L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Politics (398)

    Carlotta Caldonazzo

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June 12, 2019

Cittadini e Amministrazione scelgono insieme come investire 20 milioni di euro - Le risorse verranno stanziate per progetti di decoro urbano

Roma, 10 giugno 2019 – I cittadini potranno decidere insieme all’Amministrazione capitolina come investire 20 milioni di euro del bilancio del Campidoglio, in progetti per il decoro urbano. Con #RomaDecide si dà avvio alla prima esperienza di bilancio partecipativo di livello cittadino, con il coinvolgimento di tutti i territori municipali, grazie al nuovo Regolamento votato dall’Assemblea Capitolina e alla successiva approvazione in Giunta della delibera attuativa.

“Oggi è un giorno importante nella storia dell’Amministrazione – dichiara la sindaca di Roma Virginia Raggi – perché Roma Capitale si dota di uno strumento che rende i cittadini coprotagonisti delle scelte che riguardano la loro città. Una parte dei fondi del bilancio sarà infatti destinata a progetti presentati da chi vive, studia o lavora nella Capitale. Progetti che, per quest’anno, riguarderanno il tema del decoro, ossia la cura dei quartieri in cui viviamo. Vogliamo così instaurare un meccanismo di cittadinanza attiva che non si limiti alla decisione su dove destinare le risorse dell’ente ma, attraverso la raccolta delle iniziative, spinga tutti a lavorare insieme per Roma”.

Il processo partecipativo si rivolge sia ai singoli cittadini, che potranno partecipare online attraverso il portale istituzionale, sia ai 15 Municipi che avranno la possibilità di presentare e sostenere progetti e organizzare incontri sul territorio con la cittadinanza.

Dal 10 giugno al 15 luglio i cittadini residenti e i city user, che svolgono nel territorio romano un'attività di studio o lavoro, possono pubblicare sul sito di Roma Capitale le loro proposte di intervento, mentre possono sostenere quelle di loro gradimento fino 21 luglio.

Le proposte che otterranno almeno il 5% dei sostegni complessivamente ricevuti da tutti i progetti che ricadono nello stesso territorio municipale passeranno alla fase successiva e verranno esaminate dal tavolo tecnico per una valutazione tecnico-finanziaria. Le proposte giudicate ammissibili saranno sottoposte a consultazione e voto online dal 12 al 21 ottobre.

La presentazione delle proposte da parte degli organi municipali è possibile fino al 15 settembre. A questi progetti è riservato circa il 20% dei fondi destinati per ogni territorio. Sono previste risorse specifiche premianti, finalizzate alla realizzazione dei progetti nei territori in cui è stata registrata una più alta partecipazione.

“Con la delibera di attuazione del regolamento sul bilancio partecipativo si apre una nuova fase della vita economica dell’ente. Il lavoro di costruzione di un documento così complesso e fondamentale come il bilancio di previsione viene ‘aperto’ ai cittadini che potranno far valere le loro esigenze attraverso un meccanismo di partecipazione e di premialità. Per ora abbiamo previsto lo stanziamento di 20 milioni di euro da destinare a proposte della cittadinanza e dei singoli municipi: un primo passo per una pianificazione condivisa delle risorse della città”, dichiara l’assessore al Bilancio Gianni Lemmetti.

“Il bilancio partecipativo rappresenta una tappa centrale all’interno di un percorso iniziato tre anni fa con l’obiettivo di rendere la partecipazione elemento identitario dell’amministrazione. È anche in quest’ottica che, oltre all’attivazione di processi partecipativi sul territorio, abbiamo dato alla città di Roma un nuovo portale al cui interno è prevista un’area dedicata alla partecipazione anche online, in continuo sviluppo sulla base delle esperienze maturate fino a ora” commenta l’assessora a Roma Semplice Flavia Marzano.

“Con il bilancio partecipativo la comunità cittadina e tutte le realtà territoriali e civiche potranno far sentire la loro voce e potranno scegliere gli interventi da realizzare per migliorare la qualità della vita e il decoro nella città. Attraverso l'approvazione del nuovo Statuto a gennaio 2018 e del primo Regolamento del Bilancio Partecipativo di Roma approvato ad aprile 2019, l'Assemblea Capitolina ha introdotto nella storia della città eterna forme di democrazia diretta e partecipata digitali innovative, portando Roma al livello delle altre capitali del mondo. Questo è il risultato di una rivoluzione portata avanti in questi tre anni” commenta il Presidente della Commissione Roma Capitale, Statuto e Innovazione Tecnologica Angelo Sturni.

June 04, 2019

GIU 2019 — Tre italiani sono stati invitati quest’anno alla riunione del gruppo Bilderberg, svoltasi a Montreux in Svizzera dal 30 maggio al 2 giugno. Accanto a Lilli Gruber, la conduttrice televisiva de La7 ormai ospite fissa del Bilderberg, è stato invitato un altro giornalista: Stefano Feltri, vicedirettore del Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Il «terzo uomo» scelto dal Bilderberg è Matteo Renzi, senatore del Partito Democratico, già presidente del Consiglio.

Il gruppo Bilderberg, costituitosi nel 1954 formalmente  per iniziativa di «eminenti cittadini» statunitensi ed europei, fu  in realtà  creato dalla Cia e dal servizio segreto britannico MI6 per sostenere la Nato contro l’Urss. Dopo la guerra fredda, ha mantenuto lo stesso ruolo a sostegno della strategia Usa/Nato.

Alle sue riunioni vengono invitati ogni anno, quasi esclusivamente da Europa occidentale e Stati uniti, circa 130 esponenti del mondo politico, economico e militare, dei grandi media e dei servizi segreti, che formalmente partecipano a titolo personale. Essi si riuniscono a porte chiuse, ogni anno in un paese diverso, in hotel di lusso blindati da ferrei sistemi militari di sicurezza.

Non è ammesso nessun giornalista od osservatore, né viene pubblicato alcun comunicato. I partecipanti sono vincolati alla regola del silenzio: non possono rivelare neppure l’identità dei relatori che hanno fornito loro determinate informazioni (alla faccia della declamata «trasparenza»).

Si sa solo che quest’anno hanno parlato soprattutto di Russia e Cina, di sistemi spaziali, di uno stabile ordine strategico, del futuro del capitalismo.

Le presenze più autorevoli sono state, come al solito, quelle statunitensi: Henry Kissinger, «figura storica» del gruppo a fianco del banchiere David Rockfeller (fondatore del Bilderberg e della Trilateral, morto nel 2017); Mike Pompeo, già capo della Cia e attuale segretario di stato; David Petraeus, generale già capo della Cia; Jared Kushner, consigliere (nonché genero) del presidente Trump per il Medio Oriente e intimo amico del premier israeliano Netanyahu. Al loro seguito Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, che ha ricevuto un secondo mandato per i suoi servigi agli Usa.

Per quattro giorni, in incontri segreti multilaterali e bilaterali, questi e altri rappresentanti dei grandi poteri (aperti e occulti) dell’Occidente hanno rafforzato e allargato la rete di contatti che permette loro di influire sulle politiche governative e sugli orientamenti dell’opinione pubblica.

I risultati si vedono. Sul Fatto Quotidiano Stefano Feltri difende a spada tratta il gruppo Bilderberg, spiegando che le sue riunioni si svolgono a porte chiuse «per creare un contesto di dibattito franco e aperto, proprio in quanto non istituzionale», e se la prende con «i tanti complottisti» che diffondono «leggende» sul gruppo Bilderberg e anche sulla Trilateral.

Non dice che, fra «i tanti complottisti», c’è il magistrato Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione (deceduto nel 2018), che riassumeva così il risultato delle indagini effettuate: «Il gruppo Bilderberg è uno dei responsabili della strategia della tensione e quindi anche delle stragi» a partire da quella di Piazza Fontana, di concerto con la Cia e i servizi segreti italiani, con Gladio e i gruppi neofascisti, con la P2 e le logge massoniche Usa nelle basi Nato.

In questo prestigioso club è stato ammesso ora anche Matteo Renzi. Escludendo che lo abbiano invitato per le sue doti di analista, resta l’ipotesi che i potenti del Bilderberg stiano preparando in modo occulto qualche altra operazione  politica in Italia.

Ci scuserà Feltri se ci uniamo così ai «tanti complottisti».

 



(il manifesto, 4 giugno 2019)  

May 28, 2019

Nonostante lievi miglioramenti nel 2017, nel nostro Paese ci sono ancora 17 milioni di persone a rischio esclusione sociale, 5 milioni sono in povertà assoluta, e la concentrazione della ricchezza è altissima.


