poteri forti. Occorre ricordare, a tal proposito, che la mafia, intesa come criminalità organizzata non è solo un fatto culturale, ma è anche essenzialmente un ingranaggio economico funzionale a un sistema produttivo fondato sul profitto e sulla concentrazione progressiva delle ricchezze nelle mani di un'oligarchia finanziaria. Lo stesso si dica della sicurezza, che, malgrado il suo abuso nella retorica dilagante, è anzitutto sicurezza dei mezzi di sussistenza, sicurezza alimentare. Una sorte analoga è toccata alla parola integrazione, che non significa solo inclusione meccanica all'interno di un corpo sociale, ma è capacità di progredire facendo sentire tutte le componenti della società come autrici e partecipi di tale progresso, in misura equa. La giustizia sociale, pertanto, è l'unico strumento in grado di produrre integrazione, sicurezza, legalità e trasparenza, quest'ultima nel senso del diritto fondamentale di accedere al sapere e all'informazione, ma anche di sviluppare un pensiero critico indipendente. Basi essenziali per la costruzione di una responsabilità collettiva, fondata su un nuovo patto sociale.
Di fronte alla politica della massima pressione attuata da Washington nei confronti di Tehran, l'Unione europea non si sbilancia, restando ancorata a un approccio di tamponamento piuttosto che di contestazione in nome della giustizia internazionale; vale tuttavia su scala globale una tendenza simile a quella interna ai singoli paesi: le istituzioni tengono finché sono rappresentative di un determinato stato di cose
Il paradosso creato dalla condotta adottata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump nei confronti dell'Iran e in particolare dalla sua decisione, a maggio 2018, di uscire dal cosiddetto “accordo sul nucleare iraniano” (il Piano d'azione congiunto globale – JCPOA), rappresenta la sintesi di un percorso che i paesi del vecchio continente hanno scelto di imboccare a seguito del crollo dell'Unione sovietica. Il paradosso di un agglomerato di stati concepito in piena guerra fredda, con l'obiettivo (uno dei principali) di bloccare un'eventuale espansione a Ovest della sfera di influenza di Mosca. Una Comunità di difesa, poi Comunità economica, poi Unione, che né durante né alla fine della contrapposizione tra Mosca e Washington ha saputo produrre molto altro se non una gabbia economico-finanziaria, incapace peraltro di proteggere gli stati membri dalla crisi del 2008, e ha imposto ai paesi dalle economie più fragili misure che hanno aggravato le diseguaglianze e inasprito l'ingiustizia sociale senza promuovere la crescita. Ma soprattutto, un'Unione che finora non è stata in grado di elaborare una strategia geopolitica autonoma, né un approccio alle relazioni internazionali alternativo all'intraprendenza aggressiva degli USA. Dai Balcani all'Afghanistan, dall'Asia centrale alle attuali tensioni tra India e Pakistan, dalla Libia al Vicino e Medio Oriente, le disastrose conseguenze degli interventi umanitari e delle guerre preventive lascerebbero presupporre che, nell'attuale fase di transizione negli equilibri mondiali di potenza, più voci promuovono il dialogo e la cooperazione, più è possibile allontanare il rischio di conflitti armati e altre dinamiche destabilizzanti. Per recuperare il dialogo tra Tehran e la comunità internazionale, Bruxelles potrebbe fare molto, ma opta per un profilo basso. Anziché intensificare i tentativi di riportare Washington sulla via della distensione e del dialogo con l'Iran, l'Unione europea, attraverso la sua Alta rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, manifesta a settembre 2018 l'intenzione di mettere in piedi un meccanismo per preservare le sue relazioni commerciali con Tehran, aggirando le sanzioni statunitensi. Lo scorso gennaio, arriva quindi INSTEX, società per azioni semplificata fondata da Francia, Germania e Regno Unito.
A questo fondo comune di credito si è successivamente ispirato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che, durante un colloquio con il suo omologo iraniano Hassan Rouhani a febbraio 2019 a Sochi (Russia), ha dichiarato di voler creare un sistema simile, una società di progetto. Nelle intenzioni velleitariamente ottomanizzanti di Erdoğan, si tratterebbe di un meccanismo bilaterale di cooperazione commerciale, concepito come parte di un più ampio progetto di espansione economica e culturale (attraverso l'influenza sulle varie comunità islamiche) in Medio Oriente e in Asia Centrale. In realtà Ankara, che con Tehran e Mosca porta avanti il processo di pace in Siria, ha cambiato politica nei confronti della Repubblica islamica dal 2002, anno dell'ascesa al potere del partito Giustizia e sviluppo, cui appartiene Erdoğan. In un editoriale apparso di recente sul quotidiano turco filogovernativo Daily Sabah, si legge che già nell'agosto 2017 il capo di Stato maggiore iraniano, il generale maggiore Mohammed Bagheri, si è recato in visita ufficiale ad Ankara (la prima di un funzionario del suo rango in Turchia dal 1979) per discutere di una linea comune sulle aspirazioni autonomiste delle minoranze curde della regione, a partire dal rifiuto di riconoscere il risultato del referendum per l'indipendenza del Kurdistan iracheno. Inoltre, sia la Turchia, sia l'Iran sono in contrasto con i vicini paesi arabi, Arabia Saudita in testa, e temono una riconfigurazione sfavorevole degli equilibri regionali a seguito delle cosiddette primavere arabe. Le forme di islam politico sostenute da Ankara e Tehran (nel primo caso l'islam politico sunnita dei Fratelli musulmani, nel secondo l'islam politico sciita elaborato dall'ayatollah Ruhollah Khomeini) sono fortemente osteggiate da quello che talvolta è stato definito l'asse saudita-egiziano-emiratino, che gode del sostegno di Israele e Stati Uniti: uno schieramento, che a partire dall'ascesa di Trump alla Casa bianca ha adottato una linea sempre più apertamente anti-iraniana, suscitando al contempo la diffidenza della Turchia, storico membro dell'Alleanza atlantica. Il presidente USA, infatti, è giunto a inserire i Pasdaran (organizzazione militare comandata direttamente dalla Guida della rivoluzione, che in Iran è anche capo di Stato) nella lista delle formazioni terroristiche. Dal sostegno alla causa palestinese, ai sospetti che l'Arabia Saudita e i suoi alleati stiano tentando di imporre la propria egemonia sulla regione, Ankara e Tehran si sono dunque spesso trovate ad avere punti in comune, anche se più di natura tattica che strategica.
