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Carlotta Caldonazzo
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La Francia e le zone francofone nel mondo |
Quando è la Francia a mostrare interesse a sostegno delle difficoltà che l’Italia incontra, non sorprenda se il sostegno non è rivolto all’Italia ma alle difficoltà.
È fuori luogo che il comportamento della Francia nei confronti dell’Italia per l’attuale questione degli immigrati, riesca a meravigliare fino all’indignazione.
Non sono quindi le azioni di contrapposizione francese agli interessi italiani che possano destare meraviglia. C’è infatti chi pone in prima linea, come l’ Italia, l’ ideologia politica ad oltranza; c’è chi invece chi, come la Francia, punta ai risultati disconoscendo le relazioni di buon vicinato pur di raccogliere qualche beneficio.
L’attuale rapporto tra Francia e Italia è ormai alla ribalta della cronaca quotidiana e pertanto ognuno si è ben fatto una chiara idea di quali siano le pretese a senso unico che la Francia intende attualmente mantenere, a proprio vantaggio.
Ma prima …………
Se ora così stanno le cose, dovremmo però ricordare, per non commettere sempre gli stessi errori, che quando l’Italia protestava nei confronti dell’Egitto per la morte di Giulio Regeni, il nostro governo, incapace di ottenere per via diplomatica i necessari chiarimenti, chiedeva all’Unione Europea aiuto (quale?) per conoscere da altri la cosiddetta “verità”.
Ciò avveniva tra il “peloso” plauso di alcuni Stati della UE per tanta fermezza, ai quali però, certamente non sfuggiva il plateale sfaldamento che l’ Italia, giorno dopo giorno, provocava alle secolari relazioni amichevoli con il nostro dirimpettaio della quarta sponda.
La Francia allora, non perse l’occasione di recarsi in Egitto in modo ufficiale, con la rappresentanza di Stato dell’ allora Presidente della Repubblica, Hollande.
Il fatto è che non si trattava di un viaggio diplomatico organizzato a questo scopo. Infatti, arrivato al Cairo al cospetto del Presidente Abd al-Fattāḥ al-Sīsī, si è soffermato qualche minuto per esprimere imbarazzo per una misteriosa morte di un cittadino francese: Eric Lang, in un commissariato egiziano; misteriosa come quello di Regeni, ma solo con l’auspicio di conoscere come sono andate le cose.
La nostra diplomazia - Il governo italiano comprometteva perfino le relazioni diplomatiche, facendo rientrare in Italia l’ambasciatore dal Cairo, senza tenere nel debito conto che le relazioni commerciali nel rapporto di scambio sulla bilancia dei pagamenti con l’estero, ammontavano a ben 11 miliardi di esportazioni di euro contro 2 miliardi dell’Egitto.
Inoltre l’Italia in quei tempi, aveva scoperto attraverso l’Eni il più grande giacimento del Mediterraneo di gas nelle acque territoriali egiziane. Era evidente l’aspettativa contrattuale per Eni e il nostro Paese per la relativa estrazione, a mezzo di idonee piattaforme di perforazione, ma le relazioni venivano seriamente compromesse dallo sproporzionato atteggiamento ostile verso l’Egitto.
L’Italia, infatti, questa ostilità l’ ha chiaramente manifestata sotto tutti i possibili modi fino a mettere in dubbio l’opportunità turistica europea di recarsi in terra egiziana.
La solidarietà francese - Hollande che invece si era trattenuto due giorni in Egitto, abbandonando la linea diplomatica delle domande senza risposta, bada al sodo nell’interesse economico della Francia, parlando di affari con gli esponenti politici egiziani, mentre l’Italia cercava la ……“verità".
Si è trattato di colloqui e di accordi con i quali, la Francia ha ottenuto una serie di appalti per ben 1,6 miliardi di euro, riguardanti l’ elettricità, i trasporti, ivi compresa la realizzazione del terzo ramo della metropolitana del Cairo, con galleria sotto il Nilo, per 1.2 miliardi di euro.
Per quanto riguarda il turismo che l’ Italia aveva preso di mira per indurre l’ Egitto a più miti consigli sul caso Regeni, la Francia firma di contro, un memorandum per favorire il turismo francese in Egitto .
Sul fronte italiano - Mentre l’Italia incrementava le ostilità, ritenendosi sostenuta dalla solidarietà europea per la fermezza dimostrata nei confronti dell’ Egitto, Hollande assicurava a al-Sīsī che la Francia aveva scelto di sostenere l’Egitto nel suo percorso per raggiungere la sicurezza e lo sviluppo economico.
La risposta, non si è fatta attendere. “l’Egitto – ha spiegato il Ministro del commercio egiziano Tareq Qabil - potrebbe diventare la porta dei prodotti francesi verso il mercato arabo e africano”.
L’augurio plateale è stato il coro della delegazione francese al cospetto del Presidente egiziano che si è congedato dalle due giornate di business con un “Viva l’Egitto e viva la Francia”.
I nostri soccorritori
Il nostro Paese non ha tenuto alcunché dall’Egitto con il quale ha praticamente rotto per un certo tempo i rapporti diplomatici, lasciando allo scoperto le numerosissime imprese italiane in questo Paese. E, anziché ricevere solidarietà dagli altri Stati della UE, non ha ricevuto dai nostri tradizionali amici, in particolare la Francia, il benchè il minimo aiuto.
Mentre in casa nostra molto spesso, si corre in soccorso per non cambiare nulla ………….. quando è la Francia che ci viene in aiuto sicuramente la situazione cambia, ma in peggio.
Adesso il Presidente non è Hollande ma Macron; e i rapporti anziché migliorare sono notevolmente peggiorati. Ciò significa che anche se cambiano i suonatori l’orchestra è sempre la stessa. Ed è questo che l’attuale governo dovrebbe tener presente nei rapporti con i nostri vicini di casa.
Nel quadro delle crescenti tensioni politiche interne e internazionali, i risultati delle elezioni legislative e presidenziali in Turchia potrebbero avere serie ripercussioni sugli equilibri geopolitici non solo del Medio Oriente, ma anche del Mediterraneo orientale, dove gli interessi di Ankara si scontrano con quelli di Atene e dell'Unione europea
Attese dall'attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan, che vorrebbe la maggioranza assoluta per presentarsi come il nuovo “padre della patria”, le elezioni legislative e presidenziali del 24 giugno in Turchia suscitano l'attenzione della Grecia, appena formalmente libera dai riflettori della troika e in una posizione delicata all'interno dell'Unione europea. Con Ankara, Atene ha in sospeso questioni cruciali per gli equilibri nel Mediterraneo orientale: la definizione della piattaforma continentale dell'Egeo, Cipro e i diritti di ricerca di giacimenti di gas a largo delle sue coste, gli otto militari turchi fuggiti in Grecia dopo il tentato golpe di luglio 2016 e i due soldati greci arrestati e ancora tenuti “in custodia” dalle autorità turche. Questioni che in Turchia hanno un particolare rilievo politico, soprattutto da quando la crescita economica e la riduzione del tasso di disoccupazione non appaiono più così a portata di mano come negli ultimi due decenni, quindi non sono più argomenti privilegiati a buon mercato in campagna elettorale.
Il partito di Erdoğan, Giustizia e sviluppo (AKP), da almeno tre anni impone una visibilità mediatica quasi esclusiva a temi geopolitici, cui dal luglio 2016 si è aggiunta la guerra ai nemici interni: una soluzione manu militari della questione curda e l'eliminazione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK, con il quale lo stesso Erdoğan aveva avviato un negoziato nel 2013), il prevalere degli interessi turchi in Medio Oriente, l'espansione dell'influenza turca nei Balcani (dagli anni '90 del secolo scorso, le moschee in Bosnia Erzegovina, Albania, Kosovo e nel Caucaso sono per lo più finanziate da Ankara) e la revisione del Trattato di Losanna del 1923. Un misto di riferimenti simbolici da un lato al padre della patria Mustafa Kemal Atatürk e al nazionalismo turco, dall'altro all'Impero ottomano, al suo espansionismo e al ruolo chiave dell'islam. Simili, se non più radicali le posizioni di Meral Akşener, candidata del Buon Partito (o partito del bene, İyi), nato da una scissione all'interno del Partito del movimento nazionalista di Devlet Bahçeli (MHP, che invece sostiene Erdoğan). Più moderato il candidato dei kemalisti laici e socialdemocratici del Partito popolare repubblicano (CHP, guidato da Kemal Kılıçdaroğlu), Muharrem İnce, professore di fisica di origini contadine. Le proposte più concilianti vengono invece dal Partito democratico dei popoli (HDP, filocurdo, ma in generale sensibile alla giustizia sociale, alla questione di genere e ai diritti delle minoranze), il cui candidato Selahattin Demirtaş seguirà le consultazioni dal carcere.
La volontà di Erdoğan, candidato favorito alle presidenziali, di modificare il trattato di Losanna, manifestata nel dicembre 2017 in occasione della sua storica visita ufficiale ad Atene, rischia di diventare un ulteriore motivo di attrito con la Grecia, acuendo la tensione nel Mar Egeo tra i due paesi, entrambi membri dell'Organizzazione del trattato dell'Atlantico del Nord (NATO). Negli ultimi decenni, a più riprese Ankara e Atene sono state sul punto di dichiararsi guerra. Ad esempio, nel 1996 si è accesa un'aspra disputa, non ancora definitivamente risolta, sul controllo di due isolotti disabitati, chiamati Imia dai greci, Kardak dai turchi: alla fine di gennaio, un elicottero greco da ricognizione precipitò in mare e i tre soldati a bordo morirono (la notizia inizialmente non fu diffusa per evitare ripercussioni internazionali e interne ai due paesi coinvolti), ma la mediazione ufficiosa di Washington sopì momentaneamente la controversia; a maggio dello stesso anno, tuttavia, la collisione tra una motovedetta turca e una greca al largo di questi “scogli” fu seguita da nuove reciproche accuse di sconfinamento (un episodio simile è avvenuto nel febbraio di quest'anno: Erdoğan ha invitato la Grecia a non sottovalutare la Turchia). La crisi ha rischiato nuovamente di esplodere nel maggio 2006, quando un caccia F-16 da combattimento greco e un velivolo da ricognizione RF-4 turco si sono scontrati al di sopra dell'isola di Karpathos, la più meridionale del Dodecaneso: secondo Atene il caccia turco aveva violato lo spazio aereo greco, mentre Ankara accusò l'aviazione militare greca di intralciare le esercitazioni dell'aeronautica militare turca. Non si trattò tuttavia di un episodio isolato: la Hellenic Air Force ha rilevato nel solo 2014 ben 2.224 sconfinamenti. Inoltre, tra gennaio e febbraio 2016, caccia turchi hanno violato più volte lo spazio aereo greco, in particolare sopra le isole di Samos, Chios (Egeo sud-orientale), Limnos e Lesvos (Egeo nord-orientale). Ma l'episodio forse più grave si è verificato il 1 agosto 2017, quando undici F-16 turchi hanno sorvolato le isole dell'Egeo orientale per ben dodici ore, prima di essere intercettati e respinti dall'aviazione militare greca. Il ministero della Difesa di Atene ha aperto un'inchiesta informando le autorità internazionali. Per alcuni analisti si è trattato di una rappresaglia di Ankara a seguito del respingimento di un aereo spia turco CN-235 da parte dell'aeronautica militare greca. Lo scorso aprile, dopo che gli F-16 greci avevano intercettato un drone Uav Turco nei cieli dell'isola di Rodi, il ministro della Difesa greco Panos Kammenos ha annunciato di voler inviare 7.000 soldati nelle isole dell'Egeo e al confine con la Turchia per “far fronte a qualsiasi minaccia”.