Roma, 24 MAGGIO 2019 - In Italia più di 17 milioni di persone sono a rischio povertà ed esclusione sociale. Tra queste, anche quelli che un lavoro ce l’hanno (gli occupati che non hanno un reddito  ufficiente sono infatti il 12,2%). E oltre 5 milioni sono in povertà assoluta, con una robusta incidenza (12%) tra i bambini. Al tempo stesso tra il 1996 e il 2016 la quota di ricchezza dell’1% più ricco  della popolazione adulta è passata dal 18% al 25% , quella dei 5.000 adulti più ricchi è salita dal 2% al 7%. A queste disuguaglianze economiche si aggiungono profonde ingiustizie sociali nell’accesso  ai servizi fondamentali di qualità e nel riconoscimento dei propri valori e del proprio ruolo. Questi i dati più evidenti che emergono dal rapporto Istat Sdgs (Sustainable Development  Goals) sui 17  biettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu. I dati parlano chiaro: vincono allarme sociale e disuguaglianze, e forti divari territoriali. La situazione peggiore si vede in Sicilia, Calabria e Campania. Basti pensare che la quota di persone in cerca di occupazione sulla popolazione attiva ammonta al 6,0% nella ripartizione nord-orientale, al 7,0% in quella nord-occidentale, al 9,4% nel Centro e al 18,4%  nel Mezzogiorno. Se ne è parlato a Roma in occasione dell’evento nazionale ASviS “Sconfiggere la povertà, ridurre le disuguaglianze” organizzato nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile,  organizzato da ASviS e dal Forum Disuguaglianze e Diversità.

 

Nel 2017 lievi miglioramenti per 10 Obiettivi dell’Agenda 2030

Per 10 su 17 Obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu nel 2017, l’Italia mostra segni di miglioramento in dieci aree: povertà (Goal 1), salute (Goal 3), uguaglianza di genere (Goal 5), condizione  economica e occupazionale (Goal 8), innovazione (Goal 9), disuguaglianze (Goal 10), condizioni delle città (Goal 11), modelli sostenibili di produzione e di consumo (Goal 12), qualità della  governance, pace, giustizia e istituzioni solide (Goal 16), cooperazione internazionale (Goal 17). Per quattro aree, invece, la situazione del 2017 è peggiore rispetto al 2016: alimentazione e agricoltura  sostenibile (Goal 2), acqua e strutture igienico-sanitarie (Goal 6), sistema energetico (Goal 7), condizioni degli ecosistemi terrestri (Goal 15). La condizione appare invariata per due  goal, educazione (Goal 4) e lotta al cambiamento climatico (Goal 13), mentre per il Goal 14 (Flora e fauna acquatica) non è stato possibile stimare il dato relativo al 2017 a causa della mancanza di  dati aggiornati.

 

Recuperare il tempo perduto e realizzare interventi radicali

“È ora di dotarsi di una governance che orienti le politiche allo sviluppo sostenibile, si è perso già troppo tempo – dice Enrico Giovannini, Portavoce dell’ASviS , – oltre all’immediata adozione di  interventi  specifici in grado di farci recuperare il tempo perduto sul piano delle politiche economiche, sociali e ambientali, l’ASviS chiede al presidente del Consiglio di attivare subito la Commissione nazionale per l’attuazione della strategia per lo sviluppo sostenibile, di trasformare il Cipe in Comitato interministeriale per lo sviluppo sostenibile e di avviare il  dibattito parlamentare sulla proposta di  legge per introdurre il principio dello sviluppo sostenibile in Costituzione, al fine di garantire un futuro a questa e alle prossime generazioni”.

Partendo dalla situazione di grave ingiustizia sociale e dai diffusi sentimenti di paura, rabbia e risentimento generati nelle fasce più vulnerabili della società, il Forum Disuguaglianze Diversità <https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/chi-siamo/> (ForumDD) – un’alleanza tra cittadinanza attiva e ricercatori – ha elaborato, dopo due anni di lavoro e con il contributo di oltre  cento esperti il Rapporto “15 Proposte per la giustizia sociale”. Un pacchetto di proposte di politiche pubbliche e azioni collettive, ispirate dall’analisi e dalle idee di Anthony Atkinson, che  intervengono su tre meccanismi di formazione della ricchezza: il cambiamento tecnologico, la relazione tra lavoro e impresa, il passaggio generazionale 

“Disuguaglianze e povertà vanno aggredite su due fronti – afferma Fabrizio Barca, coordinatore del ForumDD . Tornando a redistribuire e recuperando – da dettato Costituzionale – la progressività  fiscale perduta, anziché ridurla come si minaccia di fare sotto il manto della <<flat tax>>. E, prima ancora, modificando i meccanismi di formazione della ricchezza privata e di accesso alla ricchezza  comune: noi del ForumDD proponiamo interventi radicali che mettano la tecnologia dell’informazione al servizio di una maggiore diffusione della conoscenza, non, come oggi avviene, di una sua insostenibile concentrazione”.

Su queste basi, è stato illustrato ciò che abbiamo appreso negli ultimi due anni dall’introduzione di misure di contrasto della povertà, mostrando l’importanza che ai trasferimenti monetari si  affianchino servizi e un rafforzamento delle capacità di reazione delle famiglie povere. Sono quindi state presentate tre delle 15 proposte del ForumDD:

   ·       Livellare le opportunità dei giovani nati in  famiglie con un livello diverso di ricchezza, introducendo a un tempo un’ ”eredità universale” di 15.000 euro (incondizionati) a tutti i e le diciottenni (580 mila ogni anno), e una “ tassa progressiva  sui vantaggi ricevuti” lungo l’arco della vita, che sostituisca l’attuale tassa di successione, eliminando così ogni tassazione per 80mila dei 110mila paganti e concentrando l’imposizione sui 30mila più  abbienti (producendo entrate aggiuntive che finanzino l’eredità universale). 

  ·       Creare Consigli del Lavoro e della Cittadinanza nell’impresa che dia ai lavoratori e ai cittadini influenzati dagli effetti  ambientali la possibilità di pesare sulle decisioni strategiche delle imprese: uno strumento che consentirebbe di perseguire assieme giustizia sociale e ambientale. 

·     Costruire una sovranità collettiva sui dati personali e algoritmi che inverta la grave concentrazione in atto nel controllo sulla conoscenza. Nella cornice del Regolamento Europeo per la Protezione  dei Dati, si propone una strategia fatta fra l’altro di: pressione crescente sui giganti del web per rendere noti gli esiti delle ricerche fatte con i nostri dati e il loro uso; contrasto delle posizioni di  monopolio delle “sette sorelle digitali” da parte delle imprese di proprietà pubblica; sperimentazione di piattaforme digitali comuni; rilascio di dati amministrativi in formato aperto a disposizione delle  comunità di innovatori in rete.

May 17, 2019

Nuova conversazione con Maria Gemma Grillotti Di Giacomo

 

 

 

In seguito all’interesse suscitato dalla conversazione avviata* con la prof.ssa Maria Gemma Grillotti Di Giacomo, curatrice (insieme a Pierluigi De Felice) di un pregevole volume relativo ai fenomeni di land grabbing e land concentration**, e in considerazione dell’estrema gravità delle questioni con essa affrontate, ho ritenuto opportuno renderne possibile un accurato approfondimento.

 

Noi della Free Lance International Press, d’altronde, da sempre dalla parte delle vittime delle ingiustizie, non possiamo fare a meno (in piena sintonia con i responsabili di questa encomiabile iniziativa editoriale) di auspicare e di favorire, in vista di un’ equa giustizia sociale, una progressiva crescita del livello di conoscenza e di consapevolezza in merito a fenomeni tanto inquietanti e devastanti come quello in atto, di esproprio e concentrazione di immense risorse naturali nelle mani di pochi predatori. Di un esproprio, cioè, vergognoso quanto destabilizzante, consistente in un vero e proprio saccheggio neocoloniale di terre fertili ai danni delle comunità rurali più deboli del pianeta.

 

  • Nella nostra conversazione di qualche mese fa, ci eravamo lasciati con alcune amare considerazioni in merito agli effetti disastrosi dell’accaparramento delle terre ai danni dei poveri del mondo, parlando, in particolar modo, di “fame e forzato, definitivo abbandono di quelle terre che assicuravano la magra economia di sussistenza”.

Ora, un aspetto della questione meritevole di essere sviluppato maggiormente è quello relativo al fatto che, nonostante le dichiarazioni rassicuranti delle società finanziarie, dei gruppi multinazionali, dei fondi di investimento, delle banche e dei governi che investono nell’accaparramento di terre fertili, l’82% delle terre in questione non venga neppure messo a coltura.

Come spiegare una simile scelta?

 

 

La forte concentrazione della ricchezza nel mondo occidentale (USA, Europa dell’Ovest, Giappone, Australia e Medioriente) impone di cercare, se non ulteriore crescita, almeno garanzie di "immobilità" per i capitali accumulati. I popoli più ricchi, meglio dovremmo dire le classi e i gruppi sociali più agiati, sono perciò spinti all'accaparramento delle risorse naturali, ovunque esse siano disponibili. Nella generalità dei casi le transazioni hanno carattere di mero investimento fondiario, esercitato con enormi vantaggi speculativi, anche come “rendita di attesa” dal momento che ad essere realmente messo a coltura è meno di un quinto del totale delle superfici complessivamente cedute agli acquirenti stranieri dai Paesi in via di sviluppo ai quali, insieme agli ampi spazi territoriali, vengono sottratte risorse vitali come l’acqua e/o preziose come quelle minerarie, di idrocarburi e turistico-naturalistiche.