Contestualmente, il cosiddetto asse saudita-egiziano-emiratino mostra qualche incrinatura. Anzitutto, da Riyadh giungono voci critiche riguardo la linea intransigente del principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS), al quale Ahmed bin Abdelaziz, fratello del re, ha apertamente dichiarato di opporsi nel caso in cui dovesse unirsi a un'alleanza militare con Gran Bretagna e Stati Uniti in funzione anti-iraniana. In secondo luogo, gli Emirati Arabi Uniti, guidati dal principe ereditario e ministro della Difesa Mohammed bin Zayed (MBZ), hanno dato di recente segnali di parziale allontanamento dall'alleanza d'acciaio con MBS. D'altronde, essendo il principale partner commerciale della Repubblica islamica nella regione, temono le ripercussioni economiche delle tensioni nell'area dello stretto di Hormuz. Eppure erano stati tra i principali fautori della decisione di Trump di uscire dal JCPOA, nonché il più stretto alleato di MBS nella strategia di contrasto a presunte mire espansionistiche di Tehran nella regione. Dopo aver preso parte alla coalizione militare a guida saudita che in Yemen combatte una guerra contro i ribelli sciiti Houthi, gli Emirati hanno annunciato lo scorso maggio di voler ritirare parte delle loro truppe da un conflitto che per MBZ è anche una sorta di “vetrina” per mostrare alla comunità internazionale un ciclopico arsenale militare. Una misura che ha seguito di poco le dichiarazioni del ministro degli Esteri emiratino Abdallah bin Zayed al-Nahyan a commento delle accuse di Trump all'Iran di essere responsabile degli attacchi alle petroliere nei pressi dello stretto di Hormuz. Al-Nahyan aveva infatti espresso cautela nel condividere tali accuse, sottolineando la necessità di prove “chiare, precise e scientifiche” in grado di convincere la comunità internazionale. Inoltre, aveva aggiunto che nessuno ha interesse a provocare un nuovo conflitto, poiché ciò di cui c'è bisogno nella regione è avere più stabilità e sviluppo.
A parte simili dissidi “interni” all'alleanza che fa riferimento all'amministrazione Trump, Washington si trova attualmente in una posizione diversa dallo status di superpotenza del tempo delle guerre umanitarie degli anni '90. Attualmente, infatti, sullo scacchiere mondiale, paesi come Russia e Cina insidiano il primato statunitense in diversi settori, dall'industria aerospaziale alle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Ad esempio, Mosca, che ultimamente ha intensificato le sue relazioni economico-militari con la Turchia, ha invitato Washington e Tehran a evitare strategie pericolose per la stabilità della regione e a dirimere i loro conflitti attraverso “un dialogo civile”, come ha detto il ministro degli esteri russo Serghej Lavrov durante un incontro, a Mosca, con il suo omologo emiratino al-Nahyan (la stessa occasione in cui quest'ultimo ha manifestato diffidenza nei confronti delle accuse rivolte da Washington a Tehran), esortando a respingere politiche fatte di ultimatum, sanzioni e intimidazioni. Dal canto suo, la Cina, che ha espresso a più riprese il suo sostegno al JCPOA, starebbe mettendo in atto sistemi per aggirare le sanzioni USA contro l'Iran, continuando a importare petrolio iraniano. Intanto, l'Unione Europea ha perso un'importante occasione per promuovere una seria mediazione, un ruolo che ora sta tentando di assumere il Giappone del primo ministro Shinzo Abe.
Anche se l’opposizione attacca sempre il governo e vi sono divergenze nel governo stesso, dall’intero arco parlamentare non si è levata alcuna voce critica quando il premier Conte ha esposto alla Conferenza degli ambasciatori (26 luglio) le linee guida della politica estera, a riprova del vasto consenso multipartisan.
Conte ha definito anzitutto qual è il cardine della collocazione dell’Italia nel mondo: «Il nostro rapporto con gli Stati Uniti rimane qualitativamente diverso da quello che abbiamo con altre Potenze, perché si fonda su valori, su principi condivisi che sono il fondamento stesso della Repubblica e parte integrante della nostra Costituzione: la sovranità democratica, libertà e uguaglianza dei cittadini, la tutela dei diritti fondamentali della persona».
Il premier Conte così non solo ribadisce che gli Usa sono nostro «alleato privilegiato», ma enuncia un principio guida: l’Italia assume gli Stati uniti come modello di società democratica.
Una colossale mistificazione storica.
Riguardo alla «libertà e uguaglianza dei cittadini», basti ricordare che i cittadini statunitensi sono ancora oggi censiti ufficialmente in base alla «razza» – bianchi (distinti tra non-ispanici e ispanici), neri, indiani americani, asiatici, nativi hawaiani – e che le condizioni medie di vita dei neri e degli ispanici (latino-americani appartenenti a ogni «razza») sono di gran lunga le peggiori.
Riguardo alla «tutela dei diritti fondamentali della persona», basti ricordare che negli Usa oltre 43 milioni di cittadini (14 su cento) vivono in povertà e circa 30 milioni sono privi di assicurazione sanitaria, mentre molti altri ne hanno una insufficiente (ad esempio, per pagare una lunga chemioterapia contro un tumore). E sempre riguardo alla «tutela dei diritti della persona» basti ricordare le migliaia di neri inermi assassinati impunemente da poliziotti bianchi.
Riguardo alla «sovranità democratica» basti ricordare la serie di guerre e colpi di stato effettuata dagli Stati uniti, dal 1945 ad oggi, in oltre 30 paesi asiatici, africani, europei e latino-americani. provocando 20-30 milioni di morti e centinaia di milioni di feriti (vedi lo studio di J. Lucas presentato dal prof. Chossudovsky su Global Research).
Questi sono i «valori condivisi» sui quali l’Italia basa il suo rapporto «qualitativamente diverso» con gli Stati uniti. E, per dimostrare quanto esso sia proficuo, Conte assicura: «Ho sempre trovato nel presidente Trump un interlocutore attento ai legittimi interessi italiani».
Interessi che Washington considera «legittimi» fintanto che l’Italia resta in posizione gregaria nella Nato dominata dagli Stati uniti, li segue di guerra in guerra, aumenta su loro richiesta la propria spesa militare, mette il proprio territorio a disposizione delle forze e basi Usa, comprese quelle nucleari.
Conte cerca di far credere che il suo governo, comunemente definito «sovranista», abbia un ampio spazio autonomo di «dialogo con la Russia sulla base dell’approccio Nato a doppio binario» (diplomatico e militare), approccio che in realtà segue il binario unico di un sempre più pericoloso confronto militare.
A tale proposito – riferisce La Stampa (26 luglio) –l’ambasciatore Usa Eisemberg ha parlato col vice-presidente Di Maio (ritenuto da Washington il più «affidabile»), chiedendo un chiarimento sui rapporti con Mosca in particolare del vice-presidente Salvini (la cui visita a Washington, nonostante i suoi sforzi, ha avuto un «esito deludente»).
Non si sa se il governo Conte supererà l’esame. Si sa comunque che prosegue la tradizione secondo cui in Italia il governo deve sempre avere l’approvazione di Washington, confermando quale sia la nostra «sovranità democratica».
(il manifesto, 30 luglio 2019)
La Russia, dove operano 500 aziende italiane, è il quinto mercato extra-europeo per il nostro export e fornisce il 35% del fabbisogno italiano di gas naturale.
L’interscambio – precisa Putin – è stato di 27 miliardi di dollari nel 2018, ma nel 2013 ammontava a 54 miliardi. Si è quindi dimezzato a causa di quello che Conte definisce il «deterioramento delle relazioni tra Russia e Unione europea che ha portato alle sanzioni europee» (in realtà decise a Washington). Nonostante ciò vi è tra i due paesi una «intensa relazione a tutti i livelli».
Toni rassicuranti che ricalcano quelli della visita di Conte a Mosca nel 2018 e del premier Renzi a San Pietroburgo nel 2016, quando aveva garantito che «la parola guerra fredda è fuori dalla storia e dalla realtà». Prosegue così la sceneggiata.
