L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Politics (354)

    Carlotta Caldonazzo

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February 07, 2018

gdsgdgSalvini: "Un obbligo di 6-8 mesi, ragazzi e ragazze potranno scegliere se farlo civile o militare. Meglio militare: educa all'uso delle armi, evitando disastri come quello di Macerata. E integra chi è venuto dall'altra parte del mondo crescendolo nell'amore per l'Italia". 

 

Si leggono sui quotidiani le dichiarazioni di intenti del leader della Lega Salvini circa la reintroduzione del servizio di leva obbligatorio: insomma, come dice un noto scrittore americano "A volte ritornano". Le opinioni non possono essere che discordanti. Chi vorrebbe andare a fare la naja al giorno d'oggi? Pochini fra i nostri ragazzi credo. Da molti si dice che il servizio militare sia tempo gettato alle ortiche. La vita è tanto comoda in casa con mamma e papà, no? Meglio tirare a campare, fare i bamboccioni che crescere quasi di colpo. Meno rogne, meno regole, meno, anzi, assolutamente niente disciplina. Guardate che qui non sto affatto propugnando le idee del buon Salvini che il militare l'ha fatto e proprio in quella caserma milanese oggi adibita a ricovero o rifugio migranti, la caserma Montello. Però… però qualche ragione l'ha pure quando dice che la Naja militare "Educa a un uso responsabile consapevole dell'arma, come avviene in Svizzera, anche per evitare i disastri che vediamo in questi giorni e quando sei in camerata non conta nulla dove sei nato. E un servizio di leva obbligatorio, civile o militare ma soprattutto militare, aiutarebbe l'integrazione di ragazzi che sono venuti qui dall'altra parte del mondo e che cresceranno con l'amore per l'Italia. Credo poi – Continua Salvini - che per i nostri ragazzi sia meglio battagliare in Parlamento per il servizio militare obbligatorio che per la liberalizzazione di alcune droghe. Mio figlio ha 14 anni e io spero che un giorno possa dire che il suo papà ha fatto qualcosa di concreto. "

E per quanto concerne all'aggravio delle spese statali per il mantenimento di un esercito di leva Salvini afferma che: "Se si vuole i soldi si trovano. Non credo nel solo servizio civile, perché se uno vuole oggi ha mille possibilità. Quindi meglio un obbligo di 6-8 mesi, per ragazzi e ragazze che potranno scegliere se farlo civile o militare. Molti Stati che hanno disarmato ora stanno tornando sui propri passi". Credo comunque che la vecchia Naja di buona memoria qualche successo l'avesse ottenuto ritengo io: aveva fatto in modo che ragazzi del nord e ragazzi del sud si amalgamassero fra loro, conoscessero le rispettive culture fondendole poi comunque in quella nazionale. Si sentivano soprattutto italiani e non più solo siciliani o piemontesi. E guardate che non fu poco! I ricordi di chi scrive, ormai lontani tanti anni da quei tempi, sono comunque positivi. Frequentavo l'università ma non pensai che il servizio militare fosse la perdita di diciotto mesi della mia vita e che avrebbe compromesso i miei studi. Infatti non fu così. Ero felice di indossare la divisa alpina dell'esercito italiano come avevano fatto a loro tempo, mio padre e mio nonno e che lo si voglia credere o no fui arricchito da quell'esperienza. Quando uscii per l'ultima volta dalla "Cesare Battisti" di Merano sapevo di avere una certezza in più nella mia vita.





Silvio Foini

January 27, 2018

hjfhfgL'ITALIA NEL PIANO NUCLEARE DEL PENTAGONO

Comitato promotore della campagna #NO GUERRA #NO NATO

Italia

25 gen 2018 

Il Nuclear Posture Review 2018, il rapporto del Pentagono sulla strategia nucleare degli Stati uniti, è attualmente in fase di revisione alla Casa Bianca. In attesa che sia pubblicata la versione definitiva approvata dal presidente Trump, è filtrata (più propriamente è stata fatta filtrare dal Pentagono) la bozza del documento di 64 pagine.

Esso descrive un mondo in cui gli Stati uniti hanno di fronte «una gamma senza precedenti di minacce», provenienti da stati e soggetti non-statali. Mentre gli Usa hanno continuato a ridurre le loro forze nucleari – sostiene il Pentagono – Russia e Cina basano le loro strategie su forze nucleari dotate di nuove capacità e assumono «un comportamento sempre più aggressivo anche nello spazio esterno e nel cyberspazio».

La Corea del Nord continua illecitamente a dotarsi di armi nucleari. L’Iran, nonostante abbia accettato il piano che gli impedisce di sviluppare un programma nucleare militare, mantiene «la capacità tecnologica di costruire un’arma nucleare nel giro di un anno».

Falsificando una serie di dati, il Pentagono cerca di dimostrare che le forze nucleari degli Stati uniti sono in gran parte obsolete e necessitano di una radicale ristrutturazione. Non dice che gli Usa hanno già avviato, nel 2014 con l’amministrazione Obama, il maggiore programma di riarmo nucleare dalla fine della guerra fredda dal costo di oltre 1000 miliardi di dollari.

«Il programma di modernizzazione delle forze nucleari Usa – documenta Hans Kristensen della Federazione degli scienziati americani – ha già permesso di realizzare nuove tecnologie rivoluzionarie che triplicano la capacità distruttiva dei missili balistici Usa».

Scopo della progettata ristrutturazione è, in realtà, quello di acquisire «capacità nucleari flessibili», sviluppando «armi nucleari di bassa potenza» utilizzabili anche in conflitti regionali o per rispondere a un attacco (vero o presunto) di hacker ai sistemi informatici.

La principale arma di questo tipo è la bomba nucleare B61-12 che, conferma il rapporto, «sarà disponibile nel 2020». Le B61-12, che sostituiranno le attuali B-61 schierate dagli Usa in Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia, rappresentano – nelle parole del Pentagono – «un chiaro segnale di deterrenza a qualsiasi potenziale avversario, che gli Stati uniti posseggono la capacità di rispondere da basi avanzate alla escalation».

