L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Politics (373)

    Carlotta Caldonazzo

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June 23, 2018

19/06/2018 -  La Francia è una delle poche (ex) potenze del defunto sistema europeo ad aver preservato e perpetuato dei disegni egemonici su quel che fu il suo impero coloniale, nonostante la perdita  di potere relativo, sia in Europa che nel mondo, e l’affermazione di un nuovo ordine internazionale non più eurocentrico.

In principio fu Charles de Gaulle a voler impedire l’involuzione della Francia da una grande potenza mondiale ad una potenza regionale in declino ed in posizione periferica nel nuovo ordine post-bellico. A  questo scopo, la Francia si dotò dell’arma atomica e tentò di riconquistare gli ex territori imperiali africani attraverso una politica di neocolonialismo economico seguendo l’ambizioso quanto visionario  piano per l’Africa francofona elaborato da Jacques Foccart, uno dei più importanti ideologhi e strateghi dell’era gollista. Il piano di rinascita neoimperiale per la Francia di Foccart non puntava soltanto  alla riconquista dell’Africa, ma all’espansione su ogni territorio francofono del mondo. In questo contesto si inquadrano il sostegno fornito dallo Sdece, i servizi segreti per l’estero, al movimento  separatista quebecchese, e quel controverso “Vive le Québec libre!” gridato da De Gaulle alla folla di Montreal nel 1967.

 

Québec a parte, le mire francesi, dal gollismo ad oggi, si sono rivolte verso l’Africa francofona, di cui si è tentato di condizionarne in ogni modo le dinamiche economiche e politiche attraverso omicidi  politici, colpi di Stato, sostegno a dittature militari e gruppi terroristici, alimentazione di guerre civili e conflitti inter-etnici, creando nel tempo una sfera d’influenza egemonica ribattezzata  "Françafrique", sostanzialmente estesa sull’intero ex impero coloniale.

Foccart è stato il potere dietro la corona da De Gaulle a Jacques Chirac, chiamato per fornire pareri, elaborare strategie, effettuare missioni diplomatiche segrete, dal 1960 al 1995.

Si può affermare che Foccart è stato per la Francia, ciò che Henry Kissinger è stato per gli Stati Uniti, ossia, uno stratega guidato da visioni tanto intelligentemente lungimiranti quanto subdolamente  imperialistiche. La Françafrique è una realtà multidimensionale, agisce infatti sul piano economico, politico, diplomatico ed ideologico di numerosi paesi, dal Magreb al Sahel, all’Africa sub-sahariana.

La sottomissione economica è essenzialmente esplicitata nell’esistenza della cosiddetta* area franco*, di cui fanno parte 14 paesi africani, obbligati ad utilizzare il franco CFA, della cui convertibilità in  euro si occupa il Ministero dell’economia e delle finanze francesi. L’appartenenza all’area franco prevede inoltre che i paesi membri depositino almeno il 65% delle riserve di moneta estera in Francia.  Inoltre, le grandi realtà francesi dei settori energetico e minerario godono di trattamenti privilegiati nello sfruttamento del territorio e nella divisione dei profitti con gli Stati.

"La dimensione politico-diplomatica" riguarda le pressioni fatte ai paesi della Françafrique affinché essi sostengano gli interessi nazionali, le posizioni e le dottrine di politica estera francesi in sede  internazionale, ad esempio in luogo dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. La dimensione ideologica ha riguardato inizialmente il contenimento delle spinte anticoloniali di liberazione nazionale durante  ’epoca della decolonizzazione, in seguito si è concentrata sul contenimento dei movimenti comunisti nel continente foraggiati dall’Unione Sovietica, ed "oggi è principalmente focalizzata su due  fronti: la competizione con l’Italia per l’egemonia su Libia e Tunisia ed il contenimento dell’espansionismo sinico, quest’ultimo molto più difficile del primo obiettivo, tanto che nel vocabolario di politologi e  geopolitici è entrato a pieno titolo il neologismo Cinafrica."                                                                2

I numeri della Françafrique sono impressionanti: oltre 40 interventi militari diretti tesi a difendere regimi filo-francesi, sia democratici che dittatoriali, o ad aiutare dei ribelli a rovesciare dei regimi ostili. Attualmente, la Francia è legata a 12 paesi da accordi militari di tipo difensivo, ed è presente in 10 paesi con delle missioni militari, per un totale di oltre 5mila unità presenti. Dietro la scusante della  guerra contro l’imperialismo delle multinazionali occidentali, la Francia ha utilizzato la compagnia di sicurezza privata dello storico mercenario Bob Denard per combattere in Katanga e Biafra, e tentare dei  ambi di regime in Gabon, Angola, Zimbabwe, Benin, Repubblica Democratica del Congo ed Unione delle Comore. Lo *Sdece* è stato il principale strumento di difesa della Françafrique, coinvolto pubblicamente o presuntamente in numerosi omicidi politici, soprattutto di leader carismatici noti per le loro denunce nei confronti della sottomissione del continente all’imperialismo occidentale: Ruben  Um Byobe e Félix-Roland Moumié dell’Unione Popolare del Camerun, Barthélemy Boganda del Partito Nazionalista Centrafricano, l’oppositore politico ciadiano Outel Bono, l’attivista anti-apartheid Dulcie  September, sino ad arrivare ai mostri sacri del fronte nazionalista africano Thomas Sankara e Patrice Lumumba.

 

Spesso e volentieri i governi francesi hanno sfruttato le tensioni interetniche e interreligiose presenti nei paesi più etno-religiosamente eterogenei per alimentare guerre civili decennali, attraverso le quali mantenere i regimi più ostili, o i territori più ricchi, in un costante stato di assedio e sottosviluppo, utilizzato per acquistare a basso costo materie prime contrabbandate da terroristi e ribelli: un vero e  proprio capitalismo di rapina. Fra il 1967 e il 1970, la Francia è stata coinvolta attivamente nella guerra del Biafra, sostenendo i secessionisti attraverso armi, capitale, mezzi, mercenari, viveri. Insieme  all’intervento in Libia del 2011, la guerra del Biafra rappresenta uno dei capitoli più cupi della storia della Françafrique. La Francia era intimorita dalla prospettiva che la Nigeria, una delle economie più  dinamiche del continente, potesse cadere sotto influenza britannica o sovietica, pertanto alimentò il malcontento presente fra le forze armate e l’etnia Igbo nei confronti del governo centrale per dar  luogo ad un movimento secessionista che frazionasse il paese in maniera permanente. Furono Foccart, la Michelin e la "Société Anonyme Française de Recherches et d’Exploitation de Pétrolières"  (Safrap), a convincere De Gaulle, demoralizzato dagli insuccessi in Algeria e nel Katanga, ad introdursi nella nascente questione nigeriana per accaparrarsi le importanti riserve di greggio presenti nel Biafra.