Nelle relazioni con la Russia, Conte (come Renzi nel 2016) si presenta unicamente nelle vesti di capo di governo di un paese dell’Unione europea, nascondendo dietro le quinte l’appartenenza dell’Italia alla Nato sotto comando degli Stati uniti, considerati «alleato privilegiato».
Al tavolo Italia-Russia continua quindi a sedere, quale convitato di pietra, l’«alleato privilegiato» sulla cui scia si colloca l’Italia.
Il governo Conte dichiara «eccellente» lo stato delle relazioni con la Russia quando, appena una settimana prima in sede Nato, ha accusato di nuovo la Russia di aver violato il Trattato Inf (in base alle «prove» fornite da Washington), accodandosi alla decisione Usa di affossare il Trattato per schierare in Europa nuovi missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia.
Il 3 luglio, il giorno prima della visita di Putin in Italia, è stata pubblicata a Mosca la legge da lui firmata che sospende la partecipazione russa al Trattato: una mossa preventiva prima che Washington ne esca definitivamente il 2 agosto.
Lo stesso Putin ha avvertito che, se gli Usa schiereranno nuove armi nucleari in Europa a ridosso della Russia, questa punterà i suoi missili sulle zone in cui sono dislocate.
È così avvertita anche l’Italia, che si prepara a ospitare dal 2020 le nuove bombe nucleari B61-12 a disposizione anche dell’aeronautica italiana sotto comando Usa.
Una settimana prima della conferma dell’«eccellente» stato delle relazioni con la Russia, il governo Conte ha confermato la partecipazione italiana alla forza Nato sotto comando Usa di 30 navi da guerra, 30 battaglioni e 30 squadre aeree dispiegabili entro 30 giorni in Europa contro la Russia a partire dal 2020.
Sempre in funzione anti-Russia navi italiane partecipano a esercitazioni Nato di guerra sottomarina; forze meccanizzate italiane fanno parte del Gruppo di battaglia Nato in Lettonia e la Brigata corazzata Ariete si è esercitata due settimane fa in Polonia, mentre caccia italiani Eurofighter Typhoon vengono schierati in Romania e Lettonia.
Tutto ciò conferma che la politica estera e militare dell’Italia viene decisa non a Roma ma a Washington, in barba al «sovranismo» attribuito all’attuale governo.
Le relazioni economiche con la Russia, e anche quelle con la Cina, poggiano sulle sabbie mobili della dipendenza italiana dalle decisioni strategiche di Washington.
Basta ricordare come nel 2014, per ordine di Washington, venne affossato il gasdotto South Stream Russia-Italia, con perdite di miliardi di euro per le aziende italiane. Con l’assoluto silenzio e consenso del governo italiano.
(il manifesto, 9 luglio 2019)
Nata a Kyiv, in Ucraina, da una famiglia di diplomatici. Kateryna "Katia" Sadilova nel 1999 ottiene il master nella facoltà di relazioni internazionali e politica estera dell'università Nazionale di Taras Shevchenko. Dopo un breve stage nel Ministero degli Affari esteri, dal 1999 al 2001 lavora nel dipartimento di ricerche strategiche del consiglio di sicurezza ucraino.
Nel 2001 si trasferisce in Italia, dove inizia a collaborare con vari canali televisivi ucraini, tra cui "1+1". Spesso invitata a conferenze che riguardano temi di geopolitica, in particolare inerenti a Ucraina, Russia ed est Europa, lavora attualmente come Digital Account Manager nel settore del Digital Advertising e ha partecipato come relatore in convegni su argomenti come le Fake News e il ruolo della Russia insieme a Anna Zafesova e Jacopo Iacoboni de "La Stampa", ed è attualmente vicepresidente di Futura, un'associazione di Lodi che, tramite conferenze e incontri, si occupa di promuovere i valori europei e affontare i temi politici di oggi.
Una breve panoramica della situazione politica ed economica attuale in Ucraina?
Per quanto riguarda la situazione economica va ricordato che dopo la fuga del presidente Yanukovych a febbraio 2014 nelle casse dello stato sono rimasti 3.600€. Questo per far capire in che stato drammatico si è trovato il paese. Nel 2015 il prodotto interno lordo è crollato del 10%, per risalire del 2,4 nel 2016 e del 2,5 nel 2017. Un aumento che si è consolidato nel 2018 con un +3,5%, nonostante la guerra. Cresce il numero delle aziende europee che aprono le proprie sedi in Ucraina: solo negli ultimi 4 anni sono state aperte oltre 2000 aziende arrivate dalla Germania che danno lavoro a circa 600 mila ucraini. Quel che attira di più è il basso costo del lavoro a fronte di una manodopera qualificata, infatti molti imprenditori hanno portato in Ucraina fabbriche che prima erano in Polonia, Romania, Slovacchia.
Il 2019 è pieno di incertezze, a causa delle elezioni appena passate. Gli investitori attendono cautamente per capire i prossimi passi del presidente neo eletto e vedere che clima regnerà nel paese dopo le elezioni parlamentari.
Persino il Fondo monetario internazionale, senza il cui supporto l’Ucraina sarebbe affondata, ha già fatto sapere che soltanto dopo le elezioni parlamentari si deciderà se il paese riceverà una tranche di 1,3 mlrd di dollari secondo il programma standby firmato a dicembre 2019.
Cosa significa oggi essere ucraini nello scenario politico, economico, culturale nel mezzo di oriente e occidente? Quali sono le caratteristiche principali dell'essere ucraino oggi?
Essere ucraini oggi vuol dire condividere i valori della famiglia europea e saper presentare il proprio paese e la propria cultura in tutto il mondo. L'Ucraina non deve affermarsi come paese, non è uno stato "Artificiale" che esiste da pochissimo, come sostiene la propaganda russa per sminuire l'intera nazione. L'Ucraina ha una storia di oltre mille anni di cui gli ucraini possono andar fieri. Pensare solo che già nel X secolo il Ducato Rus' di Kyiv (non confondere con la Russia che allora non esisteva nemmeno) è stato uno dei più sviluppati economicamente in Europa, contava numerose accademie e università. Le cronache parlano di Kyiv di quei tempi come della "Città delle cento cupole". L'attività edilizia era imponente (chiese di Santa Sofia, dell'Annunciazione, di Santa Irene), come pure la produzione di icone. Si costruirono anche monasteri (soprattutto il monastero delle Grotte) e numerosi palazzi.
Il granduca Yaroslav il Saggio fu soprannominato il Suocero d'Europa: ebbe dieci figli, sei maschi e quattro femmine. Le femmine sono state date in spose ai vari re dell'Europa: Elisabetta divento' moglie del re norvegese Gerald, Anna diventò moglie del re francese Enrico I, tuttora in Francia è amata e rispettata, ci sono i suoi monumenti in alcune città francesi. Anastasia fu la moglie del re Ungherese Andrash I, Agata fu data in sposa a Enrico III d'Inghilterra. Anche i figli maschi si sono sposati con varie principesse delle corti europee: Vsevolod sposò Irina, la principessa greca, un altro figlio, Izyaslav sposo' Gertruda, la figlia del re polacco.
Per cui possiamo sostenere con certezza che il sangue ucraino scorre nelle vene di quasi tutte le monarchie europee. Peccato che di queste cose in Italia non si parla proprio, e se si parla viene presentata una versione russa che non c'entra nulla con veri avvenimenti storici.