Oltre alla questione dell'Egeo, un altro tema caldo nel quadro delle relazioni greco-turche è quello di Cipro. Nel 1960 l'isola conquista l'indipendenza dalla Gran Bretagna (cui era stata assegnata dal Trattato di Losanna), che tuttavia vi mantiene le due basi di Akrotiri e Dhekelia con oltre 4.000 soldati. Da subito l'isola è stata oggetto delle mire dei nazionalisti greci e turchi, che ne rivendicavano l'annessione. Negli ultimi anni, la Turchia ha più volte effettuato manovre di disturbo all'interno della Zona economica esclusiva (ZEE) di Cipro, che dal 2004 è membro dell'Unione europea. Questione cipriota e tensioni con la Grecia nell'Egeo sono state le motivazioni per cui la Ankara ha rifiutato di ratificare la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare nel 1988 e ha sempre contestato gli accordi del 2004 tra Cipro, Israele, Libano ed Egitto per la delimitazione delle rispettive ZEE. Lo scorso aprile, inoltre, Ankara ha emesso un nuovo Navtex (Navigational Text Messages), che prevede indagini sismografiche estese anche a zone di competenza cipriota. Un'altra azione di disturbo turca ha coinvolto anche l'Italia: lo scorso febbraio, la marina militare turca ha fermato la piattaforma dell'Eni Saipem 12000, in rotta verso Cipro per iniziare trivellazioni esplorative nei giacimenti di gas naturale, con il permesso di Nicosia (la piattaforma). Erdoğan si era già dichiarato contrario alla presenza dell'Eni nel Mediterraneo orientale, considerando le esplorazioni come “una minaccia” per Cipro e per la Turchia. La questione cipriota va avanti ormai, nella sostanziale indifferenza dell'Europa, dal 1974, quando, dopo il colpo di Stato dei militari greco-ciprioti vicini ai colonnelli greci (e il fallimento della mediazione statunitense), la Turchia invase l'isola occupandone la parte settentrionale. Nel conflitto morirono circa 4.000 persone, tra soldati e civili, mentre i dispersi furono un migliaio. La successiva partizione di Cipro fu seguita inoltre da uno scambio di popolazione forzato, sul modello degli “scambi di popolazione” tra Grecia e Turchia nel 1922: circa 200.000 greco-ciprioti furono costretti a lasciare il territorio della Repubblica turca di Cipro del Nord (non riconosciuta dalle Nazioni Unite), dove furono insediati oltre 300.000 coloni anatolici. Di contro, i militari golpisti ciprioti vicini ai colonnelli greci lanciarono persecuzioni ai danni della minoranza turca e circa 70.000 turco-ciprioti fuggirono al Nord. Una sorta di balcanizzazione ante litteram, che dovrebbe far riflettere i vertici europei e che rischia di coinvolgere anche la Russia, che da qualche anno inizia a riaffacciarsi sul Mediterraneo.
La terza spinosa questione che incendia i rapporti tra Ankara e Atene risale invece al luglio 2016. Dopo il tentato golpe, di cui Erdoğan accusa i seguaci del suo ex alleato, il predicatore islamico Fethullah Gülen, otto militari turchi sono fuggiti in Grecia, chiedendo asilo politico. Le insistenti richieste di estradizione da parte della Turchia sono state sistematicamente respinte dalle autorità greche, che hanno inoltrato i dossier alla magistratura, per valutare se ci fossero gli estremi per riconoscere lo status di rifugiato agli otto militari. A fine maggio, il Consiglio di Stato greco ha concesso tale status a uno di loro (con la motivazione che in patria non gli sarebbe garantito il diritto a un processo trasparente), aprendo la strada a misure analoghe per gli altri sette. Immediata la reazione di Ankara, che ha accusato Atene di “proteggere i terroristi”. Occorre notare che dal 2017 le richieste di asilo di cittadini turchi in Grecia sono aumentate di ben dieci volte rispetto al 2016: secondo il Servizio di asilo greco, lo scorso anno 1.827 turchi hanno avanzato richiesta di asilo politico. Inoltre, nel solo febbraio 2018, 17 ex funzionari turchi (tra cui alcuni magistrati) hanno chiesto asilo politico in Grecia, provocando un ulteriore deterioramento dei rapporti tra i due paesi. Il 22 giugno, a soli due giorni dalle consultazioni elettorali, il ministro degli Esteri turco Mevlut Çavuşoğlu ha persino insinuato che Tsipras avrebbe rifiutato l'estradizione degli otto militari turchi a causa di pressioni da parte dell'Unione europea. Gli otto militari ora potranno lasciare il territorio greco, ma la vicenda è complicata dall'arresto da parte delle guardie di frontiera turche di due soldati greci che sostengono di aver accidentalmente sconfinato a causa del maltempo: i due sono detenuti in Turchia dall'inizio di marzo, senza che nessuna accusa sia stata loro formalmente notificata. Il ministro della Giustizia greco Stavros Kontonis li ha definiti “ostaggi” di Ankara e teme che essi possano essere accusati di spionaggio. Secondo fonti diplomatiche greche, la Turchia intenderebbe invece scambiarli con gli otto militari turchi, ma Ankara finora ha smentito, adottando una strategia intimidatoria fatta di provocazioni militari e aggressioni verbali. Intanto, ad aprile, il Parlamento greco ha approvato con procedura accelerata un nuovo piano per la difesa, che prevede l'ammodernamento di armi e mezzi in dotazione all'esercito.
Il Presidente Putin con il suo cane |
Quando nel 1991 l’URSS finì di esistere iniziò il calvario della esistenza dei “bambini randagi” di Mosca, di Leningrado e di tante altre città della immensa ex Unione Sovietica.
Ma posto che quei bambini erano il prodotto della liberazione della Russia “dal comunismo”, nessuno in Occidente se ne fece un problema, e tutto passò sotto silenzio, come un “male necessario”. Forse qualche riflessione sarebbe necessaria, ora che si parla di cani randagi, non per proporre delle classifiche, ma per includere se possibile tutte le forme di violenza e di sofferenza, senza colpevoli amnesie od esclusioni.
Da tempo immemorabile – e per non andar troppo indietro nel tempo da almeno un secolo a questa parte – la Russia, ma non solo la Russia, e tutti i Paesi non allineati al sistema di pensiero unico liberista (e, paradossalmente, oggi, la Russia è un Paese capitalista a tutti gli effetti!), è oggetto di una aggressione militare e mediatica, a tutti i livelli.
Ogni Paese oggetto delle attenzioni occidentali può essere accusato dell’uso dei gas sui civili, di violazioni riguardanti i diritti umani, della repressione dei diritti degli omosessuali, ovviamente di propagandare l’antisemitismo, e da ultimo anche di contrasto alla immigrazione di massa e di praticare l’uccisione di massa degli animali.
Oggi si è totalmente perduto il senso della misura e della logica nell’assunzione, nel controllo e nella divulgazione di una notizia. Tanto è vero che le notizie della Siria arrivano dalla Gran Bretagna (ciò che del resto non scandalizza nessuno e televideo RAI riporta regolarmente le falsità del cosiddetto “Osservatorio siriano per i diritti umani”), ed è giusto che quelle della Russia provengano, ovviamente, dalla Spagna (ed altrove…) e ciò non è uno scherzo, è la pura verità.
Ed è a proposito di violenze sugli animali, cui ovviamente chi scrive è sensibile e attento, che ci troviamo di fronte all’ennesima falsità messa in piedi dai massmedia occidentale: i connotati della bufala ci sono tutti e ciò è dato anche dai soggetti che si sono fatti promotori della propaganda.
Chi abita in Spagna, chi negli Usa, chi altrove, hanno nomi fittizzi, fanno finta di essere russi e di trovarsi nei luoghi da cui inviano le immagini che peraltro, si è scoperto, ritraggono scene dall’Ucraina o dal Pakistan…
Una foto è stata divulgata da tale Elena Zvonkova che dice di essere di Mosca, ma vive a Valencia (Spagna), a migliaia di chilometri dalla Russia, per cui è giusto ritenere che sia in possesso di notizie di prima mano…
Un fenomeno così grave sarebbe saltato all’attenzione anche delle tv russe – e ve ne sono che avrebbero anche approfittato dell’occasione – e invece no, le tv sono russe ma si trovano in Francia…
foto presa in Pakistan e fatta passare in tutti i siti, come se fosse stata ripresa in una città Russa. |
Alcune fra le numerose fonti da cui provengono le notizie sono: il gruppo “east2west” che si trova in Canadà e naturalmente il “glorioso” quotidiano Daily Mail!
I fatti sono molto differenti da come sono stati raccontati. In Russia vi sono bande di cani randagi affamati, che specie nella stagione invernale, provenendo dai boschi, si avvicinano ed entrano nelle città, attaccando i soggetti più vulnerabili, quali donne, vecchi e bambini e ogni anno si registra un certo numero di morti (in media 35 morti, contando solo i bambini piccoli) e di feriti molto gravi. Inoltre ogni anno solo nella capitale russa, a causa dei morsi dei cani, vengono ferite circa 30 mila persone e considerando tutto il territorio russo, nel periodo 2000-2015 più di 200 russi sono morti di rabbia, e i cani sono i principali diffusori di questa malattia mortale per l’uomo.