In questi casi alcune fonti di informazione parlano di global land grab, di land grab hype e di commercial pressures on land, accomunando nella corsa all’accaparramento della terra le differenti destinazioni d’uso delle superfici acquistate (industrie estrattive, turistico-alberghiere, coltivazioni agricole); in questa più ampia accezione del fenomeno di concentrazione fondiaria l’uso del termine land grabbing resta perciò riservato all’esclusivo significato di accaparramento delle terre coltivabili. Pur circoscrivendo la nostra attenzione a quest'ultimo caso, accade tuttavia che intere regioni, messe a coltura per ottenere biomas­se, siano abbandonate prima ancora che vengano raccolte le produzioni, perché ci si accorge che i costi del trasporto e della trasformazione delle colture in biocombustibili superano il ricavo atteso (caso Tanzania). Dobbiamo perciò chiederci come sia possibile definire “sostenibile e salutare” la destinazione delle terre - sottratte all’autoconsumo - all’agricoltura di piantagione, alle piantagioni di colture diverse da quelle alimentari o addirittura al solo scandaloso investimento finanziario (l’82% dei terreni acquistati viene lasciato incolto).

 

 Ma come è possibile che si possa realizzare un simile abnorme fenomeno di accaparramento, vero e proprio processo di saccheggio fondiario ai danni dei lavoratori più poveri, nel silenzio e nell’indifferenza generali?

 

L'accaparramento è attuato con espropri e confische ovunque e sempre accompagnati da ribellioni cruente: rivolte sociali, lotte contadine e migrazioni di massa. Fenomeni che agitano la società contemporanea e che si ripresentano dopo ogni periodo storico involutivo, caratterizzato cioè prima da una crisi economica globale e poi dalla riscoperta del “bene rifugio terra”; un processo cui stiamo di nuovo assistendo a partire dagli anni 2000. Per questa ragione nei Paesi in cui più si esercita l’accaparramento delle risorse autoctone non sono mancate rivolte e denunce, “sedate” con repressioni reazionarie, mentre quanti hanno provato ad esplorare e contrastare il fenomeno sono stati minacciati e persino uccisi; si pensi all’assassinio nel marzo 2018 di Marielle Franco in Brasile e alla morte nel 2015 di circa 200 persone che, secondo quanto denunciato da The Rights and Resources Initiative (2017), cercavano di difendere la proprietà delle loro terre e l’ambiente.

 

Quali effetti tende a produrre la creazione di grandi proprietà dovuta agli investimenti stranieri che attuano l’agricoltura di piantagione monoculturale estensiva? In particolar modo, per quanto concerne i cambiamenti climatici, la produttività dei suoli e i flussi migratori?

 

Tutti i processi di esagerata concentrazione fondiaria, per la gravità degli esiti che li accompagnano, sia sul piano sociale che ambientale, sono stati contrastati fin dall’epoca classica, basti pensare alla Lex agraria di Tiberio e Caio Gracco – che stabiliva il limite massimo della proprietà terriera in 500 iugeri (250 ha) – e alle lucide raccomandazioni di carattere agronomico di Columella e Plinio il Vecchio, che denunciavano la scarsa produttività dei latifondi («già rovina d’Italia e ora anche delle province») e raccomandavano di curare i campi in modo da garantirne sempre la produttività futura (“seminare meno e arare meglio”). I capitali fondiari investiti nel land grabbing non hanno più come nel secolo passato lo scopo di produrre alimenti, esotici o primaticci, pregiati sui mercati dei paesi investitori, quanto piuttosto quello di allargare gli spazi per le colture no food e, soprattutto, quello di "trovare rifugio" in beni immobili capaci di conservarne e accrescerne il valore, salvaguardandoli nell’attuale crisi delle economie più avanzate. D'altra parte l’agricoltura di piantagione incide, accelerandolo, sul cambiamento climatico globale perché espone centinaia di migliaia di ettari all’inquinamento e alla desertificazione; sradicare la policoltura famigliare di sussistenza per introdurre il modello produttivo dell'agricoltura di speculazione che adotta monocolture industriali su centinaia di migliaia di ettari significa quindi desertificare i suoli, favorire i cambia­menti climatici in atto e, in ultima analisi, alimentare i flussi migratori eufemisticamente definiti economici e ambientali. Diversa è la strada da intraprendere per rendere sostenibili le pratiche agricole e, come già ammonivano gli autori classici, non passa mai attraverso latifondi e monocolture annuali (minus serere et melius arare); è ormai improrogabile accogliere alcuni cambiamenti di rotta non soltanto nell’agricoltura di sussistenza, ancorata a tecniche colturali che ripristinano la fertilità naturale dei suoli solo con il debbio e la policoltura promiscua, ma anche e soprattutto nell’agricoltura di speculazione ancorata all'industrializzazione spinta.

I prodotti dell'agricoltura famigliare offrono infatti derrate alimentari capillarmente e direttamente distribuite in tutti i Paesi e le regioni del mondo e sono perciò i soli in grado di far fronte alle esigenze alimentari di tutte e di ciascuna delle diverse comunità umane del nostro pianeta, e quelli ottenuti con metodi più sostenibili, perché ingegnosamente messi a punto dai coltivatori in funzione dei molteplici, peculiari ambienti naturali. Per contro l’esasperata concentrazione fondiaria, in qualsiasi forma e a qualsiasi scopo essa venga favorita e realizzata (abbattimento dei costi di esercizio, colture no food per energia rinnovabile), si accompagna sempre e ovunque all’allentamento delle capacità produttive dei suoli (seminativi annuali a basso costo di esercizio versus colture di pregio ad elevato utilizzo di manodopera) e, ciò che è peggio, ad inique sperequazioni e disparità non soltanto economiche, ma soprattutto sociali e di genere.

 

Come ritieni sia possibile spiegare il fatto denunciato dall’ex relatore speciale dell’ONU per il diritto al cibo, Olivier De Schutter, relativo alla accesa concorrenche ci sarebbe tra gli Stati africani “venditori” nel cercare di attrarre gli acquirenti stranieri?

 

Il problema land grabbing non può essere compreso se ci si limita ad una analisi che fa ricorso alla sola scala planetaria e/o nazionale. Il fenomeno va analizzato a scala internazionale e nazionale, ma va anche denunciato svelandone le forme perpetrate alla scala regionale, dove si consuma come sopraffazione esercitata da governi locali e dai maggiorenti locali sulle comunità rurali. Sul fronte dei Paesi “venditori” di terre fertili troviamo in genere Stati caratterizzati da istituzioni deboli, governi antidemocratici e/o totalitari con elevati livelli di corruzione politica ed economica. L’assurda cessione dei terreni, già coltivati dai piccoli conduttori agricoli, avviene infatti attraverso espropri forzati ed è oggetto di accordi tra governatori locali, che intascano il prezzo dei fondi, e investitori stranieri, “interessati” a salvaguardare l’ambiente con il potenziamento delle colture energetiche (no food per biomasse), ritenute più “sostenibili” di quelle alimentari.

Ecco perché Olivier De Schutter, ex relatore speciale dell’ONU per il diritto al cibo, ha denunciato che lo scandalo fondiario è aggravato dalla concorrenza tra gli Stati africani nell’offrire terre a prezzi sempre più bassi per attrarre gli investitori (in Sudan e in Etiopia l’affitto pluriennale oscilla dai 2 ai 10 dollari per ettaro e in altri casi la vendita unitaria per ettaro è pari a qualche decina di centesimi di euro). Anche per evitare rifiuti e ribellioni delle comunità rurali, alcuni contratti di cessione dei suoli prevedono, come compensazione, la costruzione di scuole o di infrastrutture per le popolazioni locali, in genere strade asfaltate utili soprattutto agli stessi investitori. Nonostante il “vantaggio sociale” che secondo alcuni osservatori deriverebbe ai Paesi in via di sviluppo dalla vendita delle loro terre, non c’è dubbio che la sottrazione dei campi per i contadini locali significa sempre povertà, insicurezza alimentare e perdita di identità e tradizioni colturali e culturali. I vantaggi economici e sociali delle transazioni sono infatti di breve durata, anche perché i proprietari terrieri stranieri praticano forme di agricoltura industriale che impoveriscono piuttosto che valorizzare i terreni.

 

Fino a che punto ritieni sia possibile cogliere un rapporto di causa-effetto tra land grabbing e flussi migratori forzati? Non è certo né eticamente accettabile, né razionale credere o sperare di poter continuare ad affamare le popolazioni che vivono nel “Sud del mondo” e al tempo stesso pretendere di impedire che fuggano dai loro territori derubati.

 

 

Pur non riconoscendo valido, perché riduttivo, l’automatismo che lega le ondate migratorie al fenomeno dell’accaparramento delle risorse naturali nei Paesi in via di sviluppo - troppe e tutte altrettanto gravi (guerre, disastri naturali, cambiamenti climatici, rivolte tribali e sociali, speculazioni finanziarie sui prezzi degli alimenti, fame cronica) sono infatti le ragioni che spingono ad affrontare viaggi senza speranza - c’è dunque un dovere che ci impone di non sottovalutare l’incidenza che land e water grabbing hanno nell’aggravare le condizioni di vita già assai precarie dei Paesi in via di sviluppo e nel far esplodere contrasti economico-sociali, locali e internazionali che certamente concorrono ad alimentare le ondate migratorie.