Pensare che Mosca è stata fondata solo nel 1147, mentre il Ducato di Rus di Kyiv esisteva già da oltre 300 anni! Il nome "Mosca" viene dalla lingua finnica e significa "umido, bagnato", visto che quel territorio fu abitato dalle varie tribù ugro-finniche che non c'entravano nulla con i slavi della Rus di Kyiv. Infatti fino a 1700 il terrirorio che oggi chiamiamo la Russia si chiamava Moscovia, soltanto con il Pietro il Grande il paese ha "espropriato" una parte del nome Rus di Kyiv, probabilmente per aggiungere i secoli della storia di un altro stato alla propria.
Questo "furto d'identita" riguarda molti famosi ucraini che tutto il mondo considera russi: Gogol, Čechov ("Sono nato in una piccola verde cittadina ucraina Taganrog"), Bulgakov: "Ma come sono belle le stelle in Ucraina. Ormai sono sette anni che vivo a Mosca, pero' non riesco a staccarmi dalla mia patria. Sento il dolore nel cuore, viene voglia di correre alla stazione e prendere il treno... per andare là. Di nuovo vedere i versanti coperti dalla neve, Dnepr... Non esiste la città più bella al mondo di Kiev!", Malevich. Igor Sikorskiy e tanti altri.
L'Ucraina di oggi sembra essere divisa, a macchia di leopardo, tra filorussi, nazionalisti, filoeuropeisti e chi, invece, desidera solo vivere in pace senza interferenze esterne. Quale è la vera identità del paese?
Per capire la vera identità ucraina si dovrebbe tornare indietro di 100 anni, quando, dopo la conferenza di Parigi nel 1918, il paese contava oltre 90 milioni di abitanti. Successivamente, con l’arrivo delle truppe sovietiche, alcune regioni ucraine come Kuban’, Belgorod, Kursk ecc con la maggioranza ucraina del 90% sono state "passate" alla Repubblica Sovietica Federativa Russa (adesso Federazione Russa) dove successivamente e fino ai nostri giorni è stata introdotta una politica di russificazione forzata.
Il resto del territorio ucraino ha subìto tragedie inimmaginabili come Holodomor, la fame artificiale indotta dal governo di Stalin per punire il popolo ucraino per la sua voglia di libertà e poca obbedienza nei confronti del governo “Rosso”. Nell’arco di due anni (1931-1933) l’Ucraina perse oltre 8 milioni di cittadini.
Dopo questa pagina nera per gli ucraini ne arrivò un’altra: la Seconda guerra mondiale, in seguito alla quale l’Ucraina perse oltre 9 milioni di vite (più del terzo di tutte le vittime dell’intera Unione Sovietica). Ricordiamo anche il Rinascimento ucraino che venne fucilato: negli anni Trenta il governo sovietico fucilò l’intera pleiade dei poeti, scrittori, musicisti e attori ucraini. La loro colpa? Portavano gli abiti tradizionali ucraini, scrivevano e recitavano in lingua ucraina.
Aggiungiamo a tutto questo la deportazione di intere regioni ucraine in Siberia, nei campi di concentramento e Gulag: Stalin amava tanto giocare a “Risiko”, spostando interi popoli e mandandoli a morire nei posti più sperduti dell’impero sovietico dove in inverno le temperature arrivano a -55°C.
Così fu con i tatari della Crimea, così fu con gli ucraini di Donbass. Se adesso, per curiosità, controllate i cognomi dei cittadini russi che abitano in Siberia, noterete che la maggior parte porta i cognomi ucraini, quelli che finiscono con -ko: Shevchenko, Stefanenko, Petrenko, Gritsenko. Sono eredi degli ucraini deportati. Gli ucraini e i tatari della Crimea hanno avuto lo stesso terribile destino: le loro case vuote, dopo la deportazione, sono state assegnate ai cittadini russi; in Crimea (dato il clima e il mare) le case dei tatari sono stati regalati ai fedelissimi del partito comunista, nel Donbass mandavano anche gli ex carcerati, criminali, la gente con i precedenti penali, per costruire gli stabilimenti, lavorare nelle miniere, anche gratuitamente, per far ripartire l’economia sovietica dopo la Seconda guerra mondiale. Proprio per questo l’Ucraina di oggi sembra di essere a macchia di leopardo. Gli europeisti sono gli eredi degli ucraini sopravvissuti dopo il “trattamento speciale” riservato alla nostra nazione dal regime sovietico, quelli filorussi sono gli eredi dei “commissari rossi”, quelli che furono i boia del popolo ucraino, quelli che non si sono mai sentiti ucraini, non hanno mai accettato la lingua e l’identità ucraini.
Il popolo ucraino di oggi cosa ha in comune con quello russo e con quello europeo?
Con l’Europa sicuramente lo spirito di libertà, la democrazia, la tolleranza, l’assenza di paura nei confronti delle persone che rappresentano una cultura diversa. L’Ucraina è uno dei pochi paesi dove una moschea dista 100 m da una sinagoga, una chiesa cattolica da quella ortodossa, e non ci sono mai state tensioni. Il popolo ucraino (almeno la maggior parte) è molto tollerante.
Con quello russo in comune abbiamo il passato. Questo collegamento lo sentono soprattutto le persone di una certa età, quelle che hanno vissuto la maggior parte della loro vita nell’impero sovietico. Sono ancora attaccate ai film e alle canzoni sovietiche, spesso questa nostalgia si manifesta non perché lo stato sovietico non esiste più, ma perché gli anni più belli sono passati, gli anni della propria giovinezza che si confondono con l’amore verso l’Unione Sovietica, spiegando che "Allora il gelato era più buono", "Le caramelle erano più dolci" e "Il pane era più soffice". Preferiscono non credere e rimuovere completamente tutte le informazioni che riguardano i crimini del regime sovietico.
In più c’è la lingua. Non è un segreto che per via degli avvenimenti storici che ho già spiegato quasi la metà del paese parla la lingua russa, si tratta soprattutto delle generazioni nate negli anni 50, 60, 70 e 80, i giovani ucraini nati dopo l’indipendenza del 1991 nella maggior parte dei casi parlano la lingua ucraina, questa tendenza è particolarmente evidente dopo la rivoluzione del 2013-2014. Il fatto curioso è che molte persone russofone rifiutano categoricamente di essere associate e collegate alla Russia, sottolineando di sentirsi al 100% ucraini. Infatti la metà di ucraini caduti nel Donbass difendendo la patria dalle truppe dei militanti russi era di madrelingua russa.
Come è cambiata la coscienza nazionale degli ucraini in questi ultimi 10 anni, tra Euromaidan, Rivoluzione arancione, annessione della Crimea, ingerenze russe, ruolo dell'Europa ecc?
Sicuramente gli eventi nominati hanno rafforzato la voglia degli ucraini di diventare ufficialmente parte della comunità europea. Nessuno ha dei dubbi che, geograficamente parlando, l’Ucraina faccia parte dell’Europa, alla fine si trova nel cuore dell’Europa.