Come documenta la Federazione degli scienziati americani, quella che il Pentagono schiererà nelle «basi avanzate» in Italia ed Europa non è solo una versione ammodernata della B61, ma una nuova arma con una testata nucleare a quattro opzioni di potenza selezionabili, un sistema di guida che permette di sganciarla a distanza dall’obiettivo, la capacità di penetrare nel terreno per distruggere i bunker dei centri di comando.

Dal 2021 – specifica il Pentagono – le B61-12 saranno disponibili anche per i caccia degli alleati, tra cui i Tornado italiani PA-200 del 6° Stormo di Ghedi. Ma, per guidarle sull’obiettivo e sfruttarne le capacità anti-bunker, occorrono i caccia F-35A.

«I caccia di nuova generazione F-35A – sottolinea il rapporto del Pentagono – manterranno la forza di deterrenza della Nato e la nostra capacità di schierare armi nucleari in posizioni avanzate, se necessario per la sicurezza». Il Pentagono annuncia quindi il piano di schierare F-35A, armati di B61-12, a ridosso della Russia. Ovviamente per la «sicurezza» dell’Europa.

Nel rapporto del Pentagono, che il senatore democratico Edward Markey definisce «roadmap per la guerra nucleare», c’è dunque in prima fila l’Italia. Interessa questo a qualche candidato alle nostre elezioni politiche?

(il manifesto, 23 gennaio 2018)

January 15, 2018
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 Teheran

I toni sproporzionatamente aggressivi del presidente degli Stati Uniti Donald Trump nei confronti dell'Iran riproducono una dinamica piuttosto ricorrente, soprattutto nelle fasi di transizione e assestamento dell'assetto geopolitico mondiale: i governi alleati di oggi sono i peggiori nemici di domani.

 

La questione del controllo delle potenze straniere sull'Iran emerse per la prima volta alla fine del XIX secolo, durante il regno degli ultimi shah della dinastia turkmena dei Qajar (che guidò il paese dal 1786 al 1925), in concomitanza con due processi concomitanti. In primo luogo, le idee che animavano il dibattito politico-ideologico europeo sui sistemi di governo costituzionali e sulle funzioni del Parlamento penetrarono gradualmente tra gli intellettuali, tra i funzionari e soprattutto tra ulema (clero sciita) e mercanti. Un processo favorito, oltre che dall'aumento dei contatti diplomatici ed economici con l'Europa, anche dalle attività degli intellettuali iraniani in esilio a Costantinopoli e a Calcutta. Infatti, nella seconda metà del XIX secolo, laici, riformisti e religiosi crearono società segrete e, tra XIX e XX secolo, anche organizzazioni la cui struttura era ispirata ai soviet russi. In secondo luogo, negli ultimi decenni dell'800, dopo la sconfitta francese contro la Prussia, le potenze europee dirottarono le loro rivalità al di fuori del vecchio continente, trasformando i conflitti per l'egemonia sull'Europa in una corsa al colonialismo imperialista. In tale contesto l'Iran divenne teatro dello scontro tra Gran Bretagna e Impero russo zarista, che se ne contesero il controllo ostacolandone lo sviluppo e “dirigendo” i cambiamenti socio-politici, persino quelli che, come la rivoluzione costituzionale, avevano tra gli scopi principali l'indipendenza.

 

Britannici e russi furono i primi istituti bancari iraniani, di cui il primo fu la britannica Imperial Bank of Persia, fondata nel 1889, che inizialmente aveva anche il diritto di sfruttare le risorse minerarie. Di poco successiva fu la fondazione, su iniziativa russa, della Banque des Prêts, poi chiamata Banque d'Escompte de Perse. La creazione di queste banche fu al contempo il risultato e la causa del crescente indebitamento nei confronti delle potenze occidentali degli shah Qajar, che con il loro dispendioso apparato dissestarono le finanze e l'economia del paese, riducendolo a una condizione di semi-colonia. Ad esempio, la fondazione della Imperial Bank of Persia fu autorizzata dallo shah Naser al-Din per pagare parte della cauzione stabilita dall'accordo per la concessione al barone britannico Julius de Reuter del controllo di strade, telegrafi, stabilimenti industriali e dell'estrazione di minerali (1872). Accordo che lo shah aveva dovuto annullare su pressione della Russia e dei cortigiani filorussi. Inoltre, dal punto di vista politico, uno dei problemi principali dei Qajar era lo scarso controllo del paese, per la tendenza a governare più secondo il modello dei capi tribù che secondo i criteri di una monarchia moderna. Basti pensare che l'unico esercito moderno in Iran era la Brigata cosacca, corpo di guardia della dinastia regnante, fondato nel 1879 e comandato da ufficiali russi fino alla rivoluzione bolscevica del 1917.

 

Anche per questo qualsiasi riforma fiscale per risanare il bilancio era difficile da elaborare e da attuare. Pertanto, nel 1897 il primo ministro iraniano Amin a-Dauleh si rivolse a una squadra di consulenti belgi guidata da Joseph Naus. Il cambiamento, che riguardò soprattutto tasse e dazi doganali, aumentò le entrate fiscali della monarchia iraniana (il successo valse a Naus addirittura la nomina a ministro), ma accrebbe anche il malcontento dei mercanti (per il timore di un aumento delle tasse) e dei cortigiani (gelosi dei loro privilegi). In Iran non esisteva una borghesia, ma la classe mercantile (i cosiddetti bazarì) alla fine del XIX secolo, grazie all'incremento dei commerci aveva conquistato un notevole peso all'interno della società. Perciò l'ostilità dei mercanti nei confronti della dinastia regnante fu determinante sia nella protesta del tabacco del 1891, sia nella rivoluzione costituzionale del 1906. Un contributo decisivo al successo di questi moti venne poi dagli ulema, il cui rapporto di interdipendenza con la monarchia si incrinò tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Ciò è da imputarsi in buona parte ai tentativi degli ultimi sovrani Qajar di “intromettersi” in settori chiave del potere religioso, quali l'istruzione e i tribunali.