Non è affatto difficile infatti riconoscere che là dove il land grabbing ha agito con maggiore incidenza (Africa, America Latina, Asia Sud-orientale), ha avuto come immediate conseguenze fame, suicidi, ribellioni e trasferimenti di interi gruppi umani; né è perciò troppo complicato prevedere dove produrrà i maggiori danni non soltanto sul piano economico al settore primario ma, e soprattutto, sul piano sociale alle comunità umane, costrette ad allontanarsi dalle loro terre per l’impossibilità di produrre anche l’indispensabile all’autoconsumo.

D'altra parte le rotte dei migranti, che muovono dal continente africano verso i Paesi europei, seguono tracciati che ricalcano, nel verso opposto, le stesse direzioni dei capitali; quelli che dal vecchio continente vengono spostati nei Paesi africani per essere investiti nel land grabbing. Non è dunque difficile indagare su eventuali, possibili relazioni tra i due fenomeni: il risultato di tante transazioni fondiarie è l’al­lon­tanamento coatto dai territori d’origine di interi gruppi umani costretti ad emigrare.

 

 Le tue ricerche e quelle dei tuoi colleghi approdano chiaramente alla richiesta di sostenere e incentivare l’agricoltura di tipo familiare, riscoprendo, tra l’altro, lndispensabile centralità della donna nell’ambito del settore primario. Perché? Quali conseguenze positive dovrebbero derivarne?

 

Secondo la FAO, che ha dedicato l’anno 2014 alla celebrazione dell’“agricoltura famigliare”, nel mondo le microaziende con superficie inferiore ai 2 ettari sono ben 500 milioni e garantiscono la sopravvivenza a circa 2 miliardi di persone; va da sé che queste ultime, se vengono private della terra da coltivare, saranno obbligate a cercare di sopravvivere altrove.

E' evidente che l’espropriazione delle terre dei villaggi, in nome di una presunta efficienza produttiva, reddituale e in taluni casi ipocritamente definita persino ecologica, affama le famiglie contadine spingendo i componenti più forti a cercare “fortuna” nei Paesi più ricchi e inducendo persino al suicidio molti agricoltori che hanno perduto i loro campi. Nella sola India dal 1995 al 2012 sono stati registrati ben 284.673 suicidi di agricoltori pari al 14% dei suicidi totali.

Esiste però una strada maestra per contrastare il land grabbing e per avviare il processo di valorizzazione delle potenzialità autoctone: è la riscoperta dell’indispensabile, capillare apporto dell’agricoltura famigliare e della donna al settore pri­ma­rio. Autorevoli studi della Banca Mondiale attestano che in molti paesi dell’Africa sub-Sahariana, la produzione alimentare potrebbe aumentare dal 10 al 20%, se le donne avessero meno ostacoli da superare e godessero degli stessi diritti fondiari degli uomini, in troppi casi, infatti, non possono né comprare, né vendere né ereditare la terra. Il prezioso contributo della donna al settore primario si impone tanto nelle economie di sussistenza agropastorali - dove spesso le donne assicurano più del 90% della produzione di cibo - quanto nei paesi a economia più evoluta, dove emerge nelle nicchie elitarie del mercato alimentare di qualità che ha riscoperto in loro le gelose custodi dei valori della tradizione, delle produzioni tipiche locali e della bellezza dei paesaggi rurali.

Le produzioni dell'agricoltura famigliare - in cui peraltro è più coinvolta la donna - cioè quelle autoctone, tradizionali e tipiche di qualità, proprio perché circoscritte nel tempo e nello spazio sono sì ottenute in quantità limitate, ma allo stesso tempo e per gli stessi motivi sono anche le più presenti e le più diffuse in ogni angolo del pianeta terra. Sostenere e incentivare l’agricoltura famigliare e l'apporto della donna al settore primario significa allora intervenire direttamente sulle capacità di autosostentamento delle comunità rurali, “radicandole” al bene terra e ai loro luoghi di origine e aiutandole:

 

1) a salvaguardare le risorse ambientali di cui dispongono;

2) a potenziare le capacità produttive locali;

3) a eliminare i rischi di carestie, fame e malnutrizione;

4) a permettere che ogni scelta migratoria sia libera e volontaria.

 

Ripartire dal rispetto e dal potenziamento di quell'agricoltura famigliare che capillarmente organizza e tutela gli spazi coltivati, assicurando sostenibilità all'ambiente e alle singole comunità umane autonomia e sopravvivenza, è la strada obbligata lungo la quale siamo tutti chiamati a incamminarci anche se, nelle azioni da mettere in atto, un ruolo di primo piano spetta e dovrà essere svolto dai governi nazionali e, soprattutto, dagli Organismi sovranazionali e dalla Cooperazione internazionale.

 

*https://www.flipnews.org/component/k2/il-land-grabbing-fra-neocolonialismo-e-crisi-economica-globale.html

 

**Land grabbing e land concentration. I predatori della terra tra neocolonialismo e crisi migratorie

Autori e curatori

Maria Gemma Grillotti Di GiacomoPierluigi De Felice

Contributi

Francesco Bruno, Francesca Krasna, Mario Lettieri, Paolo Raimondi, Vittoradolfo Tambone

Dati: pp. 166,   1a ristampa 2019,    1a edizione  2018   

Edizioni Franco Angeli, Milano.

May 07, 2019

La perdita di rappresentatività delle forze politiche tradizionali rappresenta una delle principali minacce ai sistemi democratici, soprattutto in una fase di transizione nell'assetto geopolitico mondiale

 

Tra gli eventi più evocati come simbolici della fine della guerra fredda, c'è l'abbattimento del muro di Berlino, come se quello fosse l'atto iniziale di un processo di progressiva riunificazione del mondo, garantita dalla globalizzazione del sistema economico e politico “vincitore”. In realtà, il crollo del sistema sovietico, per quanto asfittico fosse diventato, è stato segnato piuttosto dall'esportazione del modello (probabilmente altrettanto asfittico) di Stato-nazione, con tutto il proliferare di nazionalismi che ciò ha comportato. In secondo luogo, il “vecchio” assetto mondiale basato sulla divisione in due blocchi, ciascuno dei quali includeva una potenza e i suoi satelliti (un caso a parte è costituito dal movimento dei paesi non allineati), è stato sostituito da una struttura a gradini, con una superpotenza mondiale, le democrazie imperiali alleate e le democrazie periferiche dipendenti. In tale contesto, il modo in cui gli Stati Uniti hanno riempito il vuoto geopolitico lasciato dall'implosione del sistema rivale ha innescato conflitti le cui conseguenze continuano a causare tensioni. Anche se oggi il ruolo di superpotenza è conteso agli USA da Russia e Cina, a colpi di soft power, attacchi cibernetici, progetti di investimento economici e militari.

 

Negli anni '90, Washington ha continuato a sostenere indirettamente la nascita di movimenti e partiti anti-comunisti, anche quando si ispiravano a ideologie nazionaliste, o come si direbbe oggi “sovraniste” o “suprematiste”. Una strategie simile, in linea con la dottrina Reagan, era stata sperimentata in Afghanistan durante l'invasione sovietica, con la cosiddetta Operazione ciclone, senza considerare che l'intelligence statunitense aveva messo in piedi una rete internazionale stay-behind sin dal secondo dopoguerra. A tale struttura, che aveva come obiettivo quello di impedire un'eventuale espansione dell'Unione Sovietica, apparteneva peraltro l'organizzazione chiamata Gladio. Tuttavia, appena finita la guerra fredda, quando la stessa dottrina Reagan (e forse persino la NATO, in quanto Alleanza atlantica) avrebbe potuto essere superata, Washington ha iniziato a delegare agli alleati considerati più affidabili l'attuazione della sua nuova visione strategica, ovvero di quel processo che prende il nome di globalizzazione. In tal modo ad esempio, negli anni '90, la Germania a livello economico e la Turchia (come, in una certa misura, il Vaticano) sul piano religioso-culturale hanno assicurato l'adesione alla globalizzazione dei Balcani, regione di notevole importanza strategica per la sua apertura a Oriente. Senza contare che la longa manus di Ankara si è spinta (e si spinge tuttora) anche in Asia centrale e nel Caucaso, fino a raggiungere le minoranze musulmane che vivono in territorio russo e cinese, per lo più tramite popolazioni di ceppo e lingua turchi, come gli azeri e i turkmeni. Da un discorso simile, dipende la cruciale posizione che ha sempre caratterizzato il Giappone nel Mar cinese meridionale, così come Israele e l'Arabia saudita in Medio Oriente.

