L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Carlotta Caldonazzo
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La perdita di rappresentatività delle forze politiche tradizionali rappresenta una delle principali minacce ai sistemi democratici, soprattutto in una fase di transizione nell'assetto geopolitico mondiale
Tra gli eventi più evocati come simbolici della fine della guerra fredda, c'è l'abbattimento del muro di Berlino, come se quello fosse l'atto iniziale di un processo di progressiva riunificazione del mondo, garantita dalla globalizzazione del sistema economico e politico “vincitore”. In realtà, il crollo del sistema sovietico, per quanto asfittico fosse diventato, è stato segnato piuttosto dall'esportazione del modello (probabilmente altrettanto asfittico) di Stato-nazione, con tutto il proliferare di nazionalismi che ciò ha comportato. In secondo luogo, il “vecchio” assetto mondiale basato sulla divisione in due blocchi, ciascuno dei quali includeva una potenza e i suoi satelliti (un caso a parte è costituito dal movimento dei paesi non allineati), è stato sostituito da una struttura a gradini, con una superpotenza mondiale, le democrazie imperiali alleate e le democrazie periferiche dipendenti. In tale contesto, il modo in cui gli Stati Uniti hanno riempito il vuoto geopolitico lasciato dall'implosione del sistema rivale ha innescato conflitti le cui conseguenze continuano a causare tensioni. Anche se oggi il ruolo di superpotenza è conteso agli USA da Russia e Cina, a colpi di soft power, attacchi cibernetici, progetti di investimento economici e militari.
Negli anni '90, Washington ha continuato a sostenere indirettamente la nascita di movimenti e partiti anti-comunisti, anche quando si ispiravano a ideologie nazionaliste, o come si direbbe oggi “sovraniste” o “suprematiste”. Una strategie simile, in linea con la dottrina Reagan, era stata sperimentata in Afghanistan durante l'invasione sovietica, con la cosiddetta Operazione ciclone, senza considerare che l'intelligence statunitense aveva messo in piedi una rete internazionale stay-behind sin dal secondo dopoguerra. A tale struttura, che aveva come obiettivo quello di impedire un'eventuale espansione dell'Unione Sovietica, apparteneva peraltro l'organizzazione chiamata Gladio. Tuttavia, appena finita la guerra fredda, quando la stessa dottrina Reagan (e forse persino la NATO, in quanto Alleanza atlantica) avrebbe potuto essere superata, Washington ha iniziato a delegare agli alleati considerati più affidabili l'attuazione della sua nuova visione strategica, ovvero di quel processo che prende il nome di globalizzazione. In tal modo ad esempio, negli anni '90, la Germania a livello economico e la Turchia (come, in una certa misura, il Vaticano) sul piano religioso-culturale hanno assicurato l'adesione alla globalizzazione dei Balcani, regione di notevole importanza strategica per la sua apertura a Oriente. Senza contare che la longa manus di Ankara si è spinta (e si spinge tuttora) anche in Asia centrale e nel Caucaso, fino a raggiungere le minoranze musulmane che vivono in territorio russo e cinese, per lo più tramite popolazioni di ceppo e lingua turchi, come gli azeri e i turkmeni. Da un discorso simile, dipende la cruciale posizione che ha sempre caratterizzato il Giappone nel Mar cinese meridionale, così come Israele e l'Arabia saudita in Medio Oriente.
Eppure, già negli anni '20-30 del secolo scorso, movimenti nazionalisti, militaristi e autoritari si erano affermati nel Vecchio continente, come il fascismo italiano, il nazismo tedesco o il franchismo spagnolo, rimasto in vita fino alla metà degli anni '70. Negli anni '60, peraltro, a parte il colpo di Stato sfociato nel regime dei colonnelli in Grecia (dove dal 1946 al 1949, un tentativo di insurrezione comunista era stato stroncato dall'esercito, con il sostegno britannico e statunitense), l'Europa occidentale è stata teatro di due sanguinosi conflitti, entrambi combattuti tra un esercito (con il quale si schierano talvolta gruppi paramilitari) e un movimento separatista: quello in Irlanda del Nord e quello nei Paesi Baschi. Il primo si è concluso con l'accordo di Belfast del 1998, mentre il secondo si è protratto fino al 2011, quando l'ETA ha proclamato un cessate il fuoco permanente e, successivamente, la rinuncia definitiva alla lotta armata. Queste due guerre si sono pertanto sovrapposte cronologicamente ai conflitti “etnici” degli anni '90, che hanno in qualche misura accompagnato gli albori della globalizzazione. Ne sono un esempio le guerre civili nei Balcani occidentali circa un ventennio più tardi, dopo la crisi finanziaria iniziata nel 2007, quando le forze politiche “di sinistra” avevano iniziato a perdere a ritmo crescente la loro capacità di rappresentare le istanze delle classi più deboli, l'inasprimento dell'ingiustizia sociale e l'aggravamento delle disparità hanno avuto effetti devastanti sul tessuto sociale dei singoli Stati, a partire dalle aree deboli dell'Unione Europea. Al punto che tutte le forze politiche tradizionali hanno registrato una significativa perdita di rappresentatività, anche in paesi “forti” come Francia, Germania e paesi scandinavi.
È in un simile contesto che sono emersi movimenti politici di stampo nazionalista e xenofobo, che tuttavia sapevano coniugare alla retorica “identitaria” un discorso affine al concetto di giustizia sociale, magari dalla prospettiva del ceto medio impoverito e insofferente. D'altro canto, si è assistito, soprattutto nei paesi “poveri” dell'area Schengen, al radicamento sempre più preponderante del crimine organizzato, soprattutto con l'esplodere della “crisi migratoria”. L'aumento del peso politico di questi due tipi di forze, entrambe tendenzialmente anti-democratiche, appare contrario al concetto di globalizzazione, ma in realtà, tutto sommato, rende meno difficile imporne i costi umani, monopolizzando o bloccando la dialettica politica (talvolta persino imponendo determinate decisioni), a scapito di movimenti che propongono alternative compatibili con il carattere multietnico e pluriculturale delle società contemporanee. Eppure, nei primi anni 2000, quando il mondo era ormai diventato un “villaggio globale” e il progresso tecnologico aumentava rapidamente le possibilità di comunicazione a distanza, questi movimenti stavano assumendo carattere trans-nazionale, mentre sul piano interno raccoglievano il consenso dei delusi dalla “sinistra tradizionale”. Tuttavia, con l'inasprirsi delle conseguenze della crisi e l'aumento della portata dei fenomeni migratori, essi hanno progressivamente perso terreno, il che ha comportato il senso di esclusione dalla partecipazione politica di fasce sempre più ampie delle diverse società.
In tal modo, i principali oppositori alla globalizzazione sono diventate formazioni politiche definite “sovraniste”, che anziché proporre come soluzione alla crisi un programma ispirato alla giustizia sociale e alla lotta alla corruzione e alla diseguaglianza, focalizzano l'attenzione su questioni di “identità”, adottando la linea del particolarismo nazionalista. Un obiettivo probabilmente di minori pretese, ma soprattutto privo di efficacia. Due esempi si possono citare a riguardo. In Grecia, già dal 2014, il movimento di estrema destra Alba dorata ha accresciuto i suoi consensi in modo esponenziale, giungendo a essere la terza forza politica del paese, mentre sono aumentate le manifestazioni di intolleranza nei confronti delle comunità migranti. Similmente, in Italia l'ascesa dei movimenti di estrema destra e l'aumento degli episodi di xenofobia non solo sono spesso oggetto del dibattito politico in televisione e sulle pagine dei principali quotidiani, ma imperversano costantemente sulle reti sociali e, in generale, nello spazio della dialettica virtuale, spesso riduttiva e semplicista. Contestualmente, i numerosi scandali di corruzione che hanno interessato tutte le principali forze politiche, tanto di governo quanto di opposizione, hanno approfondito il divario tra elettori ed eletti e aumentato il livello di disinteresse per la vita politica. Ciò significa una brusca riduzione della partecipazione politica, che invece è essenziale per la tenuta delle istituzioni democratiche.
Considerando un'immaginaria classificazione dei paesi del mondo in democrazie imperiali, che aspirano al rango di potenza mondiale o regionale, e democrazie periferiche, spesso teatro dei conflitti per procura tra le potenze, l'Italia apparterrebbe probabilmente al secondo gruppo. Una posizione che l'ha sempre caratterizzata, sin dal secondo dopoguerra, quando le potenze che avevano sconfitto il nazifascismo ne condizionarono le vicende politiche, come ha scritto Giovanni Fasanella nel Puzzle Moro. Una simile riflessione potrebbe suscitare interrogativi su quanto le forze politiche italiane rappresentino in realtà interessi esterni, compresi i movimenti e i partiti “sovranisti”. Recentemente, parte della stampa internazionale ha ipotizzato che la Russia potesse finanziare forze politiche “di destra”, “isolazioniste” e “sovraniste”, persino lo stesso presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Nondimeno, lo scorso lunedì, la trasmissione italiana Report, in onda su Rai Tre, ha dimostrato l'esistenza di una scuola sovranista impiantata nella Certosa di Trisulti, ottenuta in concessione attraverso un bando, con modalità ancora da chiarire. Si tratta dell'associazione cattolica ultra-conservatrice Dignitatis Humanae Institute, alla cui guida, con varie cariche, spiccano, oltre ad alcuni firmatari del documento che mette in discussione l'enciclica Amoris Laetitia di papa Bergoglio, anche l'ex consigliere di Trump Steve Bannon e il cristiano-sionista britannico Benjamin Harnwell. Una nuova strategia della tensione?
8 apr 2019 — Il 70° anniversario della Nato è stato celebrato dai 29 ministri degli Esteri riuniti non nel quartier generale della Nato a Bruxelles, ma in quello del Dipartimento di Stato a Washington.
Maestro di cerimonie il Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, che si è limitato ad annunciare il discorso di apertura pronunciato dal segretario di Stato Michael Pompeo.
La Nato – spiega il Dipartimento di Stato – è importante perché, «grazie ad essa, gli Stati uniti possono meglio affrontare, militarmente e politicamente, le minacce globali ai loro interessi: la Nato rimane fondamentale per le operazioni militari Usa nella regione transatlantica (cioè in Europa) e in altre regioni strategicamente critiche, come il Medio Oriente e l’Asia Meridionale».
È quindi lo stesso Dipartimento di Stato a dirci chiaramente che la Nato è uno strumento degli Stati uniti. Nessuna reazione politica in Italia. L’unica risposta è venuta dal Convegno che, promosso dal Comitato No Guerra No Nato e da Global Research, centro di ricerca diretto da Michel Chossudovsky, ha riunito al cinema-teatro Odeon di Firenze il 7 aprile circa 600 partecipanti.
Le conclusioni sono esposte nella «Dichiarazione di Firenze», riportata qui di seguito:
«Il rischio di una grande guerra che, con l’uso delle armi nucleari potrebbe segnare la fine dell’Umanità, è reale e sta aumentando, anche se non è percepito dall’opinione pubblica tenuta all’oscuro dell’incombente pericolo.
È di vitale importanza il massimo impegno per uscire dal sistema di guerra. Ciò pone la questione dell’appartenenza dell’Italia e di altri paesi europei alla Nato.
La Nato non è una alleanza. È una organizzazione sotto comando del Pentagono, il cui scopo è il controllo militare dell’Europa Occidentale e Orientale.
Le basi Usa nei paesi membri della Nato servono a occupare tali paesi, mantenendovi una presenza militare permanente che permette a Washington di influenzare e controllare la loro politica e impedire reali scelte democratiche.