Ricordiamo, inoltre, che gli ucraini sono stati gli unici come nazione a morire a Maidan stringendo al petto la bandiera europea. Gli europei di oggi, quelli che hanno la fortuna di far parte dell’Unione, sono pronti a fare altrettanto se dovesse succedere quello che è successo agli ucraini...essere attaccati da uno stato confinante nonché morire per le proprie idee?
La perdita dei territori, annessi dalla Federazione Russa, la successiva occupazione del Donbass, 13 mila morti, tre milioni di sfollati...questo è il prezzo che sta pagando l’Ucraina per aver intrapreso il percorso europeo. Le famiglie distrutte, giovani vedove, bambini orfani, ragazzi ventenni mutilati, funerali dei militari ogni giorno, come fa tutto questo a non cambiare la coscienza nazionale?
Fino a pochi decenni fa, l'Ucraina era considerata Unione Sovietica. Quanto pesa ancora oggi quell'eredità nell'indipendenza e nell'identità dell'Ucraina?
Pesa ancora parecchio. Per spezzare questo cordone ci vogliono almeno due generazioni, nate dopo la proclamazione dell’Indipendenza. Nonostante 28 anni già passati, molti giovani di oggi, nati dopo il 1991 (soprattutto nelle regioni sud-orientali) continuano ad assorbire questa "nostalgia" grazie ai racconti di nonni e genitori.
Tali racconti spesso sono idealizzati, in quanto si tratta di un fenomeno psicologico molto diffuso: con il passar del tempo la memoria umana rimuove la maggior parte degli episodi negativi, lasciando solo quelli piacevoli. Aggiungiamo a questo un fattore molto importante: i mass media. Il 90% dei canali televisivi ucraini appartiene agli oligarchi, quasi tutti filorussi, per cui l’informazione che viene passata al cittadino tramite questo mezzo di informazione corrisponde alle preferenze del proprietario del canale. Ci sono quelli con un’audience molto importante, che mandano in onda tutto il giorno film sovietici, concerti degli anni 70, varie trasmissioni e talk-show dei canali russi (anche oggi identiche a quelli sovietici per quanto riguarda la propaganda e fake news), questo condiziona molto il pubblico nonché danneggia la percezione della realtà.
Per essere indipendenti non basta definire le frontiere dello stato, ci vuole anche la percezione mentale dell’indipendenza da parte dei cittadini, la consapevolezza di appartenere ad un’altra nazione, altra cultura, altri valori, diversi da quelli russi (sovietici). Finché questo non accadrà il popolo ucraino sarà costretto a trascinare il bagaglio sovietico per molti anni, perdendo tempo e risorse.
Un eventuale ingresso nell'UE potrebbe ostacolare l'indipendenza dell'Ucraina o sarebbe un vantaggio per il paese?
Sicuramente sarebbe un vantaggio, l’ingresso sia nell’UE che nella NATO. Le strutture europee e euroatlantiche possono dare e insegnare tanto: il rispetto dei diritti civili, il sistema giudiziario, la responsabilità civile, le regole della trasparenza economica. Ma anche l’Ucraina può dare tanto all’Europa: soprattutto rinnovare e sollevare il suo spirito, visto il clima di sfiducia che regna ultimamente nella maggior parte dei paesi dell’Unione.
L’Ucraina in questi anni di guerra è riuscita a costruire forze armate efficienti e professionali che possiedono l’ottavo posto in Europa e il 29° posto nel mondo secondo la classifica Global Firepower.
Inoltre, l’Ucraina è sempre stata chiamata “Il granaio dell'Europa”, l’export dei prodotti ucraini verso i paesi dell’Unione Europea cresce ogni anno. Nel 2018 l’Ucraina ha esportato nei paesi dell’UE servizi e generi alimentari per un importo di oltre 20 miliardi di dollari. Sta crescendo l’interesse dei cittadini comunitari verso l’Ucraina come meta turistica: Kyiv, Leopoli e Odessa sono le mete preferite. Kyiv ormai da 5 anni fa parte della lista di 10 capitali europee più belle da visitare.
Quali potrebbero essere stati gli errori dell'Occidente nella gestione della crisi ucraina?
Sicuramente il timore e la titubanza nel chiamare l’aggressore con il suo vero nome. È chiaro che la Federazione Russa è una potenza nucleare ed è altrettanto chiaro che l’Occidente abbia permesso all’establishment russo di inserirsi, tramite mezzi economici spesso molto discutibili, nella vita di ogni paese, finanziando partiti politici, giornalisti, imprenditori. In tutti questi anni sono stati creati dei legami con la Federazione Russa, soprattutto in Italia, che influiscono sulla presa di posizione e sull’approvazione di certe decisioni.
Però esistono anche gli obblighi presi dall’Europa e dagli Stati Uniti nei confronti dell’Ucraina nel 1994 tramite il memorandum di Budapest: l’Ucraina era la terza potenza nucleare nel mondo, ha rinunciato poi al possesso delle armi nucleari in cambio alle garanzie dell’integrità territoriale da parte dei paesi-garanti. L’ironia della sorte è che fu attaccata proprio da uno di questi garanti, la Federazione Russa, e la risposta dell’Occidente è stata debole e insufficiente.
Probabilmente l'Occidente non si è reso conto che con questa violazione del diritto internazionale è stato scoperto il vaso di Pandora: come fanno adesso a convincere, ad esempio, la Corea del Nord a rinunciare alle armi nucleari? Risponderanno giustamente: guardate cos’è successo all’Ucraina.
Va però detto che, nonostante tutto, i paesi dell’UE votano all'unanimità per quanto riguarda la proroga delle sanzioni contro la Federazione Russa per l’annessione della Crimea e per violazione degli accordi di Minsk. Questo è un segnale decisamente positivo. Mi auguro che i politici europei capiscano che in questo momento i militari ucraini difendono non solo la frontiera orientale del proprio paese, ma anche quella dell’Europa. Se cade l’Ucraina l’Europa sarà la prossima.
Con questa crisi, c'è chi teme un ritorno di una "Guerra Fredda", con l'Ucraina nel mezzo. È uno scenario fattibile?
La Guerra Fredda è già in corso ed è iniziata molto prima, nel momento in cui il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che la maggior tragedia del XX secolo fu il crollo dell'Unione Sovietica. Tutto quello che è successo dopo - l'omicidio dei dissidenti russi, di 314 giornalisti tra cui Anna Politkovskaya, Stas Markelov, Anastasiya Baburina, Nataliya YEstemirova e tanti altri, l'avvelenamento di Litvinenko, la morte sospetta di Berezovskiy, la guerra con la Georgia nel 2008...tutto questo fa parte della guerra fredda. Se l'Occidente lo avesse capito e avesse reagito prima avremmo potuto evitare tanti morti, non soltanto in Ucraina, ma anche in Siria, Venezuela, ovunque ci sia l'interesse della Russia.
Per la sua posizione di "Terra di confine" tra occidente e oriente e per numerosi altri fattori, la crisi ucraina è molto importante nello scenario geopolitico europeo. Eppure in Italia, ma anche nel resto d'Europa, se ne parla poco a livello mediatico, specialmente a confronto di altri argomenti molto più gettonati come il terrorismo, l'immigrazione, la Siria, la mafia ecc. Lo stesso conflitto nelle zone del Donbass ha ben poco risalto nei media, figuriamoci nei libri. Perché, nonostante la sua importanza, l'argomento Ucraina è cosi poco discusso?