Eppure, già negli anni '20-30 del secolo scorso, movimenti nazionalisti, militaristi e autoritari si erano affermati nel Vecchio continente, come il fascismo italiano, il nazismo tedesco o il franchismo spagnolo, rimasto in vita fino alla metà degli anni '70. Negli anni '60, peraltro, a parte il colpo di Stato sfociato nel regime dei colonnelli in Grecia (dove dal 1946 al 1949, un tentativo di insurrezione comunista era stato stroncato dall'esercito, con il sostegno britannico e statunitense), l'Europa occidentale è stata teatro di due sanguinosi conflitti, entrambi combattuti tra un esercito (con il quale si schierano talvolta gruppi paramilitari) e un movimento separatista: quello in Irlanda del Nord e quello nei Paesi Baschi. Il primo si è concluso con l'accordo di Belfast del 1998, mentre il secondo si è protratto fino al 2011, quando l'ETA ha proclamato un cessate il fuoco permanente e, successivamente, la rinuncia definitiva alla lotta armata. Queste due guerre si sono pertanto sovrapposte cronologicamente ai conflitti “etnici” degli anni '90, che hanno in qualche misura accompagnato gli albori della globalizzazione. Ne sono un esempio le guerre civili nei Balcani occidentali circa un ventennio più tardi, dopo la crisi finanziaria iniziata nel 2007, quando le forze politiche “di sinistra” avevano iniziato a perdere a ritmo crescente la loro capacità di rappresentare le istanze delle classi più deboli, l'inasprimento dell'ingiustizia sociale e l'aggravamento delle disparità hanno avuto effetti devastanti sul tessuto sociale dei singoli Stati, a partire dalle aree deboli dell'Unione Europea. Al punto che tutte le forze politiche tradizionali hanno registrato una significativa perdita di rappresentatività, anche in paesi “forti” come Francia, Germania e paesi scandinavi.

È in un simile contesto che sono emersi movimenti politici di stampo nazionalista e xenofobo, che tuttavia sapevano coniugare alla retorica “identitaria” un discorso affine al concetto di giustizia sociale, magari dalla prospettiva del ceto medio impoverito e insofferente. D'altro canto, si è assistito, soprattutto nei paesi “poveri” dell'area Schengen, al radicamento sempre più preponderante del crimine organizzato, soprattutto con l'esplodere della “crisi migratoria”. L'aumento del peso politico di questi due tipi di forze, entrambe tendenzialmente anti-democratiche, appare contrario al concetto di globalizzazione, ma in realtà, tutto sommato, rende meno difficile imporne i costi umani, monopolizzando o bloccando la dialettica politica (talvolta persino imponendo determinate decisioni), a scapito di movimenti che propongono alternative compatibili con il carattere multietnico e pluriculturale delle società contemporanee. Eppure, nei primi anni 2000, quando il mondo era ormai diventato un “villaggio globale” e il progresso tecnologico aumentava rapidamente le possibilità di comunicazione a distanza, questi movimenti stavano assumendo carattere trans-nazionale, mentre sul piano interno raccoglievano il consenso dei delusi dalla “sinistra tradizionale”. Tuttavia, con l'inasprirsi delle conseguenze della crisi e l'aumento della portata dei fenomeni migratori, essi hanno progressivamente perso terreno, il che ha comportato il senso di esclusione dalla partecipazione politica di fasce sempre più ampie delle diverse società.

 

In tal modo, i principali oppositori alla globalizzazione sono diventate formazioni politiche definite “sovraniste”, che anziché proporre come soluzione alla crisi un programma ispirato alla giustizia sociale e alla lotta alla corruzione e alla diseguaglianza, focalizzano l'attenzione su questioni di “identità”, adottando la linea del particolarismo nazionalista. Un obiettivo probabilmente di minori pretese, ma soprattutto privo di efficacia. Due esempi si possono citare a riguardo. In Grecia, già dal 2014, il movimento di estrema destra Alba dorata ha accresciuto i suoi consensi in modo esponenziale, giungendo a essere la terza forza politica del paese, mentre sono aumentate le manifestazioni di intolleranza nei confronti delle comunità migranti. Similmente, in Italia l'ascesa dei movimenti di estrema destra e l'aumento degli episodi di xenofobia non solo sono spesso oggetto del dibattito politico in televisione e sulle pagine dei principali quotidiani, ma imperversano costantemente sulle reti sociali e, in generale, nello spazio della dialettica virtuale, spesso riduttiva e semplicista. Contestualmente, i numerosi scandali di corruzione che hanno interessato tutte le principali forze politiche, tanto di governo quanto di opposizione, hanno approfondito il divario tra elettori ed eletti e aumentato il livello di disinteresse per la vita politica. Ciò significa una brusca riduzione della partecipazione politica, che invece è essenziale per la tenuta delle istituzioni democratiche.

Considerando un'immaginaria classificazione dei paesi del mondo in democrazie imperiali, che aspirano al rango di potenza mondiale o regionale, e democrazie periferiche, spesso teatro dei conflitti per procura tra le potenze, l'Italia apparterrebbe probabilmente al secondo gruppo. Una posizione che l'ha sempre caratterizzata, sin dal secondo dopoguerra, quando le potenze che avevano sconfitto il nazifascismo ne condizionarono le vicende politiche, come ha scritto Giovanni Fasanella nel Puzzle Moro. Una simile riflessione potrebbe suscitare interrogativi su quanto le forze politiche italiane rappresentino in realtà interessi esterni, compresi i movimenti e i partiti “sovranisti”. Recentemente, parte della stampa internazionale ha ipotizzato che la Russia potesse finanziare forze politiche “di destra”, “isolazioniste” e “sovraniste”, persino lo stesso presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Nondimeno, lo scorso lunedì, la trasmissione italiana Report, in onda su Rai Tre, ha dimostrato l'esistenza di una scuola sovranista impiantata nella Certosa di Trisulti, ottenuta in concessione attraverso un bando, con modalità ancora da chiarire. Si tratta dell'associazione cattolica ultra-conservatrice Dignitatis Humanae Institute, alla cui guida, con varie cariche, spiccano, oltre ad alcuni firmatari del documento che mette in discussione l'enciclica Amoris Laetitia di papa Bergoglio, anche l'ex consigliere di Trump Steve Bannon e il cristiano-sionista britannico Benjamin Harnwell. Una nuova strategia della tensione?

April 09, 2019

8 apr 2019 —  Il 70° anniversario della Nato è stato celebrato dai 29 ministri degli Esteri riuniti non nel quartier generale della Nato a Bruxelles, ma in quello del Dipartimento di Stato a Washington.

Maestro di cerimonie il Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, che si è limitato ad annunciare il discorso di apertura pronunciato dal segretario di Stato  Michael Pompeo.

La Nato – spiega il Dipartimento di Stato  – è importante perché, «grazie ad essa, gli Stati uniti possono meglio affrontare, militarmente e politicamente, le minacce globali ai loro interessi: la Nato rimane fondamentale per le operazioni militari Usa nella regione transatlantica (cioè in Europa) e in altre regioni strategicamente critiche, come il Medio Oriente e l’Asia Meridionale».

È quindi lo stesso Dipartimento di Stato a dirci chiaramente che la Nato è uno strumento degli Stati uniti. Nessuna reazione politica in Italia. L’unica risposta è venuta dal Convegno che, promosso dal Comitato No Guerra No Nato e da Global Research, centro di ricerca diretto da Michel Chossudovsky, ha riunito al cinema-teatro Odeon di Firenze il 7 aprile circa 600 partecipanti.

Le conclusioni sono esposte nella «Dichiarazione di Firenze», riportata qui di seguito:

«Il rischio di una grande guerra che, con l’uso delle armi nucleari potrebbe segnare la fine dell’Umanità, è reale e sta aumentando, anche se non è percepito dall’opinione pubblica tenuta all’oscuro dell’incombente pericolo.

È di vitale importanza il massimo impegno per uscire dal sistema di guerra. Ciò pone la questione dell’appartenenza dell’Italia e di altri paesi europei alla Nato.

La Nato non è una alleanza. È una organizzazione sotto comando del Pentagono, il cui scopo è il controllo militare dell’Europa Occidentale e Orientale.

Le basi Usa nei paesi membri della Nato servono a occupare tali paesi, mantenendovi una presenza militare permanente che permette a Washington di influenzare e controllare la loro politica e impedire reali scelte democratiche.

La Nato è una macchina da guerra che opera per gli interessi degli Stati uniti, con la complicità dei maggiori gruppi europei di potere, macchiandosi di crimini contro l’umanità.

La guerra di aggressione condotta dalla Nato nel 1999 contro la Jugoslavia ha aperto la via alla globalizzazione degli interventi militari, con le guerre contro l’Afghanistan, la Libia, la Siria e altri paesi, in completa violazione del diritto internazionale. 

Tali guerre vengono finanziate dai paesi membri, i cui bilanci militari sono in continua crescita a scapito delle spese sociali, per sostenere colossali programmi militari come quello nucleare statunitense da 1.200 miliardi di dollari.

Gli Usa, violando il Trattato di non-proliferazione, schierano armi nucleari in 5 Stati non-nucleari della Nato, con la falsa motivazione della «minaccia russa». Mettono in tal modo in gioco la sicurezza dell’Europa.

Per uscire dal sistema di guerra che ci danneggia sempre più e ci espone al pericolo imminente di una grande guerra, si deve uscire dalla Nato, affermando il diritto di essere Stati sovrani e neutrali.

È possibile in tal modo contribuire allo smantellamento della Nato e di ogni altra alleanza militare, alla riconfigurazione degli assetti dell’intera regione europea, alla formazione di un mondo multipolare in cui si realizzino le aspirazioni dei popoli alla libertà e alla giustizia sociale.