Da parte loro, le autorità locali lottano con tutti mezzi per risolvere questo problema, soprattutto raccogliendo fondi per il mantenimento degli animali dopo la loro cattura. In base alla legge russa chi maltratta animali è punibile con tre anni di galera.
Non si può certo escludere che dei cani, in questa, così come in altre occasioni, siano stati uccisi. Altra cosa invece è sostenere che questo sia avvenuto o stia avvenendo in nome e per conto dello Stato e secondo un piano prestabilito!
E posto che gli animali, a meno di non cozzare contro ogni logica, non potrebbero mai essere ritenuti responsabili degli atti compiuti, va ricordato il caso commovente di Vania, un bambino abbandonato in tenera età dai genitori alcoolizzati e adottato da alcuni cani randagi…
E veniamo ai fatti.
Nel mese di Gennaio di quest’anno la Duma (il parlamento russo) ha indirizzato una lettera al Ministero dello Sport, esprimendo la preoccupazione riguardo i paventati propositi di fare retate, per catturare i cani randagi nelle città dove si sarebbe svolto il campionato mondiale di calcio.
A tale scopo la Duma si era raccomandata di procedere ad un controllo regolare della presenza di cani randagi, ma aveva sottolineato che la cosa fosse attuata con metodi umani, quindi una cattura allo scopo di vaccinarli, di sterilizzarli e nondimeno mantenerli nei centri addetti.
Ciò che non ha alcun rapporto con uno sterminio organizzato a livello governativo, per come si è fatto credere in questi giorni.
Le associazioni animaliste russe, da parte loro, si sono mobilitate in maniera particolare e hanno fatto sentire la loro voce, proprio esprimendo la preoccupazione sulle misure che sarebbero state prese in riferimento al problema dei randagi, nella occasione dei Mondiali di calcio. Hanno quindi espresso la raccomandazione che si procedesse secondo termini di rispetto per gli animali.
In particolare, da parte delle associazioni animaliste, era stato sottolineato che, in ordine ad un principio morale di rispetto per la vita e nondimeno di reputazione internazionale della Russia, sarebbe stato necessario evitare qualsiasi atto di violenza sugli animali.
La risposta del Ministero dello Sport, chiara e circostanziata, diceva che in Russia non esisteva – da parte del Governo – nessun piano per la uccisione degli animali.
Tutte queste preoccupazioni, peraltro del tutto legittime, sono state strumentalizzate dalla stampa occidentale, che, senza indugi e senza lo scrupolo di controllare la reale consistenza dei fatti, ha trasformato ipso facto le raccomandazioni per “fatti realmente avvenuti” e come tali li ha presentati al pubblico che in tal guisa li ha assunti per veri. La stampa occidentale da tempo è dedita alla fabbricazione delle “fake news” per diffamare la Russia, in questi giorni si cerca in sostanza di annullare il successo della Russia nell’organizzazione impeccabile dei Mondiali di Calcio. Si prodigano in ciò vari siti e in particolare si nota il comportamento vergognoso della mostruosa “Radio Svoboda” (e del relativo sito internet), che, com’è noto, è una emittente americana… Tanto per cambiare e per restare in tema !
Lo Stato Russo realizza le attività di cattura dei cani randagi nei posti o quartieri dove sia necessario intervenire per rendere sicura la vita dei cittadini e proteggerli dagli assalti, ma di certo non per l’uccisione di massa, per come è stato scritto e divulgato da molta stampa straniera e ripreso ovunque come se si trattasse di oro colato e quindi verità inconfutabile, come per esempio la bufala del “movimento dei cacciatori di cani”: approfittando e distorcendo il fatto che diversi cittadini hanno a cuore la sicurezza dei propri quartieri e partecipano alla risoluzione del problema dei randagi offrendosi volontari nella cattura. Ma su questo si costruisce la Fake news, come oramai da copione, triste copione!
È presumibile che, finito il campionato di calcio, si spegneranno i riflettori anche su questo problema, perché nessuno avrà interesse ad attenzionare una questione priva di ripercussioni politiche internazionali.
Marinella Mondaini[1] – Gianni Viola[2]
[1] Scrittrice, pubblicista – Ricercatrice universitaria – Università di Mosca.
[2] Ricercatore scientifico – scrittore – Resp. Comm.ne Scientifica Free Lance International Press -Roma.
19/06/2018 - Il problema dell’Europa non è l’Italia, col suo pesantissimo debito pubblico accumulato soprattutto negli anni del glorioso CAF, con le pensioni di vecchiaia fasulle, di invalidità inventate, con e ‘pensioni d’oro’ e tutto lo smercio del voto di scambio, né la Spagna con l’indipendentismo catalano, né la periclitante Grecia.
Il problema è la Francia. Con la sua ridicola e pericolosa grandeur, la sua boria o, per esprimerci con le parole di Palazzo Chigi nei giorni dello scontro con Macron, “col suo atteggiamento di superiorità insopportabile”. Questi credono di vivere ancora l’epopea di Napoleone. Anche se pur sul teppista corso ci sarebbe poi da ridire: con i quattro milioni di soldati messi sul campo abbandonando la civile guerre en dentelles degli austriaci, e la democrazia esportata in Europa sulla punta delle baionette.
Comunque da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Non si era ancora spenta l’eco dei processi di Norimberga e di Tokio, che secondo le intenzioni avrebbero dovuto “escludere la guerra dalla vita della società”, che già le truppe francesi soffocavano con l’atroce brutalità di sempre un disperato tentativo del Madagascar di liberarsi delle manette coloniali. Questa vile e facile vittoria è stata l’unica della loro storia post napoleonica.
Dopo non hanno fatto altro che buscarle. Nel 1870 nella guerra franco-prussiana i tedeschi annientarono in un sol mese l’esercito di Napoleone III. Nella prima Guerra Mondiale furono sconfitti dai tedeschi a Charleroi, si ritirarono sulla Marna e furono salvati dagli inglesi, come sempre dagli inglesi fu salvata non solo la Francia ma l’intera Europa nella seconda Guerra Mondiale. L’insuperabile Linea Maginot fu irrisa da Hitler che, passando per il Belgio, dopo pochi mesi passeggiava sugli Champs-Elysée. Il collaborazionismo francese col governo Pétain fu maggiore di quello degli italiani che pur dei nazisti erano alleati. Durante il governo fantoccio di Pètain, Gerhard Heller, il funzionario tedesco che doveva occuparsi di tenere sotto controllo i letterati e gli scrittori francesi sospettati di essere contrari al regime, si meravigliava che le denunce contro costoro venissero molto più dai loro connazionali che dai nazisti e dalla Gestapo. Nonostante tutto ciò, grazie all’escamotage del
governo De Gaulle riparato a Londra, riuscirono a sedersi al tavolo della pace da vincitori a fianco degli inglesi, degli americani e dei russi che quella guerra, con enormi sacrifici di sangue, l’avevano combattuta e vinta davvero.
Nel 1954 furono sconfitti rovinosamente dai vietnamiti a Dien Bien Phu.
Però i ‘cugini d’oltralpe’ continuano imperterriti nel loro grottesco “complesso di superiorità” e nei tempi più recenti hanno causato danni gravissimi all’Europa e soprattutto all’Italia. La sciagurata aggressione alla Libia è stata una loro iniziativa. Sono stati poi seguiti dagli immancabili americani e purtroppo anche da noi italiani, eternamente autolesionisti. Il nostro premier del tempo, Silvio Berlusconi, grande amico di Gheddafi, era contrario ma si accodò per sottomissione agli americani come aveva fatto D’Alema nel 1999 nella guerra alla Serbia. Con la differenza che D’Alema non era amico i Milosevic e quindi Berlusconi, nel suo sottomettersi, è stato doppiamente coglione. Per giustificarlo si dice che fu il presidente Giorgio Napolitano a convincerlo. Ma per Napolitano-Berlusconi vale quanto abbiamo scritto per Mattarella-Conte: in una Repubblica parlamentare, qual è fino a prova contraria la nostra, la politica la fa il premier e non il Presidente della Repubblica.
Per non farsi mancar nulla i francesi, forse gli unici rimasti ad avere una mentalità colonialista vecchio stampo, hanno aggredito il Mali del nord abitato da pacifici Tuareg che, per difesa, si sono uniti agli jihadisti locali. Da qui la guerra e l’altrimenti inspiegabile migrazione maliana. Dopo essere stati responsabili in notevole misura delle migrazioni, adesso i francesi respingono questi disperati ai loro confini, da Ventimiglia a Bardonecchia (per la verità a Bardonecchia sono andati anche oltre, penetrando con i loro militari nel nostro territorio). E nei giorni scorsi si sono permessi di bollarci, per il caso Acquarius, come “irresponsabili, cinici e vomitevoli”.
Però in questo caso una funzione utile l’hanno avuta. Ci hanno restituito un pizzico d’orgoglio d’esser italiani, che abbiamo eterni difetti che eternamente si ripetono (vedi il nuovo ‘caso Roma’ che coinvolge anche i Cinque Stelle), ma almeno non siamo schifosamente sciovinisti come i francesi che non ne hanno di meno.
Fonte: Massimo Fini
19/06/2018 - La Francia è una delle poche (ex) potenze del defunto sistema europeo ad aver preservato e perpetuato dei disegni egemonici su quel che fu il suo impero coloniale, nonostante la perdita di potere relativo, sia in Europa che nel mondo, e l’affermazione di un nuovo ordine internazionale non più eurocentrico.
In principio fu Charles de Gaulle a voler impedire l’involuzione della Francia da una grande potenza mondiale ad una potenza regionale in declino ed in posizione periferica nel nuovo ordine post-bellico. A questo scopo, la Francia si dotò dell’arma atomica e tentò di riconquistare gli ex territori imperiali africani attraverso una politica di neocolonialismo economico seguendo l’ambizioso quanto visionario piano per l’Africa francofona elaborato da Jacques Foccart, uno dei più importanti ideologhi e strateghi dell’era gollista. Il piano di rinascita neoimperiale per la Francia di Foccart non puntava soltanto alla riconquista dell’Africa, ma all’espansione su ogni territorio francofono del mondo. In questo contesto si inquadrano il sostegno fornito dallo Sdece, i servizi segreti per l’estero, al movimento separatista quebecchese, e quel controverso “Vive le Québec libre!” gridato da De Gaulle alla folla di Montreal nel 1967.