 

La situazione esplose quando nel 1890 Naser al-Din concesse al maggiore britannico Gerald F. Talbot il monopolio sulla produzione, la vendita e l'esportazione di tabacco per cinquant'anni, in cambio di 15 mila sterline l'anno più un quarto dei profitti. Un accordo che distrusse il mercato locale di un prodotto molto popolare, quindi non solo colpì i mercanti, ma ridusse in miseria una parte consistente dei ceti più vulnerabili, che traevano sostentamento dalla coltivazione e dalla lavorazione del tabacco. Consapevoli di ciò, le autorità iraniane tentarono di mantenere segreta la concessione, ma un giornale fondato dalla diaspora iraniana a Costantinopoli diffuse la notizia. Quando la protesta dilagò tra i mercanti partendo da Shiraz, la guida religiosa di questa città, esiliata in Iraq, entrò in contatto con religiosi e intellettuali di origine persiana e convinse il leader sciita di Najaf a emettere una fatwa che vietasse il consumo e la vendita di tabacco. A causa del boicottaggio sistematico che questo divieto innescò, lo shah annullò la concessione.

 

Russia e Gran Bretagna intervennero nuovamente quando, nel 1896, Naser al-Din fu ucciso: la Brigata cosacca prese il controllo di Tehran, mentre sul trono fu insediato il figlio di Naser a-Din, Muzaffar a-Din. Al malcontento generato dalle riforme fiscali si aggiunse quindi la crescente preoccupazione per l'ingerenza straniera. Con il parere contrario della Russia, nel 1901 il nuovo shah concluse un accordo con il miliardario britannico William Knox D'Arcy: la Gran Bretagna avrebbe avuto il controllo delle riserve petrolifere iraniane per 60 anni, in cambio di 20 mila sterline e del 16% dei profitti. Nel 1909 i diritti passarono alla neo-fondata Anglo-Persian Oil Company, che nel 1935 divenne Anglo-Iranian Oil Company. La stessa compagnia fu accusata di monopolizzare i proventi del petrolio tenendo segreti i guadagni effettivi, quindi nazionalizzata nel 1952 dal Parlamento iraniano su impulso, tra gli altri, di Mohammad Mossadegh, poi eletto Primo ministro. Ciò innescò la serie di avvenimenti culminata con il colpo di stato che lo depose nel 1953, fu ordito dall'intelligence statunitense: l'Operazione Ajax stroncò l'opposizione laica allo shah Mohammad Reza, le cui violazioni dei diritti umani allora non preoccupavano Stati Uniti e Gran Bretagna.

La convenzione D'Arcy dunque accese ulteriormente il dibattito politico iraniano: tra gli intellettuali riformisti, religiosi e laici, si fece strada l'idea che solo un regime costituzionale, con un Parlamento, avrebbe posto fine all'arbitrio della monarchia, quindi alla dipendenza dell'Iran dalle potenze straniere. Un'ingerenza che preoccupava anche gli ulema, consolidando la loro alleanza con i mercanti e gli artigiani di Tehran e con gli intellettuali riformisti. La rivoluzione costituzionale del 1906 rappresentò quindi un salto di qualità nei metodi rispetto al boicottaggio del tabacco: durante gli scontri con le autorità, molti ulema si rifugiarono nei santuari di Qom, mentre migliaia di mercanti e artigiani chiesero protezione alla delegazione britannica, tutti portando avanti forme di protesta pacifiche organizzate. Lo shah convocò un Parlamento (formato da mercanti, religiosi, funzionari e latifondisti) e ratificò una Costituzione che limitava i suoi poteri, ma morì poco più di un mese dopo. Temendo che l'instabilità politica ostacolasse i loro interessi, Russia e Gran Bretagna conclusero un accordo per spartirsi le zone di influenza in Iran (1907): alle autorità locali rimaneva praticamente solo il controllo della regione centrale. Così, quando nel 1908 lo shah Mohammad Ali, con il sostegno della Brigata cosacca, tentò il colpo di stato per restaurare la monarchia assoluta, Londra e San Pietroburgo (quest'ultima inizialmente schierata con lo shah) intervennero direttamente. Costituzione e Parlamento furono ripristinati e lo shah abdicò in favore del figlio Ahmad, ultimo sovrano della dinastia Qajar.

 

Alla Gran Bretagna, che non voleva perdere il suo primato economico (in vista del quale il controllo politico era un mezzo), si aggiunsero nel 1910 gli Stati Uniti, che dal secondo dopoguerra tentarono in tutti i modi di imporsi in Medio Oriente, quindi anche in Iran, in funzione anti-sovietica. Basti citare L'Iran-Contras affaire (1985-1986), in cui fu coinvolto anche l'allora presidente USA Ronald Reagan, oltre alla già menzionata operazione Ajax del 1953, con la quale Gran Bretagna e Stati Uniti deposero il Primo ministro Mossadegh, anche organizzando contro di lui manifestazioni di protesta. Il pretesto fu il referendum per lo scioglimento del Parlamento e l'obiettivo era ripristinare il potere “legittimo” dello shah Muhammad Reza, ma il colpo di stato contro Mossadegh fu in realtà una mossa per evitare che il suo governo, sotto l'embargo britannico, intavolasse trattative con l'Unione Sovietica per il commercio del petrolio. Il risultato fu il logoramento delle forze politiche laiche che si opponevano all'arbitrio dello shah e alla subordinazione degli interessi iraniani a quelli di potenze straniere. Lo shah fu poi rovesciato dalla rivoluzione islamica del 1979: shah mat, scacco matto, ossia “il re (shah) è morto”, ma nella logica di potenza, morto uno shah se ne fa sempre un altro.