Un delicato lavoro di diplomazia segreta effettuato da Foccart portò numerosi paesi, europei e africani, a sostenere la Francia nella guerra segreta contro la Nigeria, fra i quali Israele, Portogallo,  Spagna, Rhodesia, Gabon, Sud Africa, Costa d’Avorio, che aiutarono i secessionisti inviando loro armi, scambiando informative d’intelligence, addestrandoli. Un ruolo di fondamentale importanza fu svolto  anche dalle organizzazioni non governative, segno precursore del prossimo avvento delle nuove guerre descritte da Mary Kaldorall’indomani dell’implosione della Jugoslavia; infatti gli aerei della Croce  Rossa francese furono utilizzati per trasportare carichi di armi ai secessionisti. In concomitanza all’appoggio francese ai secessionisti, l’autoproclamato governo del colonnello Ojukwu introdusse corsi di  lingua francese nelle scuole del Biafra e firmò delle importanti concessioni petrolifere alla Safrap. Inoltre fu messa in moto un’efficace macchina propagandistica tesa a dipingere negativamente il governo nigeriano agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, in modo tale da legittimare l’intervento francese nel paese. L’agenzia di stampa fittizia Biafra Markpress, con sede a Ginevra, finanziata dallo Sdece,  diventò la principale fonte d’approvvigionamento delle maggiori testate giornalistiche europee, sfornando oltre 250 approfondimenti sulla guerra del Biafra.

 

Il governo nigeriano fu accusato di aver ridotto in carestia la popolazione biafrana attraverso blocchi navali ed aerei, con l’obiettivo di depurare il paese della componente Igbo. Diversi giornali, tra cui Le  onde, iniziarono a parlare di genocidio.

Una storia di terrorismo psicologico e guerra di informazione molto familiare, se si pensa alle bufale prodotte dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, con sede a Londra, gestito da un solo individuo, e finanziato dal governo britannico, sin dallo scoppio della guerra civile siriana, allo scopo di plagiare l’opinione pubblica mondiale e creare una falsa immagine sul ruolo delle parti in conflitto.                   L’intervento  n Libia del 2011, fortemente voluto dall’allora presidente della repubblica Nicolas Sarkozy, ha riconfermato l’importanza per la Francia di avere l’intero continente sotto la propria egemonia.  La caduta di Gheddafi <https://www.gogedizioni.it/prodotto/libro-verde/> ha significato non soltanto la ri-tribalizzazione della Libia, oramai considerabile uno Stato fallito comparabile alla Somalia, ma  anche tante altre cose: il ridimensionamento della posizione geopolitica dell’Italia nel Mediterraneo e in Nord Africa,* la caduta del paese in una guerra civile che lo ha reso vulnerabile all’avanzata del  Daesh e alla radicalizzazione dei più giovani, la fine del patto italo-libico per il controllo dei confini marittimi ed il contrasto all’immigrazione clandestina.

 

L’interventismo francese nei confronti di un paese tradizionalmente vicino all’Italia è stato reso possibile anche e soprattutto dall’assenza di una classe politica nostrana realmente votata all’interesse  nazionale. Quando nel 1986 gli Stati Uniti decisero di reagire militarmente all’attentato alla discoteca La Belle di Berlino, imputato ai servizi segreti libici, con l’operazione El Dorado Canyon, l’allora  presidente del consiglio Bettino Craxi, suggerito dall’allora ministro degli esteri Giulio Andreotti, decise di avvertire Gheddafi dell’imminente attacco e negò l’utilizzo dello spazio aereo ai velivoli della US Air  orce, nella consapevolezza che la destabilizzazione della Libia avrebbe significato instabilità nel Mediterraneo, quindi lungo le coste italiane.

Oggi assistiamo ad un ritorno dell’interesse nazionale al centro dell’agenda politica del governo italiano, con il ministro dell’interno Matteo Salvini che ha dichiarato di avere in programma un viaggio in  Libia con l’obiettivo di risolvere definitivamente la crisi dei migranti, sulla falsariga di quanto già fatto dal suo predecessore Marco Minniti.

La Francia ha esteso i tentacoli della Françafrique anche in Libia a detrimento di un alleato, membro dell’Unione Europea e della Nato, che ha poi patito, e continua a patire, interamente i costi di  quell’azione antistorica. L’Africa non conoscerà una vera crescita economica ed una duratura stabilità sociale fino a che la Françafrique esisterà, dal momento che essa si nutre del mantenimento del  continente in uno stato di violento asservimento. Allo stesso modo, l’Italia non potrà risolvere la questione dei migranti che andando alla radice: il Sahel, perché è da lì che partono le principali carovane,   sempre lì la Francia ha dispiegati uomini e mezzi, e ha politici sul libropaga, potendo determinare l’arresto dei flussi migratori e generando condizioni di sviluppo che, migliorando la qualità della  ita delle popolazioni locali, possano creare nel continente le opportunità che in migliaia continuano a cercare disperatamente alla volta dell’Europa.

 

Fonte: L!intellettuale dissidente

June 13, 2018

 

 La sovranità limitata dell'Italia - intervista a Giorgio Vitali 1 (video)

 

La sovranità limitata dell'Italia - intervista a Giorgio Vitali 2 (video)

June 11, 2018

 

 

Limitazioni alla sovranità dell'Italia - intervista a Gian Paolo Pucciarelli 1 (video)

 

 Limitazioni alla sovranità dell'Italia - intervista a Gian Paolo Pucciarelli 2 (video)

 

 

 

 

 

 

 

 

June 06, 2018

 Nuove pessime notizie arrivano dal fronte israelo-palestinese. Alcune si potrebbe dire che cozzino pesantemente contro i principi del Diritto universale umanitario che è tale solo se vale per tutti, compresi i prigionieri di qualunque Stato e per qualunque motivo. A maggior ragione vale quando questi sono detenuti politici imprigionati da uno Stato fuorilegge (fuori della legalità internazionale) quale è Israele, e lasciati morire in carcere dopo 4 anni di isolamento, torture e percosse. E’ il caso del prigioniero Aziz Oweisat di 53 anni, morto in isolamento e per mancanza di cure nel più assordante silenzio mediatico rotto, forse, dall’appello lanciato dall’Ambasciata palestinese in Italia affinché una commissione d’inchiesta accerti i motivi del suo decesso.

A questa recente morte in prigione se ne aggiungono altre di manifestanti già feriti dai cecchini israeliani durante le proteste al confine della Striscia di Gaza. Morti che non spengono certo la tensione, nonostante le autorità politiche che governano la Striscia, secondo fonti attendibili, stiano concordando un compromesso per l’ottenimento di qualche miglioramento sul piano umanitario in cambio della fine delle manifestazioni di massa. Se così sarà, gli oltre 12.000 feriti, centinaia dei quali resi invalidi a vita e gli oltre 112 morti, verranno percepiti come vittime di un amaro tradimento perché quel che va considerato, nonostante  la vulgata israeliana fatta propria dai mezzi d’informazione, è che la grande manifestazione di popolo iniziata il 30 marzo per il diritto al ritorno e la fine dell’assedio, non è una manifestazione di Hamas, sebbene i suoi leader –  facilitati dalle accuse israeliane – alla fine siano riusciti a farla percepire come propria invitando la popolazione ad andare ed offrendo trasporto gratis per arrivare ai border.