La Nato è una macchina da guerra che opera per gli interessi degli Stati uniti, con la complicità dei maggiori gruppi europei di potere, macchiandosi di crimini contro l’umanità.
La guerra di aggressione condotta dalla Nato nel 1999 contro la Jugoslavia ha aperto la via alla globalizzazione degli interventi militari, con le guerre contro l’Afghanistan, la Libia, la Siria e altri paesi, in completa violazione del diritto internazionale.
Tali guerre vengono finanziate dai paesi membri, i cui bilanci militari sono in continua crescita a scapito delle spese sociali, per sostenere colossali programmi militari come quello nucleare statunitense da 1.200 miliardi di dollari.
Gli Usa, violando il Trattato di non-proliferazione, schierano armi nucleari in 5 Stati non-nucleari della Nato, con la falsa motivazione della «minaccia russa». Mettono in tal modo in gioco la sicurezza dell’Europa.
Per uscire dal sistema di guerra che ci danneggia sempre più e ci espone al pericolo imminente di una grande guerra, si deve uscire dalla Nato, affermando il diritto di essere Stati sovrani e neutrali.
È possibile in tal modo contribuire allo smantellamento della Nato e di ogni altra alleanza militare, alla riconfigurazione degli assetti dell’intera regione europea, alla formazione di un mondo multipolare in cui si realizzino le aspirazioni dei popoli alla libertà e alla giustizia sociale.
Proponiamo la creazione di un fronte internazionale NATO EXIT in tutti i paesi europei della Nato, costruendo una rete organizzativa a livello di base capace di sostenere la durissima lotta per conseguire tale obiettivo vitale per il nostro futuro».
(il manifesto, 9 aprile 2019)
Nei numeri di febbraio e marzo del mensile francese Le Monde Diplomatique, viene a più riprese chiamata in causa la filosofia del disprezzo dei “benestanti” nei confronti delle classi popolari, in riferimento a una sorta di lotta di classe rovesciata; una chiave di lettura per comprendere meglio i fenomeni che attraversano le attuali società occidentali, dai gilet gialli all'emergere dell'estrema destra in Europa
Dalla fine degli anni '70 del secolo scorso, all'interno delle società europee, si è assistito alla progressiva marginalizzazione dei movimenti che fino ad allora si erano fatti portavoce delle istanze delle classi popolari. Una repressione condotta non solo con i mezzi tradizionali, ma anche, e forse soprattutto, attraverso la diffusione di modelli di “sviluppo” e di “benessere” funzionali alle evoluzioni del capitalismo e del mercato del lavoro, quindi adatti a mantenere e rafforzare il potere delle classi dirigenti. In tal modo, le conquiste che avevano reso in una certa misura meno alienante la società di massa degli inizi del XX secolo sono state progressivamente erose, anche a causa della diffusione strumentale del cosiddetto edonismo reaganiano. Un individualismo miope e sfrenato, in cui vige il principio del bellum omnium contra omnes, della competizione e del consumismo; in cui l'autocritica è sostituita da un'autoesaltazione demenziale basata sull'illusoria identificazione della felicità con il successo economico, della personalità individuale con la posizione sociale “vincente”.
Successivamente, dopo l'implosione dell'Unione Sovietica, è venuto meno il termine di paragone di un sistema che faceva della giustizia sociale e dell'uguaglianza un pilastro essenziale della propaganda dei vari regimi. Di conseguenza, la globalizzazione è stata accompagnata dal motto di una presunta vittoria della libertà sull'oppressione, della democrazia sulla dittatura, come se i concetti stessi di democrazia e libertà fossero intrinseci al sistema economico capitalista. In altri termini, già a partire dagli anni '80, le classi dirigenti dei paesi occidentali, hanno imposto un nuovo paradigma culturale, un pensiero unico basato sul dogma dell'equazione tra comunismo (etichetta sotto la quale è confluito qualsiasi tentativo di instaurare un dibattito sulla giustizia sociale e sulla necessità di ridurre le diseguaglianze) e oppressione politica e sul postulato altrettanto dogmatico secondo cui la vera democrazia risiede nello spirito del capitalismo, in cui la libertà individuale viene assorbita negli ingranaggi del sistema produttivo. In tal modo, le forze politiche di sinistra, anche le più riformiste e moderate (si pensi allo scandalo internazionale suscitato dal tentativo di compromesso storico in Italia, portato avanti da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer), sono state progressivamente relegate ai margini della scena politica, impegnate più a difendersi dall'accusa di connivenze con il “vecchio sistema sovietico” che a portare avanti il loro autentico progetto politico. Un processo che, peraltro, è venuto incontro all'esigenza, emersa con la decolonizzazione, di trovare nelle classi meno agiate sacche di sfruttamento alternative ai vecchi imperi coloniali.
Contestualmente, i processi e le trasformazioni sociali innescati dalla terza rivoluzione industriale, tra i quali il più visibile è la cosiddetta terziarizzazione, hanno ridotto in misura crescente il peso economico e di conseguenza politico delle classi lavoratrici “tradizionali”, impegnate nel processo di produzione di beni destinati ad alimentare il mercato. Sul piano antropologico-culturale, una simile evoluzione ha favorito un cambiamento sensibile nel concetto stesso di lavoro: mentre il risultato della produzione di un bene è visibile una volta realizzato quest'ultimo, la valutazione di un servizio offerto coinvolge la soggettività della ricezione da parte di un utente-cliente, spesso influenzata da fattori estrinseci all'effettivo comportamento del lavoratore. Il che significa che l'aspetto pubblicitario conta più della preparazione effettiva di quest'ultimo, quindi che la forma ha preso il sopravvento sulla sostanza. Che sia per questo che nei vari sistemi di istruzione si preferisce parlare sempre di più di competenza (capacità di fare, di orientarsi in un determinato ambito) e sempre meno di conoscenza (che è sapere ma soprattutto spirito critico, saper organizzare ciò che si sa, saper mettere in dubbio le proprie conclusioni per aprirsi a un cammino potenzialmente infinito)? Nella competizione postindustriale, in altri termini, val più la competenza della sapienza.
Inoltre, l'ormai avviata quarta rivoluzione industriale potrebbe rendere il lavoratore “umano” del tutto superfluo ai fini del sistema di produzione, tanto più nel quadro del capitalismo finanziario attuale, in cui a farla da padrone sono “caste” oligarchiche che poco hanno a che fare con il lavoro tradizionalmente inteso. Peraltro, da un punto di vista geopolitico, da circa un decennio l'asse principale della competizione tra potenze si è spostato dall'egemonia territoriale (terra, mare e spazio) al cyberspazio, dando vita a un conflitto “a bassa intensità” per la supremazia in settori di alta innovazione tecnologica, come quelli dell'informatica e della robotica. Si tratta quindi di dinamiche da cui le “classi lavoratrici” sono praticamente escluse, anzi, ridotte a fonti di dati da vendere sul mercato dell'informazione. Una condizione che somiglia più a quella di merce, di prodotto, che non a quella di attore economico, politico e sociale.
È dunque legittimo domandarsi in che modo tali dinamiche influiranno sull'evoluzione ormai necessaria delle istituzioni politiche dei singoli Stati, soprattutto in una fase di transizione come quella attuale. In particolare, se alle “classi lavoratrici”, il cui peso negli anni '60 e '70 ha consentito a partiti e movimenti di sinistra di ottenere notevoli conquiste sul piano sia del diritto del lavoro, sia dei diritti civili, saranno garantite forme di rappresentanza adeguate, in grado di mantenere una relazione tra governo e corpo sovrano, ammesso che si potrà parlare ancora di corpo sovrano. Presumibilmente, infatti, saranno le “classi” sociali che conquisteranno il maggior peso economico ad avere più probabilità di incidere sull'evoluzione delle forme istituzionali, come già è avvenuto nei secoli passati. Per citare qualche esempio: in epoca moderna, l'affermazione della borghesia sull'ancien régime; nell'antichità, il conflitto tra fazioni e la crisi della res publica romana tra la fine del II secolo a.C. e il I secolo a.C., e il declino delle poleis greche dopo la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.; in questo periodo ad Atene si verificano due colpi di stato oligarchici, dei quali l'ultimo, quello dei Trenta tiranni, sfociato in guerra civile: come scrive il prof. Luciano Canfora nella Guerra civile ateniese, fu la “democrazia” restaurata a condannare a morte Socrate). In ognuno di questi processi, c'era alla base l'emergere di una “classe” sociale economicamente intraprendente, che conquistò progressivamente il potere di influenzare le dinamiche politiche.
Evoluzioni sociali a parte, anche il quadro internazionale lascia intendere la possibilità di significativi mutamenti, accelerati dall'emergere (che in alcuni casi è un ritorno) di potenze asiatiche come Cina, Giappone, India, e di potenze un tempo attive nell'assetto europeo, come Russia e Turchia. Occorre quindi una riflessione seria sulla necessità di gestire in modo razionale questo intrecciarsi di transizioni, interne e internazionali, perché un “ordine mondiale”, che risulta dalle relazioni tra i singoli Stati, è necessariamente influenzato dalle forme politiche di questi ultimi. In altri termini, se prevarranno forze politiche scarsamente disponibili alla dialettica e al compromesso, sarà più probabile l'emergere di conflitti sul piano internazionale, oltre che forti tensioni su quello interno. Per evitare ciò, occorre limitare quanto possibile i fenomeni di polarizzazione tra le diverse componenti della società e garantire un certo equilibrio nella dialettica politica interna. Altrimenti, il rischio è che si contrappongano diverse filosofie del disprezzo: quella della “casta” (che si arrocca per mantenere i propri privilegi) nei confronti delle “classi popolari”, quella (di reazione) del “paese reale” nei confronti della “casta” e quella (in certa misura più trasversale) nei confronti delle “minoranze”. Tre pensieri unici che si alimentano a vicenda imponendo una gara tra opposte mistificazioni, a discapito di una discussione lucida e ragionevole sui fenomeni politici e geopolitici in atto.
Gaza stanotte si è addormentata sotto una tempesta naturale che faceva concorrenza ai bombardamenti israeliani, ma si è svegliata con la notizia che un nuovo missile ha colpito a nord di Tel Aviv centrando un’abitazione e ferendo 7 persone tra cui, per fortuna leggermente, 3 bambini. Quindi si è svegliata temendo che non saranno i fulmini a coprire prossimamente il cielo, ma l’aviazione israeliana, come già minacciato da Netanyahu che sta tornando in fretta e furia da Washington.
Le agenzie di stampa israeliane stamattina abbondavano, come ovvio, in notizie circa i feriti e i danni provocati dal potente missile Farji5, i media internazionali hanno fatto loro eco abbondando anche in notizie di colore, tra cui i ricoveri per stato di panico nonostante i rifugi sicuri, o la morte di un cane rimasto sotto le macerie, cosa sicuramente triste ma che, se si mette sul piatto della bilancia rispetto agli assassinii a freddo dei palestinesi e alla demolizione di decine di migliaia di loro case con morti umani sotto le macerie, sembra un’attenzione quantomeno squilibrata.
Ma al di là delle notizie per così dire di colore, ce ne sono due piuttosto strane, la prima è che l’iron dome, cioè il più sofisticato sistema antimissilistico, capace di intercettare e neutralizzare i razzi nemici era stranamente spento quando il missile è arrivato. La seconda è che, nonostante il missile lanciato da Rafah abbia centrato una zona residenziale ferendo e facendo gravi danni, le scuole oggi sono rimaste aperte.