January 04, 2018
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 Aleksey Navalny

Novità elettorale natalizia in Russia, protagonista Babbo Natale. Il partito ''Russia Unita'' ha pubblicato un video dove una bambina chiede a Babbo Natale di far vincere le elezioni a Vladimir Putin, ciò mentre proprio la Commissione elettorale centrale del Cremlino aveva accusato Aleksey Navalny, oppositore di Putin, di usare bambini per i suoi scopi elettorali.

Nel video la bambina chiede a BABBO NATALE di far diventare presidente Vladimir Putin, la scena si svolge proprio mentre scorrono immagini di Putin che parla in televisione, e promette che se verrà esaudito questo suo desiderio non chiederà altro a Babbo Natale e questi gli risponde che ha già ricevuto molte richieste del genere.

Come accennato in precedenza le autorità avevano accusato Alexei Navalny di usare e ingannare i giovani. Motivo di tali accuse le proteste del 26 marzo e del 12 giugno scorso nelle quali migliaia di

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 VIDEO

giovani sono scesi in piazza. In seguito a ciò il Consiglio della Federazione Russa ha presentato una proposta di legge per impedire ai minori di partecipare a manifestazioni non autorizzate.

E’ iniziata la campagna elettorale in vista delle elezioni del 18 marzo 2018 e Vladimir Putin non avrà rivali, vari sondaggi lo danno al 55-63% di consenso, cosa che gli permetterebbe di rimanere alla guida del paese fino al 2024.

In questi ultimi tempi il principale oppositore di Putin e' stato Alexey Navalny , fondatore del Partito del Progresso, protagonista di molte manifestazioni nel paese e, proprio a causa di queste manifestazioni non autorizzate e alcune vicende finanziarie, è' stato condannato per due volte, ciò che gli ha precluso il permesso ad essere candidato. In seguito a ciò ha tentato di raccogliere le 300.000 firme richieste per la candidatura, ma è stato nuovamente arrestato e la sua esclusione dalle elezioni e' stata confermata definitivamente dalla Corte Suprema.

Gli altri partiti per queste elezioni sono il Partito Comunista di Gennadij Zyuganov. Sfiorò la vittoria nel 1996 contro Boris Yeltsin, ma nelle successive elezioni sono arrivate solo sconfitte. Negli ultimi tempi si sta cercando di ringiovanirne la classe dirigente. Per il momento il candidato che dovrà essere il premier è ancora in lista di attesa.

Il partito liberale che punterà ancora su Vladimir Zhirinovsky, i socialdemocratici avranno come leader Sergey Mironov, i verdi Anatoly Batashev, i comunisti di Russia Maxim Suraikin e il partito di centro sinistra Yabloko, Grigory Yavlinsky. C'e' anche un partito monarchico a memoria dell'impero russo e sarà guidato da Anton Bakov.

Altri nomi in odore di candidatura sono il vice primo ministro Dmitry Rogozin, la giornalista Irina Prokhorova, l'attore Ivan Okhlobystin e un volto televisivo, Ksenia Sobchak.

January 04, 2018
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 Putin con il card. Parolin

In questi ultimi tempi molti media parlano di un possibile viaggio di papa Francesco a Mosca, sembra che il Vaticano stia preparando questa ipotesi. Ultimamente tra Vaticano e Putin esiste una nuova politica, soprattutto per quanto riguarda quella estera, e nel messaggio di fine anno di auguri ai leader mondiali Putin ha sottolineato nella missiva indirizzata alla Santa Sede: “che la speranza del dialogo costruttivo per proteggere la pace e i valori umani tra Russia e Vaticano continui ”.

Le visite di Putin in Vaticano, le telefonate con Papa Francesco, hanno creato relazioni di fiducia, ha dichiarato Alexander Avdeev l'ambasciatore russo presso il Vaticano e prelude ad una visita del pontefice in Russia.

Naturalmente sarà interessante anche l'incontro con il Patriarca Kirill, già incontrato il 12 febbraio nel 2016 a Cuba e quella data fu già di per se un evento storico: la chiesa d'occidente e quella d'oriente si divisero nel grande scisma del 1054.

Nel 2017 ci sono stati degli avvenimenti importanti per le relazioni tra Vaticano e Russia e ciò rende sempre più probabile il viaggio di Papa Francesco a

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 Reliquia di San Nicola Bari

Mosca.   Nel maggio scorso, dopo 930 anni, la reliquia di San Nicola dalla Cattedrale di Bari ha raggiunto la capitale russa e in agosto c’è stata la visita del Cardinale Pietro Parolin che ha incontrato il Patriarca Kirill e Putin.

Tutto ciò fa pensare che il 2018 sarà l'anno di Papa Francesco e Putin, oppure sarà un anno che rimarrà nelle date della storia, e cioè del riavvicinamento tra chiesa cristiana e chiesa ortodossa ....staremo a vedere

January 04, 2018

Armi Italia 720x480Dovremmo smetterla di aiutare i paesi del Terzo Mondo, quelli in via di sviluppo, smettere di ”aiutarli a casa loro”, per lo meno non con il modo spesso portato avanti finora.

Smetterla di approntare “missioni di pace”, avvallate dall’ONU, supportate dai caschi blu, far passare convogli di aiuti umanitari e a seguire tonnellate di bombe, cibo in scatola e milioni di mine antiuomo, supporto logistico e fiumi di armi.

Dovremmo smetterla di indignarci, quando scopriamo che il nostro Ministero della Difesa, allora presieduto dalla signora Pinotti, non andava propriamente a intrattenere “relazioni diplomatiche” con l’Arabia Saudita. Improvvisamente svegliarci un mattino e candidi come un fiocco di neve esclamare indignati…”Oh ma che schifo in Yemen! Bombe italiane che hanno ucciso bambini”

Smetterla, perché la stessa identica cosa avviene da anni in Palestina con le forniture Beretta, Melara, Finmeccanica ecc.