Québec a parte, le mire francesi, dal gollismo ad oggi, si sono rivolte verso l’Africa francofona, di cui si è tentato di condizionarne in ogni modo le dinamiche economiche e politiche attraverso omicidi politici, colpi di Stato, sostegno a dittature militari e gruppi terroristici, alimentazione di guerre civili e conflitti inter-etnici, creando nel tempo una sfera d’influenza egemonica ribattezzata "Françafrique", sostanzialmente estesa sull’intero ex impero coloniale.
Foccart è stato il potere dietro la corona da De Gaulle a Jacques Chirac, chiamato per fornire pareri, elaborare strategie, effettuare missioni diplomatiche segrete, dal 1960 al 1995.
Si può affermare che Foccart è stato per la Francia, ciò che Henry Kissinger è stato per gli Stati Uniti, ossia, uno stratega guidato da visioni tanto intelligentemente lungimiranti quanto subdolamente imperialistiche. La Françafrique è una realtà multidimensionale, agisce infatti sul piano economico, politico, diplomatico ed ideologico di numerosi paesi, dal Magreb al Sahel, all’Africa sub-sahariana.
La sottomissione economica è essenzialmente esplicitata nell’esistenza della cosiddetta* area franco*, di cui fanno parte 14 paesi africani, obbligati ad utilizzare il franco CFA, della cui convertibilità in euro si occupa il Ministero dell’economia e delle finanze francesi. L’appartenenza all’area franco prevede inoltre che i paesi membri depositino almeno il 65% delle riserve di moneta estera in Francia. Inoltre, le grandi realtà francesi dei settori energetico e minerario godono di trattamenti privilegiati nello sfruttamento del territorio e nella divisione dei profitti con gli Stati.
"La dimensione politico-diplomatica" riguarda le pressioni fatte ai paesi della Françafrique affinché essi sostengano gli interessi nazionali, le posizioni e le dottrine di politica estera francesi in sede internazionale, ad esempio in luogo dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. La dimensione ideologica ha riguardato inizialmente il contenimento delle spinte anticoloniali di liberazione nazionale durante ’epoca della decolonizzazione, in seguito si è concentrata sul contenimento dei movimenti comunisti nel continente foraggiati dall’Unione Sovietica, ed "oggi è principalmente focalizzata su due fronti: la competizione con l’Italia per l’egemonia su Libia e Tunisia ed il contenimento dell’espansionismo sinico, quest’ultimo molto più difficile del primo obiettivo, tanto che nel vocabolario di politologi e geopolitici è entrato a pieno titolo il neologismo Cinafrica." 2
I numeri della Françafrique sono impressionanti: oltre 40 interventi militari diretti tesi a difendere regimi filo-francesi, sia democratici che dittatoriali, o ad aiutare dei ribelli a rovesciare dei regimi ostili. Attualmente, la Francia è legata a 12 paesi da accordi militari di tipo difensivo, ed è presente in 10 paesi con delle missioni militari, per un totale di oltre 5mila unità presenti. Dietro la scusante della guerra contro l’imperialismo delle multinazionali occidentali, la Francia ha utilizzato la compagnia di sicurezza privata dello storico mercenario Bob Denard per combattere in Katanga e Biafra, e tentare dei ambi di regime in Gabon, Angola, Zimbabwe, Benin, Repubblica Democratica del Congo ed Unione delle Comore. Lo *Sdece* è stato il principale strumento di difesa della Françafrique, coinvolto pubblicamente o presuntamente in numerosi omicidi politici, soprattutto di leader carismatici noti per le loro denunce nei confronti della sottomissione del continente all’imperialismo occidentale: Ruben Um Byobe e Félix-Roland Moumié dell’Unione Popolare del Camerun, Barthélemy Boganda del Partito Nazionalista Centrafricano, l’oppositore politico ciadiano Outel Bono, l’attivista anti-apartheid Dulcie September, sino ad arrivare ai mostri sacri del fronte nazionalista africano Thomas Sankara e Patrice Lumumba.
Spesso e volentieri i governi francesi hanno sfruttato le tensioni interetniche e interreligiose presenti nei paesi più etno-religiosamente eterogenei per alimentare guerre civili decennali, attraverso le quali mantenere i regimi più ostili, o i territori più ricchi, in un costante stato di assedio e sottosviluppo, utilizzato per acquistare a basso costo materie prime contrabbandate da terroristi e ribelli: un vero e proprio capitalismo di rapina. Fra il 1967 e il 1970, la Francia è stata coinvolta attivamente nella guerra del Biafra, sostenendo i secessionisti attraverso armi, capitale, mezzi, mercenari, viveri. Insieme all’intervento in Libia del 2011, la guerra del Biafra rappresenta uno dei capitoli più cupi della storia della Françafrique. La Francia era intimorita dalla prospettiva che la Nigeria, una delle economie più dinamiche del continente, potesse cadere sotto influenza britannica o sovietica, pertanto alimentò il malcontento presente fra le forze armate e l’etnia Igbo nei confronti del governo centrale per dar luogo ad un movimento secessionista che frazionasse il paese in maniera permanente. Furono Foccart, la Michelin e la "Société Anonyme Française de Recherches et d’Exploitation de Pétrolières" (Safrap), a convincere De Gaulle, demoralizzato dagli insuccessi in Algeria e nel Katanga, ad introdursi nella nascente questione nigeriana per accaparrarsi le importanti riserve di greggio presenti nel Biafra.
Un delicato lavoro di diplomazia segreta effettuato da Foccart portò numerosi paesi, europei e africani, a sostenere la Francia nella guerra segreta contro la Nigeria, fra i quali Israele, Portogallo, Spagna, Rhodesia, Gabon, Sud Africa, Costa d’Avorio, che aiutarono i secessionisti inviando loro armi, scambiando informative d’intelligence, addestrandoli. Un ruolo di fondamentale importanza fu svolto anche dalle organizzazioni non governative, segno precursore del prossimo avvento delle nuove guerre descritte da Mary Kaldorall’indomani dell’implosione della Jugoslavia; infatti gli aerei della Croce Rossa francese furono utilizzati per trasportare carichi di armi ai secessionisti. In concomitanza all’appoggio francese ai secessionisti, l’autoproclamato governo del colonnello Ojukwu introdusse corsi di lingua francese nelle scuole del Biafra e firmò delle importanti concessioni petrolifere alla Safrap. Inoltre fu messa in moto un’efficace macchina propagandistica tesa a dipingere negativamente il governo nigeriano agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, in modo tale da legittimare l’intervento francese nel paese. L’agenzia di stampa fittizia Biafra Markpress, con sede a Ginevra, finanziata dallo Sdece, diventò la principale fonte d’approvvigionamento delle maggiori testate giornalistiche europee, sfornando oltre 250 approfondimenti sulla guerra del Biafra.
Il governo nigeriano fu accusato di aver ridotto in carestia la popolazione biafrana attraverso blocchi navali ed aerei, con l’obiettivo di depurare il paese della componente Igbo. Diversi giornali, tra cui Le onde, iniziarono a parlare di genocidio.
Una storia di terrorismo psicologico e guerra di informazione molto familiare, se si pensa alle bufale prodotte dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, con sede a Londra, gestito da un solo individuo, e finanziato dal governo britannico, sin dallo scoppio della guerra civile siriana, allo scopo di plagiare l’opinione pubblica mondiale e creare una falsa immagine sul ruolo delle parti in conflitto. L’intervento n Libia del 2011, fortemente voluto dall’allora presidente della repubblica Nicolas Sarkozy, ha riconfermato l’importanza per la Francia di avere l’intero continente sotto la propria egemonia. La caduta di Gheddafi <https://www.gogedizioni.it/prodotto/libro-verde/> ha significato non soltanto la ri-tribalizzazione della Libia, oramai considerabile uno Stato fallito comparabile alla Somalia, ma anche tante altre cose: il ridimensionamento della posizione geopolitica dell’Italia nel Mediterraneo e in Nord Africa,* la caduta del paese in una guerra civile che lo ha reso vulnerabile all’avanzata del Daesh e alla radicalizzazione dei più giovani, la fine del patto italo-libico per il controllo dei confini marittimi ed il contrasto all’immigrazione clandestina.
L’interventismo francese nei confronti di un paese tradizionalmente vicino all’Italia è stato reso possibile anche e soprattutto dall’assenza di una classe politica nostrana realmente votata all’interesse nazionale. Quando nel 1986 gli Stati Uniti decisero di reagire militarmente all’attentato alla discoteca La Belle di Berlino, imputato ai servizi segreti libici, con l’operazione El Dorado Canyon, l’allora presidente del consiglio Bettino Craxi, suggerito dall’allora ministro degli esteri Giulio Andreotti, decise di avvertire Gheddafi dell’imminente attacco e negò l’utilizzo dello spazio aereo ai velivoli della US Air orce, nella consapevolezza che la destabilizzazione della Libia avrebbe significato instabilità nel Mediterraneo, quindi lungo le coste italiane.
Oggi assistiamo ad un ritorno dell’interesse nazionale al centro dell’agenda politica del governo italiano, con il ministro dell’interno Matteo Salvini che ha dichiarato di avere in programma un viaggio in Libia con l’obiettivo di risolvere definitivamente la crisi dei migranti, sulla falsariga di quanto già fatto dal suo predecessore Marco Minniti.
La Francia ha esteso i tentacoli della Françafrique anche in Libia a detrimento di un alleato, membro dell’Unione Europea e della Nato, che ha poi patito, e continua a patire, interamente i costi di quell’azione antistorica. L’Africa non conoscerà una vera crescita economica ed una duratura stabilità sociale fino a che la Françafrique esisterà, dal momento che essa si nutre del mantenimento del continente in uno stato di violento asservimento. Allo stesso modo, l’Italia non potrà risolvere la questione dei migranti che andando alla radice: il Sahel, perché è da lì che partono le principali carovane, sempre lì la Francia ha dispiegati uomini e mezzi, e ha politici sul libropaga, potendo determinare l’arresto dei flussi migratori e generando condizioni di sviluppo che, migliorando la qualità della ita delle popolazioni locali, possano creare nel continente le opportunità che in migliaia continuano a cercare disperatamente alla volta dell’Europa.