Proponiamo la creazione di un fronte internazionale NATO EXIT in tutti i paesi europei della Nato, costruendo una rete organizzativa a livello di base capace di sostenere la durissima lotta per conseguire tale obiettivo vitale per il nostro futuro».

 

(il manifesto, 9 aprile 2019)

April 08, 2019

Nei numeri di febbraio e marzo del mensile francese Le Monde Diplomatique, viene a più riprese chiamata in causa la filosofia del disprezzo dei “benestanti” nei confronti delle classi popolari, in riferimento a una sorta di lotta di classe rovesciata; una chiave di lettura per comprendere meglio i fenomeni che attraversano le attuali società occidentali, dai gilet gialli all'emergere dell'estrema destra in Europa

 

Dalla fine degli anni '70 del secolo scorso, all'interno delle società europee, si è assistito alla progressiva marginalizzazione dei movimenti che fino ad allora si erano fatti portavoce delle istanze delle classi popolari. Una repressione condotta non solo con i mezzi tradizionali, ma anche, e forse soprattutto, attraverso la diffusione di modelli di “sviluppo” e di “benessere” funzionali alle evoluzioni del capitalismo e del mercato del lavoro, quindi adatti a mantenere e rafforzare il potere delle classi dirigenti. In tal modo, le conquiste che avevano reso in una certa misura meno alienante la società di massa degli inizi del XX secolo sono state progressivamente erose, anche a causa della diffusione strumentale del cosiddetto edonismo reaganiano. Un individualismo miope e sfrenato, in cui vige il principio del bellum omnium contra omnes, della competizione e del consumismo; in cui l'autocritica è sostituita da un'autoesaltazione demenziale basata sull'illusoria identificazione della felicità con il successo economico, della personalità individuale con la posizione sociale “vincente”.

 

Successivamente, dopo l'implosione dell'Unione Sovietica, è venuto meno il termine di paragone di un sistema che faceva della giustizia sociale e dell'uguaglianza un pilastro essenziale della propaganda dei vari regimi. Di conseguenza, la globalizzazione è stata accompagnata dal motto di una presunta vittoria della libertà sull'oppressione, della democrazia sulla dittatura, come se i concetti stessi di democrazia e libertà fossero intrinseci al sistema economico capitalista. In altri termini, già a partire dagli anni '80, le classi dirigenti dei paesi occidentali, hanno imposto un nuovo paradigma culturale, un pensiero unico basato sul dogma dell'equazione tra comunismo (etichetta sotto la quale è confluito qualsiasi tentativo di instaurare un dibattito sulla giustizia sociale e sulla necessità di ridurre le diseguaglianze) e oppressione politica e sul postulato altrettanto dogmatico secondo cui la vera democrazia risiede nello spirito del capitalismo, in cui la libertà individuale viene assorbita negli ingranaggi del sistema produttivo. In tal modo, le forze politiche di sinistra, anche le più riformiste e moderate (si pensi allo scandalo internazionale suscitato dal tentativo di compromesso storico in Italia, portato avanti da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer), sono state progressivamente relegate ai margini della scena politica, impegnate più a difendersi dall'accusa di connivenze con il “vecchio sistema sovietico” che a portare avanti il loro autentico progetto politico. Un processo che, peraltro, è venuto incontro all'esigenza, emersa con la decolonizzazione, di trovare nelle classi meno agiate sacche di sfruttamento alternative ai vecchi imperi coloniali.

 

Contestualmente, i processi e le trasformazioni sociali innescati dalla terza rivoluzione industriale, tra i quali il più visibile è la cosiddetta terziarizzazione, hanno ridotto in misura crescente il peso economico e di conseguenza politico delle classi lavoratrici “tradizionali”, impegnate nel processo di produzione di beni destinati ad alimentare il mercato. Sul piano antropologico-culturale, una simile evoluzione ha favorito un cambiamento sensibile nel concetto stesso di lavoro: mentre il risultato della produzione di un bene è visibile una volta realizzato quest'ultimo, la valutazione di un servizio offerto coinvolge la soggettività della ricezione da parte di un utente-cliente, spesso influenzata da fattori estrinseci all'effettivo comportamento del lavoratore. Il che significa che l'aspetto pubblicitario conta più della preparazione effettiva di quest'ultimo, quindi che la forma ha preso il sopravvento sulla sostanza. Che sia per questo che nei vari sistemi di istruzione si preferisce parlare sempre di più di competenza (capacità di fare, di orientarsi in un determinato ambito) e sempre meno di conoscenza (che è sapere ma soprattutto spirito critico, saper organizzare ciò che si sa, saper mettere in dubbio le proprie conclusioni per aprirsi a un cammino potenzialmente infinito)? Nella competizione postindustriale, in altri termini, val più la competenza della sapienza.

 

Inoltre, l'ormai avviata quarta rivoluzione industriale potrebbe rendere il lavoratore “umano” del tutto superfluo ai fini del sistema di produzione, tanto più nel quadro del capitalismo finanziario attuale, in cui a farla da padrone sono “caste” oligarchiche che poco hanno a che fare con il lavoro tradizionalmente inteso. Peraltro, da un punto di vista geopolitico, da circa un decennio l'asse principale della competizione tra potenze si è spostato dall'egemonia territoriale (terra, mare e spazio) al cyberspazio, dando vita a un conflitto “a bassa intensità” per la supremazia in settori di alta innovazione tecnologica, come quelli dell'informatica e della robotica. Si tratta quindi di dinamiche da cui le “classi lavoratrici” sono praticamente escluse, anzi, ridotte a fonti di dati da vendere sul mercato dell'informazione. Una condizione che somiglia più a quella di merce, di prodotto, che non a quella di attore economico, politico e sociale.

 

È dunque legittimo domandarsi in che modo tali dinamiche influiranno sull'evoluzione ormai necessaria delle istituzioni politiche dei singoli Stati, soprattutto in una fase di transizione come quella attuale. In particolare, se alle “classi lavoratrici”, il cui peso negli anni '60 e '70 ha consentito a partiti e movimenti di sinistra di ottenere notevoli conquiste sul piano sia del diritto del lavoro, sia dei diritti civili, saranno garantite forme di rappresentanza adeguate, in grado di mantenere una relazione tra governo e corpo sovrano, ammesso che si potrà parlare ancora di corpo sovrano. Presumibilmente, infatti, saranno le “classi” sociali che conquisteranno il maggior peso economico ad avere più probabilità di incidere sull'evoluzione delle forme istituzionali, come già è avvenuto nei secoli passati. Per citare qualche esempio: in epoca moderna, l'affermazione della borghesia sull'ancien régime; nell'antichità, il conflitto tra fazioni e la crisi della res publica romana tra la fine del II secolo a.C. e il I secolo a.C., e il declino delle poleis greche dopo la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.; in questo periodo ad Atene si verificano due colpi di stato oligarchici, dei quali l'ultimo, quello dei Trenta tiranni, sfociato in guerra civile: come scrive il prof. Luciano Canfora nella Guerra civile ateniese, fu la “democrazia” restaurata a condannare a morte Socrate). In ognuno di questi processi, c'era alla base l'emergere di una “classe” sociale economicamente intraprendente, che conquistò progressivamente il potere di influenzare le dinamiche politiche.

 

Evoluzioni sociali a parte, anche il quadro internazionale lascia intendere la possibilità di significativi mutamenti, accelerati dall'emergere (che in alcuni casi è un ritorno) di potenze asiatiche come Cina, Giappone, India, e di potenze un tempo attive nell'assetto europeo, come Russia e Turchia. Occorre quindi una riflessione seria sulla necessità di gestire in modo razionale questo intrecciarsi di transizioni, interne e internazionali, perché un “ordine mondiale”, che risulta dalle relazioni tra i singoli Stati, è necessariamente influenzato dalle forme politiche di questi ultimi. In altri termini, se prevarranno forze politiche scarsamente disponibili alla dialettica e al compromesso, sarà più probabile l'emergere di conflitti sul piano internazionale, oltre che forti tensioni su quello interno. Per evitare ciò, occorre limitare quanto possibile i fenomeni di polarizzazione tra le diverse componenti della società e garantire un certo equilibrio nella dialettica politica interna. Altrimenti, il rischio è che si contrappongano diverse filosofie del disprezzo: quella della “casta” (che si arrocca per mantenere i propri privilegi) nei confronti delle “classi popolari”, quella (di reazione) del “paese reale” nei confronti della “casta” e quella (in certa misura più trasversale) nei confronti delle “minoranze”. Tre pensieri unici che si alimentano a vicenda imponendo una gara tra opposte mistificazioni, a discapito di una discussione lucida e ragionevole sui fenomeni politici e geopolitici in atto.

March 25, 2019

Gaza stanotte si è addormentata sotto una tempesta naturale che faceva concorrenza ai bombardamenti israeliani, ma si è svegliata con la notizia che un nuovo missile ha colpito a nord di Tel Aviv centrando un’abitazione e ferendo 7 persone tra cui, per fortuna leggermente, 3 bambini. Quindi si è svegliata temendo che non saranno i fulmini a coprire prossimamente il cielo, ma l’aviazione israeliana, come già minacciato da Netanyahu che sta tornando in fretta e furia da Washington.

