L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Politics (357)

    Carlotta Caldonazzo

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September 08, 2017

kjkfiiSul referendum consultivo nel Kurdistan iracheno molte le perplessità della comunità internazionale: conflitti politico-tribali, crisi economica, ma soprattutto le possibili ripercussioni sullo scacchiere regionale.

 

Il prossimo 25 settembre, nella Regione autonoma del Kurdistan iracheno (KRG), è previsto un referendum consultivo che chiamerà gli elettori a pronunciarsi sull'indipendenza. Il quesito è: vuoi che la regione del Kurdistan e le aree curde al di fuori dell'amministrazione della regione diventino uno stato indipendente?

 

Le aree al di fuori dell'amministrazione del KRG includono città economicamente e strategicamente importanti (come Kirkuk, Khanqin, Sinjar e Makmor, occupate dai peshmerga curdi nel conflitto con il cosiddetto Stato islamico) e il cui controllo è motivo di disputa con il governo centrale iracheno. Anche per questo, con l'eccezione di Israele, favorevole a un'eventuale indipendenza del KRG, la comunità internazionale ha espresso le sue perplessità a riguardo, richiamando al rispetto del diritto internazionale (Russia) e della costituzione irachena (Iraq, Iran, governo siriano) e al dialogo con il governo di Baghdad (Russia e Unione Europea) e argomentando che sarebbe meglio rinviare la consultazione a data da definirsi, per non perdere di vista le priorità attuali in Medio Oriente (Stati Uniti e Gran Bretagna) e per non creare altri conflitti. Turchia e Iran, inoltre, hanno chiamato in causa il rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale irachene.

 

Oltre all'Iraq, la questione curda riguarda anche Siria, Turchia e Iran. In Siria i curdi, grazie alle vittorie sul campo nella guerra contro i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (IS), cui ha contribuito il sostegno USA, hanno proclamato la Federazione democratica della Siria settentrionale, modello di stato multietnico e multiconfessionale, alternativo al KRG. La sua impostazione politica è, teoricamente, ispirata a principi come il confederalismo democratico, l'ecologia e la parità di genere, propalati da oltre un decennio da Abdullah Öcalan, guida del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), ancora detenuto nel carcere turco di massima sicurezza di İmralı. Il suo progetto, abbandonata la linea marxista dopo il crollo dell'Unione Sovietica, era indurre la società curda (in particolare in Turchia, ma non solo) a superare i retaggi feudali e tribali, ma da questo punto di vista i risultati sono ancora modesti, complice l'arretratezza economica. Al PKK, inoltre, i curdi siriani del Partito di unione democratica (PYD) e della sua ala armata, le Unità di difesa popolare (YPG), devono in buona misura i successi bellici, ma i legami con questo partito rischiano di minare il loro “esperimento politico” e di privarlo di una qualsiasi legittimazione internazionale. Intanto, il PKK da qualche anno raccoglie un numero crescente di consensi tra i curdi iracheni, molti dei quali sono insoddisfatti della gestione del KRG da parte del presidente Massud Barzani e del suo Partito democratico del Kurdistan (KDP)e non trovano alternative valide nelle altre forze politiche, l'Unione patriottica del Kurdistan (PUK, indebolito dal ritiro dalla vita politica di Jalal Talabani) e il movimento Gorran, fondato nel 2009.

Tale evoluzione preoccupa alquanto la Turchia (che pure ha ottime relazioni con il KDP di Barzani), anche perché, da quando Öcalan è in prigione, le redini del PKK rischiano di passare nelle mani di personalità meno propense al dialogo e a rinunciare alla lotta armata, iniziata nel 1984. Qualche speranza di soluzione del conflitto era venuta dal processo di pace avviato nel 2013 dall'allora primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan e da quest'ultimo interrotto nel 2015. La distensione, peraltro, è resa più ardua dall'emarginazione cui il governo di Ankara ha condannato il Partito democratico dei popoli (HDP), di cui dieci esponenti, compreso uno dei due presidenti, Selahattin Demirtaş, sono in carcere per condanne relative al terrorismo, mentre altri quattro, tra i quali l'altra presidente Figen Yüksekdağ, si sono visti revocare il mandato parlamentare. Impedendo all'HDP di avere una rappresentanza parlamentare proporzionale al consenso riscosso tra la popolazione, Erdoğan rischia di avvalorare la tesi dell'inefficacia di una soluzione politica per il Sud-est a maggioranza curda, “affidandone”, di fatto, la gestione all'artiglieria.

 

In Iran, dove la comunità curda è più integrata nel tessuto sociale, il presidente Hassan Rohani, che nel dicembre 2016 aveva promulgato la Carta dei diritti del cittadino (volta a garantire pari diritti a tutti i cittadini della Repubblica islamica), ha visto aumentare negli ultimi mesi la tensione tra i curdi e le autorità iraniane. Il Partito democratico del Kurdistan iraniano (PDKI, legato al KDP ed esiliato nel KRG da circa vent'anni) ha annunciato di voler riprendere la lotta armata per indebolire la Repubblica islamica, come ha dichiarato di recente il suo leader Mustafa Hijri. Scontri tra gruppi armati curdi e l'esercito iraniano si sono verificati dal 2015, con ingenti perdite da entrambe le parti. Ma la principale preoccupazione di Tehran riguarda i curdi salafiti, alcuni dei quali si sono arruolati nelle formazioni jihadiste in Iraq, compreso l'IS. Basti citare Abu Aisha al-Kurdi, che ha più volte attraversato il confine tra Iran e Iraq prima di essere ucciso nel novembre 2016 dalle forze di sicurezza di Tehran. Secondo il Ministero dell'intelligence iraniano, inoltre, almeno quattro componenti dei due commandos che lo scorso 7 giugno hanno assaltato il Parlamento iraniano e il Mausoleo di Khomeini a Tehran erano salafiti curdi. Rohani ha scelto la linea diplomatica e della distensione: alleanze e intese con Russia e Turchia e la nomina, lo scorso agosto, di un curdo come Ministro del Petrolio. Si tratta di Bijan Namdar Zangeneh, che dal 1984 ha ricoperto cariche simili durante i governi di Mirhossein Mousavi, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e Mohammad Khatami.

Persino tra i curdi iracheni non tutti sono d'accordo con il referendum sull'indipendenza, che in molti considerano un espediente demagogico di Massud Barzani e del KDP per distogliere l'attenzione dalla cattiva gestione dell'economia e della società della regione, anche prima dell'inizio del conflitto con l'IS. Alla radice della questione c'è la struttura sociale curda, tribale e ancorata ai legami familiari e di clan, sostanzialmente ricalcata dall'appartenenza di partito e dalla distribuzione di cariche amministrative e di polizia nella regione. Barzani, membro di una delle tribù più potenti, è stato più volte accusato di un eccessivo accentramento di poteri e un'eventuale indipendenza rischia di acuire le divisioni e gli attriti tra le forze politiche attive nel KRG. Da oltre un secolo, passando per il trattato di Sèvres e per l'accordo di Losanna, i curdi sono stati spesso strumentalizzati dalle potenze mondiali e regionali che, dopo aver promesso loro autonomia o indipendenza, una volta raggiunti i loro scopi, hanno voltato loro le spalle. Per citare un esempio, gli USA negli anni '70 sostenevano lo Shah di Persia che istigava la rivolta dei curdi contro l'Iraq filo-sovietico di Ahmad Hassan al-Bakr. Ma, dopo l'accordo tra Tehran e Baghdad del 1975, che pose fine alle dispute sul confine, Washinton e lo Shah negarono il loro appoggio ai curdi, lasciando che la loro insurrezione venisse repressa nel sangue.

 

La perplessità della maggior parte della comunità internazionale sul referendum sull'indipendenza del KRG ha dunque una motivazione pragmatica, ossia il timore delle ripercussioni di una vittoria del sull'intera regione: su paesi già sfiniti dalla guerra come Siria e Iraq, sulla Turchia, membro fondamentale dell'Alleanza atlantica (NATO), e sull'Iran, che ha in corso con la comunità internazionale un delicato negoziato sul programma nucleare. Inoltre, anche a proposito di un eventuale referendum in Catalogna, occorrerebbe riflettere lucidamente sia sull'opportunità di fondare stati fragili e geopoliticamente deboli in un'epoca di globalizzazione (processo che ha svuotato di senso il concetto di stato-nazione), sia sull'esito disastroso della disgregazione di entità statali eterogenee come la Federazione jugoslava e il Sudan, dalla cui dissoluzione sono nati stati che ancora oggi non godono di alcuna forma di autosufficienza. Trattandosi di indipendenza, sarebbe opportuno dunque chiedersi: indipendenza da cosa?