Una dimostrazione di quanto affermato è data dalle “schegge” esasperate che all’obiettivo della grande marcia non rinunciano e che anche in questi giorni cercano di dimostrare, a costo della propria vita, che possono superare il confine e restituire all’IDF parte di quel che l’IDF ha dato ai palestinesi. Infatti piccoli gruppi di giovani sono riusciti più volte a entrare dimostrando che se i droni israeliani possono bruciare le tende dei palestinesi, anche i palestinesi, sebbene con rischi infinitamente superiori, possono fare altrettanto.

Ma Israele ha la forza per bloccare queste infiltrazioni e la usa, sebbene in modo diverso. Talvolta ne fa uso diretto, uccidendo chi non riesce a sottrarsi alla mira dei cecchini, talvolta invece, come ieri, lascia fare per poi trovare l’immediata giustificazione del mondo alla sua rappresaglia come è successo questa notte. Ricordiamo che per il diritto internazionale la rappresaglia è legittima solo tra Stati belligeranti ed è imputabile allo Stato autore dell’illecito e non ai singoli cittadini, sempre e solo dopo aver accertato i colpevoli e inoltre deve essere sempre strettamente proporzionale all’offesa. Questo in sintesi recita la IV Convenzione di Ginevra e quindi le rappresaglie israeliane, non essendo tra Stati (non risulta che Gaza lo sia e lo Stato di Palestina non è comunque riconosciuto da Israele), non avendo accertato i colpevoli, non essendo proporzionali all’offesa, sono regolarmente illegali.

 

I bombardamenti di questa notte, quindi configurabili in rappresaglia illegale, sarebbero stati la risposta ufficiale all’azione di un gruppo di palestinesi che è penetrato in Israele dal sud della Striscia, nei pressi di Rafah, e ha dato fuoco a una postazione di cecchini israeliani. Perché l’esercito israeliano non sia intervenuto, sebbene in una nota abbia comunicato di essere a conoscenza dell’azione, è intuibile ma non dimostrabile. L’accusa comunque è indirizzata ad Hamas, nonostante non ce ne siano prove.

Che siano stati militanti di Hamas o meno a compiere l’azione non è dato saperlo ma, applicando un ragionamento logico dovrebbero essere elementi sfuggiti al suo controllo visto che Hamas, come detto sopra, starebbe trattando per la fine della grande marcia in cambio di aiuti alla popolazione. Tuttavia, attribuendo ad Hamas qualunque cosa avvenga nella Striscia, il ministro Liberman, dopo i bombardamenti di questa notte – che hanno distrutto due barche destinate a rompere l’assedio portando fuori i malati impossibilitati a uscire e alcune postazioni militari vicino Jabalia – ha sbeffeggiato le Autorità politiche di Gaza invitandole ad ammettere che il loro progetto militare è fallito.

La risposta non poteva che essere una, in questo micidiale gioco di potere in cui le vittime fungono da pedine, la risposta è stata che le proteste popolari saranno alimentate dalla repressione e Israele non riuscirà con la sua violenza a indebolire la determinazione del popolo gazawo.

In effetti, dopo settant’anni di invasione, repressione e occupazione, nonostante le innegabili lacerazioni del tessuto sociale dovute a rivalità politiche e a una forte spaccatura tra movimenti laici e movimenti religiosi, il popolo palestinese, tutto, ha contraddetto la convinzione che Ben Gurion, il fondatore dello Stato israeliano, espresse nell’aprile del ’48 quando affermò che “i vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno”. Infatti non è bastata la violenza dell’occupante e il sostegno di cui gode a livello internazionale a spezzare la determinazione di questo popolo e probabilmente non basterà.

E’ più facile che l’idea di Ben Gurion si realizzi con altri mezzi e Israele, con l’aiuto della sua intelligente propaganda, di una sapienza notevole di psicologia delle masse e del ricorso al sempiterno potere della corruzione in situazioni di bisogno, potrebbe riuscirci. Ma è un obiettivo difficile da raggiungere e probabilmente Israele non ci riuscirà se i palestinesi, e i gazawi in particolare, si renderanno conto per tempo che qualcuno sta tentando di trasformarli da popolo resistente e dignitoso, a popolo di questuanti depressi e disperati.

La partita, secondo chi scrive, ora si gioca su questo terreno oltre che su quello della violenza che l’occupante comunque non abbandonerà finché ci sarà una resistenza che, in forme diverse, seguiterà a opporsi al suo strapotere anche semplicemente seguitando a chiedere il riconoscimento di diritti inalienabili, non solo per i palestinesi, ma per la stessa sopravvivenza del diritto internazionale che sotto la falce israeliana rischia di diventare  solo simulacro di se stesso.

 

Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza

May 30, 2018

May 10, 2018


 
 Aldo Moro e Peppino Impastato

08.05.2018 - Il 9 maggio è la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi. Sono passati 40 anni da quando nello stesso giorno, il 9 maggio 1978, sono stati trovati morti Aldo Moro e Peppino Impastato. Il primo ucciso dai terroristi che volevano abbattere lo Stato e l’altro dalla mafia che si presentava come Stato alternativo.
Di Aldo Moro sono fissate nella memoria collettiva le immagini del corpo fatto ritrovare nel bagagliaio di una R4 rossa a pochi passi dalle sedi dei due partiti popolari italiani del dopoguerra, la DC e il PCI. Di Peppino Impastato furono ritrovati soltanto brandelli del corpo, dilaniato dall’esplosivo, sparsi nel raggio di decine di metri.
Aldo Moro è stato il politico che più di tutti ha cercato di costruire un ponte tra cattolici e comunisti, che ha consentito di approvare riforme importanti per i diritti nel lavoro, nella scuola e nella sanità. Peppino Impastato si è ribellato al sistema mafioso, che abitava a 100 passi di distanza, che permeava la sua famiglia e il suo paese (Cinisi), denunciando gli interessi economici perseguiti dai clan con la connivenza di apparati dello Stato.


Aldo Moro fu tra coloro che scrissero la Costituzione e fu il primo firmatario dell’Ordine del giorno approvato all’unanimità l’11 dicembre del 1947 in cui si dice: “L’Assemblea Costituente esprime il voto che la nuova Carta Costituzionale trovi senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado”. Nel 1958, quando Moro fu nominato Ministro dell’Istruzione, mantenne la promessa Costituzionale e istituì l’insegnamento obbligatorio dell’Educazione Civica nelle scuole medie e superiori. Peppino Impastato è nato nel gennaio del 1948 insieme alla Costituzione della Repubblica Italiana. Nel 1967 partecipò alla “Marcia della protesta e della speranza”, organizzata da Danilo Dolci, dalla Valle del Belice a Palermo, così descritta: “gruppi di giovani, con cartelli inneggianti alla pace e allo sviluppo sociale ed economico della nostra terra, confluiscono con incredibile continuità nella fiumana immensa dei manifestanti”.
Aldo Moro trascorse le ultime settimane di vita in un cubicolo di 2 metri quadrati, senza spazio per camminare. Fu ucciso per una sentenza pronunciata da un sedicente “tribunale del popolo”, che intendeva colpire il cuore dello Stato. Peppino Impastato non sopportava le ingiustizie, soprattutto quelle autorizzate dallo Stato. Negli anni ’70 fu in prima linea nelle lotte contro la speculazione edilizia, l’apertura di cave da riempire di rifiuti, la realizzazione di un villaggio turistico su un terreno demaniale, la costruzione di una nuova pista dell’aeroporto. L’art. 9 della Costituzione stabilisce che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.