In Italia è veramente poco discusso...i motivi sono diversi. In primis perché tra l’Italia e la Federazione Russa c’è sempre stato un rapporto particolare, privilegiato, un rapporto di particolare vicinanza per motivi storici che risalgono ancora agli anni 70. L’Ucraina è sempre stata vista in Italia come parte della Russia (grazie anche alla diffusione della propaganda russa in Italia). Ad esempio ancora oggi, spesso, quando mi chiedono delle mie origini e io rispondo che sono ucraina, il mio interlocutore mi risponde: “ah, sei russa”.
Nonostante la poca distanza tra Kyiv e Roma (non parliamo poi di Milano), soli 2 ore con l’aereo, l’Italia non si è mai sforzata per avere i propri inviati a Kyiv. Ricordo che l’Ucraina è il più grande paese europeo, si trova nel cuore dell’Europa, ma nonostante questo, tutte le notizie che riguardano l’Ucraina arrivano direttamente dai corrispondenti italiani che stanno a Mosca. Vi sembra normale? Perché poi ci meravigliamo quando parlano del conflitto russo-ucraino dal punto di vista della Russia, diffondendo le false notizie?
Ho visto più volte i reportage dei vari telegiornali italiani in prima serata che trasmettevano i video con il logo DNR/LNR, le repubbliche terroristiche autoproclamate, armate e supportate dalla Russia. Questo succede in uno dei paesi dell’Unione Europea. I giornalisti non vanno a chiedere le informazioni alle agenzie ucraine, ma preferiscono dare la voce alla propaganda del paese aggressore. Possiamo contare con le dita di una mano i giornalisti italiani che affrontano la questione ucraina con la massima serietà e professionalità, ma loro non fanno parte della cerchia degli "Eletti" quelli che si vedono ogni giorno in TV.
Aggiungiamo poi alcuni politici italiani molto conosciuti che, violando le norme del diritto internazionale, si recano sui territori annessi ucraini, la Crimea, senza chiedere il permesso all’Ucraina, entrando sul territorio della penisola annessa dal territorio del paese aggressore. Che messaggio mandano alla società? Dov’è il rispetto della vita umana e tredici mila morti ucraini?
Considerata la sua importanza economica e strategica (basti pensare alle esportazioni di prodotti agricoli e al passaggio dei gasdotti), l'Ucraina potrebbe ancora ribaltare la sua posizione nei confronti di Russia e America e tornare a trarre per prima vantaggio dalla propria posizione geopolitica?
Certamente, ma questo può succedere solo quando cadrà l'attuale regime russo. Finché c’è Vladimir Putin come presidente della Federazione Russa temo che la situazione non cambi e la guerra non finisca, almeno che l’Ucraina non decida di arrendersi e tornare nella sfera dell’influenza russa, ma per il momento non vedo i presupposti per questa retromarcia.
L'Ucraina è ancora oggi considerata uno dei paesi con il più alto tasso di corruzione. Quanto peso ha ancora oggi questa discutibile pratica nella vita politica, sociale ed economica del paese? E che ruolo ne ricoprono ancora i cosiddetti oligarchi?
Purtroppo, il problema esiste. Ma è vero anche che negli ultimi 5 anni la situazione è notevolmente migliorata, l’Ucraina ha fatto i passi da gigante. Basta pensare al sistema ProZorro (Прозоро, "Trasparenza" in ucraino. Il sistema elettronico per la gestione di appalti pubblici attivo dal 1 agosto 2016, ndr) che permette di migliorare la trasparenza imprenditoriale, la facilità nell’aprire la partita IVA (bastano 5 minuti), rende pubbliche le dichiarazioni dei redditi dei politici e deputati, facilmente consultabili online da qualsiasi cittadino, facilita le riforme nel sistema sanitario e quelle dell'Istruzione.
Si poteva fare molto di più, questo è certo. L’influenza degli oligarchi sulla vita degli ucraini è ancora rimasta, sicuramente molto meno di prima, ma tuttavia c’è, soprattutto nel campo energetico. Va anche detto che in seguito alle ultime elezioni presidenziali in Ucraina e future elezioni parlamentari esiste un notevole rischio del ritorno della situazione di 5 anni fa.
L'ingresso dell'Ucraina nella NATO potrebbe essere un rischio per la posizione di superpotenza della Russia, come alcuni temono?
Finché Vladimir Putin sarà il presidente della Federazione Russa farà di tutto perché questo non accada. Lo scopo principale di tutta la presidenza di Putin è il rinnovo dell'impero sovietico, in un modo o nell'altro, l'allontanamento dell'Ucraina dalla sua sfera di influenza verso le strutture Euroatlantiche lo vede come minaccia alla realizzazione del suo sogno geopolitico.
Ovviamente l'ingresso dell'Ucraina nella NATO non puo' essere in alcun modo un rischio per la Russia, che ha già i paesi del Patto atlantico lungo i propri confini. Il danno sarebbe puramente psicologico, in quanto l'Ucraina è una colonna portante dell'eventuale alleanza "Sovietica", simile a quella che ha già la Federazione Russa con la Bielorussia. Se non ci sarà più l'Ucraina in questo folle progetto non ci sarà il progetto stesso.
Volodymyr Oleksandrovych Zelensky è il nuovo presidente dell'Ucraina: ha vinto con oltre il 70% delle preferenze. Sembra quasi che il popolo ucraino, pur di avere un netto cambiamento, fosse disposto a eleggere "...anche una sedia", come commenta "L'Economist". Ma è realmente lui il presidente di cui l'Ucraina ha oggi bisogno?
Innanzitutto vorrei precisare che il presidente Zelenskiy ha vinto con il consenso del 73% di quelli che hanno votato. il 43% degli ucraini non si è presentato ai seggi, per cui se dovessimo prendere tutti i cittadini ucraini che hanno il diritto di voto, allora la percentuale cambia, diventando il 44%. Va anche detto che a tal punto anche il Presidente Poroshenko non ha preso il 25%, ma soltanto intorno al 13%.
Con l'elezione del presidente Zelenskiy i cittadini ucraini hanno mostrato il forte desiderio di cambiare l'establishment del paese, essendo insoddisfatti dei politici di vecchia data e pensando che con l'arrivo della "Gente nuova" il processo del cambiamento nel paese si velocizzerà.
A mio parere queste elezioni hanno reso evidente tutta l'immaturità della società civile ucraina nonchè l'assenza di responsabilità e di un'idea chiara quanto lavoro deve essere fatto prima di iniziare a vedere i risultati delle riforme, sopratutto nel paese dove il 5% del prodotto lordo interno è destinato alle forze armate.
Era chiaro che in 5 anni, in un paese con un enorme bagaglio sovietico alle spalle, con una vera guerra in casa, con le casse dello stato lasciate vuote dal presidente fuggiasco Yanukovich nel 2014, non si poteva costruire nè la Svizzera nè la Germania, ma nemmeno la Polonia. I polacchi ci hanno messo oltre 20 anni per arrivare dove sono adesso, subendo le dolorose riforme e l'inflazione galoppante, per l'Ucraina ci vorranno altri 30 per avere il livello della Polonia di oggi.