September 06, 2017

fwbn04.09.2017 - Mesi fa 108 ricorrenti presentarono una causa legale che chiedeva che venga stabilita una legislazione che regoli le funzioni della Commissione per l’Energia Atomica Israeliana (IAEC), i suoi ruoli, autorità, forma di organizzazione e gestione, e per chiedere il controllo delle sue attività e dei suoi impianti. In qualsiasi paese democratico è una cosa ovvia, un settore così importante non può essere lasciato al completo arbitrio del governo.

Infatti l’IAEC fu creata nel 1952, ma i suoi ruoli e i metodi di controllo delle attività non sono mai stati regolati da una legge: essi furono stabiliti con ordini amministrativi segreti, emessi dall’allora Primo Ministro David Ben-Gurion, e in seguito con una serie di decreti governativi pure segreti. La Commissione si occupa di temi che riguardano la salute e la sicurezza dei cittadini israeliani, compresi la sicurezza nucleare, l’autorizzazione degli impianti e delle attività, il trattamento delle scorie nucleari (pensiamo alle vicende e le contestazioni del progetto di deposito nucleare nazionale in Italia), oltre ad essere consulente del governo per la politica nucleare.

È appena il caso di ricordare che Israele non ha mai ammesso ufficialmente e pubblicamente l’esistenza del suo arsenale nucleare, e non ha aderito al Trattato di Non Proliferazione: che cosa accadrebbe in qualsiasi altro paese che tenesse segreto ai suoi stessi cittadini il proprio arsenale nucleare?

Il governo israeliano aveva chiesto alla Corte Suprema di rigettare totalmente la causa, senza nessuna udienza, sostenendo che la Corte Suprema non ha l’autorità di ordinare al primo ministro di legiferare. Ma la Corte ha respinto la posizione del governo: questa è la prima volta nella storia dello Stato di Israele che una corte esercita una critica legale sulla IEAC e le sue attività. Durante l’udienza i giudici si occuperanno dei regolamenti più segreti dello Stato di Israele, e decideranno se essi sono soddisfacenti e se consentire al governo di continuare ad usarli, oppure accettare la richiesta dei ricorrenti di stabilire una legislazione che regoli le operazioni e consenta un reale controllo.

Shimon Dolev, Direttore del Movimento Israeliano per il Disarmo, ha dichiarato che “il solo fatto che la Corte Sprema esaminerà questo caso è una vittoria. … Speriamo che a seguito di ciò, sia che vinciamo o che perdiamo, avremo alla fine una discussione vera sulla natura del controllo della IAEC e delle sue strutture. Questa non è la fine del ‘regno del segreto’, l’ambiguità nucleare di Israele non cambierà, ma la sicurezza dei cittadini deve essere tenuta in conto più della convenienza dello Stato e della Commissione”.

Si tenga presente che la IAEC ha il compito di controllare che il reattore nucleare di Dimona operi secondo la legge e non in segreto: il reattore fa parte del centro segreto nel deserto del Negev in cui è stato sviluppato l’arsenale nucleare di Israele.

Anche il Prof, Avner Cohen, dell’Istituto Internazionale Middlebury di Monterrey, autore del libro Israel and the Bomb (1998), ha riconosciuto la novità senza precedenti di questa udienza, perché la Corte Suprema riconosce che la situazione attuale è altamente problematica.

 

Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza

August 22, 2017

ISIS/SITE: tocca a voi!

 

A proposito dell’annuncio post-Barcellona di un imminente attentato in Italia,  ce ne sono stati altri che minacciavano sfracelli in Vaticano, al Colosseo, la conquista di Roma. Ma stavolta potrebbe essere diverso. Intanto la notizia proviene da fonte autorevole e credibile: il sito SITE di Rita Katz, portavoce e diffusore da anni del jihadismo più efferato, in particolare dell’ISIS, con il quale la collaborazione nella promozione di quel panico che si sa funzionale alle aggressioni belliche e all’instaurazione di regimi di polizia, è stretta e, come provano i risultati, efficacissima. Senza l’istantanea diffusione a dimensione mondiale dei più raccapriccianti video e comunicati, prodotti con la nota perizia professionale dagli studios del mercenariato imperialista, di cui siamo debitori a Rita Katz, titolare del sito SITE, gran parte del messaggio terrorizzante e intimidatorio assegnato ai protagonisti della guerra al e del terrore sarebbe andata persa.

 

Rita Katz, ufficiale israeliano e portavoce Isis

Non deve stupire, data l’intesa strategica sugli obiettivi, l’amalgama Israele-jihadisti, evidenziato nel concorso israeliano alle operazioni sul campo dell’Isis e di Al Nusra e nel recupero israeliano di combattenti jihadisti curati negli ospedali allestiti sul Golan. Così non può sorprendere che Rita Katz, israeliana ex-ufficiale di Tsahal e da allora e sempre agente  dei servizi israeliani, abbia costruito il meccanismo per il quale ogni azione e ogni parola del terrorismo jihadista entri nel conscio e nel subconscio delle popolazioni di mondi da condizionare. I grandi vecchi della guerra al/del terrorismo, la testa della piovra gigante, hanno in SITE lo strumento indispensabile perchè di ogni iniziativa jihadista non sia perso l’effetto propagandistico: odio per l’Islam e guerre, panico e autorepressione. Piovra che alla periferia, per la penetrazione anche in nicchie potenzialmente refrattarie, si avvale dei formidabili tentacoli della grande informazione internazionale, a partire dal New York Times e, scendendo per li rami, dei tentacoli di seppioline mediatiche come gli organi ripetitori italiani, non escluso l’apporto di meduse tossiche dai peletti urticanti come “il manifesto”.

 Ci si dovrebbe porre una domanda facile facile, ma che nessuno si pone perchè sarebbe un po’ come utilizzare un piede di porco contro la cristalliera: come mai a nessuno è mai venuto in mente di indagare per quali vie un video Isis, tipo che mostra un gruppo di esseri umani chiusi in gabbia, incendiati e poi affogati, sia riprodotto istantaneamente nel canale di Rita Katz. Con chiaro effetto glorificatore. Domanda alla quale potrebbe appaiarsi l’altra, circa una totale apatia, se non accidia, del dotatissimo  apparato investigativo, di sorveglianza, di controllo, sviluppato in occidente con le nuove tecnologie, rispetto a qualche indagine su natura e dislocazione degli avanzatissimi studi e macchinari dai quali escono le perfette produzioni audiovisive dei jihadisti. E siccome le domande, volendo, sono come le ciliege, si potrebbe considerare che l’assenza di queste domande, epocali quanto ne sarebbe la risposta, equivale a quella che per anni, fino all’arrivo dei bombardieri russi, non si è posto l’interrogativo di cosa fossero, da dove venissero, dove andassero (a Haifa) , cosa contenessero, quali profitti generassero e per chi, le colonne di cisterne che viaggiavano alla luce del sole tra pozzi petroliferi di Iraq e Siria sotto occupazione Usa-Isis-curdi, Turchia,  mare e porti israeliani? 

 

Siamo diventati discoli 

Ma lasciamo il fumo e torniamo all’arrosto. Perchè a questa nuova, diretta minaccia post-Barcellona di Rita Katz/Isis andrebbe dato più rilievo che alle passate smargiassate contro papa e Colosseo? Perchè prima non risultava esserci motivo per impartire all’Italia una qualche lezione imperiale via terroristi sedicenti islamisti. Le minacce erano fuffa, fumo che obnubilasse un po’ di cervelli perchè chiedessero “Strade sicure”, soldati agli angoli della metro e accettassero le intemerate della Boldrini per l’accoglienza senza se e senza ma e contro le fake news. Poi nell’opinione pubblica è incominciato a muoversi la sensazione che con tutti questi migranti, tutti da noi, con queste Ong che andavano a raccattarli dai trafficanti, qualcuno puntava a fregarci. Noi e pure i migranti. La coperta buonista su certe malefatte in mare veniva lacerata da politici e magistrati.