Smetterla di sorprenderci se con quelle stesse armi, in Palestina, qualcuno sparerà alle ginocchia dei bimbi, così da renderli infermi, oppure farà fuoco mirando ai genitali degli uomini, affinché non si possano riprodurre, o ancora piangere quando nei raid israeliani sui campi profughi i civili vengono uccisi con i Mangusta di produzione tutta italiana.

Smetterla di far finta di non sapere che l’Italia da anni è il maggiore esportatore dell’Unione Europea di sistemi militari e di armi leggere dirette verso Israele, con medie di 500 milioni di euro l’anno per esportazione di sistemi militari (dati del Rapporto UE).

Smetterla di dirci “italiani brava gente”, quando da tempo siamo nella “top ten” mondiale dei paesi che esportano più armi. Vicini ai 15 miliardi di forniture d’armi nel 2016, un fatturato raddoppiato dal 2015, e quadruplicato dal 2014, dove oltre il 60% delle nostre armi sappiamo bene finirà in paesi fuori dall’Unione Europea e dalla NATO, paesi coinvolti in guerre, in stermini di massa, in omicidi di Stato.

Smetterla di lavarci la coscienza scrivendo “Verità per Giulio Regeni”, quando siamo legati da anni all’Egitto con tutti i tipi di forniture commerciali, quella di armi in primis fra tutte.

Smetterla di piangere mano sul petto e posa solenne i nostri militari morti all’estero, quando poi in Iraq a Baghdad e a Nassiriya, i terroristi sparavano contro i nostri carabinieri con delle armi Beretta.

Magari stupirci se scopriremo un giorno che, nella “missione umanitaria” italiana in Niger, oltre alla lotta al traffico di esseri umani e al terrorismo internazionale, indisturbato qualcuno con le armi faceva affari.

Sì, per compassione, se non per coerenza, bisognerebbe smetterla una buona volta, dal momento in cui la stessa identica cosa avveniva in Bosnia e in tutta la Ex-Jugoslavia, già 25 anni fa, nell’estate del 1993: da una parte migliaia di volontari civili venuti da tutto il mondo, in marcia verso Sarajevo e Mostar, tentando di riallacciare il dialogo fra le popolazioni, istituire una tregua, porre fine alla guerra, mentre dall’altra i governi europei, la NATO e l’ONU realizzavano e proteggevano a suon di bombe sganciate dal cielo, “corridoi umanitari” non tanto per garantire una via di fuga alle migliaia di profughi e disperati, bensì il passaggio delle merci, di tutti i tipi di merci, specie quelle con cui si alimentano le guerre. Era il 7 di agosto del 1993,  sulla strada che va a Sarajevo, col sottofondo di cicale in amore, quando la radio gracchiò: di qua c’eravamo noi volontari civili, a migliaia in ascolto, dal cui  passaggio nasceva una miracolosa quanto fragile tregua, dall’altra parte della nostra radio da campo, Umberto Playa, Responsabile Unità di Crisi del Ministero degli Esteri, concitato ci avvisava, su delega Farnesina, di fermarci,  che dovevamo arrestare subito la marcia di pace, che di ora in ora il nostro proseguire diventava sempre più pericoloso. A seguire, l’allora Ministro degli Esteri, ci informò che la Nato il giorno dopo e quello ancora  successivo avrebbe effettuato un “bombardamento dimostrativo” poco più avanti, proprio lungo la strada che ci avrebbe condotto a Sarajevo e difatti il “bombardamento amico” poco più avanti,il giorno seguente avvenne.

Fu così, che l’allora marcia della pace “Mir Sada”, con la fragile tregua al suo passaggio, si arrestò.

Quel giorno fummo in molti a perdere come un senso di verginità interiore, un candore che ci faceva sentire “buoni” e a capire che eravamo noi occidentali, con le nostre bombe e le nostre armi, i “cattivi” . Fummo allora ingenui testimoni di eventi di guerra e del traffico d’armi e vite umane, lo stesso che ha poi contraddistinto tutti gli anni a seguire, fino ad oggi.

Anche Padre Albino Bizzotto, fra i promotori della marcia, gridò allora di smetterla.   In quel giorno caldo e riarso dal sole, in un campo, Albino prese coraggio e voce, e con l’amaro in bocca e lo sguardo abbassato disse: “Le condizioni in questo momento non ci permettono oggettivamente di passare senza il sacrificio sicuro di qualcuno di noi. E’ arrivato il momento, non soltanto di chiedere aiuto, ma di chiedere con determinazione, di pretendere, dai nostri governi e dalla Comunità Internazionale, di assumere la responsabilità perché siano garantiti i nostri diritti umani elementari. Noi non accettiamo, che vengano difese le merci, che possano passare le merci, e invece le persone portatrici di pace non abbiano la possibilità e il diritto di passare.”

Ancora prima di Albino in questi stessi giorni nel dicembre di 34 anni fa, ci fu un giornalista che ci diceva di smetterla di pensare che la Mafia fosse un problema del Sud, uno di quei giornalisti veri, che il proprio lavoro lo faceva bene, con passione e fino in fondo.

Un giornalista siciliano, che autofinanziato con fondi propri aveva realizzato un giornale indipendente, “I siciliani”, dove era apparsa un’inchiesta scottante. Aveva fatto nomi e cognomi degli allora esecutori mafiosi, collegandoli poi ai mandanti, alle teste pensanti di uno Stato di mafia, insediati ormai da anni fra le più alte cariche del paese Italia e non solo.