Aldo Moro nelle lettere scritte dalla “prigione del popolo” mise a nudo la logica aberrante del potere, con il suo “assurdo e incredibile comportamento”, a tal punto di arrivare a chiedere alla moglie di “rifiutare eventuale medaglia”, essendo ben consapevole della fine. Peppino Impastato contrastò le collusioni della politica con la mafia, con grande creatività, organizzando un carnevale alternativo, con una sfilata di cloni che dileggiavano i potenti del paese e con la trasmissione radiofonica “Onda pazza”, in cui si raccontavano in modo dissacrante le storie di “mafiopoli”.
Il funerale di Aldo Moro venne celebrato senza il corpo dello statista per esplicito volere della famiglia, che non vi partecipò, ritenendo che lo Stato italiano poco o nulla avesse fatto per salvare la sua vita. Al funerale di Peppino Impastato parteciparono migliaia di giovani compagni, nell’indifferenza della gente del paese di Cinisi, nascosta dietro l’omertà delle finestre chiuse. Nelle prime indagini si ipotizzò che Peppino Impastato fosse saltato in aria mentre stava compiendo un attentato. In nome del popolo italiano furono i giudici Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto a riconoscere la matrice mafiosa dell’omicidio di Peppino Impastato.


Aldo Moro fu rapito mentre si stava recando in Parlamento, il giorno della presentazione del nuovo Governo, sostenuto da un’alleanza innovativa, che si era “tanto impegnato a costruire”. Il 6 maggio 1978 il gruppo politico di Peppino Impastato, con riferimento ad Aldo Moro, diffuse nel paese di Cinisi un volantino in cui si leggeva: “Di fronte alla possibilità, che trapela dal modo in cui si conclude il comunicato delle B.R., che l’assurda condanna a morte non sia stata ancora eseguita, rivolgiamo un ultimo appello alla trattativa in nome della vita e per la difesa del diritto a lottare delle masse popolari”. Peppino Impastato, candidato nella lista di Democrazia Proletaria, alle elezioni del 14 maggio 1978 fu eletto consigliere comunale da morto.
Le immagini di Aldo Moro e di Peppino Impastato, persone molto diverse, per una coincidenza di data, per un destino che li accomuna, tendono ad avvicinarsi. Tutti noi siamo in debito verso entrambi, uomini coerenti e attenti al nuovo che avanza, assetati di giustizia e con la voglia di cambiare, ognuno nel proprio contesto, al di fuori e dentro le istituzioni.
Aldo Moro scrisse che commemorare significa “non solo ricordare insieme, ma ricordare rendendo nuovamente attuale” e parlò della necessità di “pulire il futuro”.


Oggi sarebbe un segno dei tempi se un Comune italiano intitolasse una via ad “Aldo Moro e Peppino Impastato”, uniti nella memoria. Facile immaginare che quella strada ogni anno il 9 maggio sarebbe inondata da tanti giovani, per rendere vive le vittime della violenza, per promettere impegno e dare gambe a quelle speranze che Aldo Moro e Peppino Impastato hanno cercato di realizzare.

Per gentile concessione dell'agenzia di Stampa PRESSENZA

April 30, 2018
 
 (Foto di Democracy Now)

29.04.2018 - Credo che la “Dichiarazione di Panmunjom per la pace, la prosperità e l’unificazione della Penisola Coreana” (https://www.pressenza.com/it/2018/04/dichiarazione-panmunjom-la-pace-la-prosperita-lunificazione-della-penisola-coreana/) scaturita dallo storico summit fra le due Coree meriti alcune riflessioni ulteriori, oltre la pioggia di commenti che vi è stata. Intanto dissolve una minaccia che è stata agitata per quasi 30 anni, ed ha prodotto l’effetto esattamente contrario a quello che si diceva di volere.

Personalmente ho sempre ripetuto e argomentato da un anno a questa parte la convinzione:

  •          che la resistibile ascesa nucleare della Corea del Nord sia stata diretta responsabilità della politica di minacce e imposizioni degli Stati Uniti (https://www.pressenza.com/it/2017/05/la-resistibile-ascesa-nucleare-della-corea-del-nord/);
  •          che il Presidente nord-coreano Kim Jon-un non fosse affatto il “pazzo” che veniva descritto in modo strumentale e caricaturale, ma che il suo comportamento fosse invece molto lucido (ora qualche commento lo paragona a un lucido giocatore di scacchi);
  •          che fosse invece farneticazione velleitaria il “fire and fury” di Trump; che in realtà gli Usa fossero sotto scacco (per riprendere la metafora), perché un attacco militare a Pyongyang era ed è assolutamente impensabile e irrealistico (https://www.pressenza.com/it/2018/02/bottone-piu-grosso-dice-le-balle-piu-grosse/);
  •          che qualsiasi passo negoziale dovesse partire dalla presa d’atto che la Corea del Nord è ormai a tutti gli effetti uno Stato nucleare (per inciso, uno dei tanti effetti perversi del cosiddetto “regime di non-proliferazione” instaurato dal TNP del 1970, che è stato invece un “regime di proliferazione” pilotata dalle potenze nucleari);
  •          ed infine che la sola soluzione possibile fosse che le due Coree prendessero in mano il proprio destino sottraendolo alle manovre perverse delle grandi potenze.

Mi soffermerò solo su qualche punto che, se pure è stato considerato nei tanti commenti, merita una riflessione più specifica.

 

Che cosa implica la denuclearizzazione?

Penso che l’aspetto che più ha richiamato l’attenzione del pubblico sia quello della “denuclearizzazione”: il modo in cui esso viene impostato merita un commento approfondito, perché chi non segua da vicino questi problemi può non cogliere alcuni punti fondamentali .

In primo luogo si deve osservare che non si parla di smantellamento dell’arsenale nucleare di Pyongyang, di “denuclearizzazione della Corea del Nord”, come era richiesto finora come condizione dagli Stati Uniti. Si parla invece dell’«obiettivo comune di realizzare, attraverso la completa denuclearizzazione, una Penisola Coreana libera da armi nucleari» (the common goal of realising, through complete denuclerization, a nuclear-free Korean Peninsula). Questo è un obiettivo ben diverso e di portata molto maggiore, e non solo per la penisola coreana. Non è solo Pyongyang, infatti, ad avere introdotto le armi nucleari nella penisola: gli Stati Uniti inviano regolarmente aerei e navi con capacità nucleari verso la Corea del Sud per esercitazioni militari. È un aspetto che parla direttamente anche a noi, che ospitiamo tra le 40 e le 70 testate termonucleari statunitensi, e abbiamo 11 porti che ospitano visite di navi a propulsione nucleare, che dai primi anni Novanta non dovrebbero più trasportare bombe nucleari, ma non possiamo averne la certezza in caso di crisi internazionali, come per esempio l’attacco alla Libia.