Le agenzie di stampa israeliane stamattina abbondavano, come ovvio, in notizie circa i feriti e i danni provocati dal potente missile Farji5, i media internazionali hanno fatto loro eco abbondando anche in notizie di colore, tra cui i ricoveri per stato di panico nonostante i rifugi sicuri, o la morte di un cane rimasto sotto le macerie, cosa sicuramente triste ma che, se si mette sul piatto della bilancia rispetto agli assassinii a freddo dei palestinesi e alla demolizione di decine di migliaia di loro case con morti umani sotto le macerie, sembra un’attenzione quantomeno squilibrata.

Ma al di là delle notizie per così dire di colore, ce ne sono due piuttosto strane, la prima è che l’iron dome, cioè il più sofisticato sistema antimissilistico, capace di intercettare e neutralizzare i razzi nemici era stranamente spento quando il missile è arrivato. La seconda è che, nonostante il missile lanciato da Rafah abbia centrato una zona residenziale ferendo e facendo gravi danni, le scuole oggi sono rimaste aperte.

Se i due missili di circa dodici giorni fa, quelli ai quali Israele rispose con una notte di bombardamenti distruggendo più di 100 strutture e ferendo diverse persone, sono rimasti senza chiaro mittente tanto che alcune ipotesi sono state di “razzi elettorali” ed altre di “razzi distrazionali pro-Hamas”, il missile di questa mattina crea ancora più dubbi. Sia la volta precedente che oggi, è stato ipotizzato dalla stampa israeliana, portavoce del governo, che possa essersi trattato di un errore. Fa un po’ ridere quest’idea che sprovveduti ragazzotti spingano su un bottone sbagliato avendo accesso a luoghi che non sono certo una sala biliardo e quindi è difficile crederci. Proviamo a esaminare i motivi di dubbio.

Il primo fatto significativo è la potente gittata di questo missile, che dovrebbe essere di fornitura iraniana e dovrebbe far parte degli stoccaggi della Jihad islamica. Tra Rafah e Tel Aviv passano 120 chilometri. Mai un missile lanciato da Gaza è arrivato tanto lontano. Inoltre la Jihad ha sempre rivendicato le sue azioni militari ma questa volta, esattamente come dodici giorni fa, rifiuta ogni responsabilità e al momento i suoi capi sono in riunione con i capi di Hamas che rifiuta, a sua volta, ogni rivendicazione.

Perché Jihad e/o Hamas avrebbero dovuto lanciare un missile tanto potente sapendo che questo avrebbe innescato una risposta violentissima? Vogliono un’escalation? E’ proprio loro il missile lanciato da Rafah, cioè da pochi metri dall’Egitto? Qual è dunque il motivo e il messaggio lanciato da quest’azione? E se non è stato Hamas, come affermano a Gaza persone che non sono assolutamente simpatizzanti del governo locale, né la Jihad, chi e perché ha lanciato il missile?

Stranamente Israele non ha ancora risposto se non con modeste azioni a Beit Hannoun, estremo nord, questa mattina, senza grossi danni né feriti. Anche questo è strano, non rientra nella “tradizione” israeliana le cui rappresaglie sono sempre violentissime e sproporzionate alle azioni della resistenza palestinese. Qui si sta aspettando la risposta israeliana, ma anche la risposta ufficiale che dovrebbe uscire dalla riunione congiunta di Hamas e Jihad. La Jihad ha già pubblicato un comunicato laconico che fa eco alle minacce di durissima rappresaglia da parte di Israele, dichiarando che la risposta della resistenza sarà a sua volta durissima.

Altra cosa strana, per tutto il giorno i droni sono stati a riposo, stanno arrivando adesso, 17 ora locale. Volano bassi, pessimo segnale.

Intanto Israele ha mandato l’esercito in massa lungo la linea dell’assedio e ha chiamato i riservisti. Gli iron dome, che stavolta funzioneranno, sono stati dislocati in tutto il territorio israeliano. Inoltre sono stati avvertiti gli abitanti degli insediamenti prossimi alla Striscia di Gaza di organizzarsi che ci sarà presto un violentissimo attacco aereo. Ci sarà prima del rientro dall’America di Netanyahu? Chi ne prenderà “i meriti”? Mentre scrivo arriva la notizia del primo attacco israeliano a nord dalla parte del mare. I droni seguitano a volare bassi.

Il popolo palestinese di Gaza pagherà le conseguenze di ogni cosa. Israele ha chiesto ai Consolati stranieri di evacuare i propri cittadini. Questo è un segnale pesantissimo. I valichi sono stati chiusi, ma tanto questo per i gazawi rientra nella normalità dell’assedio, mentre il segnale che viene mandato al mondo è preciso: faremo un massacro al quale nessuno potrà sfuggire, portatevi fuori i vostri quattro internazionali perché non vogliamo testimoni. E i consolati si stanno attrezzando. Chi scrive sarà probabilmente costretta domattina ad uscire da Gaza, lasciando sotto le bombe solo uomini, donne e bambini gazawi, gli stessi di cui conosce nomi, visi, risate e sogni, e lasciando ai megafoni israeliani la sola voce che arriverà in Occidente.

Le ultime notizie riaffermano che Israele “risponderà” ad ogni attacco, mentre da Gaza la resistenza risponde che replicherà da ogni punto della Striscia ad ogni attacco israeliano. Non è una partita di risiko. E’ una tragedia annunciata. E su tutto c’è la grande ala delle prossime elezioni che probabilmente verranno vinte grazie al sacrificio del popolo gazawo. Quello che non muore di paura scappando nei rifugi, ma che muore per davvero, proprio come il povero cane israeliano che ha commosso i media, ma probabilmente senza muovere la stessa commozione. Gli attacchi sono appena iniziati. Possiamo solo sperare che qualcuno riesca a fermarli prima che si trasformino nell’inferno annunciato.

 

per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza

 

 

Informazioni sull'Autore

Patrizia Cecconi


Patrizia Cecconi nasce a Roma dove consegue la laurea in Sociologia presso l’Università La Sapienza. Qui tiene per alcuni anni seminari sulla comunicazione, quindi si dedica all’Economia e vince la cattedra di Economia Aziendale per l’insegnamento negli Istituti d’istruzione superiore dove presterà servizio per circa venticinque anni. Interessata all’ambiente e alla natura, verso il 2000 rivolge la sua attenzione allo studio sistematico della botanica e della fitoterapia ponendo sempre al centro dei suoi lavori l’interazione culturale tra l’ambiente e gli umani che lo abitano. Infatti il suo interesse per l'ambiente si lega alla denuncia della violazione dei diritti umani nel mondo. Ha curato e pubblicato articoli e libri su argomenti diversi, ma sempre focalizzati sul rispetto e la tutela del Diritto universale, anche quando il tema richiama la botanica. Il suo interesse particolare è rivolto alla Palestina, dove si reca diverse volte l’anno. I suoi reportages su Palestina e palestinesi sono pubblicati regolarmente in Italia in diversi giornali e riviste on line. Dal 2009 fino al dicembre 2014 è stata presidente della onlus “Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese” di cui ora è presidente onoraria, associazione umanitaria laica che cura principalmente le adozioni a distanza di bambini disagiati e la sensibilizzazione verso la questione palestinese in Italia. E’ co-fondatrice della onlus Cultura è Libertà e dell’associazione Oltre il Mare di cui è presidente, entrambe le associazioni hanno come focus prioritario del proprio agire la diffusione della storia e della cultura palestinese.

February 28, 2019

 

 

 

Le parole, i pensieri, i sogni di un africano, un prezioso profilo in terra europea. Un libro pieno di forza e rabbia dove si decantano i pari diritti per tutti con un particolare accento sul popolo Africano. Parole di denuncia e di risoluzione allo stesso tempo, un riscatto per un uomo che vive forzatamente lontano dalla terra natia, espresso attraverso la poesia in una scrittura semplice e spontanea. Sogni di un uomo è la testimonianza vera di chi è stato strappato dalle proprie radici per amore del proprio popolo. Ѐ il d

esiderio di un ritorno futuro verso la terra d’Africa, nella ricostruzione di una vita in terre sconosciute.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il cammino di un

uomo africano attraverso “la nostra civiltà”, tra i ricordi della terra natia, troppo presto abbandonata, e i segni devastanti del capitalismo e dell’imperialismo. Una civiltà sfruttata, la sua, che si contrappone ad una civiltà del potere. L’autore, nella sua riflessione, non lascia scampo e ci pone davanti ad un bivio; o l’uomo, o il denaro. Il tutto condito da una forma poetica semplice, spontanea ma decisa.