Fonte: L!intellettuale dissidente
Nuove pessime notizie arrivano dal fronte israelo-palestinese. Alcune si potrebbe dire che cozzino pesantemente contro i principi del Diritto universale umanitario che è tale solo se vale per tutti, compresi i prigionieri di qualunque Stato e per qualunque motivo. A maggior ragione vale quando questi sono detenuti politici imprigionati da uno Stato fuorilegge (fuori della legalità internazionale) quale è Israele, e lasciati morire in carcere dopo 4 anni di isolamento, torture e percosse. E’ il caso del prigioniero Aziz Oweisat di 53 anni, morto in isolamento e per mancanza di cure nel più assordante silenzio mediatico rotto, forse, dall’appello lanciato dall’Ambasciata palestinese in Italia affinché una commissione d’inchiesta accerti i motivi del suo decesso.
A questa recente morte in prigione se ne aggiungono altre di manifestanti già feriti dai cecchini israeliani durante le proteste al confine della Striscia di Gaza. Morti che non spengono certo la tensione, nonostante le autorità politiche che governano la Striscia, secondo fonti attendibili, stiano concordando un compromesso per l’ottenimento di qualche miglioramento sul piano umanitario in cambio della fine delle manifestazioni di massa. Se così sarà, gli oltre 12.000 feriti, centinaia dei quali resi invalidi a vita e gli oltre 112 morti, verranno percepiti come vittime di un amaro tradimento perché quel che va considerato, nonostante la vulgata israeliana fatta propria dai mezzi d’informazione, è che la grande manifestazione di popolo iniziata il 30 marzo per il diritto al ritorno e la fine dell’assedio, non è una manifestazione di Hamas, sebbene i suoi leader – facilitati dalle accuse israeliane – alla fine siano riusciti a farla percepire come propria invitando la popolazione ad andare ed offrendo trasporto gratis per arrivare ai border.
Una dimostrazione di quanto affermato è data dalle “schegge” esasperate che all’obiettivo della grande marcia non rinunciano e che anche in questi giorni cercano di dimostrare, a costo della propria vita, che possono superare il confine e restituire all’IDF parte di quel che l’IDF ha dato ai palestinesi. Infatti piccoli gruppi di giovani sono riusciti più volte a entrare dimostrando che se i droni israeliani possono bruciare le tende dei palestinesi, anche i palestinesi, sebbene con rischi infinitamente superiori, possono fare altrettanto.
Ma Israele ha la forza per bloccare queste infiltrazioni e la usa, sebbene in modo diverso. Talvolta ne fa uso diretto, uccidendo chi non riesce a sottrarsi alla mira dei cecchini, talvolta invece, come ieri, lascia fare per poi trovare l’immediata giustificazione del mondo alla sua rappresaglia come è successo questa notte. Ricordiamo che per il diritto internazionale la rappresaglia è legittima solo tra Stati belligeranti ed è imputabile allo Stato autore dell’illecito e non ai singoli cittadini, sempre e solo dopo aver accertato i colpevoli e inoltre deve essere sempre strettamente proporzionale all’offesa. Questo in sintesi recita la IV Convenzione di Ginevra e quindi le rappresaglie israeliane, non essendo tra Stati (non risulta che Gaza lo sia e lo Stato di Palestina non è comunque riconosciuto da Israele), non avendo accertato i colpevoli, non essendo proporzionali all’offesa, sono regolarmente illegali.
I bombardamenti di questa notte, quindi configurabili in rappresaglia illegale, sarebbero stati la risposta ufficiale all’azione di un gruppo di palestinesi che è penetrato in Israele dal sud della Striscia, nei pressi di Rafah, e ha dato fuoco a una postazione di cecchini israeliani. Perché l’esercito israeliano non sia intervenuto, sebbene in una nota abbia comunicato di essere a conoscenza dell’azione, è intuibile ma non dimostrabile. L’accusa comunque è indirizzata ad Hamas, nonostante non ce ne siano prove.
Che siano stati militanti di Hamas o meno a compiere l’azione non è dato saperlo ma, applicando un ragionamento logico dovrebbero essere elementi sfuggiti al suo controllo visto che Hamas, come detto sopra, starebbe trattando per la fine della grande marcia in cambio di aiuti alla popolazione. Tuttavia, attribuendo ad Hamas qualunque cosa avvenga nella Striscia, il ministro Liberman, dopo i bombardamenti di questa notte – che hanno distrutto due barche destinate a rompere l’assedio portando fuori i malati impossibilitati a uscire e alcune postazioni militari vicino Jabalia – ha sbeffeggiato le Autorità politiche di Gaza invitandole ad ammettere che il loro progetto militare è fallito.
La risposta non poteva che essere una, in questo micidiale gioco di potere in cui le vittime fungono da pedine, la risposta è stata che le proteste popolari saranno alimentate dalla repressione e Israele non riuscirà con la sua violenza a indebolire la determinazione del popolo gazawo.
In effetti, dopo settant’anni di invasione, repressione e occupazione, nonostante le innegabili lacerazioni del tessuto sociale dovute a rivalità politiche e a una forte spaccatura tra movimenti laici e movimenti religiosi, il popolo palestinese, tutto, ha contraddetto la convinzione che Ben Gurion, il fondatore dello Stato israeliano, espresse nell’aprile del ’48 quando affermò che “i vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno”. Infatti non è bastata la violenza dell’occupante e il sostegno di cui gode a livello internazionale a spezzare la determinazione di questo popolo e probabilmente non basterà.
E’ più facile che l’idea di Ben Gurion si realizzi con altri mezzi e Israele, con l’aiuto della sua intelligente propaganda, di una sapienza notevole di psicologia delle masse e del ricorso al sempiterno potere della corruzione in situazioni di bisogno, potrebbe riuscirci. Ma è un obiettivo difficile da raggiungere e probabilmente Israele non ci riuscirà se i palestinesi, e i gazawi in particolare, si renderanno conto per tempo che qualcuno sta tentando di trasformarli da popolo resistente e dignitoso, a popolo di questuanti depressi e disperati.
La partita, secondo chi scrive, ora si gioca su questo terreno oltre che su quello della violenza che l’occupante comunque non abbandonerà finché ci sarà una resistenza che, in forme diverse, seguiterà a opporsi al suo strapotere anche semplicemente seguitando a chiedere il riconoscimento di diritti inalienabili, non solo per i palestinesi, ma per la stessa sopravvivenza del diritto internazionale che sotto la falce israeliana rischia di diventare solo simulacro di se stesso.
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza
Aldo Moro e Peppino Impastato |
08.05.2018 - Il 9 maggio è la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi. Sono passati 40 anni da quando nello stesso giorno, il 9 maggio 1978, sono stati trovati morti Aldo Moro e Peppino Impastato. Il primo ucciso dai terroristi che volevano abbattere lo Stato e l’altro dalla mafia che si presentava come Stato alternativo.
Di Aldo Moro sono fissate nella memoria collettiva le immagini del corpo fatto ritrovare nel bagagliaio di una R4 rossa a pochi passi dalle sedi dei due partiti popolari italiani del dopoguerra, la DC e il PCI. Di Peppino Impastato furono ritrovati soltanto brandelli del corpo, dilaniato dall’esplosivo, sparsi nel raggio di decine di metri.
Aldo Moro è stato il politico che più di tutti ha cercato di costruire un ponte tra cattolici e comunisti, che ha consentito di approvare riforme importanti per i diritti nel lavoro, nella scuola e nella sanità. Peppino Impastato si è ribellato al sistema mafioso, che abitava a 100 passi di distanza, che permeava la sua famiglia e il suo paese (Cinisi), denunciando gli interessi economici perseguiti dai clan con la connivenza di apparati dello Stato.
Aldo Moro fu tra coloro che scrissero la Costituzione e fu il primo firmatario dell’Ordine del giorno approvato all’unanimità l’11 dicembre del 1947 in cui si dice: “L’Assemblea Costituente esprime il voto che la nuova Carta Costituzionale trovi senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado”. Nel 1958, quando Moro fu nominato Ministro dell’Istruzione, mantenne la promessa Costituzionale e istituì l’insegnamento obbligatorio dell’Educazione Civica nelle scuole medie e superiori. Peppino Impastato è nato nel gennaio del 1948 insieme alla Costituzione della Repubblica Italiana. Nel 1967 partecipò alla “Marcia della protesta e della speranza”, organizzata da Danilo Dolci, dalla Valle del Belice a Palermo, così descritta: “gruppi di giovani, con cartelli inneggianti alla pace e allo sviluppo sociale ed economico della nostra terra, confluiscono con incredibile continuità nella fiumana immensa dei manifestanti”.
Aldo Moro trascorse le ultime settimane di vita in un cubicolo di 2 metri quadrati, senza spazio per camminare. Fu ucciso per una sentenza pronunciata da un sedicente “tribunale del popolo”, che intendeva colpire il cuore dello Stato. Peppino Impastato non sopportava le ingiustizie, soprattutto quelle autorizzate dallo Stato. Negli anni ’70 fu in prima linea nelle lotte contro la speculazione edilizia, l’apertura di cave da riempire di rifiuti, la realizzazione di un villaggio turistico su un terreno demaniale, la costruzione di una nuova pista dell’aeroporto. L’art. 9 della Costituzione stabilisce che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Aldo Moro nelle lettere scritte dalla “prigione del popolo” mise a nudo la logica aberrante del potere, con il suo “assurdo e incredibile comportamento”, a tal punto di arrivare a chiedere alla moglie di “rifiutare eventuale medaglia”, essendo ben consapevole della fine. Peppino Impastato contrastò le collusioni della politica con la mafia, con grande creatività, organizzando un carnevale alternativo, con una sfilata di cloni che dileggiavano i potenti del paese e con la trasmissione radiofonica “Onda pazza”, in cui si raccontavano in modo dissacrante le storie di “mafiopoli”.
Il funerale di Aldo Moro venne celebrato senza il corpo dello statista per esplicito volere della famiglia, che non vi partecipò, ritenendo che lo Stato italiano poco o nulla avesse fatto per salvare la sua vita. Al funerale di Peppino Impastato parteciparono migliaia di giovani compagni, nell’indifferenza della gente del paese di Cinisi, nascosta dietro l’omertà delle finestre chiuse. Nelle prime indagini si ipotizzò che Peppino Impastato fosse saltato in aria mentre stava compiendo un attentato. In nome del popolo italiano furono i giudici Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto a riconoscere la matrice mafiosa dell’omicidio di Peppino Impastato.