Non possiamo ora stupirci, quando di fronte a Enzo Biagi, nella sua ultima intervista, oltre 30 anni fa, un giornalista indipendente, già ci ammonì:   “Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante; i mafiosi non sono quelli che ammazzano, quelli sono solo gli esecutori.” […]  “I mafiosi sono quelli che stanno ai livelli più alti e incensurati. Un’organizzazione che riesce a manovrare 100.000 miliardi l’anno (delle allora lire) più del bilancio annuale dello Stato Italiano, è in condizione di armare degli eserciti, è in grado di possedere delle flotte, di avere un esercito proprio, e di fatti sta accadendo che la mafia si sia pressoché impadronita almeno in Medio Oriente del commercio delle armi, del mercato delle armi. Diciamo che di questi centomila miliardi di giro, un terzo circa resta in Italia e allora bisogna pure impiegarlo in qualche modo… bisogna riciclarlo, ripulirlo, reinvestirlo e allora, ecco le banche, le nuove banche, questo pullulare, questo proliferare di banche nuove ovunque, servono apposta per riciclare.  Il Generale Dalla Chiesa lo aveva capito, Dalla Chiesa aveva avuto questa grande intuizione, quella che lo portò alla morte; intuì che era dentro le banche che bisognava frugare, che lì c’erano decine di migliaia di miliardi insanguinati, che venivano immessi dentro le banche e che ne uscivano per andare verso opere pubbliche.  La mafia non è più un problema siciliano e nemmeno italiano, ma europeo.”

Quel giornalista si chiamava Giuseppe Fava,  pochi giorni dopo aver rilasciato l’intervista, il 5 gennaio del 1984, pagò con la vita proprio perché fece bene il suo lavoro.

Siamo arrivati al 2018. Forse sarebbe l’ora di smetterla con le armi.

 

Per gentile concessione dell'agenzia di Stampa Pressenza

 

December 27, 2017

4Attentato terroristico ieri sera a San Pietroburgo in un supermercato in piazza Ka1linin, 13 i feriti. L'ordigno rudimentale pari a 200 grammi di TNT era riempito di chiodi e bulloni.

 

Il supermercato era affollato di gente, sono i giorni che precedono il capodanno ortodosso, la festa più sentita dai i russi che, per tradizione, scambiano i regali durante la notte di San Silvestro.

In un video della sorveglianza del supermercato si vede il presunto terrorista mentre lascia uno zaino, l'ordigno era nell’area che ospita gli armadietti per depositare borse e valigie. Sembra che il sospettato non sia di origine slava.

Non si sono fatti attendere i messaggi dei sostenitori dell'ISIS inneggiando all'attentato di San Pietroburgo e tra i messaggi lasciati si legge: ''Daremo ai Crociati un assaggio della loro stessa medicina''.

Dieci giorni fa, con l'aiuto della CIA americana, era stato sventato un attentato, sempre a San Pietroburgo, che come obiettivo aveva la cattedrale di Kazan, situata sulla famosa strada della Prospettiva Nievski. Il piano prevedeva altri 5attentati in vari luoghi affollati da gente. Nei giorni successivi Putin ha ringraziato telefonocamente Trump per il lavoro svolto dall’intelligence americana, e ha promesso di ricambiare il favore.7

''Se c’è rischio, non catturate nessuno e uccidere i terroristi sul posto'', queste sono state le parole dure rilasciate da Putin durante la cerimonia di premiazione al Cremlino per il personale russo che ha prestato servizio in Siria.

November 30, 2017

ukytky29.11.2017 - Questa mattina la Corea del Nord ha effettuato con successo il 20o test missilistico in quest’anno, dopo due mesi di “inattività”.

I fatti

L’agenzia ufficiale KCNA ha affermato che il missile era il più sofisticato rispetto a tutti i test precedenti ed è in grado di trasportare una testata nucleare pesante “super-large”.

Queste affermazioni non sono ancora state verificate dagli esperti, ma gli stessi si aspettavano che Pyongyang dimostrasse che ora ha l’intero territorio degli Usa nel suo raggio d’azione: uno sviluppo che rafforza in modo significativo la sua posizione negoziale nei confronti di Washington.

Da quanto  viene riportato, il missile ha volato per 50 minuti su una traiettoria molto alta, raggiungendo l’altezza di 2.796 miglia (10 volte maggiore dell’orbita della Stazione Spaziale Internazionale della Nasa), cadendo a una distanza di 621 miglia dal lancio ad ovest della costa del Giappone. David Wright, fisico ed esperto missilistico della Union of Concerned Scientists, calcola che su una traiettoria normale anziché così alta, il missile avrebbe una portata di 8.078 miglia (13.000 km), sufficiente a raggiungere Washington, l’Europa e l’Australia.

Le implicazioni

I commenti parleranno ovviamente di ennesima provocazione, di escalation inaccettabile. Ci sarà un ulteriore polverone. Vogliamo, per lo meno noi, ragionare con freddezza e raziocinio?

Innanzi tutto ho discusso più volte che la responsabilità dell’escalation nucleare della Corea del Nord ricade in primo luogo sugli Stati Uniti[1]. Questo non certo per “giustificare” che Pyongyang si sia dotata di armamenti nucleari, che sono comunque un delitto contro l’umanità, come verrà sancito non appena il nuovo Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari entrerà in vigore: è l’esistenza stessa delle armi nucleari, il loro uso come minaccia, a moltiplicare gli Stati che ambiscono dotarsene. Da un lato è ormai il segreto di Pulcinella che gli armamenti nucleari implicano enormi interessi economici oltre che militari, gli Stati che se ne sono dotati hanno ricevuto informazioni, tecnologie e supporti da cani e porci, e la Corea del Nord non ha certo fatto eccezione.

Si smetta di dipingere Kim come un pazzo fuori di testa, a mio parere è molto lucido, e fa un freddo, ancorché cinico, calcolo: “Saddam ha abbandonato i suoi armamenti e è stato fatto fuori, Gheddafi pure e è stato ucciso”. Più realistico di così! Sono gli Stati Uniti, e Trump in modo esasperato, che conoscono solo il linguaggio della minaccia della coercizione.