Se i due missili di circa dodici giorni fa, quelli ai quali Israele rispose con una notte di bombardamenti distruggendo più di 100 strutture e ferendo diverse persone, sono rimasti senza chiaro mittente tanto che alcune ipotesi sono state di “razzi elettorali” ed altre di “razzi distrazionali pro-Hamas”, il missile di questa mattina crea ancora più dubbi. Sia la volta precedente che oggi, è stato ipotizzato dalla stampa israeliana, portavoce del governo, che possa essersi trattato di un errore. Fa un po’ ridere quest’idea che sprovveduti ragazzotti spingano su un bottone sbagliato avendo accesso a luoghi che non sono certo una sala biliardo e quindi è difficile crederci. Proviamo a esaminare i motivi di dubbio.
Il primo fatto significativo è la potente gittata di questo missile, che dovrebbe essere di fornitura iraniana e dovrebbe far parte degli stoccaggi della Jihad islamica. Tra Rafah e Tel Aviv passano 120 chilometri. Mai un missile lanciato da Gaza è arrivato tanto lontano. Inoltre la Jihad ha sempre rivendicato le sue azioni militari ma questa volta, esattamente come dodici giorni fa, rifiuta ogni responsabilità e al momento i suoi capi sono in riunione con i capi di Hamas che rifiuta, a sua volta, ogni rivendicazione.
Perché Jihad e/o Hamas avrebbero dovuto lanciare un missile tanto potente sapendo che questo avrebbe innescato una risposta violentissima? Vogliono un’escalation? E’ proprio loro il missile lanciato da Rafah, cioè da pochi metri dall’Egitto? Qual è dunque il motivo e il messaggio lanciato da quest’azione? E se non è stato Hamas, come affermano a Gaza persone che non sono assolutamente simpatizzanti del governo locale, né la Jihad, chi e perché ha lanciato il missile?
Stranamente Israele non ha ancora risposto se non con modeste azioni a Beit Hannoun, estremo nord, questa mattina, senza grossi danni né feriti. Anche questo è strano, non rientra nella “tradizione” israeliana le cui rappresaglie sono sempre violentissime e sproporzionate alle azioni della resistenza palestinese. Qui si sta aspettando la risposta israeliana, ma anche la risposta ufficiale che dovrebbe uscire dalla riunione congiunta di Hamas e Jihad. La Jihad ha già pubblicato un comunicato laconico che fa eco alle minacce di durissima rappresaglia da parte di Israele, dichiarando che la risposta della resistenza sarà a sua volta durissima.
Altra cosa strana, per tutto il giorno i droni sono stati a riposo, stanno arrivando adesso, 17 ora locale. Volano bassi, pessimo segnale.
Intanto Israele ha mandato l’esercito in massa lungo la linea dell’assedio e ha chiamato i riservisti. Gli iron dome, che stavolta funzioneranno, sono stati dislocati in tutto il territorio israeliano. Inoltre sono stati avvertiti gli abitanti degli insediamenti prossimi alla Striscia di Gaza di organizzarsi che ci sarà presto un violentissimo attacco aereo. Ci sarà prima del rientro dall’America di Netanyahu? Chi ne prenderà “i meriti”? Mentre scrivo arriva la notizia del primo attacco israeliano a nord dalla parte del mare. I droni seguitano a volare bassi.
Il popolo palestinese di Gaza pagherà le conseguenze di ogni cosa. Israele ha chiesto ai Consolati stranieri di evacuare i propri cittadini. Questo è un segnale pesantissimo. I valichi sono stati chiusi, ma tanto questo per i gazawi rientra nella normalità dell’assedio, mentre il segnale che viene mandato al mondo è preciso: faremo un massacro al quale nessuno potrà sfuggire, portatevi fuori i vostri quattro internazionali perché non vogliamo testimoni. E i consolati si stanno attrezzando. Chi scrive sarà probabilmente costretta domattina ad uscire da Gaza, lasciando sotto le bombe solo uomini, donne e bambini gazawi, gli stessi di cui conosce nomi, visi, risate e sogni, e lasciando ai megafoni israeliani la sola voce che arriverà in Occidente.
Le ultime notizie riaffermano che Israele “risponderà” ad ogni attacco, mentre da Gaza la resistenza risponde che replicherà da ogni punto della Striscia ad ogni attacco israeliano. Non è una partita di risiko. E’ una tragedia annunciata. E su tutto c’è la grande ala delle prossime elezioni che probabilmente verranno vinte grazie al sacrificio del popolo gazawo. Quello che non muore di paura scappando nei rifugi, ma che muore per davvero, proprio come il povero cane israeliano che ha commosso i media, ma probabilmente senza muovere la stessa commozione. Gli attacchi sono appena iniziati. Possiamo solo sperare che qualcuno riesca a fermarli prima che si trasformino nell’inferno annunciato.
per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza
Informazioni sull'Autore
Patrizia Cecconi nasce a Roma dove consegue la laurea in Sociologia presso l’Università La Sapienza. Qui tiene per alcuni anni seminari sulla comunicazione, quindi si dedica all’Economia e vince la cattedra di Economia Aziendale per l’insegnamento negli Istituti d’istruzione superiore dove presterà servizio per circa venticinque anni. Interessata all’ambiente e alla natura, verso il 2000 rivolge la sua attenzione allo studio sistematico della botanica e della fitoterapia ponendo sempre al centro dei suoi lavori l’interazione culturale tra l’ambiente e gli umani che lo abitano. Infatti il suo interesse per l'ambiente si lega alla denuncia della violazione dei diritti umani nel mondo. Ha curato e pubblicato articoli e libri su argomenti diversi, ma sempre focalizzati sul rispetto e la tutela del Diritto universale, anche quando il tema richiama la botanica. Il suo interesse particolare è rivolto alla Palestina, dove si reca diverse volte l’anno. I suoi reportages su Palestina e palestinesi sono pubblicati regolarmente in Italia in diversi giornali e riviste on line. Dal 2009 fino al dicembre 2014 è stata presidente della onlus “Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese” di cui ora è presidente onoraria, associazione umanitaria laica che cura principalmente le adozioni a distanza di bambini disagiati e la sensibilizzazione verso la questione palestinese in Italia. E’ co-fondatrice della onlus Cultura è Libertà e dell’associazione Oltre il Mare di cui è presidente, entrambe le associazioni hanno come focus prioritario del proprio agire la diffusione della storia e della cultura palestinese.
Le parole, i pensieri, i sogni di un africano, un prezioso profilo in terra europea. Un libro pieno di forza e rabbia dove si decantano i pari diritti per tutti con un particolare accento sul popolo Africano. Parole di denuncia e di risoluzione allo stesso tempo, un riscatto per un uomo che vive forzatamente lontano dalla terra natia, espresso attraverso la poesia in una scrittura semplice e spontanea. Sogni di un uomo è la testimonianza vera di chi è stato strappato dalle proprie radici per amore del proprio popolo. Ѐ il d
esiderio di un ritorno futuro verso la terra d’Africa, nella ricostruzione di una vita in terre sconosciute.
Il cammino di un
uomo africano attraverso “la nostra civiltà”, tra i ricordi della terra natia, troppo presto abbandonata, e i segni devastanti del capitalismo e dell’imperialismo. Una civiltà sfruttata, la sua, che si contrappone ad una civiltà del potere. L’autore, nella sua riflessione, non lascia scampo e ci pone davanti ad un bivio; o l’uomo, o il denaro. Il tutto condito da una forma poetica semplice, spontanea ma decisa.
Se i principali terreni di scontro tra Stati Uniti, Cina e Russia sono la supremazia tecnologica e il controllo delle risorse dell'Artico, le questioni mediorientali lasciano intravedere due potenziali sistemi di alleanze, sia pure ancora instabili
Dopo il collasso dell'Unione sovietica, gli Stati Uniti, unica superpotenza mondiale, hanno imposto un assetto unipolare globalizzato, utilizzando essenzialmente tre strumenti: l'economia di mercato, diffusa tramite organismi come il Fondo monetario internazionale e l'Organizzazione mondiale del commercio; un unico sistema di sicurezza aggressivo-difensivo facente riferimento al Patto atlantico (NATO); infine, un'unica rete di comunicazione e informazione mondiale (internet) controllata e gestita dagli USA, con funzioni di spionaggio e di diffusione del soft power della potenza egemone. A ciò si aggiungeva una “riconfigurazione” dell'Organizzazione delle nazioni unite (ONU), più volte utilizzata per conservare gli equilibri di forza regionali o per indirizzare eventuali cambiamenti in direzione di un'ulteriore consolidamento della supremazia mondiale statunitense, anche mediante il rafforzamento del ruolo geopolitico dei suoi satelliti regionali. All'interno di tale quadro, ad esempio, alla Turchia, paese NATO dal 1952, è stato concesso di espandere la propria influenza culturale e religiosa tra i musulmani dei Balcani, del Caucaso e di parte dell'Asia Centrale, per limitare al massimo la probabilità che la Russia (sul cui territorio abitano circa venti milioni di musulmani) potesse in futuro riemergere come potenza. Un ordine mondiale che nell'ultimo decennio ha mostrato segni di cedimento sia sul piano economico, sia sul piano delle relazioni internazionali, in particolare da quando, nell'ultimo decennio, Russia e Cina insidiano l'egemonia USA.
Con il vertice di Varsavia, Stati Uniti e Israele intendevano quindi creare un fronte compatto che individuasse nell'Iran la principale minaccia alla stabilità del Medio Oriente e che, di conseguenza, fosse disposto a collaborare attivamente con Washington per preservare l'attuale assetto mondiale. Lo stesso paese ospitante, la Polonia (scarsamente interessata, almeno in apparenza, alle questioni mediorientali), è con la Croazia uno dei promotori del progetto Trimarium, intesa economica ma con significative ripercussioni geopolitiche, perché si snoda in una regione compresa tra tre mari di rilevanza strategica, oggetto di contesa tra Stati Uniti, Russia e Germania: il Mar Nero, il Mar Mediterraneo e il Mar Baltico. Negli ultimi anni, alcuni paesi di questa regione, in particolare la Polonia, hanno acconsentito alla linea dell'attuale presidente USA Donald Trump. Basti ricordare che, lo scorso settembre, Varsavia ha dichiarato di essere disposta a sborsare due miliardi di dollari per ospitare una base statunitense sul suo territorio. Una mossa che Mosca non ha gradito, come non ha mai digerito l'espansione NATO nei Balcani. Al vertice di Varsavia sul Medio Oriente, tuttavia, Washington non è riuscita a coinvolgere i paesi membri dell'Unione Europea (UE), che hanno disertato le consultazioni, hanno inviato rappresentanti “di livello inferiore” (come Francia e Germania) o hanno partecipato esclusivamente all'apertura (come la Gran Bretagna). Di fondo, l'UE continua infatti a essere restia alla rottura delle relazioni con l'Iran. Unico successo parziale, peraltro più per Tel Aviv che per Washington, è stato probabilmente il riavvicinamento “ufficiale” tra Israele e alcuni paesi arabi, in particolare le petromonarchie del Golfo.
Già dopo l'esplosione dell'affaire Khashoggi, il giornalista saudita ucciso nel consolato di Riyadh a Istanbul, a esortare Trump a non mettere in dubbio l'alleanza con l'Arabia Saudita del principe ereditario Mohamed bin Salman, furono il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi, che ne avevano sottolineato il ruolo chiave nella lotta al “terrorismo” (Iran, il movimento palestinese Hamas e altri gruppi che si ispirano all'islam politico dei Fratelli musulmani). Negli ultimi giorni, media arabi del calibro di Al-Jazeera e Al-Quds al-arabi hanno pubblicato diversi articoli sulle relazioni segrete tra Israele e paesi del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti in primis, fino al sostegno di Riyadh all'attacco israeliano al Libano. Tuttavia, questo fronte manca di compattezza, anzitutto a causa dell'isolamento diplomatico del Qatar, voluto dall'Arabia Saudita; in secondo luogo, perché non tutti i paesi del Golfo aspirano a normalizzare le loro relazioni con Israele: il viceministro degli esteri Khaled al-Jarallah ha precisato che il Kuwait sarà l'ultimo a intraprendere questa via, dopo una soluzione adeguata della questione palestinese. Quest'ultima costituisce peraltro la linea di divisione simbolica tra due diverse forme di islam politico: quella promossa da Riyadh, di ispirazione wahhabita (secondo la quale la “minaccia” principale è rappresentata dall'Iran), e quella caldeggiata da Ankara, che sostenendo la “causa palestinese” e i Fratelli musulmani si propone come punto di riferimento per tutto l'islam sunnita, inclusi i Rohingya in Myanmar e gli Uiguri turcofoni in Cina.