Aldo Moro fu rapito mentre si stava recando in Parlamento, il giorno della presentazione del nuovo Governo, sostenuto da un’alleanza innovativa, che si era “tanto impegnato a costruire”. Il 6 maggio 1978 il gruppo politico di Peppino Impastato, con riferimento ad Aldo Moro, diffuse nel paese di Cinisi un volantino in cui si leggeva: “Di fronte alla possibilità, che trapela dal modo in cui si conclude il comunicato delle B.R., che l’assurda condanna a morte non sia stata ancora eseguita, rivolgiamo un ultimo appello alla trattativa in nome della vita e per la difesa del diritto a lottare delle masse popolari”. Peppino Impastato, candidato nella lista di Democrazia Proletaria, alle elezioni del 14 maggio 1978 fu eletto consigliere comunale da morto.
Le immagini di Aldo Moro e di Peppino Impastato, persone molto diverse, per una coincidenza di data, per un destino che li accomuna, tendono ad avvicinarsi. Tutti noi siamo in debito verso entrambi, uomini coerenti e attenti al nuovo che avanza, assetati di giustizia e con la voglia di cambiare, ognuno nel proprio contesto, al di fuori e dentro le istituzioni.
Aldo Moro scrisse che commemorare significa “non solo ricordare insieme, ma ricordare rendendo nuovamente attuale” e parlò della necessità di “pulire il futuro”.
Oggi sarebbe un segno dei tempi se un Comune italiano intitolasse una via ad “Aldo Moro e Peppino Impastato”, uniti nella memoria. Facile immaginare che quella strada ogni anno il 9 maggio sarebbe inondata da tanti giovani, per rendere vive le vittime della violenza, per promettere impegno e dare gambe a quelle speranze che Aldo Moro e Peppino Impastato hanno cercato di realizzare.
Per gentile concessione dell'agenzia di Stampa PRESSENZA
(Foto di Democracy Now) |
29.04.2018 - Credo che la “Dichiarazione di Panmunjom per la pace, la prosperità e l’unificazione della Penisola Coreana” (https://www.pressenza.com/it/2018/04/dichiarazione-panmunjom-la-pace-la-prosperita-lunificazione-della-penisola-coreana/) scaturita dallo storico summit fra le due Coree meriti alcune riflessioni ulteriori, oltre la pioggia di commenti che vi è stata. Intanto dissolve una minaccia che è stata agitata per quasi 30 anni, ed ha prodotto l’effetto esattamente contrario a quello che si diceva di volere.
Personalmente ho sempre ripetuto e argomentato da un anno a questa parte la convinzione:
Mi soffermerò solo su qualche punto che, se pure è stato considerato nei tanti commenti, merita una riflessione più specifica.
Che cosa implica la denuclearizzazione?
Penso che l’aspetto che più ha richiamato l’attenzione del pubblico sia quello della “denuclearizzazione”: il modo in cui esso viene impostato merita un commento approfondito, perché chi non segua da vicino questi problemi può non cogliere alcuni punti fondamentali .
In primo luogo si deve osservare che non si parla di smantellamento dell’arsenale nucleare di Pyongyang, di “denuclearizzazione della Corea del Nord”, come era richiesto finora come condizione dagli Stati Uniti. Si parla invece dell’«obiettivo comune di realizzare, attraverso la completa denuclearizzazione, una Penisola Coreana libera da armi nucleari» (the common goal of realising, through complete denuclerization, a nuclear-free Korean Peninsula). Questo è un obiettivo ben diverso e di portata molto maggiore, e non solo per la penisola coreana. Non è solo Pyongyang, infatti, ad avere introdotto le armi nucleari nella penisola: gli Stati Uniti inviano regolarmente aerei e navi con capacità nucleari verso la Corea del Sud per esercitazioni militari. È un aspetto che parla direttamente anche a noi, che ospitiamo tra le 40 e le 70 testate termonucleari statunitensi, e abbiamo 11 porti che ospitano visite di navi a propulsione nucleare, che dai primi anni Novanta non dovrebbero più trasportare bombe nucleari, ma non possiamo averne la certezza in caso di crisi internazionali, come per esempio l’attacco alla Libia.
La questione poi delle Nuclear Free Zones[1] è di scottante attualità perché richiama direttamente la regione nella parte opposta del continente asiatico – il Medio Oriente – dove minaccia di riesplodere la crisi riferita all’Iran, con la prospettiva sempre più concreta che Trump non certifichi nuovamente in maggio l’accordo sul nucleare JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) del luglio 2015. In questa regione sono in ballo l’arsenale di Israele e le testate termonucleari statunitensi schierate in Turchia. Vale la pena richiamare alcuni fatti che forse non molti hanno presenti. In primo luogo la “Dichiarazione di Teheran” sottoscritta il 21 ottobre 2003 da Francia, Germania e Gran Bretagna con l’Iran, a fronte dell’impegno di Teheran di sviluppare solo tecnologia nucleare civile: la UE si impegnava a cooperare per la realizzazione di una “Zona Libera da Armi di Distruzione di Massa in Medio Oriente”[2]. Senza contare quello che era stato praticamente l’unico risultato positivo nel fallimento della VIIa Conferenza di Revisione del TNP del maggio 2005, l’impegno a convocare per il 2012 una Conferenza Internazionale per rendere il Medio Oriente «Zona Libera da Armi Nucleari e di Distruzione di Massa», con esplicito riferimento (per la prima volta) all’arsenale nucleare di Israele, e l’invito esplicito ad aderire al tnp e ad accettare le ispezioni della iaea. Israele, dopo avere esercitato pressioni fortissime sugli usa, reagì in modo furioso, dichiarando che mai avrebbe partecipato a questa conferenza[3], che poi di fatto non fu mai convocata. Insomma, promesse di marinaio!
La Dichiarazione di Panmunjom parla quindi anche di altri problemi e indica la strada di possibili soluzioni. Ed propone anche un percorso concreto, con l’affermazione che “La Corea del Sud e del Nord hanno concordato di cercare attivamente il sostegno e la cooperazione della comunità internazionale per la denuclearizzazione della Penisola Coreana”.
Questa è la vera posta in gioco. L’impegno della chiusura del centro nucleare di Punggye-ri nel nordest del Paese, dove sono stati condotti i sei test nucleari, sarà probabilmente un segnale positivo, d’immagine, ma certamente non risolutivo.
Quale “pace” e “sicurezza”?
È già stato ampiamente sottolineata l’importanza storica dell’obiettivo di concludere finalmente, a distanza di 65 anni dalla Guerra di Corea (1950-1953), un Trattato di Pace. Così come l’intenzione di “stabilire un permanente e solido regime di pace nella Penisola Coreana”, che però dovrà affrontare e risolvere alcuni nodi cruciali e complessi. In primo luogo la presenza in Corea del Sud di circa 25.000 soldati statunitensi. Per non parlare delle esercitazioni militari che si svolgono periodicamente nelle acque limitrofe alla Corea del Nord, e che non danno certamente un segnale di “sicurezza”.
Queste brevi considerazioni rafforzano l’importanza storica dell’incontro di Panmunjom.
[1] Esistono attualmente quattro trattati che contemplano divieti in parte diversi, ma come minimo proibiscono lo schieramento, la sperimentazione, l’uso e lo sviluppo di armi nucleari all’interno di una particolare regione geografica: Trattato per la Proibizione di Armi Nucleari In America Latina e nei Caraibi (Trattato di Tlatelolco, 1985); Trattato per la Zona Libera da Armi Nucleari del Pacifico del Sud (Trattato di Rarotonga, 1985; la Nuova Zelanda ha un’ulteriore legislazione interna che vieta l’ingresso nei suoi porti di imbarcazioni a propulsione nucleare, o che portino armi nucleari, che non è invece vietato dal trattato di Rarotonga: questa norma ha creato problemi con gli Stati Uniti); Trattato per la Zona Libera da Armi Nucleari del Sud Est Asiatico (Trattato di Bangkok, 1995); Trattato per la Zona Libera da Armi Nucleari dell’Africa (Trattato di Pelindaba, 1996). Vi sono poi altri trattati che vietano specificamente esplosioni nucleari di qualsiasi tipo e lo smaltimento di scorie radioattive: il Trattato sull’Antartide (1959), il Trattato sullo Spazio Esterno (1967), e il Trattato sui Fondi Marini (1971).
[2] Ma un voluminoso documento della UE del 5 dicembre 2005 (http://ue.eu.int/uedocs/cmsUpload/st14520.en05.pdf) sulle strategie contro la proliferazione di armi di distruzione di massa, pur premettendo un riferimento ai tre pilastri del TNP (non-proliferazione, disarmo e usi pacifici), non faceva poi più alcun riferimento agli obblighi di disarmo nucleare nel corpo del documento e nelle azioni e i finanziamenti che proponeva! Evidentemente la UE ha un grosso problema interno costituito dagli arsenali e dai progetti nucleari della Francia e della Gran Bretagna. Ma – come per molti altri aspetti dei rapporti internazionali – avrebbe un grosso peso una decisione dell’Europa di procedere al disarmo nucleare: una decisione unilaterale in questo senso, concordata possibilmente con altri Stati nucleari, metterebbe nell’angolo anche gli Stati Uniti e renderebbe per loro assai problematico proseguire da soli sulle linee attuali.
[3] Sulla pervicace ambiguità mantenuta da Israele sul proprio arsenale nucleare v. ad es. A. Cohen, Israel’s Nuclear Future: Iran, Opacity and the Vision of Global Zero, in C. McArdle Kelleher, J.V. Reppy (eds), Getting to Zero, Stanford University Press, Palo Alto, 2010.
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza
Tra i “prodotti” mediorientali degli sviluppi geopolitici successivi al crollo dell'Unione Sovietica c'è la Turchia, aspirante membro dell'Unione Europea, ma anche pilastro dell'Alleanza atlantica (NATO): in Siria, Ankara raccoglie i frutti del suo pragmatismo politico dell'ultimo trentennio
Lo scorso 21 aprile, in un'intervista alla rete privata NTV, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato che la principale minaccia per la Turchia sono i partner strategici, criticando gli Stati Uniti e i loro alleati per il loro sostegno ai curdi delle Unità di difesa popolare (YPG) nella guerra contro i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (IS). “Noi (turchi) non possiamo comprare armi dagli USA con il nostro denaro”, ha lamentato Erdoğan, “e purtroppo gli USA e le forze della coalizione danno gratuitamente queste armi, queste munizioni a organizzazioni terroristiche”. Quindi, ha accusato direttamente “i paesi occidentali” di strumentalizzare i terroristi dell'IS per sostenere “organizzazioni terroriste separatiste” curde. Dopo il suo commento ostentatamente equilibrato agli attacchi di USA, Francia e Gran Bretagna contro presunti siti di produzione e stoccaggio di armi chimiche in Siria, il presidente turco ha dunque marcato nuovamente le differenze tra Ankara e Washington: questa volta con il pretesto che dopo aver proposto all'ex presidente USA Barack Obama una collaborazione nella lotta contro il terrorismo, la Turchia è stata costretta ad affrontare questa guerra da sola, a causa della tattica temporeggiatrice degli Stati Uniti. Un riferimento all'operazione Ramo d'ulivo, lanciata da Ankara il 20 gennaio scorso: alcune regioni nella Siria settentrionale, tra le quali Afrin, ha precisato Erdoğan, sono state già “pulite” dalla presenza dei “terroristi”.