E, a coronamento dell’insubordinazione ai piani imperialisti, appaltati a Soros, un ministro italiano, che evidentemente non aveva imparato la lezione Moro, è uscito dallo sgabuzzino dove curano le scope della villa i nostri politici, e ha messo la mordacchia a un anello della filiera criminale che svuota paesi per alluvionarne altri. Insomma è spuntato qualcosa e qualcuno che minacciava di far vedere nudo il re. E questo è niente: quando gli era stato fatto capire che l’ENI doveva limitarsi a fare le pulizie alle Sette Sorelle, che Roma doveva starsene lontana dal gas del Mediterraneo, che a occuparsi di Al Sisi, dell’Egitto e della Libia, cuore della regione, ci pensavano Usa, UK, Francia, ma mica i loro subalterni, addetti all’accoglienza e basta, Roma non si è addirittura azzardata di far tornare l’ambasciatore al Cairo! Lo svuotatore di posaceneri che si intrufola nella partita di briscola?  E Rita Katz ha tuonato.

 

Regeni e Oxford Analytrica, la sete di verità dei regeniani

Vogliamo allargarci, eccedere in domande impudiche, anche riguardanti campi lontani, ma pur sempre connessi a quelli di cui sopra? Sappiamo, anche se il silenzio sulla cosa è di tomba (a offesa di quella in cui è rinchiuso Giulio Regeni), che tutti sanno che il giovanotto, definito ricercatore a Cambridge, ma invece, o anche, collaboratore dell’agenzia internazionale di spionaggio e affari sporchi vari “Oxford Analytica”, al Cairo andava sfrucugliando soggetti sindacali “indipendenti”, potenzialmente sovversivi, ai quali, per conto dei suoi mandanti, offriva ricchi fondi perchè presentassero e attuassero “progetti” (testuale nel video). .

Qualche timido tentativo di risalire a dove originava la missione di Regeni, consultando i suoi referenti a Cambridge, ebbe piena collaborazione  quanto alle domande poste dagli investigatori italiani. Lo dichiarano quelli di Cambridge, lo negano i corifei italiani di Regeni e di Aegyptum delendum est. Sarà, non sarà. Ma la domanda da un milione e passa di verità è un’altra. Stabilito, sebbene sottaciuto, che Regeni aveva lavorato, almeno per un anno e mezzo, ufficialmente per Oxford Analytica, prima di spostarsi al Cairo per offrire progetti a oppositori del governo, alle dipendenze e su disposizioni di provati criminali come John Negroponte, David Young e l’ex.capo-spione britannico McColl, c’è un solo motivo al mondo che spieghi perchè coloro che si sono arrabattati da 17 mesi per Regeni e contro Al Sisi, con un accanimento degno della neutralizzazione di Mengele, non si siano mai occupati di Oxford Analytica, non siano mai andati a sentire che cosa il ragazzo ci facesse tra le grinfie di quei pendagli da forca che avevano insanguinato interi continenti?

Un autentico antimperialista come Manlio Dinucci, valido illustratore delle mene militari di Usa e Nato attorno al resto del mondo, che ancora si pregia di poter inserire la sua settimanale pecetta nell’angolo più remoto del “manifesto”, sarebbe titolato a porre questa domanda ai colleghi del “manifesto”. Forse a lui risponderebbero. Sempre che non siano troppo impegnati, come in questi giorni, a raddrizzare la barca delle bufale su Al Sisi, Regeni, il terrorismo, riempiendo paginate con interviste su Regeni e Al Sisi ai rinomati professori dell’Università Americana del Cairo, noto covo di intelletti antimperialisti, o ai tanti che, nel web e sui giornali, sbertucciano o demoliscono il presidente di questa povera repubblica, sottoposta a una dittatura che reprime ogni libertà d’espressione. Salvo quella di dire peste e corna dell’assassino di Regeni.

 

Fonte: http://fulviogrimaldi.blogspot.it

LInk: http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2017/08/il-katziatone-di-
rita-katz-o-zitti-e.html
August 21, 2017

16 agosto 2017 10 <http://www.maurizioblondet.it/adesso-sappiamo-mandato-morte-regeni/#comments>

Il giorno in cui finalmente il governicchio Gentiloni rimanda l’ambasciatore al Cairo, ecco che il New York Times, nientemeno, esce con la notizia presunta bomba, che i nostri media servizievoli titolano così:  “Obama diede le prove a Renzi sul ruolo dell’Egitto nell’omicidio di Giulio Regeni”.

*Prove “incontrovertibili”, secondo Repubblica. Poi, leggendo si scopre che i servizi Usa non diedero alcuna prova. Dissero che “non c’era dubbio”, ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero per intero le informazioni di intelligence, né dissero all’Italia quale agenzia** di sicurezza ritenevano fosse dietro alla morte di Regeni, spiega ancora il giornale. *

“Non era chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, ucciderlo”, ha detto al giornalista del Nyt un altro ex funzionario Usa”.

*E sarebbero queste le prove incontrovertibili? Nessun dato di fatto. Nessunissimo.*

E’ così evidente che si tratta di una “operazione” americana di intox, disturbo alla ripresa delle nostre relazioni diplomatiche col Cairo, che non ci sarebbe nemmeno bisogno di perderci tempo, se non fosse per il clamore che ne fanno i nostri giornali. Se invece di essere in malafede sono solo ignoranti, possiamo ricordare a questi incapaci due o tre cose:  *Barak Hussein Obama ha cercato – anzi è riuscito – a portare al potere in Egitto i Fratelli Musulmani,** con la “primavera araba” di ordinanza, e dunque aveva ben forti motivi di odio (personale e politico) contro il generale Al Sisi, che gli ha sventato il piano. E quindi ben motivato a creargli difficoltà con un vicino molto amichevole, Italia, che aveva scoperto per gli egiziani un importantissimo giacimento.*

Obama stesso è fortemente sospettato di essere un fratello musulmano. Quel che è certo è che la sua segretaria di Stato, Hillary Clinton s’è tenuta come braccio destro, confidente intima e forse amante, Huma Abedin, figlia di un importantissimo esponente dei Muslim Brothers, “Syed” Zainul Abedin.

Huma era sposata con Anthony Weiner, il clintoniano di ferro, ebreo, che fu scoperto a fare proposte oscene a ragazzine sui social, con sue foto in cui mostrava le proprie erezioni. Aveva una scusante: Huma è stata continuamente a fianco di Hillary seguendola in tutta la campagna elettorale come consigliera, appunto della campagna.

*Il meno che si possa dire è che i Muslim Brothers e i loro interessi erano ben rappresentati alla Casa Bianca di Obama. E dunque ben piazzati per vendicarsi di Al Sissi.*

<https://i2.wp.com/www.maurizioblondet.it/wp-content/uploads/2017/08/clinton-e-huma-abedin.jpg>

“*La musulmana Huma è l’ombra di Hillary, immancabile al suo fianco come nelle e-mail più confidenziali, e sempre nel mirino dei nemici. Nessuno quanto lei è vicino a Hillary, che quando lavorava da casa, le scrisse via email: «Bussa alla porta della camera da letto se è chiusa» (Corriere della Sera)*

*Adesso sappiamo, grazie alla rivelazione presunta bomba del New York Times, che Giulio Regeni, mandato dall’università di Cambridge a infiltrarsi tra gli oppositori clandestini ad Al Sissi, era fin dal suo arrivo seguito, controllato e intercettato della NSA**, la National Security Agency americana. Sappiamo anche che il sindacalista degli ambulanti Abdallah, che di nascosto girò il video in cui lui chiedeva dei soldi a Regeni (al quale la sua “Università” aveva dato 10 mila sterline per pagare chi di dovere..Tipico, per un ricercatore) aveva fatto quel colloquio-trappola per conto della NSA stessa.*

<https://i2.wp.com/www.maurizioblondet.it/wp-content/uploads/2017/08/Obama-MuslimBrotherhood.jpg>

A che scopo? Per usare l’ingenuo italiano? Per sacrificarlo onde buttare un morto tra i piedi del presidente egiziano, e dell’Eni? Ognuno si risponda da sé, sapendo di quanti doppi giochi, trame storte e delitti si sia macchiato Obama, l’idolo delle “sinistre”,   dalla Libia alla Siria, a cominciare dalle esecuzioni di persone ordinate coi droni, sempre per favorire i Fratelli Musulmani.

*Tutte le ipotesi sono possibili, anche che Regeni sia stato fatto uccidere da loro, gli americani.* Che ci hanno la mano in questo genere di crimini.