La Turchia, infatti, è consapevole del proprio ruolo determinante per i due schieramenti del fronte mediorientale, sia per quello di USA-Arabia Saudita-Israele-Egitto, sia per quello (più fragile) di Russia e Iran, con i quali condivide il tavolo dei negoziati sul conflitto siriano. Senza delegati al vertice di Varsavia (al pari di Libano, Palestina e Qatar), il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha incontrato invece i suoi omologhi russo e iraniano (e bielorusso) a Sochi, sul Mar Nero, nel quale Mosca sta cercando di espandere e affermare il proprio controllo. A conclusione del vertice, dal quale è emersa qualche divergenza, Erdoğan ha ribadito che acquisterà il sistema di difesa antimissile russo S-400, malgrado l'offerta “concorrente” di Washington, che ha peraltro precisato che le apparecchiature russe non sono integrabili nel sistema di difesa aerea della NATO. Washington considera infatti con preoccupazione l'eventualità di un'alleanza tra Turchia, Russia e Iran, per ora allontanata dal progetto neo-ottomano di Ankara e dall'intenzione turca di creare manu militari una zona cuscinetto ai suoi confini, nella Siria settentrionale. Nondimeno, sia pure sotto forma di intesa tattica, le relazioni con la Turchia sono fondamentali per l'Iran, su cui Israele, USA e Arabia Saudita aumentano la pressione. Tale senso di accerchiamento, in parte fondato, si è manifestato lo stesso giorno dell'apertura del vertice di Varsavia, quando in un attentato suicida nella provincia del Sistan-Baluchistan (alla frontiera con il Pakistan) sono morti 27 Guardiani della rivoluzione. L'attacco è stato rivendicato dal gruppo fondamentalista sunnita l'Esercito della giustizia, ma le autorità iraniane hanno accusato i paesi della regione che sostengono il terrorismo. Qualche giorno dopo, il ministro degli esteri iraniano Jawad Zarif (che aveva commentato il vertice di Varsavia sottolineando l'attitudine statunitense a commettere sempre gli stessi errori aspettandosi risultati diversi), in un messaggio rivolto alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza, ha accusato esplicitamente Israele di “cercare la guerra” e di aumentare, con gli USA, le occasioni di scontro in Medio Oriente. Un riferimento agli attacchi israeliani, giudicati illegittimi da Tehran, contro obiettivi iraniani in Siria.
Nel corso della stessa conferenza, Tel Aviv ha risposto che è l'Iran a rappresentare un pericolo per il Medio Oriente e per il mondo. Inoltre, la domenica, sono stati costituiti un gruppo di discussione sulla Siria, cui hanno preso parte i rappresentanti di USA, Russia, Turchia, Libano ed Egitto, e uno sulla sicurezza umanitaria. All'interno di quest'ultimo, il premio Nobel per la pace Tawakkul Karman ha criticato l'indifferenza della comunità internazionale per le devastazioni provocate dagli attacchi della coalizione saudita ed emiratina in Yemen, con il pretesto della guerra contro gli Houthi. Il sabato, invece, era stata la volta di al-Sisi, che nel suo discorso ha invitato i paesi europei a controllare le moschee che sorgono sui loro territori, per evitare che prendano piede gruppi estremisti, e a moltiplicare gli sforzi nella lotta contro il terrorismo, che si combatte anche favorendo lo sviluppo economico. “Trenta milioni di egiziani”, ha aggiunto, “sono scesi in strada” per respingere una visione fondamentalista dell'islam che avrebbe potuto causare una guerra civile. Un'allusione al colpo di stato militare che nel 2013 ha rovesciato l'ex presidente egiziano Mohamed Morsi, guida dei Fratelli musulmani. Non meno significative le dichiarazioni di al-Sisi sulla questione palestinese come “fonte di instabilità in Medio Oriente” e sul diritto dei palestinesi di fondare un Stato all'interno dei confini del 1967 e con Gerusalemme Est come capitale: una linea analoga, del resto, a quella portata avanti dal Kuwait al vertice di Varsavia.
Trent'anni dopo la fine del bipolarismo mondiale, la supremazia USA è dunque insidiata in misura crescente. I conflitti che interessano il Medio Oriente, come la crisi venezuelana o i tentativi di Russia e Cina di svincolarsi dal controllo statunitense sulla rete internet mondiale, sono altrettante faglie sulle quali l'attuale assetto mondiale potrebbe crollare, come i suoi predecessori. D'altronde, al pari delle istituzioni che governano uno Stato, ogni assetto mondiale resiste solo finché rappresenta l'equilibrio effettivo tra le forze in campo.
Mentre gli USA si ritirano “gradualmente” dalla Siria, da metà dicembre diversi governi arabi si avviano verso il disgelo nelle relazioni con Damasco; Mosca conquista un ruolo chiave in Medio Oriente, Tehran cerca di uscire dall'isolamento internazionale con un espansionismo difensivo, Ankara punta all'egemonia
Nonostante l'annuncio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di un ritiro graduale dalla Siria, dalla fine di dicembre l'aviazione statunitense ha intensificato i bombardamenti su alcune aree lungo il fiume Eufrate, vicino al confine con l'Iraq. Zone ancora parzialmente controllate dai cartelli del jihad del cosiddetto Stato Islamico (IS), dove i raid USA hanno ufficialmente funzione di supporto alle offensive di terra delle Forze democratiche siriane (SDF), guidate dai Gruppi di difesa popolare curdi (YPG). Tra tutti gli attori del conflitto siriano, sono le SDF, impegnate anche contro gruppi affiliati ad al-Qaeda in prossimità di Aleppo, a temere maggiormente le ripercussioni dell'uscita di scena di Washington. Sebbene i comandi militari USA stiano approntando una lista di precise indicazioni sul ritiro, tra le quali la garanzia che i combattenti delle SDF possano conservare le armi ricevute da Washington, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha espresso l'intenzione di estirpare non solo l'IS ma anche il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) le formazioni ad esso legate in Siria. La “neutralizzazione” delle YPG, per Ankara, resta infatti un obiettivo primario, come dimostra l'imponente schieramento di truppe al confine turco-siriano. Per ora, sia il consigliere alla Sicurezza nazionale USA John Bolton (che ha annunciato un'imminente visita ufficiale in Turchia, alla testa di una delegazione), sia il segretario di Stato Mike Pompeo hanno assicurato che Washington si impegnerà per evitare che l'esercito turco e le YPG curde arrivino allo scontro militare. Dichiarazioni alle quali la Turchia ha immediatamente risposto per le rime. Anche per questo la linea isolazionista dell'amministrazione Trump suscita una certa diffidenza tra gli alleati degli USA che si trovano in contesti caldi, come appunto il Medio Oriente. Al punto che le YPG hanno chiesto protezione al governo di Damasco, pur se questo significherà la fine del progetto federale del Rojava. Neppure la Russia infatti sembra disposta ad arginare i progetti neo-ottomani di Ankara, come già dimostrato dal via libera di Mosca all'occupazione turca di Afrin.
Intanto, buona parte della stampa araba riflette sul brusco cambiamento (ufficiale) di rotta attuato dai governi di molti paesi arabi, in primis le petromonarchie del Golfo, nei confronti del presidente siriano Bashar al-Assad. Primo fra tutti il presidente sudanese Omar al-Bashir, primo rappresentante di un governo arabo a recarsi in visita ufficiale in Siria, lo scorso dicembre. Alla fine di dicembre, inoltre, gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno riaperto la loro ambasciata a Damasco, seguiti immediatamente dal Bahrein. Diversi analisti arabi hanno sottolineato che, in realtà, al di là delle misure ufficiali, Abu Dhabi, Manama e gli altri membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG) non hanno mai interrotto del tutto i loro rapporti con la Siria, da un lato sostenendo alcuni gruppi ribelli sunniti, dall'altro favorendo attività “controrivoluzionarie”, per il mantenimento delllo status quo ante. Peraltro, i primi segnali di disgelo tra Assad e i paesi vicini erano arrivati già a ottobre 2018, quando era stato riaperto il valico di Nasib, al confine tra Siria e Giordania, importante per l'economia siriana e, in generale, per gli scambi commerciali nella regione. Damasco ne aveva ripreso il controllo a luglio, a seguito di un accordo concluso con i ribelli grazie alla mediazione russa. Sempre a ottobre, inoltre, era stato riaperto sotto la supervisione militare di Mosca il valico di Quneitra, al confine tra la Siria e le alture del Golan, occupate da Israele dal 1967. Monitorato dagli osservatori delle Nazioni Unite (ONU) dal 1974, al fine di mantenere il cessate il fuoco, il valico era stato occupato da fazioni ribelli nel 2014. Mosca dunque non solo ha favorito il successo delle trattative tra Siria e Israele, garantendo a quest'ultima una zona cuscinetto libera da formazioni alleate di Tehran, ma ha anche riportato l'area sotto l'egida dei caschi blu. Un atteggiamento che le ha consentito di attrarre a sé la benevolenza dei paesi del Golfo e un'alleanza tattica con Israele. Tel Aviv, infatti, anche se pienamente in grado di colpire obiettivi iraniani in Siria con l'assenso di Washington, teme l'espansione in Siria di gruppi sciiti filo-iraniani vicini ad Assad, come Hezbollah.
L'obiettivo di Mosca, in Medio Oriente, è mantenere un equilibrio, sia pure delicato e parzialmente instabile, tra i vari attori regionali, impedendo a uno qualunque di essi (inclusi Iran e Turchia, suoi alleati nei negoziati di pace di Astana) di emergere come egemone. Contestualmente, il Cremlino si è da sempre schierato con Assad in quanto presidente “legittimo” e come baluardo contro l'ascesa di movimenti religiosi locali: un discorso valido sia per i gruppi sunniti radicali (molti dei quali hanno contatti nelle regioni caucasiche a forte presenza musulmana), sia per il progetto iraniano di un corridoio sciita, tra Siria, Iraq e Libano. Per questo motivo, alcuni analisti arabi intravedono la longa manus russa dietro la decisione di EAU e Bahrein di riaprire le ambasciate a Damasco, preparando il terreno per una reintegrazione della Siria nella Lega araba (su cui l'Unione Europea ha espresso parere contrario), dopo oltre sette anni di sospensione. Per questo, oltre al parere del CCG, sarà fondamentale la linea del presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sissi, da sempre schierato contro l'islam politico dei Fratelli Musulmani e contro qualsiasi tentativo di sovvertire l'ordine stabilito dei regimi arabi. L'essenziale, per il Cairo, è affidare le redini di un paese a chi sia in grado di mantenere stabilità e sicurezza. Vale la pena ricordare che per tale ragione, in merito all'uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi, al-Sissi, come il premier israeliano Benjamin Netanyahu, aveva consigliato a Trump di schierarsi con il principe ereditario saudita Mohamed bin Salman, anche in virtù delle sue posizioni ferocemente anti-iraniane. Stesso motivo per cui l'Egitto ha sempre sostenuto Assad e, alla fine di dicembre, ha ricevuto una storica visita del direttore dell'intelligence siriana, Ali Mamlouk, invitato dal suo omologo egiziano Abbas Kamel. Mamlouk, accusato da USA e Francia di complicità in atti di tortura, sparizioni forzate e crimini di guerra e contro l'umanità, si era già recato al Cairo nel 2016, segno che le relazioni tra i due paesi in materia di sicurezza non si sono mai interrotte.