La questione poi delle Nuclear Free Zones[1] è di scottante attualità perché richiama direttamente la regione nella parte opposta del continente asiatico – il Medio Oriente – dove minaccia di riesplodere la crisi riferita all’Iran, con la prospettiva sempre più concreta che Trump non certifichi nuovamente in maggio l’accordo sul nucleare JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) del luglio 2015. In questa regione sono in ballo l’arsenale di Israele e le testate termonucleari statunitensi schierate in Turchia. Vale la pena richiamare alcuni fatti che forse non molti hanno presenti. In primo luogo la “Dichiarazione di Teheran” sottoscritta il 21 ottobre 2003 da Francia, Germania e Gran Bretagna con l’Iran, a fronte dell’impegno di Teheran di sviluppare solo tecnologia nucleare civile: la UE si impegnava a cooperare per la realizzazione di una “Zona Libera da Armi di Distruzione di Massa in Medio Oriente”[2]. Senza contare quello che era stato praticamente l’unico risultato positivo nel fallimento della VIIa Conferenza di Revisione del TNP del maggio 2005, l’impegno a convocare per il 2012 una Conferenza Internazionale per rendere il Medio Oriente «Zona Libera da Armi Nucleari e di Distruzione di Massa», con esplicito riferimento (per la prima volta) all’arsenale nucleare di Israele, e l’invito esplicito ad aderire al tnp e ad accettare le ispezioni della iaea. Israele, dopo avere esercitato pressioni fortissime sugli usa, reagì in modo furioso, dichiarando che mai avrebbe partecipato a questa conferenza[3], che poi di fatto non fu mai convocata. Insomma, promesse di marinaio!

La  Dichiarazione di Panmunjom parla quindi anche di altri problemi e indica la strada di possibili soluzioni. Ed propone anche un percorso concreto, con l’affermazione che “La Corea del Sud e del Nord hanno concordato di cercare attivamente il sostegno e la cooperazione della comunità internazionale per la denuclearizzazione della Penisola Coreana”.

Questa è la vera posta in gioco. L’impegno della chiusura del centro nucleare di Punggye-ri nel nordest del Paese, dove sono stati condotti i sei test nucleari, sarà probabilmente un segnale positivo, d’immagine, ma certamente non risolutivo.

 

Quale “pace” e “sicurezza”?

È già stato ampiamente sottolineata l’importanza storica dell’obiettivo di concludere finalmente, a distanza di 65 anni dalla Guerra di Corea (1950-1953), un Trattato di Pace. Così come l’intenzione di “stabilire un permanente e solido regime di pace nella Penisola Coreana”, che però dovrà affrontare e risolvere alcuni nodi cruciali e complessi. In primo luogo la presenza in Corea del Sud di circa 25.000 soldati statunitensi. Per non parlare delle esercitazioni militari che si svolgono periodicamente nelle acque limitrofe alla Corea del Nord, e che non danno certamente un segnale di “sicurezza”.

Queste brevi considerazioni rafforzano l’importanza storica dell’incontro di Panmunjom.



[1]              Esistono attualmente quattro trattati che contemplano divieti in parte diversi, ma come minimo proibiscono lo schieramento, la sperimentazione, l’uso e lo sviluppo di armi nucleari all’interno di una particolare regione geografica: Trattato per la Proibizione di Armi Nucleari In America Latina e nei Caraibi (Trattato di Tlatelolco, 1985); Trattato per la Zona Libera da Armi Nucleari del Pacifico del Sud (Trattato di Rarotonga, 1985; la Nuova Zelanda ha un’ulteriore legislazione interna che vieta l’ingresso nei suoi porti di imbarcazioni a propulsione nucleare, o che portino armi nucleari, che non è invece vietato dal trattato di Rarotonga: questa norma ha creato problemi con gli Stati Uniti); Trattato per la Zona Libera da Armi Nucleari del Sud Est Asiatico (Trattato di Bangkok, 1995); Trattato per la Zona Libera da Armi Nucleari dell’Africa (Trattato di Pelindaba, 1996). Vi sono poi altri trattati che vietano specificamente esplosioni nucleari di qualsiasi tipo e lo smaltimento di scorie radioattive: il Trattato sull’Antartide (1959), il Trattato sullo Spazio Esterno (1967), e il Trattato sui Fondi Marini (1971).

[2]              Ma un voluminoso documento della UE del 5 dicembre 2005 (http://ue.eu.int/uedocs/cmsUpload/st14520.en05.pdf) sulle strategie contro la proliferazione di armi di distruzione di massa, pur premettendo un riferimento ai tre pilastri del TNP (non-proliferazione, disarmo e usi pacifici), non faceva poi più alcun riferimento agli obblighi di disarmo nucleare nel corpo del documento e nelle azioni e i finanziamenti che proponeva! Evidentemente la UE ha un grosso problema interno costituito dagli arsenali e dai progetti nucleari della Francia e della Gran Bretagna. Ma – come per molti altri aspetti dei rapporti internazionali – avrebbe un grosso peso una decisione dell’Europa di procedere al disarmo nucleare: una decisione unilaterale in questo senso, concordata possibilmente con altri Stati nucleari, metterebbe nell’angolo anche gli Stati Uniti e renderebbe per loro assai problematico proseguire da soli sulle linee attuali.

[3]              Sulla pervicace ambiguità mantenuta da Israele sul proprio arsenale nucleare v. ad es. A. Cohen, Israel’s Nuclear Future: Iran, Opacity and the Vision of Global Zero, in C. McArdle Kelleher, J.V. Reppy (eds), Getting to Zero, Stanford University Press, Palo Alto, 2010.

 

Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza

April 23, 2018

Tra i “prodotti” mediorientali degli sviluppi geopolitici successivi al crollo dell'Unione Sovietica c'è la Turchia, aspirante membro dell'Unione Europea, ma anche pilastro dell'Alleanza atlantica (NATO): in Siria, Ankara raccoglie i frutti del suo pragmatismo politico dell'ultimo trentennio

 

 

Lo scorso 21 aprile, in un'intervista alla rete privata NTV, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato che la principale minaccia per la Turchia sono i partner strategici, criticando gli Stati Uniti e i loro alleati per il loro sostegno ai curdi delle Unità di difesa popolare (YPG) nella guerra contro i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (IS). “Noi (turchi) non possiamo comprare armi dagli USA con il nostro denaro”, ha lamentato Erdoğan, “e purtroppo gli USA e le forze della coalizione danno gratuitamente queste armi, queste munizioni a organizzazioni terroristiche”. Quindi, ha accusato direttamente “i paesi occidentali” di strumentalizzare i terroristi dell'IS per sostenere “organizzazioni terroriste separatiste” curde. Dopo il suo commento ostentatamente equilibrato agli attacchi di USA, Francia e Gran Bretagna contro presunti siti di produzione e stoccaggio di armi chimiche in Siria, il presidente turco ha dunque marcato nuovamente le differenze tra Ankara e Washington: questa volta con il pretesto che dopo aver proposto all'ex presidente USA Barack Obama una collaborazione nella lotta contro il terrorismo, la Turchia è stata costretta ad affrontare questa guerra da sola, a causa della tattica temporeggiatrice degli Stati Uniti. Un riferimento all'operazione Ramo d'ulivo, lanciata da Ankara il 20 gennaio scorso: alcune regioni nella Siria settentrionale, tra le quali Afrin, ha precisato Erdoğan, sono state già “pulite” dalla presenza dei “terroristi”.