Nella pretesa rivelazione,* “alcuni funzionari di Obama erano convinti che qualcuno “di alto grado” del governo egiziano potesse avere ordinato l’uccisione di Regeni “per mandare un messaggio ad altri  stranieri e governi stranieri, cioè di smettere di giocare con la sicurezza dell’Egitto”.*

Già: magari era un messaggio per la NSA. O per quella “università di Cambridge”   che, in base a un progetto chiamato Antipode, aveva affidato all’italiano 10 mila sterline – con cui pagare chi? Per cosa? Ah, pardon “per la promozione e lo sviluppo di ricerche in campo sociale”. Normale che un ricercatore venga imbtttito di soldi da spendere. *Perché nè Antipode né Cambridge hanno mai accettato di  spiegare le cose ai magistrati italioti, e al governo italano? *Non serviva: bastavano le strida e i cartelli delle sinistre sui palazzi comunali, “Verità per Regeni”.

Tra le altre rivelazioni, la più succosa e grave viene espressa così:  “Secondo un funzionario del ministero degli Esteri italiano, i diplomatici erano giunti alla conclusione che l’Eni si era unita alle forze del servizio di intelligence dell’Italia nel tentativo di trovare una rapida risoluzione del caso”, si legge. E “l’avvertita collaborazione fra Eni e servizi di intelligence italiani diventò fonte di tensione all’interno del governo italiano. Ministero degli Esteri e funzionari dell’intelligence cominciarono a essere prudenti gli uni con gli altri, talvolta trattenendo informazioni”, scrive il New York Times Magazine. Che cita la dichiarazione di un funzionario italiano.

Scusate, ma gli Esteri e l’intelligence italiana non dovrebbero lavorare per lo stesso paese e lo stesso scopo?

*Gli americani ci fanno sapere che invece si nascondevano le notizie a vicenda, e ciò perché “l’Eni s’era unita” con la sua, di intelligence, per “trovare una rapida soluzione del caso”. Ciò che Obama, i  Fratelli Musulmani, la NSA di Obama, e “Antipode” non volevano. Complimenti.*

<https://i1.wp.com/www.maurizioblondet.it/wp-content/uploads/2017/08/comune-di-milano.jpg>Sul

Comune di Milano. “La sinistra fa sempre il gioco del grande capiitale. A volte perfino senza saperlo”.

August 21, 2017

vmmA poco meno di un mese dal referendum per l'indipendenza del Kurdistan iracheno, la questione curda potrebbe far convergere gli interessi strategici di Turchia e Iran; sullo sfondo la possibilità di stabilire una cooperazione economica e militare tra Ankara, Mosca e Tehran.

 

Dopo la storica visita in Turchia, la scorsa settimana, del capo di Stato Maggiore della Difesa iraniano, il generale Mohammad Hossein Baqeri, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha espresso l'intenzione di discutere con Tehran una possibile azione militare congiunta contro i combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) e del suo affiliato iraniano, il Partito per una vita libera in Kurdistan (PJAK). Prima della sua partenza per la Giordania, Erdoğan ha reso noto che “un'azione comune contro gruppi terroristici che sono divenuti una minaccia per entrambi i paesi è sempre in agenda”. Possibile obiettivo di queste operazioni sono, secondo i media turchi, le regioni del Qandil e del Sinjar, nel Nord della regione autonoma del Kurdistan iracheno (KRG), già in passato bombardate a più riprese sia dall'aviazione militare turca, sia dall'artiglieria iraniana in quanto basi del PKK. Secondo il sito di informazione Al-monitor, nelle ultime settimane, il Partito democratico del Kurdistan iraniano (PDKI, dichiarato fuorilegge dal 1979 e con basi nel KRG) ha aumentato le azioni armate in Iran, riprese nel 2016 dopo anni di tregua apparente.

Dunque, ad Ankara, il generale Baqeri ha incontrato il suo omologo turco Hulusi Akar, il ministro della Difesa turco Nurettin Canikli e lo stesso Erdoğan, superando, almeno in apparenza, decenni di tensioni, come quelle suscitate dall'accusa a Tehran di sostenere il PKK, avanzata dall'intelligence turca dopo la cattura nel 1999 di Abdullah Öcalan, guida di questo partito. Appare ugualmente superata anche l'appartenenza dei due paesi a diversi sistemi di alleanze nel conflitto siriano: l'Iran è tra gli alleati storici del governo di Damasco, mentre la Turchia, che con quest'ultimo non ha stabilito relazioni di cooperazione (da quando l'ex presidente della Siria Hafiz al-Asad, padre di Bashar al-Asad, ospitò Öcalan dal 1980 al 1998), si è finora adoperata per provocarne la fine. Vale la pena menzionare, infine, che la Turchia ha un peso di rilievo nell'Alleanza atlantica (NATO), organizzazione alquanto ostile all'Iran.

Quella della scorsa settimana è la prima visita ufficiale di un'autorità iraniana in Turchia dal 1979 e la stessa composizione della delegazione di Tehran chiarisce che all'ordine del giorno ci sono la sicurezza e l'integrità territoriale dei due paesi. Al fianco del generale Baqeri c'era infatti il comandante delle truppe di terra del Corpo delle Guardie rivoluzionarie (IRGC), generale Mohammad Pakpour. La visita ha seguito di pochi giorni l'uccisione, da parte dei cartelli del jihad del sedicente Stato islamico (IS), di Mohsen Hojjaji, soldato dell'IRGC inviato in Siria. La guerra al terrorismo è stata dunque uno degli argomenti maggiormente discussi, oltre ai tre aspetti della questione curda: i timori che il referendum per l'indipendenza del KRG, previsto per il prossimo 25 settembre, possa accendere un altro focolaio di tensione nella regione, la possibilità di operazioni militari nel Qandil e nel Sinjar e la necessità di mettere in sicurezza il confine turco-iraniano. Su tutti e tre gli aspetti la collaborazione di Tehran è fondamentale.

Nel maggio scorso, l'Iran aveva accolto con favore il progetto turco di costruire un muro di 70 km lungo il confine, in seguito prolungato a 144 km, che secondo Ankara servirà a bloccare gli “sconfinamenti” dei combattenti del PKK e del PJAK e a rendere più sicuri gli scambi economici via terra tra Iran e Turchia. Stessa funzione e stessa struttura del muro che la Turchia ha costruito al confine con la Siria. In tale contesto, l'accordo su una possibile azione militare congiunta con l'Iran (che ha un ruolo significativo nella ricostruzione dell'Iraq devastato dalla guerra e ha buone relazioni con Baghdad) nel Kurdistan iracheno permetterebbe alla Turchia di evitare, o almeno allontanare il più possibile, eventuali accuse di invasione di un paese sovrano. Per ragioni analoghe, un'eventuale pressione iraniana sul governo centrale iracheno per ottenere un rinvio del referendum sull'indipendenza del KRG a dopo le elezioni politiche di aprile 2018 in Iraq, o che la questione sia dibattuta nel parlamento iracheno, potrebbe risultare più efficace delle mere richieste di Ankara, soprattutto in un momento in cui Erdoğan non gode di particolari simpatie in Europa e negli Stati Uniti. Occorre tuttavia notare che a manifestare perplessità sul referendum sono stati anche paesi “occidentali” come la Germania, gli USA e la Gran Bretagna. In particolare, con Washington le tensioni si sono acuite a proposito del sostegno statunitense in funzione anti-IS ai curdi siriani del Partito dell'unione democratica (PYD, politicamente vicino al PKK) e per il rifiuto di estradare in Turchia il predicatore islamico Fethullah Gülen (che secondo Ankara è la mente del fallito tentativo di colpo di stato del luglio 2016). Il presidente turco, inoltre, sa che nel breve periodo rovesciare con mezzi diplomatici il governo di Damasco è quasi impossibile, quindi potrebbe risultare “utile” un riavvicinamento all'Iran, tradizionale alleato di Damasco e Baghdad, le uniche due autorità attualmente in piedi in grado di dissuadere i curdi da progetti di autonomia o indipendenza.