I giornali arabi, inoltre, si sono chiesti se, in mancanza di una visione strategica araba comune, questa “corsa” a ripristinare le relazioni con Damasco non sia finalizzata solo ad assicurarsi preziosi investimenti nella ricostruzione della Siria dopo la vittoria definitiva di Assad, anche se il conflitto non è ancora del tutto finito. Nondimeno, l'ipotesi che l'unico obiettivo sia contrastare l'influenza iraniana nella regione reintegrando Damasco nella rete di relazioni arabe non appare verosimile, perché altrimenti ciò avrebbe indotto il CCG a togliere l'embargo al Qatar, imposto appunto per sospetti di cooperazione con Tehran. Più plausibile sembra invece un'altra ipotesi, secondo la quale i bersagli di tale strategia sarebbero tanto l'espansionismo difensivo dell'Iran, quanto quello, ben più aggressivo, della Turchia. Se infatti per Tehran la creazione di un corridoio sciita mediorientale ha come unico scopo l'uscita dall'isolamento internazionale e la deterrenza di qualsiasi piano di attacco al suo territorio, il progetto neo-ottomano di Ankara implica l'egemonia sul Medio Oriente e su parte dell'Asia centrale, esercitata in modo decrescente all'aumentare della distanza dai suoi confini: un controllo diretto sulle zone a maggioranza o a forte presenza curda e uno più indiretto, che si risolva in un'influenza religiosa e culturale sulle regioni dove prevale l'islam sunnita, dal Caucaso ai Balcani. Oltre al dispiegamento di truppe in Siria, la Turchia in passato ha bombardato episodicamente la catena montuosa del Qandil, in territorio iracheno, dove il PKK aveva stabilito le sue roccaforti. Tuttavia, negli ultimi anni, da quando ha concentrato le operazioni militari sulle regioni curde della Siria settentrionale, con l'Iraq ha optato per la linea della cooperazione in tema di sicurezza. Pertanto, mentre in Siria si propone come il gendarme che, dopo il ritiro USA, estirperà le organizzazioni terroristiche (l'IS ma anche le YPG), lo scorso 3 gennaio, durante la visita del presidente iracheno Barham Salih, Erdoğan ha manifestato l'intenzione di sviluppare le relazioni tra Iraq e Turchia in tutti i domini e di aiutare Baghdad a garantire forniture energetiche e sicurezza: “gruppi terroristici come l'IS, il PKK e FETÖ (l'organizzazione del suo ex alleato Fethullah Gülen, predicatore islamico turco in esilio negli USA dal 1999) minacciano sia la Turchia, sia l'Iraq”, ha commentato. Anticipando così la sua prossima mossa: ottenere dagli Stati Uniti l'estradizione di Gülen.
Tra Medio Oriente e Asia centrale: i piani di Washington, l'intraprendenza pragmatica di Ankara, la diplomazia di Mosca e l'attendismo di Pechino; Trump vuole balcanizzare l'Iran?
Annunciando il ritiro delle truppe dalla Siria, deciso dopo un colloquio telefonico con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, e il dimezzamento del contingente in Afghanistan, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha suscitato preoccupazione e disappunto anche tra i suoi alleati, interni e internazionali. Molti gli interrogativi sulle ripercussioni di queste decisioni, in particolare dopo l'uscita degli USA da due trattati storici: a maggio dall'accordo sul programma nucleare iraniano (JCPOA) siglato nel luglio 2015; a settembre dal trattato sulle armi nucleari (INF) concluso con la Russia nel 1987. Perplessità che si aggiungono a quelle sollevate dall'atteggiamento di Trump nei confronti dell'Arabia Saudita a seguito dell'uccisione del giornalista Jamal Khashoggi (cittadino saudita residente negli Stati Uniti dal 2017 ed editorialista del Washington Post). Dopo l'iniziale linea dura, il presidente aveva infatti invertito la rotta, spostando l'attenzione sull'importanza strategica delle relazioni con Riyadh e con il principe ereditario Mohamed bin Salman (MBS) in funzione anti-iraniana. Una posizione, quella di Trump, non sempre condivisa da altri apparati dell'amministrazione statunitense, come dimostrano le prese di posizione del Senato sull'affaire Khashoggi, basate peraltro sui rapporti dell'intelligence, o, da ultimo, le dimissioni del segretario alla Difesa James Mattis, poco dopo l'annuncio del ritiro di truppe dalla Siria. Un colpo al cerchio saudita e uno alla botte turca.
A livello internazionale, la prima reazione a quest'ultima discussa decisione è stata la percezione delle milizie curde integrate nelle Forze democratiche siriane (SDF) di essere state abbandonate, da un alleato sul quale contavano, alla mercé della Turchia e del suo progetto egemonico di stampo neo-ottomano sul Medio Oriente. Un copione che si è ripetuto più volte tra i curdi e le potenze occidentali, a cominciare dall'accordo Sykes-Picot del 1916. Del resto, uno degli ultimi motivi di attrito tra Stati Uniti e Turchia è stato proprio il sostegno di Washington alle Unità di protezione popolare curde (YPG), ala armata del partito dell'Unione democratica (PYD), che Ankara ritiene la branca siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), quindi una “formazione terrorista” (tale è la definizione del PKK anche a Washington). Poco dopo il ritiro USA, la Turchia ha quindi concentrato le sue truppe al confine con la Siria, coerentemente con le parole di Erdoğan che il 12 dicembre ha annunciato una campagna militare contro le SDF a Est dell'Eufrate. Alle operazioni parteciperanno anche fazioni sunnite affiliate all'Esercito siriano libero (FSA), in particolare l'Esercito nazionale, che stanno già inviando un contingente di circa 4.000 combattenti al confine turco-siriano. Non è quindi da escludersi che l'obiettivo degli USA sia ricorrere alla Turchia come “gendarme” atlantico in Medio Oriente, come fecero negli anni '90 nei Balcani e nel Caucaso, regioni tanto cruciali quanto conflittuali, storicamente terreno di contesa tra Impero Ottomano, Persia, Russia e, a latere, potenze europee. A sostenere tale ipotesi potrebbero essere le dichiarazioni dello stesso Trump, che il 23 dicembre ha spiegato di aver coordinato il ritiro delle truppe USA dalla Siria con Erdoğan, al quale passerebbe il testimone della guerra contro i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (IS). Malgrado le perplessità degli alleati europei, in particolare del presidente francese Emmanuel Macron.
Secondo diversi analisti internazionali, a beneficiare del ritiro USA dalla Siria sarebbe anche la Russia, da sempre critica nei confronti degli interventi militari di Washington, e protagonista, assieme a Turchia e Iran, dei negoziati di pace di Astana. Nell'incontro di luglio a Helsinki tra Trump e il suo omologo russo Vladimir Putin, oltre alle relazioni economiche e alla questione della Crimea, è stato trattato il tema del conflitto siriano, nel quale la Russia è impegnata attivamente, dal 2015, al fianco del governo di Damasco. A tal proposito, senza entrare nel merito della legittimità delle azioni del presidente siriano Bashar al-Asad, Trump ha detto espressamente che “gli Stati Uniti non permetteranno all'Iran di beneficiare dei successi della campagna contro l'IS”. Con Mosca, peraltro, anche Tel Aviv ha discusso più volte nell'ultimo anno della posizione dell'Iran in Siria, auspicandone l'estromissione persino dal processo di pace. Malgrado le reciproche rassicurazioni, neppure la proposta del ministro degli esteri russo Sergej Lavrov (una zona cuscinetto a protezione del confine tra Siria e Israele) è stata giudicata sufficiente da Israele, ma resta assai improbabile che la Russia volti le spalle all'Iran, con il quale ha in atto importanti progetti bilaterali e multilaterali, dal settore energetico alla geopolitica: per citare qualche esempio, il programma oil-for-goods, la questione dello statuto legale del Mar Caspio e la lotta al narcotraffico e al terrorismo in Afghanistan. Ciononostante, pur essendo lontana l'era dell'accordo segreto tra Gore e Černomyrdin per l'interruzione della fornitura di armi all'Iran, Putin continua a mantenere il suo atteggiamento ambiguo nei confronti di Tehran, utile nel contenimento dell'espansionismo turco e contro la diffusione dell'islam sunnita radicale, ma potenzialmente rivale. Ad esempio, in Siria, nonostante l'alleanza tattica, Mosca mira ad arginare l'influenza iraniana, sia con la diplomazia, sia attraverso l'invio di squadre speciali formate da combattenti caucasici. Si comprende dunque la generale diffidenza di Tehran, manifestata già nel 2016 a proposito della mancata concessione ai russi della base aerea di Hamadan. Lo scopo di Putin è infatti guadagnare peso geopolitico assumendo un ruolo di mediazione, quindi bilanciando le forze in campo ed evitando che una di esse emerga, in primis Iran e Turchia.
Ciò vale non solo per la Siria, dove Mosca ha due basi militari sulle coste del Mediterraneo, ma anche per il Medio Oriente in generale, a partire dalla spinosa questione israelo-palestinese. Ultimamente, infatti, Putin ha manifestato l'intenzione di ospitare colloqui di riconciliazione tra le fazioni palestinesi e negoziati di pace tra rappresentanti palestinesi e autorità israeliane, in vista di una soluzione politica dei conflitti in atto. Una mossa che rischia tuttavia di irritare la Turchia, che tenta di proporsi come punto di riferimento per la Palestina. Dal 2010, le relazioni tra Tel Aviv e Ankara sono alquanto tese e negli ultimi mesi sembrano persino peggiorate: si veda il discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite di Erdoğan, a sostegno della causa palestinese, e, nei giorni scorsi, lo scambio di battute al vetriolo tra il presidente turco e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Tra le ultime occasioni di attrito, spicca inoltre l'affaire Khashoggi, per il quale Ankara preme per una condanna internazionale di Mohamed bin Salman e dei vertici della monarchia saudita, mentre Tel Aviv (sulla stessa linea dell'Egitto) mette in rilievo l'importanza di Riyadh in funzione anti-iraniana e di contrasto alla galassia dei Fratelli musulmani, incluso Hamas. Se infatti dal punto di vista del piano strategico di Erdoğan l'eccessiva intraprendenza di MBS rappresenta una minaccia, per Israele il principe ereditario è, per lo stesso motivo, l'interlocutore saudita ideale. Anche per questo, il sostegno di Trump alla guerra indiretta condotta da Israele contro l'Iran, di cui Netanyahu non dubita, appare il contraddizione con l'annuncio del ritiro USA dalla Siria, visto con perplessità anche a Tel Aviv. A meno che non sia parte di una strategia volta a causare il fallimento dei negoziati di Astana e a far emergere le divergenze strategiche tra i suoi protagonisti, con l'obiettivo di isolare definitivamente Tehran.