Per il presidente turco, la parola “terroristi” indica principalmente le YPG curde, che fanno riferimento al Partito dell'unione democratica (PYD), vicino al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Questo partito è ufficialmente ritenuto organizzazione terroristica anche dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea, che nondimeno hanno sostenuto le YPG nella guerra contro i cartelli del jihad. Contraddizioni simili hanno permesso alla Turchia di imporsi come attore protagonista nello scacchiere mediorientale, al punto tale da poter agire in piena autonomia da tutti gli altri attori regionali e mondiali. Questo è stato infatti il tono del ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu, la scorsa settimana, quando ha affermato che contrariamente alle aspettative del presidente francese Emmanuel Macron, il lancio di missili in Siria non è riuscito a “separare” la Turchia dal suo alleato russo. “Possiamo pensarla diversamente”, ha spiegato Çavuşoğlu, “ma le nostre relazioni con la Russia sono troppo solide per essere interrotte dal presidente francese”, anche se “non sono un'alternativa” a quelle con la NATO. Ankara conduce quindi una politica “conforme ai suoi interessi”, come ha puntualizzato il portavoce del governo turco, il vice primo ministro Bekir Bozdağ, senza schierarsi “pro o contro un paese”.
Sulla stessa linea si è espresso il 22 aprile il ministero degli Esteri turco a proposito dell'ultimo Rapporto sui diritti umani del Dipartimento di Stato USA. Il rapporto “privilegia i punti di vista di fonti legate ai terroristi”, “ignora i fatti” ed è “fondato su una considerazione distorta della responsabilità”, perché dà credito alle accuse di “circoli legati ai terroristi”. Esso inoltre ignora la lotta che la Turchia sta conducendo “contro il gruppo terrorista radicale FETÖ”, acronimo di Fetullahist Terrorist Organization, etichetta con cui le autorità turche bollano i sostenitori veri e presunti del predicatore islamico in esilio negli USA Fethullah Gülen. In proposito, il ministero degli esteri turco ha commentato che “non è una coincidenza che un simile rapporto, che riporta le parole di gruppi legati al terrorismo e descrive la lotta contro il terrorismo come un conflitto interno, è scritto in un paese dove vive il capo di FETÖ”. Sarà interessante ora osservare l'atteggiamento di Çavuşoğlu alla prossima riunione dell'Assemblea Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a New York, prevista per il 24 e 25 aprile, sul tema della pace.
Erdoğan è riuscito quindi a instaurare relazioni con tutte le parti coinvolte nel conflitto siriano i cui interessi siano compatibili, almeno in una certa misura, con quelli della Turchia. Anche al di fuori del complesso quadro mediorientale, Ankara si dice pronta ai negoziati per aderire all'Unione Europea, ma reagisce duramente a qualsiasi tentativo da parte di Bruxelles o di singoli paesi europei di mettere in dubbio i metodi autoritari delle autorità turche. Inoltre, dopo quasi due anni di tensioni con la Grecia, a seguito della decisione di Atene di concedere l'asilo agli ufficiali turchi fuggiti dopo il tentativo di colpo di Stato del luglio 2016, Erdoğan ha affermato la necessità di una “pace”, apprezzando la volontà del primo ministro greco Alexis Tsipras di “voltare pagina”.
A questa “versatilità” in politica estera, corrispondono, sul fronte interno, l'impazienza di applicare la riforma costituzionale (approvata da un'esigua maggioranza al referendum del 2017) e la volontà di dare al nuovo sistema presidenziale una connotazione di massa. Per questo, consumata la rottura con l'antico alleato Gülen, Erdoğan cerca i consensi del tradizionale elettorato islamico (in buona parte conquistato proprio grazie a Gülen), pur mantenendo una solida alleanza con il Partito del movimento nazionalista (MHP) di Devlet Bahçeli. È a quest'ultimo che tende la mano quando, ad esempio, si scaglia contro USA e UE, perché i suoi voti potrebbero essere decisivi in vista delle prossime elezioni legislative e presidenziali. Una delle ragioni principali per cui il presidente turco ha voluto anticiparle al prossimo 24 giugno (erano previste per novembre 2019), su suggerimento di Bahçeli, è il rischio rappresentato da Meral Akşener, ex esponente dell'MHP che ha rotto con il partito e con Bahçeli a causa dell'atteggiamento di quest'ultimo, giudicato troppo compiacente nei confronti di Erdoğan. Soprannominata “la signora di ferro”, la Akşener ha fondato il Partito del bene (25 ottobre 2017), per proporre una forma di nazionalismo laico, critico nei confronti dell'islamizzazione della Turchia, ma anche della repressione scatenata da Erdoğan dopo il tentativo di colpo di Stato. Secondo le leggi turche, i partiti che non abbiano tenuto almeno un congresso nei sei mesi precedenti non possono partecipare alle elezioni: anticipando la data di queste ultime, la Akşener potrebbe essere esclusa dalla competizione.
Una scelta che è costata al presidente turco non poche critiche da parte delle opposizioni, che si sommano alle perplessità espresse dall'ONU a proposito della proroga (per la settima volta) dello stato di emergenza in Turchia. In proposito, Erdoğan ha chiarito che “lo stato di emergenza colpisce solo i terroristi”, quindi è una forma di tutela. Quanto alle elezioni, ha specificato che tutti i partiti potranno condurre la loro campagna con maggiore serenità e che “i brogli che si verificano alle elezioni americane non esistono nelle nostre elezioni”.
Il 18 marzo le Forze Armate Turche (TSK) della Repubblica di Turchia insieme alle forze armate dell’Esercito Libero Siriano (FSA) sono entrate nel centro di Afrin in Siria.
Dopo circa due mesi di scontri con i membri dell’Unità di Protezione Popolare (YPG-J) il governo al potere in Turchia ha ottenuto ciò che voleva. L’obiettivo dell’operazione era quello di “liberare la città dai terroristi”, anche perché le forze YPG e YPJ e la loro espressione partitica PYD sono state definite da parte del governo AKP (Partito dello Sviluppo e della Giustizia) come delle “organizzazioni terroristiche”.
In realtà non è stato soltanto il partito al governo da più di 15 anni ad adottare una definizione del genere. L’operazione è stata difesa da una buona parte della cittadinanza, oppure è stato fatto di tutto perché fosse così.
In questa seconda parte del mio approfondimento parlerò dei mezzi e dei metodi utilizzati dal governo per giustificare questa operazione. In primis i media, ma non soltanto, si sono messi a disposizione del governo. Insieme analizzeremo come la scuola pubblica, lo sport ed il mondo degli artisti sono stati utilizzati per creare un’opinione pubblica a favore della guerra.
Neanche un mese dopo l’inizio dell’intervento militare, un gruppo di artisti ha deciso di andare nella città di Hatay, al confine siriano, per dimostrare solidarietà ai soldati. Yavuz Bingöl, Tamer Karadağlı, Erhan Yazıcıoğlu, Erhan Güleryüz, Mustafa Ceceli e Zuhal Yalçın sono i primi nomi che saltano all’occhio. Il titolo dell’iniziativa era “Gli artisti insieme ai soldati”. Alla conferenza stampa, il 15 febbraio, era presente anche il vice presidente generale dell’AKP, Harun Karacan. Dopo l’incontro con la stampa i partecipanti sono andati in una caserma militare per incontrare i soldati e farsi delle fotografie. Tra i promotori dell’iniziativa c’era anche il cantante Erhan Güleryüz, l’ex solista del gruppo musicale Ayna. Güleryüz ha detto nel suo intervento: “Siamo qui per dire ai nostri soldati che gli 80 milioni di cittadini sono con loro”.
Pochi giorni dopo, il 23 febbraio, con un’iniziativa lanciata su internet da una serie di artisti, sono stati mandati numerosi messaggi di solidarietà ai soldati in missione. Mentre il famoso cantante di musica arabesca, Ibrahim Tatlises, definiva i soldati come degli “eroi”, la famosa attrice Hulya Koçyigit scriveva così: “ogni giorno prego perché i soldati ritornino sani e salvi a casa” e la famosa cantante Sibel Can scriveva queste parole per mostrare il suo sostegno: “Allah aiuti i nostri soldati”.
Forse il peggio è arrivato quando l’operazione si è conclusa. Il primo aprile un gruppo di artisti, insieme al Capo dello Stato Maggiore e al Presidente della Repubblica, si sono trovati in una caserma militare nella città di Hatay. Il cantante Ahmet Şafak ha descritto così il motivo della sua presenza in quel luogo: “Siamo qui accanto ai nostri figli. Abbiamo dimostrato che teniamo all’unità del nostro Stato e riteniamo che sia implacabile l’unità della nostra nazione turca”. Questa iniziativa è stata criticata duramente dai partiti all’opposizione (CHP e HDP) soprattutto per via delle canzoni patriottiche cantate dai cantanti con l’ausilio degli strumenti musicali in caserma. Il leader del Partito Popolare e Repubblicano, Kemal Kiliçdaroglu, ha trovato scorretto questo gesto allegro fatto in un contesto di morte. All’incontro erano presenti anche alcuni sportivi.
Con questi gesti “simbolici” il mondo artistico ha contribuito alla costruzione dell’immagine dell’operazione come se fosse una guerra d’indipendenza.
Il secondo campo, a livello nazionale e popolare, in cui si è cercato di legittimare e normalizzare la guerra, è stato il mondo dello sport.