Per il presidente turco, la parola “terroristi” indica principalmente le YPG curde, che fanno riferimento al Partito dell'unione democratica (PYD), vicino al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Questo partito è ufficialmente ritenuto organizzazione terroristica anche dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea, che nondimeno hanno sostenuto le YPG nella guerra contro i cartelli del jihad. Contraddizioni simili hanno permesso alla Turchia di imporsi come attore protagonista nello scacchiere mediorientale, al punto tale da poter agire in piena autonomia da tutti gli altri attori regionali e mondiali. Questo è stato infatti il tono del ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu, la scorsa settimana, quando ha affermato che contrariamente alle aspettative del presidente francese Emmanuel Macron, il lancio di missili in Siria non è riuscito a “separare” la Turchia dal suo alleato russo. “Possiamo pensarla diversamente”, ha spiegato Çavuşoğlu, “ma le nostre relazioni con la Russia sono troppo solide per essere interrotte dal presidente francese”, anche se “non sono un'alternativa” a quelle con la NATO. Ankara conduce quindi una politica “conforme ai suoi interessi”, come ha puntualizzato il portavoce del governo turco, il vice primo ministro Bekir Bozdağ, senza schierarsi “pro o contro un paese”.

Sulla stessa linea si è espresso il 22 aprile il ministero degli Esteri turco a proposito dell'ultimo Rapporto sui diritti umani del Dipartimento di Stato USA. Il rapporto “privilegia i punti di vista di fonti legate ai terroristi”, “ignora i fatti” ed è “fondato su una considerazione distorta della responsabilità”, perché dà credito alle accuse di “circoli legati ai terroristi”. Esso inoltre ignora la lotta che la Turchia sta conducendo “contro il gruppo terrorista radicale FETÖ”, acronimo di Fetullahist Terrorist Organization, etichetta con cui le autorità turche bollano i sostenitori veri e presunti del predicatore islamico in esilio negli USA Fethullah Gülen. In proposito, il ministero degli esteri turco ha commentato che “non è una coincidenza che un simile rapporto, che riporta le parole di gruppi legati al terrorismo e descrive la lotta contro il terrorismo come un conflitto interno, è scritto in un paese dove vive il capo di FETÖ”. Sarà interessante ora osservare l'atteggiamento di Çavuşoğlu alla prossima riunione dell'Assemblea Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a New York, prevista per il 24 e 25 aprile, sul tema della pace.

Erdoğan è riuscito quindi a instaurare relazioni con tutte le parti coinvolte nel conflitto siriano i cui interessi siano compatibili, almeno in una certa misura, con quelli della Turchia. Anche al di fuori del complesso quadro mediorientale, Ankara si dice pronta ai negoziati per aderire all'Unione Europea, ma reagisce duramente a qualsiasi tentativo da parte di Bruxelles o di singoli paesi europei di mettere in dubbio i metodi autoritari delle autorità turche. Inoltre, dopo quasi due anni di tensioni con la Grecia, a seguito della decisione di Atene di concedere l'asilo agli ufficiali turchi fuggiti dopo il tentativo di colpo di Stato del luglio 2016, Erdoğan ha affermato la necessità di una “pace”, apprezzando la volontà del primo ministro greco Alexis Tsipras di “voltare pagina”.

A questa “versatilità” in politica estera, corrispondono, sul fronte interno, l'impazienza di applicare la riforma costituzionale (approvata da un'esigua maggioranza al referendum del 2017) e la volontà di dare al nuovo sistema presidenziale una connotazione di massa. Per questo, consumata la rottura con l'antico alleato Gülen, Erdoğan cerca i consensi del tradizionale elettorato islamico (in buona parte conquistato proprio grazie a Gülen), pur mantenendo una solida alleanza con il Partito del movimento nazionalista (MHP) di Devlet Bahçeli. È a quest'ultimo che tende la mano quando, ad esempio, si scaglia contro USA e UE, perché i suoi voti potrebbero essere decisivi in vista delle prossime elezioni legislative e presidenziali. Una delle ragioni principali per cui il presidente turco ha voluto anticiparle al prossimo 24 giugno (erano previste per novembre 2019), su suggerimento di Bahçeli, è il rischio rappresentato da Meral Akşener, ex esponente dell'MHP che ha rotto con il partito e con Bahçeli a causa dell'atteggiamento di quest'ultimo, giudicato troppo compiacente nei confronti di Erdoğan. Soprannominata “la signora di ferro”, la Akşener ha fondato il Partito del bene (25 ottobre 2017), per proporre una forma di nazionalismo laico, critico nei confronti dell'islamizzazione della Turchia, ma anche della repressione scatenata da Erdoğan dopo il tentativo di colpo di Stato. Secondo le leggi turche, i partiti che non abbiano tenuto almeno un congresso nei sei mesi precedenti non possono partecipare alle elezioni: anticipando la data di queste ultime, la Akşener potrebbe essere esclusa dalla competizione.

Una scelta che è costata al presidente turco non poche critiche da parte delle opposizioni, che si sommano alle perplessità espresse dall'ONU a proposito della proroga (per la settima volta) dello stato di emergenza in Turchia. In proposito, Erdoğan ha chiarito che “lo stato di emergenza colpisce solo i terroristi”, quindi è una forma di tutela. Quanto alle elezioni, ha specificato che tutti i partiti potranno condurre la loro campagna con maggiore serenità e che “i brogli che si verificano alle elezioni americane non esistono nelle nostre elezioni”.

April 12, 2018

Il 18 marzo le Forze Armate Turche (TSK) della Repubblica di Turchia insieme alle forze armate dell’Esercito Libero Siriano (FSA) sono entrate nel centro di Afrin in Siria.
Dopo circa due mesi di scontri con i membri dell’Unità di Protezione Popolare (YPG-J) il governo al potere in Turchia ha ottenuto ciò che voleva. L’obiettivo dell’operazione era quello di “liberare la città dai terroristi”, anche perché le forze YPG e YPJ e la loro espressione partitica PYD sono state definite da parte del governo AKP (Partito dello Sviluppo e della Giustizia) come delle “organizzazioni terroristiche”.

In realtà non è stato soltanto il partito al governo da più di 15 anni ad adottare una definizione del genere. L’operazione è stata difesa da una buona parte della cittadinanza, oppure è stato fatto di tutto perché fosse così.