Il complesso intreccio di equilibri ha finora indotto la Cina a optare per una strategia attendista e a preferire la realizzazione graduale e silenziosa delle nuove vie della seta (BRI – Belt and Road Initative). Un progetto economico, ma anche geopolitico, che coinvolge il Medio Oriente e l'Asia Centrale, regioni in cui Turchia, Russia e Stati Uniti (questi ultimi soprattutto con la Fondazione Rumsfeld, che promuove il forum annuale CAMCA – Central Asia-Mongolia-Caucasus-Afghanistan) cercano di espandere la propria influenza. Se in Medio Oriente Tehran imposta la sua strategia difensiva offrendo supporto agli sciiti presenti nei vari Stati, con i paesi centro-asiatici ha in piedi soprattutto relazioni economiche nei settori delle infrastrutture e degli idrocarburi, oltre a una cooperazione con Afghanistan e Turkmenistan nella lotta al terrorismo islamico e al narcotraffico. Rapporti resi ora più difficili dalle sanzioni imposte da Washington dopo l'uscita dal JCPOA. Anche per questo non è da escludersi che gli USA vogliano far emergere in Siria le divisioni tra Tehran, Mosca e Ankara e puntare su Israele e Arabia Saudita da un lato e Turchia dall'altro per la gestione del Medio Oriente, lasciando a Turchia e Russia la competizione per il controllo delle regioni centro-asiatiche. Se Trump avesse adottato tale strategia per isolare Tehran (magari in vista di un eventuale attacco militare), si potrebbe pensare che il suo obiettivo sia balcanizzare non solo la Repubblica islamica, ma l'intera Asia Centrale, il che gli permetterebbe di raggiungere tre obiettivi strategici, pur con il rischio di provocare conflitti sanguinosi: annientare l'Iran, colpire gli interessi russi e cinesi e arginare l'espansionismo di Ankara.
Le elezioni di metà mandato che si sono tenute nella giornata di ieri, 6 Novembre, sono state considerate da molti (2/3 degli elettori) come referendum sul Presidente.
I risultati che sono giunti nella notte hanno mostrato quando previsto dai poll: i democratici hanno ottenuto la maggioranza alla Camera mentre i repubblicani hanno mantenuto la maggioranza al Senato.
Questi risultati sono stati più positivi per i democratici piuttosto che per i repubblicani.
Se, da una parte, i repubblicani hanno mantenuto la maggioranza al senato, nei democratici troviamo motivo di svolta e di novità.
Queste difatti sono molte: per la prima volta una donna musulmana è stata eletta al Congresso americano, nel suo distretto per la Camera in Michigan; Alexandria Ocasio-Cortez, eletta alla Camera nel 14esimo distretto di New York, è la più giovane deputata di sempre (29 anni).
Non solo, queste elezioni hanno portato anche un ampio numero di donne al Congresso, soprattutto all’interno del partito democratico.
I repubblicani hanno subito una sconfitta dai democratici perdendo il Nevada con la vittoria di Rosen alle elezioni contro Heller.
I democratici hanno prevalso senza però travolgere i repubblicani, non si è verificato quindi il fenomeno “blue wave” di cui si è sentito parlare in questi giorni.
I repubblicani infatti sono riusciti a mantenere il controllo del Senato che, fino a poco tempo fa, sembrava potesse essere conquistato dai democratici.
Importanti vittorie sono state raggiunte però dai repubblicani che hanno conquistato tre seggi prima occupati dai democratici, come la Florida con Ron De Santis, North Dakota con Cramer e Texas con Ted Cruz che ha vinto contro Beto O’Rourke.
Beto O’Rourke è stata una delle figure di spicco in questa campagna elettorale: è riuscito comunque a raccogliere molti consensi grazie alla presenza latinoamericana presente nel territorio del Texas.
Trump, dal canto suo, nei suoi tweet ha parlato di “incredibile successo” dei repubblicani.
Quantificando quanto spiegato fin ora: alla Camera i democratici hanno ottenuto 219 seggi, ottenendo quindi la maggioranza, mentre i repubblicani 193; al senato invece i repubblicani hanno ottenuto 51 seggi mente i democratici 45 (risultati visibili sul Washington Post).
Da oggi, secondo alcuni, inizia la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2020 alle quali potrebbero presentarsi come candidati alcuni democratici che sono riusciti a raggiungere la Casa Bianca. Chissà che non si veda tra i candidati proprio Beto o’Rourke?
Oggi 6 novembre in America si terranno le “midterm elections”, le elezioni di metà mandato.
Le elezioni di metà mandato sono elezioni legislative, elezioni per il rinnovo parziale del Congresso per eleggere i governatori di 36 stati e l’assemblea legislativa. Si voterà anche per alcuni referendum.
Queste elezioni non riguardano la figura del Presidente, in quanto il suo mandato dura quattro anni, ma riguardano la composizione del Senato e del Congresso. Ogni quattro anni però, le elezioni presidenziali e le elezioni di metà mandato coincidono.
Si vota per eleggere 435 deputati alla Camera, il quale mandato dura due anni, e per rinnovare un terzo del senato, 35 senatori su 100. Camera e Senato attualmente sono guidati da una maggioranza repubblicana e questo fa sì che Trump abbia finora potuto operare con una maggioranza a lui favorevole.
Qualora perdesse la maggioranza nel Parlamento sarebbe limitato nei decreti e nell’applicazione della propria politica.
I democratici hanno 7 possibilità su 8 di vincere alla Camera con una percentuale che tocca l’88%, mentre i repubblicani hanno 1 possibilità su 8 possibilità di vincere alla Camera con il 12%. Mentre al Senato invece c’è una possibilità su 5 che i democratici ottengano la maggioranza con una percentuale del 19.5% e i repubblicani hanno 4 possibilità su 5 di mantenere il controllo con l’80.5%.
Le previsioni su FiveThirtyEight ci mostrano che probabilmente il Senato rimarrà a maggioranza repubblicana in quanto il Senato rinnova 35 seggi su 100, di cui 26 in mano attualmente dei democratici i quali sono uscenti ed hanno, quindi, più da perdere rispetto ai repubblicani.
Donald Trump, dopo due anni dalla nomina a Presidente, affronta le elezioni con impopolarità. Il 52.8% dei votanti si mostra contrario e il 41.9% favorevole.
Qualora si trovasse a governare con una maggioranza democratica al Congresso rischierebbe di essere sottoposto al processo di messa in stato di accusa (Impeachment).
La procedura di impeachment infatti, per essere avviata, necessita solo della maggioranza semplice da parte del Congresso.
Per la rimozione dalla carica a Presidente, invece, è necessario il voto della maggioranza dei due terzi.
Ci sono stati tre casi in cui si è stato fatto ricorso all’ Impeachment: nel 1868 con Johnson, nel 1998 con Bill Clinton e nel 1974 con Nixon che, per evitare di essere sottoposto a processo, si dimise.
Se Trump dovesse essere sottoposto a un processo di messa in stato d’accusa gli sarebbe impedito di governare, in quanto posto continuamente sotto processo nei tribunali.
Le elezioni si tengono ufficialmente oggi ma milioni di americani hanno già votato tramite “l’Early voting”. Si tratta della possibilità di andare anticipatamente alle urne. Molte volte negli Stati Uniti le elezioni sono andate al di là di ogni previsione e, dunque, anche questa volta ogni proiezione, con qualsiasi percentuale venga proposta, potrebbe essere totalmente ribaltata.
Capire la realtà, anche con i dati, per combattere la battaglia sull’integrazione. Le cifre che fotografano la realtà degli stranieri in Italia contenute nel Dossier Immigrazione 2018: “non esiste nessuna invasione. L’Italia è già multiculturale”
Il numero degli stranieri che vivono in Italia è pressoché invariato, sia nel numero, sia nell’incidenza sulla popolazione complessiva, con un aumento fisiologico di residenti, in gran parte controbilanciato dalla notevole diminuzione dei migranti sbarcati e dalle nuove acquisizioni di cittadinanza. Dunque, contrariamente alla credenza che vorrebbe il paese assediato e invaso dagli stranieri, al netto dei movimenti interni il loro numero è stabile intorno ai 5 milioni dal 2013.
A fotografare fedelmente la realtà delle migrazioni in Italia attraverso la lente dei dati è, anche quest’anno, il Dossier Statistico Immigrazione, curato dal Centro Studi Idos in partenariato con il Centro Studi Confronti, il sostegno dell’Otto Per Mille della Tavola Valdese e la collaborazione dell’Unar, l’Ufficio nazionale contro le discriminazioni razziali; il Dossier è stato presentato oggi a Roma, al Nuovo Teatro Orione, e, in contemporanea in tutte le regioni e province autonome d’Italia.
Alla fine del 2017 gli stranieri residenti in Italia sono 5.144.000, circa 97.000 in più rispetto all’anno precedente (+1,9%), per un’incidenza dell’8,5% sulla popolazione totale. Tra i soli non comunitari, circa su due su tre (2.390.000) hanno un permesso di soggiorno di durata illimitata, che attesta un grado di radicamento e stabilità ormai consolidato. I restanti 1.325.000 (35% del totale) hanno un permesso a termine, in maggioranza per famiglia (39,3% del totale) o per lavoro (35,2%). Meno di 1 su 5 (239.000) è titolare di un permesso inerente alla richiesta di asilo o alla protezione internazionale o umanitaria. Alla fine dell’anno erano 187.000 quelli inseriti in un centro di accoglienza (Cas piuttosto che Sprar, 80,95% contro 13,15%).
Il crollo dei flussi. A tutto ciò si aggiunge il fatto che il boom di profughi che, attraversando il deserto e il Mediterraneo centrale, sono approdati sulle coste italiane si è pressoché esaurito nel 2017, dopo quattro anni in cui ne sono giunti, nel complesso, circa 625.000. Basti pensare, poi, secondo quanto hanno rilevato Unhcr e Oim, che mentre nel 2017 l’Italia ha convogliato il 69% degli oltre 172.000 migranti forzati arrivati in Italia via mare, nei primi 9 mesi del 2018 ne ha accolti sul suolo poco più di 21.000, un dato crollato di quasi il 90% rispetto allo stesso periodo del 2017.
Un’integrazione non più utilitaristica, ma basata sui diritti delle persone. «Sono dati che ci parlano della cruciale importanza delle politiche di integrazione, di cui oggi nessuno parla più e su cui sempre meno i governi intendono investire», ha spiegato Luca di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche Idos, aggiungendo, inoltre: «i numeri non bastano più: abbiamo bisogno di esempi, di testimoni, di buone prassi che mostrano in maniera concreta e tangibile che l’integrazione è possibile». E ancora, «nell’integrazione si vince insieme, perché, a dispetto di tutti i tentativi di imbastire conflitti sociali tra categorie ugualmente svantaggiate, i destini di italiani e immigrati sono già intrecciati nella nostra società». Poi, Di Sciullo, lasciando il palco del Teatro Orione agli interventi degli altri relatori, il vice moderatore della tavola valdese, Luca Anziani, il missionario comboniano padre Alex Zanotelli, il responsabile immigrazione del sindacato Usb, Aboubakar Souhamoro e il direttore dell’Unar, Luigi Manconi, ha così concluso: «è venuta l’ora di cambiare il paradigma del dibattito tra chi vuole chiudere all’immigrazione e chi si batte per una società pluralista e interculturale, tra buonisti e cattivisti».
“È venuta l’ora di avere il coraggio di alzare il tiro e di elevare le ragioni nella discussione a un livello più adeguato ai nostri principi di civiltà”, è il messaggio finale, condiviso, dell’incontro di presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2018 (a cui hanno partecipato le scolaresche di diversi licei della Capitale e che è stata dedicata al Comune di Riace, simbolo di un’accoglienza riuscita). Un messaggio fatto proprio dal direttore dell’Unar, Luigi Manconi, che in questo senso, ricordando l’omicidio avvenuto qualche giorno fa a Roma della piccola Desireè, ha invitato alla riflessione, non mancando di ammonire: «credo di interpretare il sentimento e il pensiero di tanti nel ritenere realizzabile una società della convivenza dove gli autori di un crimine tanto crudele non siano definiti assassini africani, senegalesi, ma assassini e basta». E in questa ottica, scrivono Claudio Paravati e Luca Di Sciullo nel testo introduttivo del rapporto: «il Dossier non si rassegna a parlare ancora all’intelligenza del pubblico; a quanti hanno il desiderio di documentarsi su un fenomeno che ci riguarderà a lungo tutti, interrogando le nostre coscienze».