La visita ufficiale di Baqeri si inserisce nel quadro più ampio di una cooperazione economica e militare tra Iran, Turchia e Russia e precede la sesta tornata di negoziati fra i tre paesi (che si dovrebbe tenere entro la fine di agosto ad Astana, Kazakistan, dopo lo stallo di luglio) sulle zone cuscinetto in Siria e sul possibile dispiegamento di una forza di polizia congiunta nella regione di Idlib. Lo scorso mese, inoltre, Erdoğan ha parlato di un accordo concluso con la Russia per l'acquisto di un sistema di difesa missilistico S-400. Il ministro degli esteri turco ha recentemente sottolineato che “la Russia ha compreso meglio degli USA la sensibilità della Turchia a proposito dell'invio di armi ai curdi del YPG”, anche se Washington afferma di non aver fornito armi a questa organizzazione, ma solo “carri armati e un bulldozer”.

La cooperazione con Russia e Iran riguarda infine importanti accordi economici. La scorsa settimana, la società turca Unit International ha firmato un accordo da 7 miliardi di dollari con la società russa Zarubezhneft e l'iraniana Ghadir Investment Holding per l'estrazione di petrolio e gas naturale in Iran. Con Tehran, la Turchia ha inoltre in ballo la possibilità di aumentare le esportazioni al Qatar attraverso il territorio iraniano. Si tratta di un altro tassello importante nella politica regionale, visto che il 5 giugno scorso Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto hanno interrotto le relazioni con il Qatar, che si era rifiutato di esaudire le loro richieste: interrompere il sostegno a movimenti legati ai Fratelli Musulmani nel mondo arabo, chiudere una base militare turca e ridurre le sue relazioni con l'Iran. Il rifiuto di Doha, la capitale del Qatar, è motivato dalla sua dipendenza dalle importazioni di generi alimentari da Iran e Turchia, che hanno in tal modo trovato un ulteriore punto di convergenza dei rispettivi interessi.

August 20, 2017

18.08.2017 -  Il terrorismo colpisce la pacifica Barcellona, ricordandoci il caos generale che si sta verificando nel mondo a causa dell’ambizione smisurata e della pazzia fanatica.

Barcellona, 18.8.2017. Ieri è toccato a Barcellona subire la follia indiscriminata di un attentato terrorista. L’uccisione di individui mi sembra deplorevole e mi rende molto triste. Potrei dire “di persone innocenti”, ma non voglio fare discriminazioni in questo contesto; qualunque omicidio, qualunque sia la ragione, è di per sé una cosa terribile. E non m’interessano neppure le reazioni postume del potere, che condanna questo genere di attentati per poi proseguire con le politiche discriminatorie e i negoziati perversi. Non mi piace il comportamento dei grandi mass media, che riempiono le pagine principali con parole altisonanti, tacendo invece di fronte alla violenza esercitata giorno dopo giorno contro le popolazioni di tutto il mondo.

Quest’attacco è l’ultimo di una catena di attentati recenti in tutta Europa, benché sia più giusto ricordare che esistono molti più attacchi nel mondo non occidentale, ma la differenza è che non possiedono la stessa copertura mediatica.

Barcellona è una città pacifica, bella, piena di luce, colma di visitatori tutto l’anno. È da premettere che nessuna città merita di essere attaccata, né chi la popola intimidito, ma perché proprio Barcellona, che aspira a diventare una città d’integrazione e giusta, aperta al mondo e alla solidarietà con i più reietti del sistema. Sappiamo già che il caos si sta estendendo poco a poco, partendo dai luoghi centrali in cui si concludono i vari negoziati e si fabbricano milioni di armi che vengono successivamente ripartite nel resto del mondo. Ma quando la barbarie colpisce la tua città, fa più male che mai. Vedere i luoghi da noi frequentati scossi dal terrore, produce in noi uno shock tale, dal quale è difficile riprendersi.

Siamo fragili fisicamente, come dimostrano situazioni come questa, ma possiamo anche essere forti internamente. Questa forza è quella che deve aiutare a imporci su noi stessi e raddoppiare gli sforzi verso una Nazione Umana Universale, un mondo nel quale non vi siano né scontri né competizioni, ma cooperazione e scambi proficui. Tale Forza proviene da un altro luogo, ci collega con altri spazi e altri tempi.

Condanniamo la violenza in ogni sua forma, dalla più brutale vista ieri a Barcellona fino a quella più sottile ed elegante, quella esercitata negli studi dalle grandi banche e dalle multinazionali, quella che prende le decisioni che impoveriscono milioni di persone per poi andare a giocare a golf, quella che fabbrica armi e le vende al miglior offerente per poi condannarne l’uso.

Vogliamo superare questa violenza assurda che ci porta a litigare gli uni con gli altri, mentre una sparuta minoranza si arricchisce alle nostre spalle.

Vogliamo superare l’odio, l’ignoranza e l’egoismo bestiale. Vogliamo uguali diritti e opportunità per tutti, ovunque siano e ovunque vadano. Vogliamo un mondo in cui l’essere umano sia il valore centrale, l’obiettivo della libertà delle nostre azioni.

 

Traduzione dallo spagnolo di Cristina Quattrone

 Per gentile concessione dell'Agenzia di stampa Pressenza

July 22, 2017

B61 nuclear bomb 720x50421.07.2017 - Una notizia diffusa della giornalista Stefania Maurizi, sempre informata e rigorosa, su Repubblica online di ieri[1], sul segreto imposta dalla US Air Force e dal Joint Chiefs of Staff è indubbiamente degna di nota ed inquietante, ma il risalto che ha avuto su certi organi di stampa[2] appare a mio parere un po’ strumentale. Soprattutto a fronte del risalto enormemente minore che è stato dato – con ritardo e accompagnato da riserve – dello storico Trattato di proibizione delle armi nucleari (Tpan) stabilito il 7 luglio scorso a conclusione dei negoziati all’Onu, approvato da 122 Stati, quasi 2/3 terzi degli Stati membri dell’Onu.

Intanto, di che cosa si tratta? È (o dovrebbe essere) a tutti noto che gli Usa schierano in Italia (e in altri paesi europei, ma in numero minore) bombe termonucleari B-61 a gravità, che addirittura stanno ammodernando con lo sviluppo della testata B-61-12 con un programma del costo di $ 10 miliardi. Questo schieramento viene “giustificato” in base al nuclear-sharing (condivisione nucleare) della Nato, con l’affermazione, sia pure pretestuosa, che esso sia autorizzato dal Trattato di Non Proliferazione (Tnp) del 1970.

Il discorso è lungo e complesso. Una prima domanda sorge spontanea: la formulazione del nuovo Tpan, ed anche il lungo negoziato che l’ha prodotto, sono stati scandalosamente ignorati dai media nostrani (solo Avvenire ne ha dato tempestiva notizia, con grande risalto). Le scarse osservazioni che sono state fatte tendono a depotenziarne la portata, continuando invece ad insistere sul vecchio Tnp (tipici a questo proposito il ritardo nel dare la notizia e le riserve espresse dal Manifesto, che ora da un risalto sproporzionato alla presente notizia). È il caso di ricordare che la negoziazione del nuovo Tpan è stata indotta da una forte mobilitazione della società civile internazionale e voluta da una forte maggioranza dei paesi non nucleari all’Onu, i quali erano ormai sfiduciati da decenni di insistenza per il rispetto del Tnp, che dal 1970 prevedeva con l’Art. VI “trattative in buona fede per arrivare al disarmo nucleare, e generale, totali”: negoziati mai avviati! Non solo, ma sotto il regime del Tnp la consistenza degli arsenali nucleari proliferò da 30.000 al numero demenziale di 70.000 nel 1985, e gli stati nucleari proliferarono da 6 a 10! Insomma, nella realtà un trattato di proliferazione ad uso e consumo degli Usa!

Dopo questi sintetici richiami, che ci sembrano doverosi, vediamo che cosa realmente è avvenuto sotto il regime 37-ennale del Tnp: perché se può sembrare giusto chiedere il rispetto del Tnp, ci sembra non solo inutile, ma decisamente fuorviante, intestardirsi a chiedere da un trattato quello che evidentemente non da, mettendo invece in secondo piano la novità storica del nuovo Tpan.