Pyongyang ha offerto la disponibilità a negoziare, non da ora ma da anni[2], ponendo come condizione il riconoscimento del suo status di Stato nucleare. Ormai gli Usa, e tutto il modo, devono prendere atto che – per loro precisa responsabilità – la Corea del Nord non pone più un problema di proliferazione, ma è uno Stato nucleare a tutti gli effetti. Kim e il suo regime possono essere legittimamente antipatici, ma di fronte alla minaccia che incombe è necessario mettere in secondo piano l’obiettivo di regime change, e lasciare il posto alla politica, ai popoli e alla storia.

La situazione diventa sempre più drammatica, e il rischio che venga premuto – accidentalmente, per errore o per calcolo – il bottone della fine del mondo è sempre più concreto. Sta al più forte, non al più debole, avere la saggezza di negoziare. La strada è chiara, anche se tutt’altro che priva di ostacoli e problemi: intavolare finalmente – dopo 63 anni dalla Guerra di Corea – un negoziato di pace complessivo che possa pacificare l’intera penisola coreana, e porre le basi per la sua completa denuclearizzazione.

 

[1]             A. Baracca, “La resistibile ascesa nucleare della Corea del Nord”, Pressenza, 3 maggio 2017, https://www.pressenza.com/it/2017/05/la-resistibile-ascesa-nucleare-della-corea-del-nord/.

[2]               Si veda ad esempio D. Bandow, “North Korea Wants to Talk Peace Treaty: U.S. Should Propose a Time and Place”, The National Interest, 3 dicembre 2015, http://nationalinterest.org/blog/the-skeptics/north-korea-wants-talk-about-peace-treaty-us-should-propose-14504; A. Denmark, “Time for President Trump to negotiate with North Korea”, The Hill, 10 novembre 2017, http://thehill.com/opinion/white-house/354891-time-for-president-trump-to-negotiate-with-north-korea.

per gentile concessione dell'Agenzia di stampa Pressenza

November 01, 2017

Mentre le dispute tra Erbil e Baghdad su Kirkuk insidiano gli equilibri regionali, il presidente della Regione autonoma del Kurdistan iracheno Massoud Barzani si dimette

Le dimissioni dell'ex presidente della Regione autonoma del Kurdistan iracheno (KRG) Massoud Barzani, entrate in vigore il primo novembre, sono arrivate poco meno di dieci di giorni dopo la conferenza stampa in cui portavoce del movimento di opposizione Gorran aveva chiesto a lui e al vice-presidente Kosrat Rassoul di porre fine alle loro funzioni, avviando la formazione di un governo di unità nazionale. Lo stesso movimento, nato da una scissione all'interno del Partito di unione patriottica del Kurdistan (il PUK del defunto Jalal Talabani), in agosto si era pronunciato a favore del rinvio del referendum per l'indipendenza della regione curda. Gorran accusa la leadership del KRG di aver gestito in modo inefficace e poco trasparente le questioni interne ed esterne, e di aver illegalmente prolungato le sue funzioni per quattro anni oltre il suo mandato. Inoltre, il fatto che il parlamento sia chiuso dall'ottobre del 2015 impedisce un dialogo tra le forze politiche. Il Partito democratico del Kurdistan (KDP) di Barzani, forte dell'influenza della sua potente tribù, ha di fatto egemonizzato la politica curda, facendo leva soprattutto sui successi militari nella guerra contro i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico. Abbandonata la presidenza, Barzani non potrà candidarsi alle prossime elezioni, ma ha assicurato che resterà sulla scena “come peshmerga”, come combattente. Anche perché le elezioni presidenziali, previste per il primo novembre, sono state rinviate sine die.

“Sono sempre lo stesso Massoud Barzani, sono un peshmerga”, ha dichiarato l'ex presidente alla televisione irachena, “continuerò ad aiutare il mio popolo nella lotta per l'indipendenza”. Tuttavia, le recenti conquiste dell'esercito iracheno (le truppe del governo centrale di Baghdad), in particolare quella della provincia petrolifera di Kirkuk, senza spargimento di sangue, hanno complicato la situazione politica di Barzani, svelandone il sostanziale isolamento internazionale. Nessun paese vicino ha preso posizione perché Kirkuk e altri territori contestati rimanessero sotto il controllo kurdo o perché i curdi iracheni potessero avere un loro stato. Neppure l'alleato statunitense, che pure sui peshmerga aveva contato sia durante l'invasione dell'Iraq del 2003, sia nella guerra contro i cartelli del jihad, mentre ora si è limitato ad accogliere con favore le dimissioni di Barzani come segno di “senso dello stato”. Oltre all'indifferenza degli alleati regionali, Barzani si trova di fronte avversari politici che lo accusano già da anni di cupidigia e nepotismo, di indentificare alleanze politiche e relazioni tribali e di clan e gli attribuiscono la responsabilità del grave deficit di bilancio del KRG.

L'effetto più significativo delle dimissioni di Barzani è l'emergere delle divisioni politiche all'interno del KRG, ancor più gravi perché legate a rivalità tribali profondamente radicate. A poche ore dall'annuncio delle sue dimissioni dalla presidenza, mentre il parlamento regionale si accingeva a ratificarle, gruppi di giovani vicini al KDP hanno tentato di fare irruzione. Nel mirino di questi gruppi sono finite inoltre le sedi dell'emittente televisiva NRT di Shaswar Abdulwahid, vicina all'opposizione (già agli inizi di settembre uomini armati ne avevano attaccato gli uffici di Dohuk, al grido di “sì al referendum”) e le sezioni di Dohuk del PUK e di Gorran.