In occasione della presentazione, Idos ha lanciato il suo nuovo sito web, predisposto anche per l’e-commerce, dal quale sarà possibile acquistare il nuovo Dossier 2018 (e prossimamente anche le altre pubblicazioni di Idos), in formato sia cartaceo sia elettronico (pdf), e in quest’ultima versione anche per singoli capitoli. Il sito, che verrà allestito nella sua completezza nelle prossime settimane, è stato realizzato grazie alla collaborazione con la Cooperativa Lai Momo di Bologna, da anni partner di Idos per le iniziative regionali in Emilia Romagna.
La vicenda del giornalista saudita Jamal Khashoggi può complicare pericolosamente gli equilibri e l'attuale sistema di alleanze? Quali ripercussioni sul conflitto siriano e sullo scacchiere mediorientale?
Dopo oltre dieci giorni di indagini sull'affaire Khashoggi, l'editorialista del Washington Post scomparso lo scorso 2 ottobre nel consolato saudita a Istanbul, le forze di sicurezza turche hanno dichiarato di avere le prove che il giornalista sarebbe stato interrogato, torturato e ucciso all'interno della sede diplomatica e, nei giorni scorsi, hanno diffuso nomi e identità dei membri del presunto commando omicida. L'Apple watch di Khashoggi, inoltre, potrebbe aver registrato informazioni decisive. Di fronte alle dure reazioni di Washington e alle manifestazioni di preoccupazione della comunità internazionale, Ankara si presenta in tal modo come la più fedele alleata dell'Occidente democratico, nella veste (insolita, visti i numerosi arresti di giornalisti, soprattutto dopo il tentativo di colpo di stato del 2016) di protettrice dei “giornalisti dissidenti”.
Contestualmente, sembra avviarsi alla soluzione il caso del pastore statunitense Andrew Craig Brunson, arrestato in Turchia nell'ottobre 2016 e condannato a tre anni e tre mesi di reclusione con l'accusa di sostenere organizzazioni terroristiche, nella fattispecie il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) e la rete di Fethullah Gülen, il predicatore islamico in esilio negli USA, accusato da Ankara di aver ordito il tentato golpe del luglio 2016. Brunson è stato rilasciato dopo mesi di crisi diplomatica, culminata nell'imposizione, da parte degli Stati Uniti, di dazi su alluminio e acciaio ai danni della Turchia, che a sua volta aveva dato un contributo decisivo al crollo della lira turca. Ne era seguito un botta e risposta di misure protezionistiche, che sembrava preludere a una pericolosa rottura in seno all'Alleanza atlantica (NATO). Una frattura resa ancor più profonda dal discorso del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan al congresso dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (ONU) dello scorso settembre: condanna dei massacri in Bosnia, Ruanda, Somalia, Myanmar e soprattutto Palestina, e accuse al Consiglio di Sicurezza di rappresentare esclusivamente gli interessi particolari dei suoi cinque membri.
In sostanza, dopo almeno due anni di progressivo allontanamento da Europa e USA (dovuto anche alla svolta autoritaria di Erdoğan), contestuale alla creazione di una rete con Russia e Iran per i negoziati di Astana sul conflitto siriano, la Turchia sembra riavvicinarsi al suo alleato tradizionale di oltreoceano. Lo stesso che negli anni '90 le aveva permesso di espandersi, ai danni di Mosca, nei Balcani, come punto di riferimento per le comunità musulmane di Bosnia, Albania, Macedonia e Kosovo, in virtù del comune retroterra storico e dell'appartenenza alla scuola giuridico-religiosa hanafita. La stessa scuola maggioritaria tra i musulmani di Asia centrale e meridionale, Afghanistan, Pakistan, India, Bangladesh, nonché in Russia (in particolare nel turbolento Caucaso). Tra gli anni '90 del secolo scorso e il primo decennio dell'attuale, Turchia e Arabia Saudita, entrambe fedeli alleate degli USA, si erano quindi divise le aree di controllo in seno all'islam sunnita: Riyadh tra le popolazioni arabe, Ankara nei Balcani e in buona parte dell'Asia. Un controllo esercitato attraverso il finanziamento di centri di cultura islamica, scuole coraniche e religiose e moschee. L'Arabia Saudita, d'altronde, si era già affermata come baluardo dell'islam politico dopo la dissoluzione del movimento dei Fratelli Musulmani in Egitto, nel 1948.
Tale diarchia iniziò a incrinarsi nel 1995, quando in Qatar ascese al trono sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, deciso a emancipare il suo emirato dalla dipendenza da Riyadh. L'occasione si presentò nel 2002, quando, dopo il rifiuto saudita di concedere il suo spazio e le sue basi per l'attacco statunitense all'Iraq, Washington decise di trasferire il suo quartier generale delle forze aeree nel Golfo dall'Arabia Saudita al Qatar. Fu scelta quindi la base di al-Udeid, costruita nel 1996 e già impiegata dagli USA per la guerra in Afghanistan nel 2001. Peraltro, un accordo di cooperazione in materia di difesa tra Washington e Doha era stato stipulato dopo una serie di operazioni militari congiunte dei due paesi nel corso della campagna Desert Storm contro il regime iracheno nazionalista e laico di Saddam Hussein, lanciata nel 1991. La politica estera del Qatar si scontrava così in misura crescente con gli interessi strategici dell'Arabia Saudita, finché le divergenze si tradussero in rottura durante il regno di Abdullah bin Abdulaziz (reggente dal 1996, re dal 2005 al 2015).
Pretesto ideologico dello scontro è stato il sostegno qatariota ai Fratelli musulmani durante le rivolte arabe del 2011: il re saudita, dopo un progressivo inasprimento delle relazioni, si schierava apertamente contro questo movimento, come dimostra il suo plauso al colpo di stato in Egitto ai danni del presidente eletto Mohamed Morsi, che ha portato al potere l'attuale presidente Abdullah al-Sisi. Una posizione che segnò al contempo l'allontanamento definitivo della monarchia saudita dalle istanze palestinesi, sempre più sostenute, invece, dalla Turchia, a partire dall'operazione dell'esercito israeliano contro la nave Mavi Marmara nel 2010. Come la Turchia, Doha, si avvicinava intanto ai Fratelli musulmani in Nord Africa e Medio Oriente, ospitandone molti rappresentanti in fuga dal regime libico del defunto colonnello Muammar Gheddafi.
Ancor più dura la linea del successore di Abdullah bin Abdulaziz, il principe ereditario Mohammed bin Salman, che in recenti interviste ha accusato i Fratelli Musulmani di aver ucciso suo zio, il re Faisal bin Abdulaziz, e di essere fertile terreno ideologico-religioso di organizzazioni terroristiche come al-Qaeda e il cosiddetto Stato islamico (IS). D'altro canto, già in precedenza, durante la sua competizione con Mohamed bin Nayef per la successione al trono, bin Salman aveva acuito le tensioni con il Qatar, tentando di isolarlo prima in seno al Consiglio di cooperazione del Golfo, poi a livello internazionale con il sostegno USA. Un appoggio che, terminata la presidenza di Barack Obama (tiepidamente a favore delle rivolte arabe del 2011), aveva trovato nella nuova amministrazione di Donald Trump, che al vertice di Riyadh del 20-21 maggio, ha firmato con l'Arabia Saudita un contratto da 350 milioni di dollari per la vendita di armamenti (dei quali la monarchia è il principale acquirente mondiale) e le ha assicurato pieno supporto contro Fratelli Musulmani e Iran.
Forte del suo peso internazionale e di un consistente consenso interno, bin Salman non ha quindi avuto alcuna remora a inasprire le divergenze con il Qatar, sfociate in crisi diplomatica nel 2017. Anno segnato da due eventi cruciali: in aprile, Doha ha firmato un “costoso” accordo con l'Iran e con milizie sciite e sunnite attive in Iraq e Siria, per il recupero dei 26 ostaggi rapiti nel 2015 durante una battuta di falconeria nell'Iraq meridionale, tra i quali figuravano esponenti della famiglia reale. Inoltre, il 24 maggio 2017, hacker presumibilmente provenienti dagli Emirati Arabi Uniti (secondo un articolo apparso due mesi dopo sul Washington Post), hanno pubblicato sul sito della Qatar News Agency false dichiarazioni dell'emiro a sostegno dell'Iran, di Hamas (movimento palestinese affiliato ai Fratelli musulmani), di Hezbollah e... di Israele (sic!): immediata la reazione di Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, che hanno annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con il Qatar. Una crisi aggravata nell'agosto 2017 dal ripristino da parte di Doha dei rapporti diplomatici con Tehran e dall'avvio di una cooperazione economica tra i due paesi. Isolato dai suoi alleati-rivali del Golfo, l'emiro ha inoltre stretto un'alleanza tattica con la Turchia, sulla base del comune supporto ai Fratelli Musulmani. Nel dicembre 2015, Ankara ha annunciato l'apertura di una sua base militare in Qatar e l'inizio di una cooperazione militare “contro i nemici comuni”. Altri due accordi per il dispiegamento di soldati turchi nel piccolo emirato e per lo svolgimento di esercitazioni militari congiunte sono stati ratificati dal parlamento turco nel giugno 2017. Lo scorso luglio è stata poi la volta di Mosca, che ha aperto una trattativa con il Qatar per l'acquisto del sistema di difesa missilistica S-400.
L'affaire Khashoggi, in questo intricato sistema di alleanze tattiche e divergenze strategiche (si veda ad esempio la differente posizione di Mosca e Tehran da un lato e Ankara dall'altro sul conflitto siriano), potrebbe quindi fornire alla Turchia l'occasione per imporsi sulla scena internazionale come riferimento per l'islam sunnita non solo balcanico e asiatico, ma anche mediorientale, attraverso una poderosa affermazione in Siria, Palestina e ora anche nel Golfo. Una ghiotta opportunità di espansione per Erdoğan e per la sua vocazione espansionistica di ascendenze neo-ottomane.
La formazione intellettuale di Russo avviene nel contesto del movimento del ‘77. Un movimento in cui emergono, rispetto al 68’ nuove soggettività sociali: i sottoproletari e i proletari che vivono ai confini dell’emarginazione nelle periferie delle città. Il ‘77 vede la crescita della disoccupazione di massa e una mutazione della percezione di essa. Il proletario disoccupato vuole divertirsi e affinare le proprie capacità individuali. Le piazze sono terreni di scontro fra polizia e movimento e nascono le Br. Russo è a Pisa frequenta la facoltà di Veterinaria e del Movimento sperimenta il lato più distruttivo. Decide poi di cambiare facoltà scegliendo Filosofia. Alla madre dirà che la filosofia gli ha salvato la vita: non è solo una metafora.
Della filosofia seleziona la filosofia del linguaggio, sintomo di un atteggiamento immediatamente orientato alla prassi così come lo è l’adesione al movimento del ‘77. Partecipa alla rivista Philosophema, prodotta da un gruppo di studenti di filosofia facendosi carico dei problemi pratici della rivista e delle beghe intellettuali dei suoi partecipanti. Negli anni ’80 il riflusso nel privato lo avvicina alle assemblee del partito radicale: sono gli anni in cui matura la decisione di fare il giornalista. Cerca disperatamente uno sbocco alla sua passione: fa cronaca politica in radio locali fino a quando non incontra Radio radicale.