Il primo marzo un gruppo di sportivi, insieme a un gruppo di artisti e numerosi parlamentari e dirigenti locali dell’AKP, sono andati nella città di Kilis per incontrare i soldati. Il 7 febbraio la società sportiva Aski Spor insieme ad alcuni atleti olimpici, ha lanciato un video messaggio in cui venivano pronunciate queste parole: “Sono nostre queste terre che abbiamo conquistato lottando nel 1071. E’ nostra questa patria”. Pochi giorni dopo l’inizio dell’operazione militare sono arrivate le prime notizie sulla morte dei soldati. Così la Federazione Turca Calcio (TFF) ha deciso di dedicare un minuto di silenzio prima di ogni partita “per commemorare i nostri martiri”. Ovviamente nelle tribune non mancava lo storico slogan patriottico “I martiri non muoiono, la patria non si spacca”. Nelle tribune non c’erano soltanto queste frasi ma c’erano anche dei momenti di grande coreografia. Prima della partita di calcio tra Konyaspor e Galatasaray, i tifosi della squadra anatolica hanno occupato una sezione intera scrivendo “Afrin” ed hanno alzato dei cartelli con scritto “Turchia”; in sottofondo non mancava un inno militare ottomano.
Il 15 marzo, alla luce dell’anniversario della vittoria militare dei Dardanelli del 1915, nelle tribune dello stadio appartenente alla squadra calcistica di Istanbul Basaksehir, si è vista sorgere la mappa rossa della Turchia con la bandiera disegnata sopra, i soldati con le divise dell’epoca ed in un angolo un soldato moderno che alzava la bandiera turca. Al centro di questo poster gigantesco c’erano alcuni giocatori della squadra che facevano il saluto militare. Sotto invece si leggeva questa frase: “Anche oggi, come il 18 marzo 1915, vinceranno i credenti, non quelli che sono in maggior numero”.
Ormai si parlava dell’operazione “Ramoscello d’ulivo” come di un intervento totalmente corretto e legittimo. Nei messaggi dei membri del governo, degli artisti e del mondo sportivo si leggevano soltanto parole nazionaliste e patriottiche. Si parlava di “conquistare” un territorio che per alcuni, in realtà, “era già nostro”. Non c’era spazio per avere dubbi sulla legittimità della guerra. Per chi avesse avuto qualche dubbio, invece, erano aperte le porte dei centri di detenzione. Di questo parlerò nel prossimo pezzo.
Come già detto, anche il mondo della musica ha sostenuto questa operazione militare. Il gruppo rap Geeflow ha lanciato il suo video su internet a favore dell’operazione. Il 24 febbraio è uscito il pezzo col titolo “Ramoscello d’ulivo”. Alcuni versi della canzone recitano: “Se ci sacrifichiamo, possiamo accedere al paradiso, se versiamo il nostro sangue, la patria diventa nostra”. Nel video ovviamente non mancano le immagini dei soldati e degli scontri, anche se non in modo netto e chiaro. Anche il rapper Yunus Akpunar si è dedicato a questa missione ed ha usato anche lui il nome dell’operazione come titolo del suo pezzo. In questo caso si vede il cantante allacciare i suoi anfibi e portare una casacca militare mentre canta la canzone. Alcuni versi del pezzo dicono: “Ci sono diversi terroristi nascosti tra di noi, facciamoci attenzione. Ci sono tanti traditori che vorrebbero dividere il nostro paese. Facciamoci attenzione e non dimentichiamoci dei nostri antenati”. In alcune immagini del video si vede il cantante sventolare la bandiera turca con una mano mentre con l’altra tiene una pistola grigia.
Un altro pezzo musicale invece è di Idris Altuner. Stavolta si tratta di un lavoro diverso. Mentre i pezzi rap sono tanti, Altuner decide di fare un pezzo tradizionale utilizzando gli strumenti e le melodie dell’orchestra militare ottomana, Mehter. Si tratta di un video professionale di alta qualità. Il cantante è vestito con dei costumi antichi e tradizionali. Durante il video si vedono i musicisti dell’orchestra Mehter. Nel pezzo in cui si vede il cantante andare su un cavallo in Cappadocia, Altuner pronuncia queste parole: “La vittoria si espanda da Afrin a Mimbic, tremino le montagne con il rumore degli anfibi del Turco”.
Forse la parte più aggressiva, per via dei suoi protagonisti, di tutta questa campagna di propaganda della guerra è quella del mondo della scuola.
Il 4 marzo, nella città di Bursa, gli studenti del Liceo Gursu Yildiz, si sono riuniti nel cortile della scuola per scrivere con i loro corpi la parola “Afrin” mentre li riprendeva un drone. Come sottofondo del video c’è una canzone militare ottomana. Nella città di Karabuk, sulla costa del Mar Nero occidentale, presso il Liceo Cumhuriyet un gruppo di studenti è sceso nel cortile per fare un’azione simile. Nel loro caso il lavoro svolto era più sofisticato. Mentre alcuni studenti scrivevano, con i loro corpi, “Ramoscello d’ulivo”, altri sventolavano una grande bandiera turca ed un altro gruppo con vestiti militari leggeva “il giuramento del commando”. Ovviamente anche in questo caso tutto è stato ripreso da un drone e nel video si sente una canzone militare ottomana.
In altri casi invece, oltre alla coreografia all’aperto, sono state fatte delle preghiere collettive di solidarietà con i soldati in missione. Proprio come nel caso della Scuola Femminile per gli Imam della città di Manisa, vicina alla costa dell’Egeo, dove 130 studentesse prima hanno scritto “Ramoscello d’ulivo” con i loro corpi, poi sotto la direzione del preside hanno letto delle preghiere.
Un altro caso di preghiera collettiva invece è stato fatto nella scuola elementare di Birikim Okullari di Istanbul. Stavolta la rappresentazione si è svolta all’interno, su un palco. Un gruppo di bambini che hanno, molto probabilmente, meno di 10 anni, si sono uniti con i palmi rivolti verso il cielo. Al centro un bambino prega per il bene della nazione e dei soldati ad Afrin e in sottofondo si sentono gli altri dire “Amen” in modo collettivo. Il video realizzato con gli studenti delle elementari si conclude con un pezzo ripreso all’aperto in cui si vedono decine di bambini sventolare una grande bandiera turca gridando: “I martiri non muoiono, la patria non si spacca”.
L’operazione militare “Ramoscello d’ulivo” è stata un elemento di grande dimostrazione di potere del governo ed è stata utilizzata anche per rafforzare i sentimenti nazionalistici già presenti nel tessuto sociale e storico del Paese. In realtà il governo AKP non ha fatto nulla di nuovo. In Turchia il terreno è molto fertile per le politiche nazionaliste e religiose, la sua storia è piena di periodi del genere. Il sentimento/l’orgoglio nazionalista ha radici molto profonde nella storia dei cittadini ed è il frutto di una serie di politiche nel mondo dell’istruzione, dell’arte, dello sport e non solo.
Dove non è stato possibile ottenere il sostegno popolare a favore dell’operazione militare, il governo, insieme al sistema giudiziario e alle forze dell’ordine, ha attivato il meccanismo della repressione e della censura. Questo sarà il tema del prossimo pezzo di questa serie.
da l"Avanti"
Venerdì 6 aprile presidii di fronte alle Prefetture e nelle piazze siciliane-A Catania alle ore 17,30 in via Etnea, angolo via Prefettura
Il giro d’Italia 2018 quest’anno partirà da...Israele. Dietro un contributo di MILIONI di euro da parte di Israele, gli organizzatori del Giro hanno deciso di far diventare lo sport uno strumento di propaganda; le prime tre tappe del Giro d’Italia partiranno da città israeliane, con partenza da Gerusalemme ovest. Tale scelta non è casuale, soprattutto dopo che il Presidente USA Donald Trump ha tentato di far dichiarare all’ONU Gerusalemme capitale di Israele. Che, se mai avvenisse, sarebbe l’atto simbolicamente conclusivo dell’annessione dei territori palestinesi. Anche il mese della data della partenza non è causale. Il 15 maggio 2018 è il 70° anniversario della creazione dello Stato d’Israele. Ma questa è anche la data che sancisce la Nakba, ossia la deportazione del popolo palestinese a seguito dell’occupazione del 1948.
Il 30 marzo, Giornata della Terra per il popolo palestinese, l’esercito israeliano ha ucciso 17 palestinesi e ne ha feriti 1630 nell’illusione di poter fermare la Grande Marcia per il Ritorno. I crimini israeliani, da decenni denunciate da decine di risoluzioni dell’Onu, sempre disattese, proseguono grazie alle collusioni del complesso militare industriale occidentale ed alle complicità politiche degli Usa, dei governi europei e delle petro-monarchie arabe; le stesse istituzioni del nostro paese si rendono complici dello stato sionista avviando progetti comuni di sviluppo e di produzione di armamenti, che coinvolgono non poche Università italiane, promuovendo esercitazioni militari congiunte e fornendo materiale bellico. Denunciamo inoltre la subalternità di quasi tutti i media che hanno falsato la realtà di ciò che è accaduto nella Striscia di Gaza: non scontri o guerriglia , ma criminali cecchini israeliani che hanno fatto il tiro a segno su migliaia di donne, bambini ed uomini palestinesi.
Oramai non c’è più spazio per l’ipocrita equidistanza fra vittime e carnefici!
Facciamo appello al governo, dimissionario, Gentiloni ed a tutte le forze politiche, all’UCI (Unione Ciclistica Internazionale) di non essere complici dei crimini sionisti, strumentalizzando un momento di sport popolare, e di adoperarsi affinchè vengano annullate le 3 tappe del Giro d’Italia in Israele (4-5-6 maggio).
Chiamiamo alla mobilitazione tutte le realtà solidali con la resistenza del popolo palestinese durante le tappe siciliane, a partire dalla prima in Italia l’8 maggio a Catania, aderendo alla campagna internazionale “CambiaGiro”.
Boicottiamo l’economia di guerra israeliana
Lo sport è libertà Lo stato d’Israele è morte
Terra, Vita, Libertà per il popolo palestinese
Comitato catanese di Solidarietà col popolo palestinese (seguici su FB)
Assemblea regionale di Solidarietà col popolo palestinese
Catania: https://www.facebook.com/events/1986077491642097/
Palermo: https://www.facebook.com/events/2016603235245794/
Messina: https://www.facebook.com/events/668123156859193/
https://bdsitalia.org/index.php/la-campagna-bds/comunicati/2404-massacro-a-gaza-giornata-della-terra
https://bdsitalia.org/index.php/la-campagna-bds/ultime-notizie-bds/2405-pacbi-usa
http://nena-news.it/gaza-hrw-uccisioni-di-manifestanti-illegali-e-calcolate/