Intanto riporto (con il suo consenso) un’annotazione che ricevo dall’Avv. Claudio Giangiacomo della Ialana-Italia: “all’epoca del Tnp gli Usa non comunicarono l’esistenza degli accordi sul nuclear sharing che pare sia stato comunicato solo per via riservata all’Urss (che ovviamente lo sapeva già ma aveva interessi analoghi per i paesi del patto di Varsavia)”. Ma c’è di più. La presenza delle testate nucleari sul territorio italiano rimanda necessariamente alla presenza e all’assetto giuridico delle basi militari statunitensi e Nato. Ebbene, riporto dei brani di un articolo dell’Avv. Giangiacomo apparso nel Dossier di Mosaico di Pace sul numero di Aprile scorso[3]:

la costruzione e gestione delle basi militari è regolata da convenzioni bi- o  multilaterali tra i paesi della Nato. [I quali] sarebbero dovuti essere stati assunti nelle forme previste dagli artt. 72 ed 80 della Costituzione italiana (procedimenti abbreviati solo in casi d’urgenza, e ratifica da parte delle Camere di trattati internazionali che importino variazioni del territorio od oneri alle finanze): invece è stata utilizzata la cosiddetta procedura semplificata, non prevista dalla Costituzione ma disciplinata dalla legge 11.12.1984 n. 839, senza però, come prescritto, procedere alla loro pubblicazione, sottraendoli così sia al controllo delle Camere che del Presidente della Repubblica. Solo nel 1995 venne firmato  lo “shell agreement” (“accordo conchiglia”), l’accordo quadro fra Italia e Usa sulle basi in Italia, che venne poi pubblicato nel 1998 a seguito della gravissima strage del Cermis (quando un aereo militare americano volando a bassa quota troncò il cavo della funivia, causando 20 vittime). Rimane invece totalmente segreto il Bilateral Infrastrutture Agreement del 20.10.1954 che regola le condizioni dell’utilizzo delle basi americane in Italia, anch’esso approvato con la procedura semplificata. Pur limitandoci a quanto oggi noto, si può sicuramente affermare che le basi non possono in alcun modo ritenersi ‘extra territoriali’.”

Inoltre, saltando altre osservazioni importanti, Giangiacomo afferma che “sia le istallazioni che le medesime operazioni ed attività delle forze ospitate [nelle basi militari Usa], anche per la parte posta sotto il Comando Usa, debbano rispettare le leggi vigenti in Italia, tanto che al Comandante italiano è rimesso il controllo del loro rispetto”.

Da queste osservazioni, risulta evidente la responsabilità diretta del governo italiana per le attività svolte nelle basi militari: tanto più, ci sembra, per l’autorizzazione di ordigni terribili come le testate termonucleari.

Dal nostro punto di vista, si conferma insomma come il Tnp funga nella sostanza come una cortina dietro la quale viene surrettiziamente “legittimata” la presenza delle armi nucleari sul nostro territorio. Giangiacomo rileva ancora come

indipendentemente dalla violazione del Tnp, la permanenza in Italia di ordigni nucleari sia effettuata in palese violazione della legge n. 185 del 9 luglio 1990 che espressamente prevede all’art. 1 comma 7:  Sono vietate la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione ed il transito di armi biologiche, chimiche e nucleari, nonché la ricerca preordinata alla loro produzione o la cessione della relativa tecnologia‘.

Sebbene al successivo comma 9 lett. c) del medesimo articolo si preveda una inapplicabilità della norma in relazione ai materiali di armamento e di equipaggiamento delle forze dei paesi alleati, questa deroga è limitata al transito e non alla permanenza stabile nel territorio italiano.”

In sostanza il governo italiano, anche nella discussione di mozioni al Senato sul nuovo Trattato, seguita a trincerarsi dietro il Tnp e rifiuta di aderire al nuovo Tnap, ignorando bellamente, in primo luogo, gli obblighi che derivano dalle sue proprie leggi.

Questa lunga premessa è per me propedeutica per capire che cosa comporti ora la secretazione dei report sulla sicurezza delle atomiche schierate in Italia (non sulla “dislocazione” come titola Il Manifesto). Osserva ancora Giangiacomo: “Paradossalmente la dichiarazione del segreto apposto dal Pentagono è una ammissione della loro presenza”.

Infatti, il maggiore esperto, Hans Kristensen della Fas, precisa nell’intervista effettuata da Vignarca sul Manifesto di oggi: i report “ci confermano se una certa base abbia o meno missione nucleare. La US Air Force pubblicava tradizionalmente tali informazioni per le installazioni europee ma nel corso del tempo le ha ridotte, per rendere più difficile ad opinione pubblica (e potenziali avversari) capire quali unità fossero o meno nucleari. … Diverso quando un’intera unità fallisce un’ispezione: l’impressione di incompetenza che ne deriva è palese. Come nell’incidente del 2007 alla base di Minot, in cui sei missili nucleari da crociera vennero imbarcati per errore su un bombardiere e portati in giro per gli Stati uniti. A mio parere la decisione di secretare i risultati delle ispezioni cerca di evitare qualsiasi tipo di imbarazzo alle Forze Armate per questo tipo di errori”.

Ma di nuovo, il governo italiano è disposto o no a pretendere dagli Usa la permanenza stabile nel territorio italiano di armi nucleari, vietata dalla legge n. 185 del 9 luglio 1990? I pacifisti vogliono decidersi a pretendere dal nostro governo tale rispetto, invece di trincerarsi sul rispetto del Tnp, che finisce per fare il gioco del governo? E di schierasi compatti, invece, sull’adesione al Tpan, che dichiara l’assoluta illegalità delle armi nucleari, e impone agli Stati che intendano aderirvi di dichiarare “se ci sono armi nucleari sul proprio territorio o in qualsiasi luogo sotto la propria giurisdizione o controllo che siano possedute o controllate da un altro Stato” (Art. 2 comma c[4]), ed ovviamente a pretenderne e garantirne la rimozione per aderire al Tnap. Ed è proprio questo che il governo non vuole, in ossequio ai voleri di Usa e Nato!

Last but not least, mi sia consentito di dire che l’eccessiva drammatizzazione della notizia in questione  fa da pendant alla disinformazione sui principali rischi incombenti delle armi nucleari, il loro ammodernamento che è ben più massiccio e grave di quello delle B-61-12 (mille miliardi di $ a fronte di 10 miliardi!), nonché le migliaia di missili nucleari transcontinentali mantenuto in stato di allerta pronti al lancio immediato (launch on warning) con il rischio concretissimo di una guerra per errore: abbiamo già rischiato per lo meno una ventina di volte questo olocausto nucleare: sotto il regime vigente del Tnp!

[1]     http://www.repubblica.it/esteri/2017/07/20/news/gli_usa_mettono_il_segreto_sulle_armi_atomiche_in_italia-171195615/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6-S1.8-T1

[2]     Ad esempio Il Manifesto, https://ilmanifesto.it/pentagono-top-secret-la-dislocazione-delle-atomiche-in-italia/

[3]               “Apocalisse nucleare?”, Mosaico di Pace, aprile2017, http://www.mosaicodipace.it/mosaico/i/3765.html

[4]             Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons, http://undocs.org/A/CONF.229/2017/8

Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza

July 22, 2017

sfgkDal tentativo di golpe finora è passato esattamente un anno. In Turchia ormai quasi niente è come prima.
La vecchia patria degli Ottomani ormai vive in Stato d’emergenza da un anno. Dopo il tentativo di colpo di stato fallito il governo ha dichiarato questo stato e l’ha rinnovato per ben quattro volte, l’ultimo rinnovo è del 18 luglio 2017. In questo periodo ovviamente sono state prese numerose misure necessarie per identificare, arrestare e lottare contro i golpisti che in una notte hanno ucciso 250 civili e ne hanno feriti circa 2000.

Secondo i dati diffusi dal Ministero della Giustizia ci sono 169 mila persone sotto indagine e 50 mila sono in carcere. Nel mentre c’è già un mandato d’arresto per 8 mila e 87 persone latitanti. Se analizziamo bene questi numeri vediamo che la lotta contro i golpisti è da tempo uscita fuori dai confini delle caserme e degli uffici delle Forze Armate della Repubblica di Turchia, cioé di coloro che hanno effettivamente tentato il golpe. Questo è prima di tutto dovuto alla tesi che sia la comunità religiosa Hizmet essere ufficialmente il responsabile del tentativo di golpe. Una realtà che non si è organizzata soltanto dentro l’esercito ma in diversi apparati della burocrazia in questi ultimi 40 anni. Per esempio solo nel caso del sistema giuridico ci sono 2280 giudici e pm dentro i centri di detenzione, accusati di appartenere in questa comunità, ma non solo.