Da giornalista testimonia la guerra etnica del Ruanda, la guerra algerina, i genocidi del popolo Kosovaro e di quello ceceno. Il suo lavoro giornalistico ha avuto tre facce: l’inedita costruzione di reti di interdipendenza con le popolazioni locali, la sfera della militanza dei diritti umani; la cronaca in senso stretto. Questi tre lati si saldano nel segno di una sorta di artigianalità del prodotto informativo lontano dal circuito mainstream e vicino ad una informazione alternativa.
E’ nella vicenda del crollo della ex- jugoslavia che la sua voce trova una risonanza. Russo segue l’intero arco della crisi jugoslava testimoniandone le varie fasi. Segue tutti i passaggi dalla secessione slovena alla guerra di liberazione del Kossovo. Il massacro di questo popolo da parte dei serbi viene descritto nel dettaglio: le deportazioni di massa, la resistenza non violenta di Rugova, l’ingresso in scena dell’Uck , le disillusioni di Dayton e Rambouillet diventano atti di una grande scena in cui la vicenda jugoslava viene letta come processo di una più ampia guerra d’egemonia americana in Europa.
Della guerra di liberazione in Kosovo coglie la portata storica e politica delle ataviche persecuzioni serbe nei confronti degli albanesi. E’ protagonista - unico giornalista occidentale presente nell’area con i bombardamenti della Nato- di una rocambolesca fuga da Pristina assieme ai deportati kosovari verso la Macedonia. Si confonde con loro e per due giorni si perdono le sue tracce onde poi riapparire a Skopje. Reimondino della Rai lo accuserà di complicità con l’Uck.
Eccoci allora alla Cecenia. Il popolo ceceno è come quello palestinese. Grozny è una città fantasma come Gaza durante le offensive israeliane. La Cecenia, stretta nella morsa del colonialismo russo resiste come resistono i palestinesi al colonialismo sionista. L’informazione tace sul genocidio ceceno così come su quello palestinese.
Si potrebbe dire che Putin ha vinto in Cecenia la partita dei media eliminando giornalisti e osservatori internazionali. Lo stesso sta accadendo a Gaza dopo la morte di Vittorio Arrigoni. Così come a Gaza, in Cecenia la Russia uccide i bambini e le gente con armi non convenzionali. E via discorrendo.
Foto Oliviero Toscani - Antonio Russo a Pristina |
Antonio Russo rompe la cortina di silenzio che copre la resistenza cecena salendo sulle montagne con quelli che sono i partigiani di una guerra di resistenza. Aveva materiale importante sull’uso criminale di armi non convenzionali da parte dei russi. Con la sua tragica uccisione, forse per mano dell’Fsb si è voluto eliminare un testimone scomodo dei crimini contro l’umanità commessi dai russi verso i ceceni. Forse è stato tradito. Forse la mano che l’ha portato via dalla vita è la stessa che ha ucciso anni dopo Anna Politovkskaja. Le torture che ha subito in una strada dellaGeorgia gridano giustizia. Una giustizia che tarda ad arrivare.
Una ultima riflessione sull’uomo. Antonio aveva rabbia, voleva cambiare in chiave idealistica le cose esponendosi in prima linea. Spesso ripeteva di voler essere mito di se stesso. Una immagine solipsistica, chiusa, segno di una sofferenza dura, serrata. Non ammetteva il compromesso, la sua lotta era pura. Un sogno spezzato che il giornalismo non di regime dovrebbe riprendere.
La cooperazione russo-cinese-mongola in occasione delle imponenti esercitazioni militari Vostok-2018 può essere intesa come un tentativo, caro soprattutto a Mosca, di superare le storiche rivalità con Pechino per sviluppare un sistema di difesa integrato ed efficiente; ma la vera battaglia potrebbe giocarsi sul piano della capacità di proiezione di potenza attraverso il soft power
In occasione delle esercitazioni Vostok-2018, che si sono svolte tra l'11 e il 15 settembre, tra i media internazionali sono emerse, sostanzialmente, due posizioni: la prima sconsiglia di sottovalutare un eventuale asse economico-militare tra Russia e Cina, cementato dalle politiche protezionistiche del presidente degli Stati Uniti Donald Trump; la seconda, invece, considera tale eventualità alquanto improbabile, ponendo l'accento sulle differenze tra gli interessi nazionali cinesi e russi, emerse, ad esempio, nel cauto atteggiamento di Mosca in relazione alle “nuove vie della seta” (BRI, Belt and Road Initiative), iniziativa del presidente cinese Xi Jinping, o negli appelli di Pechino al dialogo e alla distensione di fronte alla seconda guerra dell'Ossezia del Sud (2008) e all'occupazione russa della Crimea (2014).
Tra i principali argomenti di chi ventila l'ipotesi di un'alleanza russo-cinese, c'è il luogo scelto per le esercitazioni: per Vostok-2018 (Vostok significa “Oriente”) teatro delle operazioni è stata la regione russa orientale di Trans-Baikal, mentre per Zapad-2017 era stata la Bielorussia (Zapad significa “Occidente”, stesso nome delle esercitazioni del 1981, che coinvolsero i paesi aderenti al Patto di Varsavia): il Cremlino starebbe dunque tentando di estendere la propria proiezione militare lungo tutte le direttrici possibili, ivi incluso il Mediterraneo orientale, dove, all'inizio di settembre, ha effettuato esercitazioni navali. In secondo luogo, come ritiene Vassily Kashin della Scuola Superiore di Economia (citato in un articolo apparso il 28 agosto su Lettera43), c'è il fatto che mai prima di quest'anno Cina e Russia avevano effettuato esercitazioni militari comuni e mai Mosca aveva permesso ai cinesi l'accesso alle tematiche di pianificazione strategica: segno, questo, di una diversa considerazione della Cina da parte del Cremlino, non più come rivale, ma come “partner storico, come la Bielorussia” (che prese parte a Zapad-2017).
Sul fronte opposto, l'amministrazione USA e uno dei suoi più significativi alleati, il Giappone, tendono a minimizzare la portata storica di Vostok-2018, data la complessità delle relazioni russo-cinesi: da un lato, la Russia cerca in Pechino un alleato economico e strategico, come dimostra la calda accoglienza riservata a Xi Jinping a Vladivostok, per l'Eastern Economic Forum; dall'altro, Mosca guarda con diffidenza tanto l'espansionismo economico (quindi di influenza, ossia di potenza) insito nella BRI (Belt and Road Initiative, BRI - la via della seta), di cui la maggior parte dei corridoi economici terrestri si snoda nelle regioni ex-sovietiche dell'Asia centrale, quanto l'interesse crescente di Pechino per l'Artico. Infatti, regioni come il Mediterraneo orientale, l'Artico e soprattutto l'Asia centrale hanno uno status geopolitico “fluido”, oscillando tra gli storici legami con la Russia, culturali, economici e politici (si vedano le iniziative caldeggiate dal Cremlino, come la Convenzione sullo status giuridico del Mar Caspio), l'intraprendenza economica cinese (oltre alla BRI si può citare l'interesse di Pechino per il petrolio kazaco) e il soft power statunitense. Con la Turchia, membro NATO spesso ambiguo, che di tanto in tanto fa capolino.
In Asia centrale, Washington, che già ha mandato segnali “muscolari” a Mosca, dal Baltico all'Europa orientale, estende la propria influenza essenzialmente attraverso la Rumsfeld Foundation. Di proprietà di Donald Rumsfeld (segretario di Stato alla Difesa USA dal 2001 al 2006) e consorte, questa fondazione, creata nel 2007 (ex Joyce and Donald Rumsfeld Foundation, istituita nel 1985), annovera tra le sue iniziative il forum annuale CAMCA (Central Asia-Mongolia-Caucasus-Afghanistan), la cui prima edizione risale al 2014, e, dal 2008, il Central Asia-Caucasus Fellowship Program. Con la Rumsfeld Foundation collaborano il Central Asia-Caucasus Institute e il Silk Road Studies Program, fondati rispettivamente nel 1996 e nel 2002, per rispondere all'esigenza crescente di informazioni, ricerca e analisi. L'obiettivo dichiarato è incoraggiare Americani ed Europei a impegnarsi attivamente e su più settori nella regione. I paesi coinvolti, Afghanistan, Armenia, Azerbaijan (quest'anno il forum CAMCA si è tenuto nella capitale Baku), Georgia, Kazakhstan, Kirghizistan, Mongolia, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, sono tutti parte di un'area di frizioni geopolitiche tra Russia, Cina e Stati Uniti, che si sono progressivamente acuite nell'ultimo decennio. Inoltre, occorre tener presente la sfera di influenza turca, che ruota attorno a Turkmenistan e Azerbaijan, quest'ultimo sostenuto da Ankara nel conflitto del Nagorno-Karabakh.
La Turchia sta probabilmente tentando di incunearsi negli spazi in cui le grandi potenze non riescono a stabilire legami solidi, spesso a causa di gestioni maldestre dei conflitti, come è avvenuto nei Balcani, in Siria, nel Caucaso e in Asia centrale. Un processo che va avanti dagli anni '90, ossia dallo sgretolamento del blocco sovietico. Nel corso dell'ultimo decennio, tuttavia, Mosca sembra aver abbandonato la postura esclusivamente difensiva che aveva mantenuto dal crollo dell'Unione Sovietica. Nove anni dopo la sua tiepida reazione alla guerra lanciata dalla NATO contro la Serbia, storica alleata della Russia, a seguito della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo (17 febbraio 2008), sostenuta dagli USA, il Cremlino tenta di riprendere l'iniziativa sul piano strategico-militare: dall'Ossezia del Sud (2008) all'Ucraina (2014), fino ad arrivare alla Siria (2015). E al momento di riconoscere l'indipendenza della Crimea, ha addotto come giustificazione proprio l'indipendenza del Kosovo. Nel corso di questo decennio, la Russia ha consolidato le sue relazioni con la Serbia, che intanto cerca di ottenere, in cambio di un accordo territoriale con il Kosovo, l'accesso all'Unione Europea nel 2025. Mentre in Europa orientale gli USA sono direttamente impegnati con le numerose e significative basi NATO, i Balcani, sin dalla dissoluzione della ex-Jugoslavia, sono area di influenza tedesca (soprattutto in Croazia e Slovenia), ma anche turca (tra le popolazioni musulmane). Senza dimenticare l'ammissione alla NATO del Montenegro (giugno 2017), che si era dichiarato indipendente dalla Serbia nel 2006.
Dal canto suo, Pechino, che finora si è mostrata piuttosto restia a entrare in contrasto diretto con USA e Russia, ha espanso rapidamente il suo mercato, quindi la sua sfera di influenza, in Africa, grazie ai numerosi e cospicui progetti di partenariato, importazione di materie prime, costruzione di infrastrutture e promozione dello sviluppo locale. Al settimo Forum per la cooperazione tra Cina e Africa, che si è tenuto in questo mese a Pechino, hanno preso parte 53 capi di stato e di governo di paesi africani, oltre a un migliaio di uomini d'affari: la Cina ha promesso 60 miliardi di dollari di investimenti supplementari per lo sviluppo economico di questi paesi, di cui 15 destinati a finanziare programmi di aiuto gratuito e senza interesse. Dunque, a parte il botta e risposta di dazi, è il soft power il principale terreno di contesa tra Russia, USA e Cina. Un concetto che Mosca ha iniziato a prendere in considerazione di fronte alle rivoluzioni colorate in Georgia (2003), Ucraina (2004) e Kirghizistan (2005), tutte dimostrazioni che la proiezione di potenza non può essere solo militare.