In questa seconda parte del mio approfondimento parlerò dei mezzi e dei metodi utilizzati dal governo per giustificare questa operazione.  In primis i media, ma non soltanto, si sono messi a disposizione del governo. Insieme analizzeremo come la scuola pubblica, lo sport ed il mondo degli artisti sono stati utilizzati per creare un’opinione pubblica a favore della guerra.

Neanche un mese dopo l’inizio dell’intervento militare, un gruppo di artisti ha deciso di andare nella città di Hatay, al confine siriano, per dimostrare solidarietà ai soldati. Yavuz Bingöl, Tamer Karadağlı, Erhan Yazıcıoğlu, Erhan Güleryüz, Mustafa Ceceli e Zuhal Yalçın sono i primi nomi che saltano all’occhio. Il titolo dell’iniziativa era “Gli artisti insieme ai soldati”. Alla conferenza stampa, il 15 febbraio, era presente anche il vice presidente generale dell’AKP, Harun Karacan. Dopo l’incontro con la stampa i partecipanti sono andati in una caserma militare per incontrare i soldati e farsi delle fotografie. Tra i promotori dell’iniziativa c’era anche il cantante Erhan Güleryüz, l’ex solista del gruppo musicale Ayna. Güleryüz ha detto nel suo intervento: “Siamo qui per dire ai nostri soldati che gli 80 milioni di cittadini sono con loro”.

Pochi giorni dopo, il 23 febbraio, con un’iniziativa lanciata su internet da una serie di artisti, sono stati mandati numerosi messaggi di solidarietà ai soldati in missione. Mentre il famoso cantante di musica arabesca, Ibrahim Tatlises, definiva i soldati come degli “eroi”, la famosa attrice Hulya Koçyigit scriveva così: “ogni giorno prego perché i soldati ritornino sani e salvi a casa” e la famosa cantante Sibel Can scriveva queste parole per mostrare il suo sostegno: “Allah aiuti i nostri soldati”.

 

Forse il peggio è arrivato quando l’operazione si è conclusa. Il primo aprile un gruppo di artisti, insieme al Capo dello Stato Maggiore e al Presidente della Repubblica, si sono trovati in una caserma militare nella città di Hatay. Il cantante Ahmet Şafak ha descritto così il motivo della sua presenza in quel luogo: “Siamo qui accanto ai nostri figli. Abbiamo dimostrato che teniamo all’unità del nostro Stato e riteniamo che sia implacabile l’unità della nostra nazione turca”. Questa iniziativa è stata criticata duramente dai partiti all’opposizione (CHP e HDP) soprattutto per via delle canzoni patriottiche cantate dai cantanti con l’ausilio degli strumenti musicali in caserma. Il leader del Partito Popolare e Repubblicano, Kemal Kiliçdaroglu, ha trovato scorretto questo gesto allegro fatto in un contesto di morte. All’incontro erano presenti anche alcuni sportivi.

Con questi gesti “simbolici” il mondo artistico ha contribuito alla costruzione dell’immagine dell’operazione come se fosse una guerra d’indipendenza.

Il secondo campo, a livello nazionale e popolare, in cui si è cercato di legittimare e normalizzare la guerra, è stato il mondo dello sport.

Il primo marzo un gruppo di sportivi, insieme a un gruppo di artisti e numerosi parlamentari e dirigenti locali dell’AKP, sono andati nella città di Kilis per incontrare i soldati. Il 7 febbraio la società sportiva Aski Spor insieme ad alcuni atleti olimpici, ha lanciato un video messaggio in cui venivano pronunciate queste parole: “Sono nostre queste terre che abbiamo conquistato lottando nel 1071. E’ nostra questa patria”. Pochi giorni dopo l’inizio dell’operazione militare sono arrivate le prime notizie sulla morte dei soldati. Così la Federazione Turca Calcio (TFF) ha deciso di dedicare un minuto di silenzio prima di ogni partita “per commemorare i nostri martiri”. Ovviamente nelle tribune non mancava lo storico slogan patriottico “I martiri non muoiono, la patria non si spacca”. Nelle tribune non c’erano soltanto queste frasi ma c’erano anche dei momenti di grande coreografia. Prima della partita di calcio tra Konyaspor e Galatasaray, i tifosi della squadra anatolica hanno occupato una sezione intera scrivendo “Afrin” ed hanno alzato dei cartelli con scritto “Turchia”; in sottofondo non mancava un inno militare ottomano.

Il 15 marzo, alla luce dell’anniversario della vittoria militare dei Dardanelli del 1915, nelle tribune dello stadio appartenente alla squadra calcistica di Istanbul Basaksehir, si è vista sorgere la mappa rossa della Turchia con la bandiera disegnata sopra, i soldati con le divise dell’epoca ed in un angolo un soldato moderno che alzava la bandiera turca. Al centro di questo poster gigantesco c’erano alcuni giocatori della squadra che facevano il saluto militare. Sotto invece si leggeva questa frase: “Anche oggi, come il 18 marzo 1915, vinceranno i credenti, non quelli che sono in maggior numero”.

Ormai si parlava dell’operazione “Ramoscello d’ulivo” come di un intervento totalmente corretto e legittimo. Nei messaggi dei membri del governo, degli artisti e del mondo sportivo si leggevano soltanto parole nazionaliste e patriottiche. Si parlava di “conquistare” un territorio che per alcuni, in realtà, “era già nostro”. Non c’era spazio per avere dubbi sulla legittimità della guerra. Per chi avesse avuto qualche dubbio, invece, erano aperte le porte dei centri di detenzione. Di questo parlerò nel prossimo pezzo.

Come già detto, anche il mondo della musica ha sostenuto questa operazione militare. Il gruppo rap Geeflow ha lanciato il suo video su internet a favore dell’operazione. Il 24 febbraio è uscito il pezzo col titolo “Ramoscello d’ulivo”. Alcuni versi della canzone recitano: “Se ci sacrifichiamo, possiamo accedere al paradiso, se versiamo il nostro sangue, la patria diventa nostra”. Nel video ovviamente non mancano le immagini dei soldati e degli scontri, anche se non in modo netto e chiaro. Anche il rapper Yunus Akpunar si è dedicato a questa missione ed ha usato anche lui il nome dell’operazione come titolo del suo pezzo. In questo caso si vede il cantante allacciare i suoi anfibi e portare una casacca militare mentre canta la canzone. Alcuni versi del pezzo dicono: “Ci sono diversi terroristi nascosti tra di noi, facciamoci attenzione. Ci sono tanti traditori che vorrebbero dividere il nostro paese. Facciamoci attenzione e non dimentichiamoci dei nostri antenati”. In alcune immagini del video si vede il cantante sventolare la bandiera turca con una mano mentre con l’altra tiene una pistola grigia.