Anche il mondo accademico è una delle fette della società colpite dalle misure di “sicurezza” dello Stato d’emergenza. Secondo i dati diffusi dalla BBC turca, in un anno, almeno 23427 accademici sono stati licenziati, allontanati dal posto di lavoro oppure hanno perso il lavoro perché l’università in cui lavoravano è stata chiusa. Infatti pochi giorni dopo il tentativo di golpe sono state chiuse 15 università.
Tuttavia è ormai risaputo che lo Stato d’emergenza è stato sfruttato anche per zittire le opposizioni, principalmente quelle di sinistra. Infatti tra gli accademici licenziati contiamo 372 persone firmatarie del famoso “appello per la pace” firmato da 1128 accademici per invitare lo Stato a tornare al tavolo dei negoziati con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), rimuovere il coprifuoco in atto nel sud est del Paese e di cessare il fuoco. Dall’11 Gennaio del 2016 numerosi accademici hanno perso il lavoro e sono tuttora sotto processo e con l’arrivo dello Stato d’emergenza questo processo è stato accelerato notevolmente.
Anche nel mondo dei media vediamo che le misure di “sicurezza” prese sono uscite fuori dall’obiettivo della “lotta contro i golpisti”. Infatti tra i 157 mezzi di comunicazione di massa chiusi, oltre i presunti collaboratori della comunità di Gulen (realtà religiosa accusata di pianificare e mettere in atto il tentativo di golpe) vi sono anche numerosi media di sinistra e curdi. Come il caso del ImcTv, un canale televisivo di capitale curdo e di linea ideologica socialista. L’ImcTv, oltre a non poter più trasmettere, ha visto lo Stato confiscare i suoi beni e darli all’emittente statale TRT. Secondo la piattaforma per la libertà di stampa P24, sotto lo Stato d’emergenza sono stati arrestati almeno 121 giornalisti, tra cui quelli che lavoravano per il quotidiano nazionale di sinistra Cumhuriyet ed il giornalista socialista Ahmet Sik.
Gli effetti “collaterali” dello Stato d’emergenza si sono fatti sentire anche nel mondo dell’associazionismo femminile e tra le donne. Con diversi decreti sono state chiuse 11 associazioni delle donne e 35 donne sindache sono state arrestate. Nelle municipalità commissariate prima di tutto sono state chiusi i centri culturali per le donne, i rifugi per le donne vittime di violenza, i consultori e diversi corsi di formazione per le donne. Secondo la Piattaforma Comune per i Diritti Umani (IHOP) almeno il 20% degli impiegati statali rimasti senza lavoro grazie ai decreti d’emergenza sono donne. La maggior parte dei licenziamenti appartengono al Ministero dell’Istruzione e quello della Sanità. Nella stessa relazione si legge che un quinto degli accademici licenziati sono donne. Secondo i dati del mese di febbraio del 2017, diffusi dal sindacato confederale DISK, la disoccupazione femminile è in aumento ed ha raggiunto il 16%. Secondo la Piattaforma IHOP questi dati rendono la donna sempre più dipendente dalla famiglia e particolarmente dal maschio.


In Turchia si respira anche l’aria della costruzione di una memoria ufficiale. Un lavoro molto capillare per fare in modo che la notte del 15 luglio non si scordi, in nessun modo.
Pochi giorni dopo il tentativo di golpe uno degli studi del canale televisivo TRT è stato rinominato “15 luglio, lo studio della nazione”. Il 9 agosto del 2016 una delle piazze grandi di Ankara è stata rinominata come “Piazza della Volontà Nazionale 15 luglio”. Il 27 luglio il Ponte del Bosforo di Istanbul, ove avvennero degli scontri violenti durante tutta la notte del 15, è stato ribattezzato col nome “Ponte dei Caduti del 15 luglio”. Lo stesso lavoro è stato fatto anche per le moschee che nella notte del tentativo di golpe hanno trasmesso delle preghiere. La moschea di Tepe Emlak Konutlari in località Cerkezkoy a Istanbul ormai si chiama “La moschea dei caduti del 15 luglio”. Per concludere anche le scuole pubbliche hanno subito la stessa trasformazione. Il 9 maggio del 2017 una scuola materna ad Ankara ha preso il nome di uno dei civili uccisi dai golpisti, Lutfu Gulsen. Il 26 giugno di quest’anno un’altra scuola materna ha concluso l’anno scolastico con un nuovo nome, sempre di un cittadino, Tevhit Akkan.


Particolarmente nelle scuole è stato fatto questo lavoro per la costruzione della memoria. Il 18 settembre del 2016, il primo giorno dell’anno scolastico, è stato inaugurato con la lettura di un giuramento collettivo in memoria dei caduti della notte del 15 luglio. Per 19 milioni di studenti, al primo giorno del nuovo anno scolastico, la prima lezione era sul tentativo di colpo di stato. Nell’ambito di questa lezione il Ministero della Giustizia ha preparato un video da 7 minuti da trasmettere in ogni aula. In numerose scuole sono stati dedicati degli angoli alle installazioni permanenti sul tema del 15 luglio. Si vedono le fotografie degli scontri, dei mezzi militari e delle persone morte durante quella notte. Particolarmente nella città di Tokat, in 7 scuole pubbliche, sono stati realizzati degli affreschi sul tema del tentativo di golpe. Secondo gli psicologi queste scelte potrebbero creare dei danni sullo status mentale dei ragazzi. Lo psichiatra Cem Taylan Erden parla così in merito: “Negli opuscoli distribuiti agli studenti e durante le lezioni si vedono e si sentono delle immagini e dei racconti sulla guerra, sulla violenza e sugli scontri. Questi possono creare dei grandi traumi ed attivare i meccanismi di interiorizzazione che poi generano una serie di paure. Studiando bene i contenuti si nota che si tratta di un lavoro che prova a convincere i ragazzi a credere a concetti che appartengono al mondo degli adulti. Questo ovviamente tende a creare una cultura di paura ed obbedienza”.
Il dolore che provano le persone che vivono nella Turchia di oggi è enorme. Si tratta di un momento storico di grandi perdite e tristezza. Non si sa ancora quanto tempo ci vorrà per “dimenticare” ciò che è successo. Tuttavia possiamo già parlare di una società polarizzata. Da una parte c’è la popolazione civile vittima del tentato golpe e il governo attuale e dall’altra parte una città fantasma composta dagli eventuali golpisti e da numerosi oppositori non golpisti. Questa situazione di polarizzazione di sicuro porta una profonda divisione ed alienazione tra i cittadini che vivono nella grande Anatolia e questo rende sempre più difficile la convivenza pacifica che manca ormai da parecchi anni da queste parti.

 

Per gentile concessione della'agenzia di stampa Pressenza

July 08, 2017

yuruu07.07.2017 - Con una votazione finale di 122 paesi a favore, 1 astenuto e 1 contrario (i Paesi Bassi) la conferenza per negoziare un trattato per la proibizione delle armi nucleari ha approvato il testo proposto.

 

Il trattato sarà aperto alle firme durante la sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 20 settembre ed entrerà in vigore dopo che cinquanta paesi lo avranno ratificato.  Ci sono momenti nella storia le cui potenti immagini rimangono impresse per sempre, come il primo sbarco sulla Luna, la caduta del muro di Berlino e la liberazione dal carcere di Nelson Mandela. Altri momenti altrettanto storici  – come la scoperta dei farmaci antiretrovirali,  le cure per i tumori, la fecondazione in vitro e il bosone di Higgs – non appaiono così eclatanti. La stesura e l’approvazione dei trattati per la messa al bando delle armi di distruzione di massa non fanno parte dei momenti più noti della storia, eppure oggi in una sala conferenze nella sede della Nazioni Unite a New York si è assistito a un momento memorabile, con l’approvazione di un trattato in base al quale:“Ogni Stato parte si impegna a non sviluppare, testare, produrre, fabbricare, acquisire, possedere o immagazzinare armi nucleari o altri ordigni atomici esplosivi in nessuna circostanza”, o a “usare o minacciare l’uso di armi nucleari o altri ordigni atomici esplosivi.”Oltre 130 Stati hanno partecipato a questi negoziati, arrivati dopo una sostenuta pressione da parte di alcuni paesi non più disposti a lasciare il precario futuro dell’umanità nelle mani di chi detiene il potere di distruggerci.Come è successo con le armi chimiche e batteriologiche, con le bombe a grappolo e le mine anti-uomo, si è arrivati alla proibizione concentrandosi sugli effetti umanitari.