Ci vogliono le riforme, iniziate dal governo precedente, tanto sudore, la responsabilità civile, la consapevolezza del sacrificio richiesto. Evidentemente il 44% dei cittadini non era pronto a tali sacrifici, la pazienza e la voglia di andare avanti, strigendo i denti si sono esaurite abbastanza in fretta.
Aggiungiamo anche la guerra, ogni giorno ci sono funerali, ogni giorno feriti e morti, tutto questo, sicuramente, è stato un altro fattore deprimente. Tutte queste debolezze, inerenti a qualsiasi persona, sono state sfruttate alla perfezione dai mass media che con l'aiuto della manipolazione e delle false notizie trasmesse 24 ore su 24 sono riusciti a convincere molti ucraini che la situazione economica e politica del paese è decisamente peggiore rispetto a quella che viene dichiarata dal presidente, dal governo e dalle istituzioni finanziarie mondiali. Sono riusciti a far credere che la guerra possa essere finita nell'arco di pochi giorni, ma non finisce perché "A Poroshenko conviene". Dimenticando che non è stato Poroshenko a dichiarare la guerra alla Russia e annettere i suoi territori. Si sa che la guerra la puo' finire soltanto chi l'ha iniziata. L'altra parte puo' solo combattere e cercare di vincerla oppure arrendersi.
Tutti i problemi del paese sono stati appositamente ingigantiti, tutti i cambiamenti positivi sono stati sminuiti, i deputati del Parlamento mostrati come un branco di incompetenti, le persone stimate e conosciute sono state infangate. Tutto questo ha potuto succedere in quanto quasi tutti i canali televisivi ucraini appartengono agli oligarchi. Molti di loro sono legati alla Russia per vari motivi, per di più quelli economici e del business, per questo la direzione verso l'Occidente intrapresa dall'Ucraina non coincide con i loro interessi. Alcuni di questi oligarchi, anche non essendo particolarmente filorussi, hanno deciso lo stesso di unirsi agli altri per avere profitti personali.
Perché Zelenskiy? La scelta è stata studiata a tavolino, quando, circa tre anni fa, il canale televisivo 1+1, appartenente all'oligarca Igor Kolomoyskiy, che viene considerato quasi il padrino del presidente Zelenskiy, ha iniziato a mandare in onda in prima serata le puntate della serie "Il servo del popolo", dove Vladimir Zelenskiy ha interpretato il ruolo di un semplice insegnante che improvvisamente diventa il presidente e inizia a lottare con il sistema del paese completamente corrotto per costruire uno stato prosperoso dove regna la giustizia: un presidente onesto, che va al lavoro in bicicletta, "uno di noi" insomma, uno del popolo.
Tale serie, con tantissime puntate, è diventata talmente famosa in Ucraina che la gente involontariamente ha attribuito il carattere e le capacità del "presidente" televisivo interpretato da Zelenskiy a Zelenskiy stesso. E' stata un'operazione ammirevole e sarebbe curioso osservare come andrà a finire se non si trattasse del paese in guerra che potrebbe non sopravvivere a tale "esperimento".
Insieme a Zelenskiy nella sua amministrazione sono entrati i suoi colleghi attori e compagni del business (Zelenskiy è molto ricco, è proprietario di molti beni immobiliari, anche all'estero, in Italia e in Gran Bretagna), ha il business, anche in Russia.
Ma a parte i colleghi e amici del presidente, a mano a mano stanno tornando anche le persone vicine all'ex presidente fuggiasco Yanukovich. Di sicuro non sono quelle "facce nuove" promesse durante la campagna elettorale. La prima visita del presidente Zelenskiy è stata a Bruxelles dove lui ha rassicurato i partner europei della continuazione del percorso ucraino intrapreso dal presidente precedente, con l'obiettivo finale della membership nelle strutture europee. E' ancora molto presto per valutare l'operato e trarre le conclusioni, ma sta di fatto che attualmente abbiamo una situazione interna assai difficile, con una crisi istituzionale tra presidente e parlamento.
Gli ultimi 5 anni sono stati molto intensi per la storia dell'Ucraina. Nel bene e nel male, che scenari prevedi, o speri, per il futuro del paese?
Prevedere qualcosa per l'Ucraina è una cosa molto difficile. Dipende molto dalle azioni del nuovo presidente e del nuovo parlamento. Vorrei credere che il punto di non ritorno nei confronti della Russia è già stato passato, vorrei credere che il paese dopo tanti sacrifici, tanti morti a Maidan e successivamente nel Donbass non cada nella trappola del populismo sfrenato e non ceda la propria indipendenza in cambio di promesse che non potranno essere mantenute. Vorrei credere che una parte della società civile sia abbastanza matura e attiva per controllare scrupolosamente ogni passo e ogni legge del governo, intervenendo prontamente se è necessario. L'Ucraina è l'Europa, il futuro dell'Ucraina si trova all'ovest e non all'est.
Di fronte a una Cina che sembra pronta a mettere in discussione la supremazia mondiale statunitense, diversi analisti hanno recentemente chiamato in causa la cosiddetta trappola di Tucidide;un insieme di processi che nell'arco di qualche decennio può sfociare in un conflitto armato maggiore
Iniziata dopo il crollo dell'Unione sovietica (URSS) e prolungatasi per tutti gli anni '90 con la diffusione globale del neoliberalismo e la proiezione militare lungo assi strategici con il pretesto dell'intervento umanitario, l'era della superpotenza USA viene messa in discussione ormai da circa un decennio da almeno due rivali. In primo luogo, c'è la Russia di Vladimir Putin, che dai primi anni 2000 basa la sua strategia di ascesa geopolitica su due cardini contemporaneamente: il controllo territoriale di aree strategiche, in particolare nei Balcani, in Medio Oriente – Mediterraneo orientale, in Asia centrale e nell'Artico, e il distacco dalla rete Internet mondiale sotto il controllo statunitense. Questi due cardini sono entrambi orientati (almeno finora) al contenimento delle potenze rivali attraverso una retorica centrata sul pluralismo, ossia su una nozione di coesistenza pacifica, fondata sul principio di non ingerenza di ciascuna potenza nella sfera di influenza delle altre. Si tratta di una logica analoga a quella cui ricorre il Giappone per arginare l'espansionismo cinese nell'Oceano Pacifico, soprattutto di fronte ai ripetuti tentativi di Pechino di conquistare più o meno direttamente il controllo degli stretti. Tanto più che a insidiare più da vicino la supremazia USA sembra proprio la Cina, che, a differenza della Russia, punta su ricerca e sviluppo nel settore delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, dell'intelligenza artificiale e dell'internet delle cose, secondo quanto programmato dal presidente Xi Jinping nel piano Made in China 2025. Un progresso graduale, che si affianca a quello delle nuove vie della seta, la Belt and Road Initiative (BRI), che attraverso il controllo delle rotte commerciali di Europa, Asia e Africa dovrebbe assicurare con infrastrutture reali un eventuale futuro dominio cinese del cyberspazio.