 

 

February 19, 2019

Se i principali terreni di scontro tra Stati Uniti, Cina e Russia sono la supremazia tecnologica e il controllo delle risorse dell'Artico, le questioni mediorientali lasciano intravedere due potenziali sistemi di alleanze, sia pure ancora instabili

 

 

Dopo il collasso dell'Unione sovietica, gli Stati Uniti, unica superpotenza mondiale, hanno imposto un assetto unipolare globalizzato, utilizzando essenzialmente tre strumenti: l'economia di mercato, diffusa tramite organismi come il Fondo monetario internazionale e l'Organizzazione mondiale del commercio; un unico sistema di sicurezza aggressivo-difensivo facente riferimento al Patto atlantico (NATO); infine, un'unica rete di comunicazione e informazione mondiale (internet) controllata e gestita dagli USA, con funzioni di spionaggio e di diffusione del soft power della potenza egemone. A ciò si aggiungeva una “riconfigurazione” dell'Organizzazione delle nazioni unite (ONU), più volte utilizzata per conservare gli equilibri di forza regionali o per indirizzare eventuali cambiamenti in direzione di un'ulteriore consolidamento della supremazia mondiale statunitense, anche mediante il rafforzamento del ruolo geopolitico dei suoi satelliti regionali. All'interno di tale quadro, ad esempio, alla Turchia, paese NATO dal 1952, è stato concesso di espandere la propria influenza culturale e religiosa tra i musulmani dei Balcani, del Caucaso e di parte dell'Asia Centrale, per limitare al massimo la probabilità che la Russia (sul cui territorio abitano circa venti milioni di musulmani) potesse in futuro riemergere come potenza. Un ordine mondiale che nell'ultimo decennio ha mostrato segni di cedimento sia sul piano economico, sia sul piano delle relazioni internazionali, in particolare da quando, nell'ultimo decennio, Russia e Cina insidiano l'egemonia USA.

Con il vertice di Varsavia, Stati Uniti e Israele intendevano quindi creare un fronte compatto che individuasse nell'Iran la principale minaccia alla stabilità del Medio Oriente e che, di conseguenza, fosse disposto a collaborare attivamente con Washington per preservare l'attuale assetto mondiale. Lo stesso paese ospitante, la Polonia (scarsamente interessata, almeno in apparenza, alle questioni mediorientali), è con la Croazia uno dei promotori del progetto Trimarium, intesa economica ma con significative ripercussioni geopolitiche, perché si snoda in una regione compresa tra tre mari di rilevanza strategica, oggetto di contesa tra Stati Uniti, Russia e Germania: il Mar Nero, il Mar Mediterraneo e il Mar Baltico. Negli ultimi anni, alcuni paesi di questa regione, in particolare la Polonia, hanno acconsentito alla linea dell'attuale presidente USA Donald Trump. Basti ricordare che, lo scorso settembre, Varsavia ha dichiarato di essere disposta a sborsare due miliardi di dollari per ospitare una base statunitense sul suo territorio. Una mossa che Mosca non ha gradito, come non ha mai digerito l'espansione NATO nei Balcani. Al vertice di Varsavia sul Medio Oriente, tuttavia, Washington non è riuscita a coinvolgere i paesi membri dell'Unione Europea (UE), che hanno disertato le consultazioni, hanno inviato rappresentanti “di livello inferiore” (come Francia e Germania) o hanno partecipato esclusivamente all'apertura (come la Gran Bretagna). Di fondo, l'UE continua infatti a essere restia alla rottura delle relazioni con l'Iran. Unico successo parziale, peraltro più per Tel Aviv che per Washington, è stato probabilmente il riavvicinamento “ufficiale” tra Israele e alcuni paesi arabi, in particolare le petromonarchie del Golfo.

Già dopo l'esplosione dell'affaire Khashoggi, il giornalista saudita ucciso nel consolato di Riyadh a Istanbul, a esortare Trump a non mettere in dubbio l'alleanza con l'Arabia Saudita del principe ereditario Mohamed bin Salman, furono il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi, che ne avevano sottolineato il ruolo chiave nella lotta al “terrorismo” (Iran, il movimento palestinese Hamas e altri gruppi che si ispirano all'islam politico dei Fratelli musulmani). Negli ultimi giorni, media arabi del calibro di Al-Jazeera e Al-Quds al-arabi hanno pubblicato diversi articoli sulle relazioni segrete tra Israele e paesi del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti in primis, fino al sostegno di Riyadh all'attacco israeliano al Libano. Tuttavia, questo fronte manca di compattezza, anzitutto a causa dell'isolamento diplomatico del Qatar, voluto dall'Arabia Saudita; in secondo luogo, perché non tutti i paesi del Golfo aspirano a normalizzare le loro relazioni con Israele: il viceministro degli esteri Khaled al-Jarallah ha precisato che il Kuwait sarà l'ultimo a intraprendere questa via, dopo una soluzione adeguata della questione palestinese. Quest'ultima costituisce peraltro la linea di divisione simbolica tra due diverse forme di islam politico: quella promossa da Riyadh, di ispirazione wahhabita (secondo la quale la “minaccia” principale è rappresentata dall'Iran), e quella caldeggiata da Ankara, che sostenendo la “causa palestinese” e i Fratelli musulmani si propone come punto di riferimento per tutto l'islam sunnita, inclusi i Rohingya in Myanmar e gli Uiguri turcofoni in Cina.

La Turchia, infatti, è consapevole del proprio ruolo determinante per i due schieramenti del fronte mediorientale, sia per quello di USA-Arabia Saudita-Israele-Egitto, sia per quello (più fragile) di Russia e Iran, con i quali condivide il tavolo dei negoziati sul conflitto siriano. Senza delegati al vertice di Varsavia (al pari di Libano, Palestina e Qatar), il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha incontrato invece i suoi omologhi russo e iraniano (e bielorusso) a Sochi, sul Mar Nero, nel quale Mosca sta cercando di espandere e affermare il proprio controllo. A conclusione del vertice, dal quale è emersa qualche divergenza, Erdoğan ha ribadito che acquisterà il sistema di difesa antimissile russo S-400, malgrado l'offerta “concorrente” di Washington, che ha peraltro precisato che le apparecchiature russe non sono integrabili nel sistema di difesa aerea della NATO. Washington considera infatti con preoccupazione l'eventualità di un'alleanza tra Turchia, Russia e Iran, per ora allontanata dal progetto neo-ottomano di Ankara e dall'intenzione turca di creare manu militari una zona cuscinetto ai suoi confini, nella Siria settentrionale. Nondimeno, sia pure sotto forma di intesa tattica, le relazioni con la Turchia sono fondamentali per l'Iran, su cui Israele, USA e Arabia Saudita aumentano la pressione. Tale senso di accerchiamento, in parte fondato, si è manifestato lo stesso giorno dell'apertura del vertice di Varsavia, quando in un attentato suicida nella provincia del Sistan-Baluchistan (alla frontiera con il Pakistan) sono morti 27 Guardiani della rivoluzione. L'attacco è stato rivendicato dal gruppo fondamentalista sunnita l'Esercito della giustizia, ma le autorità iraniane hanno accusato i paesi della regione che sostengono il terrorismo. Qualche giorno dopo, il ministro degli esteri iraniano Jawad Zarif (che aveva commentato il vertice di Varsavia sottolineando l'attitudine statunitense a commettere sempre gli stessi errori aspettandosi risultati diversi), in un messaggio rivolto alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza, ha accusato esplicitamente Israele di “cercare la guerra” e di aumentare, con gli USA, le occasioni di scontro in Medio Oriente. Un riferimento agli attacchi israeliani, giudicati illegittimi da Tehran, contro obiettivi iraniani in Siria.

Nel corso della stessa conferenza, Tel Aviv ha risposto che è l'Iran a rappresentare un pericolo per il Medio Oriente e per il mondo. Inoltre, la domenica, sono stati costituiti un gruppo di discussione sulla Siria, cui hanno preso parte i rappresentanti di USA, Russia, Turchia, Libano ed Egitto, e uno sulla sicurezza umanitaria. All'interno di quest'ultimo, il premio Nobel per la pace Tawakkul Karman ha criticato l'indifferenza della comunità internazionale per le devastazioni provocate dagli attacchi della coalizione saudita ed emiratina in Yemen, con il pretesto della guerra contro gli Houthi. Il sabato, invece, era stata la volta di al-Sisi, che nel suo discorso ha invitato i paesi europei a controllare le moschee che sorgono sui loro territori, per evitare che prendano piede gruppi estremisti, e a moltiplicare gli sforzi nella lotta contro il terrorismo, che si combatte anche favorendo lo sviluppo economico. “Trenta milioni di egiziani”, ha aggiunto, “sono scesi in strada” per respingere una visione fondamentalista dell'islam che avrebbe potuto causare una guerra civile. Un'allusione al colpo di stato militare che nel 2013 ha rovesciato l'ex presidente egiziano Mohamed Morsi, guida dei Fratelli musulmani. Non meno significative le dichiarazioni di al-Sisi sulla questione palestinese come “fonte di instabilità in Medio Oriente” e sul diritto dei palestinesi di fondare un Stato all'interno dei confini del 1967 e con Gerusalemme Est come capitale: una linea analoga, del resto, a quella portata avanti dal Kuwait al vertice di Varsavia.

Trent'anni dopo la fine del bipolarismo mondiale, la supremazia USA è dunque insidiata in misura crescente. I conflitti che interessano il Medio Oriente, come la crisi venezuelana o i tentativi di Russia e Cina di svincolarsi dal controllo statunitense sulla rete internet mondiale, sono altrettante faglie sulle quali l'attuale assetto mondiale potrebbe crollare, come i suoi predecessori. D'altronde, al pari delle istituzioni che governano uno Stato, ogni assetto mondiale resiste solo finché rappresenta l'equilibrio effettivo tra le forze in campo.

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