 

Non è stato facile, giacché le armi nucleari sono state usate per l’ultima volta in tempo di guerra nel 1945 e non ci sono quasi più sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki che possano dare la loro testimonianza. Anche le vittime dei test nucleari, spesso appartenenti a remote comunità indigene, prive delle risorse per lanciare una campagna di alto profilo sostenuta da attori di Hollywood e personaggi famosi hanno lottato per far sentire la loro voce di fronte a incredibili difficoltà.Il trattato per la messa al bando delle armi nucleari è stato criticato dai paesi che le possiedono e definito irrealistico, inutile, controproducente e irrazionale. Nikki Haley, ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU, ha dichiarato che come madre, figlia e moglie non poteva appoggiare la stesura di questo trattato, ignorando bellamente il fatto che tutte le donne verranno colpite in modo sproporzionato da un’esplosione nucleare.Il problema delle armi nucleari compare nella prima risoluzione delle Nazioni Unite. Nel 1970, 25 anni dopo e 47 anni fa, l’ONU ha approvato un trattato per arrivare al disarmo e impedire la proliferazione, fallendo in entrambi i campi. Il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) diceva nel suo articolo VI:“Ciascuna Parte si impegna a concludere in buona fede trattative su misure efficaci per una prossima cessazione della corsa agli armamenti nucleari e per il disarmo nucleare, come pure per un trattato sul disarmo generale e completo sotto stretto ed efficace controllo internazionale”.Il trattato di messa al bando è indipendente dal TNP.

 

Non è necessario essere un firmatario del secondo per partecipare al primo e questo riempie il vuoto legale dell’articolo riportato qui sopra: se proibire le armi nucleari non è una misura efficace, allora nessuna misura lo sarà mai.Non dobbiamo essere ingenui, però: stiamo mettendo al bando queste armi (e la proibizione entrerà in vigore quando verrà ratificata da cinquanta paesi), ma a breve termine nessuna potenza nucleare smantellerà i suoi arsenali per questo. Il suo valore però sta nella stigmatizzazione conferita dalla messa al bando.Nella recente conferenza preparatoria del TNP a Vienna, la Russia ha ripetuto il falso argomento usato da molte potenze nucleari fin dal 1970, secondo cui il trattato rende in qualche modo legale il loro possesso. Perfino la Corte Internazionale di Giustizia, nel suo parere consultivo del 1996, ha fornito una via d’uscita per giustificare il possesso di armi nucleari sentenziando che il loro uso può essere legale nel caso di una minaccia “alla sopravvivenza stessa di uno Stato.”Questo trattato proibisce tutte le armi nucleari e non lascia scappatoie. La società civile (ossia quelli di noi che non partecipano alla società militare) ha lottato a lungo per ottenere questo risultato.

 

 

Tra gli altri  Abolition 2000 e più di recente l’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons si sono impegnate quasi senza risorse per questo, eppure ironicamente è adesso che comincia il vero lavoro.Questo trattato che colma il vuoto legale, come spiegato dall’Austria alla conferenza di Vienna sulle conseguenze umanitarie delle armi nucleari, è uno dei pochi passi che i paesi privi di armi nucleari hanno potuto intraprendere senza dover coinvolgere chi invece le possiede.Ora la società civile e i governi che si sono adoperati per arrivare a questo storico giorno dovranno trovare nuove strade per esercitare pressione. Campagne di disinvestimento come “Don’t Bank on the Bomb” saranno senz’altro uno strumento importante. Campagne per porre fine ai conflitti tra India e Pakistan (e Cina) e a quelli in Medio Oriente e nell’Asia nord-orientale saranno altri campi in cui far sentire la pressione internazionale.A livello nazionale, il riconoscimento da parte del trattato dell’”importanza dell’educazione alla pace e al disarmo in tutti i suoi aspetti e della sensibilizzazione sui rischi e le conseguenze delle armi nucleari per le generazioni attuali e future” potrebbe portare a iniziative interessanti, non solo nelle aule scolastiche, ma anche nel campo dei media e della cultura. Il loro impegno per creare una coscienza globale che rifiuta le armi nucleari potrà giocare un ruolo importante.Questo però riguarda il domani. Per oggi festeggiamo questo momento storico, festeggiamo tutti gli attivisti e le organizzazioni che si sono dedicate a questa lotta, festeggiamo i paesi i cui politici e diplomatici ci hanno portato all’attuale risultato, festeggiamo la vittoria di questo metaforico Davide sull’insolente Golia. E festeggiamo il fatto che 72 anni dopo che l’inferno nucleare si è scatenato sulla popolazione del Giappone, nessun paese potrà più giustificare legalmente il possesso di un’arma dotata del potere di distruggere la civiltà umana e ogni forma di vita sul pianeta.

 

 

Traduzione dall’inglese di Anna Polo

Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza

June 03, 2017

Roma caput mundi o caput orbis, definizione apparentemente elogiativa, rievoca in realtà la parabola di un impero che finì per cadere preda di se stesso, dell'incapacità di gestire gli yki7ostessi meccanismi che aveva innescato per accrescere la propria potenza

 

Quando una struttura di potere si impone, per via rivoluzionaria o attraverso un processo graduale, ha la necessità prioritaria di fare i conti con le forze che da quel momento dovrà gestire, in modo tale da mantenersi in vita, ma i suoi problemi non finiscono qui. Infatti, che si tratti di forze politiche all'interno di uno Stato o di Stati all'interno di un sistema geopolitico (regionale o globalizzato), l'istinto di conservazione tende a coincidere con la volontà di potenza. A livello teorico, governare una comunità politica significa gestirne le componenti in modo tale che le loro tensioni si armonizzino in vista del bene comune e, soprattutto, evitino di distruggere la compagine nella quale agiscono. Tuttavia, quando nella prassi il fine non è il bene comune, ma ciascuna forza politica mira a realizzare i propri interessi particolari, la dialettica è soppiantata dallo scontro tra fazioni.

All'interno di un sistema democratico autentico, differenze e divergenze sono linfa vitale, poiché l'equilibrio dinamico che instaurano è un potenziale antidoto alle derive autoritarie. Peraltro, a rigor di logica, chiunque stabilisca il proprio controllo all'interno di un territorio o di una società dovrebbe avere tra i suoi interessi primari quello di migliorare, o almeno di conservare, le condizioni di vita che vi trova. Quindi, chiunque si trovi al potere dovrebbe aver cura di favorire il pluralismo e la giustizia sociale e combattere le diseguaglianze, non tanto per altruismo, quanto per impedire che il sistema di cui 4ytè a capo collassi. Nondimeno il pilastro portante di un sistema politico è il sistema economico: quando quest'ultimo si fonda sulla riduzione in schiavitù di parte dei membri della comunità in cui opera, per quanto in periodi di prosperità sia in grado di alimentare e consolidare la sua potenza e garantire forme sia pure effimere ed esclusive di benessere, rischia di innescare meccanismi che in seguito non sarà probabilmente in grado di gestire a lungo termine.

Le tensioni sociali, in un simile stato di cose, sono in certa misura funzionali, ma una crisi economica significativa, causata da guerre o dal “naturale” andamento dei mercati, potrebbe acuirle, fino a mettere in pericolo la sopravvivenza stessa del sistema. Persino strutture più o meno riconducibili al crimine organizzato potrebbero alimentare il sistema economico, ma perlopiù agiscono contro gli interessi della collettività: ad esempio, lo storico Ammiano Marcellino racconta di un turpe commercio di schiavi organizzato da due comandanti romani ai danni dei “rifugiati” goti, che preparò il terreno alla disfatta romana di Adrianopoli. In una delle due occorrenze dell'espressione caput mundi, il poeta latino Lucano nella Farsaglia scrisse: ad altri basterebbero tante mura prese al primo assalto, tante rocche espugnate, il nemico in rotta, la stessa capitale del mondo (caput mundi), massimo premio di guerra, facile preda. Ma Cesare … sebbene possieda tutta l'Italia, poiché Pompeo si attesta sull'ultima spiaggia, tuttavia si cruccia di spartirla con lui. Il poema narra la guerra civile tra Cesare e Pompeo, fonte di distruzione per Roma, la potenza egemone del Mediterraneo che dopo una fase di espansione e crescita economica era stata dilaniata dai conflitti tra i più importanti poli del potere politico-economico che quella stessa crescita aveva contribuito a creare.

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