Questa conflittualità latente si realizza in una miriade di conflitti civili e regionali che innescano concatenazioni di eventi disastrose e molto difficilmente reversibili. Gran parte di queste guerre affonda le sue radici nella strategia attuata dagli Stati Uniti dopo l'implosione del blocco sovietico: assumere gradualmente il controllo economico, culturale e, laddove sia più vantaggioso, militare sulle regioni un tempo parte della sfera di influenza dell'URSS, soprattutto nella fascia compresa tra i Balcani, il Caucaso e l'Asia Centrale. Territori sui quali si estende la BRI di Pechino e le operazioni delle fondazioni statunitensi come quella di Donald Rumsfeld, ex segretario di Stato alla Difesa degli Stati Uniti, che nel 2014 ha istituito il Forum regionale CAMCA (Asia Centrale, Mongolia, Caucaso e Afghanistan), per mantenere contatti continui tra imprenditori e personaggi politici su temi come la democrazia e il mercato libero (in sintesi, la versione neoliberale della democrazia moderna). All'interno di queste due reti di relazioni, uno dei punti deboli di Washington è il Medio Oriente per come si è configurato in conseguenza della politica estera statunitense degli ultimi decenni: in modo più evidente a partire dalla guerra Iran-Iraq, durata per quasi tutti gli anni '80, ma nella sostanza già dal 1953, anno dell'operazione Ajax, un colpo di Stato ordito dai servizi segreti britannico e statunitense, che rovesciò l'allora primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq (colpevole di aver nazionalizzato l'industria petrolifera) e restaurò il regime autocratico di Mohammad Reza shah Pahlavi, il cui sistema repressivo ridusse ai minimi termini l'opposizione socialista e, in generale, laica. Nondimeno, le cause profonde della situazione odierna risalgono per lo più agli anni '90, il decennio della globalizzazione, immediatamente successivo al crollo dell'URSS, durante il quale Washington ha utilizzato alcuni satelliti per puntellare la sua strategia di espansione, quindi di affermazione di sé quale unica potenza mondiale. Tra questi, oltre al Giappone, alla Turchia (per i suoi legami storici con l'islam balcanico, caucasico e centro-asiatico) e a Israele, ci sono le petromonarchie del Golfo, in particolare Arabia Saudita (per la sua influenza storico-culturale sull'islam sunnita arabo) ed Emirati Arabi Uniti.
È questa la principale ragione per cui il periodo tra il 1990 e il 2001 (anno nel quale il terrorismo islamico di al-Qaida ha avuto significative ripercussioni sugli equilibri geopolitici mondiali) è stato denso di conflitti etnici, confessionali e tribali: per citare gli esempi più significativi, dai Balcani, con la dissoluzione sanguinosa della ex-Jugoslavia e la guerra civile in Albania; al Caucaso, con le guerre in Nagorno-Karabakh, Ossezia, Abkhazia, Georgia, Cecenia e Daghestan; fino all'Asia Centrale, con le guerre civili in Afghanistan e Tajikistan. Una conflittualità per certi aspetti analoga, sia pure con le dovute differenze di contesto, a quella che ha interessato nello stesso periodo il Medio Oriente e l'Africa: sempre per citare alcuni esempi, la guerra del Golfo (1990-91), la rivolta curda in Iraq, il decennio nero in Algeria, la guerra civile in Yemen (quella del 1994) e le ribellioni dei Tuareg in Mali e in Niger. In tutte queste guerre, in modo più o meno diretto e talvolta con il pretesto dell'intervento umanitario, gli Stati Uniti e l'Alleanza atlantica (NATO) sono intervenuti a sostegno di una o più parti coinvolte, provocando squilibri che rendono estremamente difficile stabilire negoziati e colloqui di pace risolutivi. Attualmente, sotto l'amministrazione del presidente Donald Trump, la politica mediorientale è materia di competenza di Jared Kushner, suo genero e consigliere speciale responsabile per il Medio Oriente, pur senza una specifica conoscenza della regione. Inoltre, l'ex segretario di Stato Rex Tillerson, sostituito dopo una breve transizione da Mike Pompeo, ha recentemente affermato davanti al Congresso che Kushner, talvolta assieme all'ex consigliere di Trump Steve Bannon, lo ha tenuto all'oscuro di importanti informazioni, escludendolo dalle sue iniziative diplomatiche. Un esempio è certamente la decisione di buona parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo di isolare il Qatar, della quale Kushner e Bannon erano stati informati da rappresentanti sauditi ed emiratini nel corso di un incontro di cui Tillerson non sapeva alcunché.
Malgrado i suoi metodi, o forse grazie ad essi, Kushner rappresenta l'alleato ideale dell'Arabia Saudita del principe ereditario Mohamed bin Salman (MBS) e degli Emirati Arabi Uniti del principe ereditario Mohamed bin Zayed (MBZ), le due petromonarchie del Golfo su cui gli Stati Uniti puntano da decenni, assieme a Israele, per controllare il Medio Oriente arabo-islamico. Questi due paesi acquistano ingenti quantità di armamenti da Washington, una scelta particolarmente apprezzata dagli USA di Trump, come dimostra l'ostentazione da parte di quest'ultimo dei contratti multimiliardari siglati con Riyadh. Uno spettacolo che si è svolto nel primo viaggio diplomatico di Trump come presidente, a maggio 2017. Peraltro, una simile concezione mercantilistica della diplomazia che caratterizza Trump, si può considerare una delle forme in cui si realizza il modello dello Stato-azienda, inaugurato da Silvio Berlusconi negli anni '90 (si veda a tal proposito l'articolo https://www.monde-diplomatique.fr/2019/05/MUSSO/59844). Due sono le conseguenze di questa strategia. Anzitutto, Mohamed bin Salman e Mohamed bin Zayed contano sul sostegno statunitense per attuare una politica aggressiva nei confronti dell'Iran, che considerano una “minaccia in comune” con Washington, e per assicurarsi un controllo stabile sui rispettivi paesi. Emblematico è a tal proposito quanto avvenuto a seguito dell'uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi (che peraltro era nipote di Adnan Khashoggi, coinvolto a suo tempo nello scandalo Irangate). In secondo luogo, ha creato poli di potere che rischiano in futuro di generare nuovi conflitti. Un esempio fra tutti, il crescendo di intraprendenza espansionistica della Turchia, manifestazione del progetto neo-ottomano del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Quest'ultimo, infatti, intende estendere l'influenza turca all'islam politico arabo, ragion per cui, a differenza dell'Arabia Saudita, sostiene i Fratelli Musulmani e le formazioni politiche ad esso legate, come Hamas in Palestina. La rivalità latente tra Ankara da un lato e Riyadh e Tel Aviv dall'altro, è emersa in parte proprio con l'uccisione di Khashoggi, avvenuta nel consolato saudita di Istanbul: il presidente israeliano Benjamin Netanyahu ha esplicitamente affermato che un simile episodio, per quanto orribile, non intacca l'importanza strategica dell'Arabia Saudita e di Mohamed bin Salman. Una linea assai simile a quella del presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sissi.
In un simile contesto, l'Europa rischia di essere ridotta a territorio di conquista, a teatro di scontro, e di perdere l'ennesima occasione di rivendicare un proprio ruolo geopolitico. Un ruolo che potrebbe essere conquistato sia impedendo, o almeno ostacolando, futuri conflitti maggiori (ad esempio, con una linea più decisamente favorevole alla tenuta dell'accordo sul nucleare iraniano), in particolare nei Balcani e in Medio Oriente, sia investendo nelle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, che costituisce il nodo strutturale dell'attuale rivalità tra potenze. Magari partendo da progetti come quello del sistema di posizionamento Galileo.