Un altro pezzo musicale invece è di Idris Altuner. Stavolta si tratta di un lavoro diverso. Mentre i pezzi rap sono tanti, Altuner decide di fare un pezzo tradizionale utilizzando gli strumenti e le melodie dell’orchestra militare ottomana, Mehter. Si tratta di un video professionale di alta qualità. Il cantante è vestito con dei costumi antichi e tradizionali. Durante il video si vedono i musicisti dell’orchestra Mehter. Nel pezzo in cui si vede il cantante andare su un cavallo in Cappadocia, Altuner pronuncia queste parole: “La vittoria si espanda da Afrin a Mimbic, tremino le montagne con il rumore degli anfibi del Turco”.
Forse la parte più aggressiva, per via dei suoi protagonisti, di tutta questa campagna di propaganda della guerra è quella del mondo della scuola.

Il 4 marzo, nella città di Bursa, gli studenti del Liceo Gursu Yildiz, si sono riuniti nel cortile della scuola per scrivere con i loro corpi la parola “Afrin” mentre li riprendeva un drone. Come sottofondo del video c’è una canzone militare ottomana. Nella città di Karabuk, sulla costa del Mar Nero occidentale, presso il Liceo Cumhuriyet un gruppo di studenti è sceso nel cortile per fare un’azione simile. Nel loro caso il lavoro svolto era più sofisticato. Mentre alcuni studenti scrivevano, con i loro corpi, “Ramoscello d’ulivo”, altri sventolavano una grande bandiera turca ed un altro gruppo con vestiti militari leggeva “il giuramento del commando”. Ovviamente anche in questo caso tutto è stato ripreso da un drone e nel video si sente una canzone militare ottomana.

In altri casi invece, oltre alla coreografia all’aperto, sono state fatte delle preghiere collettive di solidarietà con i soldati in missione. Proprio come nel caso della Scuola Femminile per gli Imam della città di Manisa, vicina alla costa dell’Egeo, dove 130 studentesse prima hanno scritto “Ramoscello d’ulivo” con i loro corpi, poi sotto la direzione del preside hanno letto delle preghiere.

Un altro caso di preghiera collettiva invece è stato fatto nella scuola elementare di Birikim Okullari di Istanbul. Stavolta la rappresentazione si è svolta all’interno, su un palco. Un gruppo di bambini che hanno, molto probabilmente, meno di 10 anni, si sono uniti con i palmi rivolti verso il cielo. Al centro un bambino prega per il bene della nazione e dei soldati ad Afrin e in sottofondo si sentono gli altri dire “Amen” in modo collettivo. Il video realizzato con gli studenti delle elementari si conclude con un pezzo ripreso all’aperto in cui si vedono decine di bambini sventolare una grande bandiera turca gridando: “I martiri non muoiono, la patria non si spacca”.

L’operazione militare “Ramoscello d’ulivo” è stata un elemento di grande dimostrazione di potere del governo ed è stata utilizzata anche per rafforzare i sentimenti nazionalistici già presenti nel tessuto sociale e storico del Paese. In realtà il governo AKP non ha fatto nulla di nuovo. In Turchia il terreno è molto fertile per le politiche nazionaliste e religiose, la sua storia è piena di periodi del genere. Il sentimento/l’orgoglio nazionalista ha radici molto profonde nella storia dei cittadini ed è il frutto di una serie di politiche nel mondo dell’istruzione, dell’arte, dello sport e non solo.

Dove non è stato possibile ottenere il sostegno popolare a favore dell’operazione militare, il governo, insieme al sistema giudiziario e alle forze dell’ordine, ha attivato il meccanismo della repressione e della censura. Questo sarà il tema del prossimo pezzo di questa serie.

da l"Avanti"

April 06, 2018

Venerdì 6 aprile presidii di fronte alle Prefetture e nelle piazze siciliane-A Catania alle ore 17,30 in via Etnea, angolo via Prefettura

Il giro d’Italia 2018 quest’anno partirà da...Israele. Dietro un contributo di MILIONI di euro da parte di Israele, gli organizzatori del Giro hanno deciso di far diventare lo sport uno strumento di propaganda; le prime tre tappe del Giro d’Italia partiranno da città israeliane, con partenza da Gerusalemme ovest. Tale scelta non è casuale, soprattutto dopo che il Presidente USA Donald Trump ha tentato di far dichiarare all’ONU Gerusalemme capitale di Israele. Che, se mai avvenisse, sarebbe l’atto simbolicamente conclusivo dell’annessione dei territori palestinesi. Anche il mese della data della partenza non è causale. Il 15 maggio 2018 è il 70° anniversario della creazione dello Stato d’Israele. Ma questa è anche la data che sancisce la Nakba, ossia la deportazione del popolo palestinese a seguito dell’occupazione del 1948.

Il 30 marzo, Giornata della Terra per il popolo palestinese, l’esercito israeliano ha ucciso 17 palestinesi e ne ha feriti 1630 nell’illusione di poter fermare la Grande Marcia per il Ritorno. I crimini israeliani, da decenni denunciate da decine di risoluzioni dell’Onu, sempre disattese, proseguono grazie alle collusioni del complesso militare industriale occidentale ed alle complicità politiche degli Usa, dei governi europei e delle petro-monarchie arabe; le stesse istituzioni del nostro paese si rendono complici dello stato sionista avviando progetti comuni di sviluppo e di produzione di armamenti, che coinvolgono non poche Università italiane, promuovendo esercitazioni militari congiunte e fornendo materiale bellico. Denunciamo inoltre la subalternità di quasi tutti i media che hanno falsato la realtà di ciò che è accaduto nella Striscia di Gaza: non scontri o guerriglia , ma criminali cecchini israeliani che hanno fatto il tiro a segno su migliaia di donne, bambini ed uomini palestinesi.

Oramai non c’è più spazio per l’ipocrita equidistanza fra vittime e carnefici!

Facciamo appello al governo, dimissionario, Gentiloni ed a tutte le forze politiche, all’UCI (Unione Ciclistica Internazionale) di non essere complici dei crimini sionisti, strumentalizzando un momento di sport popolare, e di adoperarsi affinchè vengano annullate le 3 tappe del Giro d’Italia in Israele (4-5-6 maggio).

Chiamiamo alla mobilitazione tutte le realtà solidali con la resistenza del popolo palestinese durante le tappe siciliane, a partire dalla prima in Italia l’8 maggio a Catania, aderendo alla campagna internazionale “CambiaGiro”.

Boicottiamo l’economia di guerra israeliana

Lo sport è libertà Lo stato d’Israele è morte

Terra, Vita, Libertà per il popolo palestinese

                 Comitato catanese di Solidarietà col popolo palestinese (seguici su FB)

                                                                                                  Assemblea regionale di Solidarietà col popolo palestinese

Catania: https://www.facebook.com/events/1986077491642097/

Palermo: https://www.facebook.com/events/2016603235245794/

Messina: https://www.facebook.com/events/668123156859193/

https://bdsitalia.org/index.php/la-campagna-bds/comunicati/2404-massacro-a-gaza-giornata-della-terra

https://bdsitalia.org/index.php/la-campagna-bds/ultime-notizie-bds/2405-pacbi-usa

https://www.facebook.com/nena.newsagency/videos/1824468334281906/?fref=gs&dti=367794229301&hc_location=group

http://nena-news.it/gaza-hrw-uccisioni-di-manifestanti-illegali-e-calcolate/

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