Anche nello scacchiere politico regionale la debolezza del KRG può avere conseguenze nefaste, costituendo un nuovo focolaio di tensioni. La Turchia, tradizionalmente alleata del KRG a guida Barzani, non ha perdonato a quest'ultimo l'ostinazione nel voler indire il referendum per l'indipendenza. Al punto che un paio di settimane fa il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha ricevuto il primo ministro iracheno Haider al-Abadi, a poco più di un anno dal loro aspro scontro. “L'avventurismo turco può provocare una guerra regionale”, aveva dichiarato al-Abadi, scatenando l'ira di Erdoğan, che aveva replicato: “non sei il mio interlocutore, non sei al mio livello”. Una riconciliazione improvvisa motivata dalla spinosa questione curda, oltre che dal commercio dell'oro nero.

È probabile che a preoccupare Ankara sia la consapevolezza che un KRG debole, con Barzani e il suo partito-clan non saldamente al potere, ridurrebbe notevolmente la sua influenza sulla regione. In Iraq infatti sta crescendo il peso dell'organizzazione Badr, partito politico filo-iraniano che ha la sua milizia all'interno delle Unità di mobilitazione popolare, un corpo di paramilitari in maggioranza sciita, fondato nel 2014 per combattere i cartelli del jihad. L'influenza iraniana sarebbe in aumento anche nella regione di Kirkuk, dove la popolazione turcofona dei turkmeni è in maggioranza sciita, mentre le dimissioni di Barzani potrebbero spianare la via a un'ascesa del PUK, che con Tehran ha storicamente buone relazioni. Si potrebbe tuttavia inserire il riavvicinamento tra Turchia e Iraq nel quadro dell'alleanza stretta di recente tra Turchia, Iran e Russia (anche a livello commerciale), che ha consentito ai tre paesi di giocare un ruolo chiave nei negoziati per una soluzione diplomatica del conflitto siriano. Negli ultimi mesi, infatti, anche Iran e Russia hanno firmato importanti accordi commerciali con l'Iraq e Ankara non intende cedere il passo.

Contestualmente, si inaspriscono le relazioni tra Turchia e Stati Uniti: l'instabilità nelle aree del KRG ricche di petrolio ha reso le riserve di Tehran una valida alternativa. Washington ultimamente ha inasprito le sanzioni, mettendo a rischio quello che alcuni analisti definiscono un accordo oil-for-goods, che comporterebbe una cooperazione finanziaria. A New York è ancora in corso il processo contro l'imprenditore turco Reza Zarrab, accusato di aiutare l'Iran a eludere le sanzioni. Intanto, il primo novembre il presidente russo Vladimir Putin è stato in visita ufficiale a Tehran per incontrare il presidente iraniano Hassan Rohani, la Guida suprema della rivoluzione, ayatollah Ali Khamenei e il presidente dell'Azerbaijan Ilham Aliyev. Oggetto di discussione la “cooperazione politica, economica, culturale e umanitaria”, la “lotta contro il crimine e il terrorismo” e soprattutto strade, oleodotti e gasdotti.

October 26, 2017

Nel programma di Berlusconi e Lega, ora è ufficiale, c’è anche la Lira come seconda moneta. Berlusconi lo ha annunciato Sabato 14 Settembre , nella sua visita ad Ischia. Dunque, ci sarebbe , in prospettiva, anche il varo della nuova Lira. Il pensiero berlusconiano, assecondato, peraltro, anche da Salvini , non dovrebbe rappresentare una complicazione nell’attuazione , anche perché non andrebbe in contrasto con i dettami della UE. Infatti, nella sostanza, la Lira non creerebbe debito, purché applicata con il Signoraggio puro, cioè lo Stato che crea moneta a seconda del proprio fabbisogno interno, facendo stampare la moneta da Bankitalia e pagandone solo le commissioni, quindi senza interessi , e senza creare debito, perché relegata solo all’interno dello Stato, senza emissioni di titoli. Quindi lo Stato pagherebbe solo la stampa della moneta. Si calcoli che oggi un biglietto da 100 euro, tanto per fare un esempio, costa tra i 20-30 cnt di euro. Nel caso della lira, il costo verrebbe pagato con i soldi stampati, comunque una pulce in un bosco. Quindi, con la circolazione della Lira solo all’interno del Paese si otterrebbero numerosi vantaggi. lo Stato potrebbe intervenire massicciamente sulla ripresa, attraverso la ristrutturazione di imprese, anche acquisendole in toto od in parte, finanziando cantieri stradali, opere necessarie di ogni genere, ristrutturazione delle Ferrovie, ecc. Di conseguenza, fine delle criticità delle imprese, che hanno visto paesi esteri, dalla Cina a Francia e Germania in primis, far man bassa delle nostre imprese a prezzi di saldo, ed anche con conseguenti negatività sull’occupazione. Ed infine, quando i prezzi fossero espressi in Lire ce ne sarebbe anche la convenienza all’interno Paese. Un conto è pagare un cappuccino un euro, ed un altro 1.000 lire. E l’Euro? Solo per le transazioni internazionali o per chi viaggia, o comunque abbia rapporti con l’estero. Tra l’altro, stampando moneta propria lo Stato potrebbe anche ridurre il proprio

indebitamento, vendendo Lire ed acquistando Euro. Insomma, la liretta tornerebbe a far sognare ed a far star meglio tutti. Naturalmente Renzi ed il Pd non ci pensano affatto al ritorno della Lira, anche come seconda moneta. Ed il M5S? Sarebbe interessante sapere cosa ne pensano i vertici . D’altronde il malessere generale, e la povertà dilagante, non possono essere più lasciate nelle mani di Germania, Francia e paesi nordici.

Ultimo interrogativo da sciogliere: chi vincerà le elezioni? Certamente, con il Rosatellum, truffa o non truffa che sia, manderà il centro-destra in avanti, anche se il M5S seguirà a ruota, ma non avendo coalizioni rischierà di rimanere alla finestra. Ora, comunque, sarebbe il caso che partiti e movimenti mettano nero su bianco i loro programmi, in modo tale che gli elettori possano confrontarli tra loro e farsi un’idea più certa.

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