L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Carlotta Caldonazzo
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Nuove pessime notizie arrivano dal fronte israelo-palestinese. Alcune si potrebbe dire che cozzino pesantemente contro i principi del Diritto universale umanitario che è tale solo se vale per tutti, compresi i prigionieri di qualunque Stato e per qualunque motivo. A maggior ragione vale quando questi sono detenuti politici imprigionati da uno Stato fuorilegge (fuori della legalità internazionale) quale è Israele, e lasciati morire in carcere dopo 4 anni di isolamento, torture e percosse. E’ il caso del prigioniero Aziz Oweisat di 53 anni, morto in isolamento e per mancanza di cure nel più assordante silenzio mediatico rotto, forse, dall’appello lanciato dall’Ambasciata palestinese in Italia affinché una commissione d’inchiesta accerti i motivi del suo decesso.
A questa recente morte in prigione se ne aggiungono altre di manifestanti già feriti dai cecchini israeliani durante le proteste al confine della Striscia di Gaza. Morti che non spengono certo la tensione, nonostante le autorità politiche che governano la Striscia, secondo fonti attendibili, stiano concordando un compromesso per l’ottenimento di qualche miglioramento sul piano umanitario in cambio della fine delle manifestazioni di massa. Se così sarà, gli oltre 12.000 feriti, centinaia dei quali resi invalidi a vita e gli oltre 112 morti, verranno percepiti come vittime di un amaro tradimento perché quel che va considerato, nonostante la vulgata israeliana fatta propria dai mezzi d’informazione, è che la grande manifestazione di popolo iniziata il 30 marzo per il diritto al ritorno e la fine dell’assedio, non è una manifestazione di Hamas, sebbene i suoi leader – facilitati dalle accuse israeliane – alla fine siano riusciti a farla percepire come propria invitando la popolazione ad andare ed offrendo trasporto gratis per arrivare ai border.
Una dimostrazione di quanto affermato è data dalle “schegge” esasperate che all’obiettivo della grande marcia non rinunciano e che anche in questi giorni cercano di dimostrare, a costo della propria vita, che possono superare il confine e restituire all’IDF parte di quel che l’IDF ha dato ai palestinesi. Infatti piccoli gruppi di giovani sono riusciti più volte a entrare dimostrando che se i droni israeliani possono bruciare le tende dei palestinesi, anche i palestinesi, sebbene con rischi infinitamente superiori, possono fare altrettanto.
Ma Israele ha la forza per bloccare queste infiltrazioni e la usa, sebbene in modo diverso. Talvolta ne fa uso diretto, uccidendo chi non riesce a sottrarsi alla mira dei cecchini, talvolta invece, come ieri, lascia fare per poi trovare l’immediata giustificazione del mondo alla sua rappresaglia come è successo questa notte. Ricordiamo che per il diritto internazionale la rappresaglia è legittima solo tra Stati belligeranti ed è imputabile allo Stato autore dell’illecito e non ai singoli cittadini, sempre e solo dopo aver accertato i colpevoli e inoltre deve essere sempre strettamente proporzionale all’offesa. Questo in sintesi recita la IV Convenzione di Ginevra e quindi le rappresaglie israeliane, non essendo tra Stati (non risulta che Gaza lo sia e lo Stato di Palestina non è comunque riconosciuto da Israele), non avendo accertato i colpevoli, non essendo proporzionali all’offesa, sono regolarmente illegali.
I bombardamenti di questa notte, quindi configurabili in rappresaglia illegale, sarebbero stati la risposta ufficiale all’azione di un gruppo di palestinesi che è penetrato in Israele dal sud della Striscia, nei pressi di Rafah, e ha dato fuoco a una postazione di cecchini israeliani. Perché l’esercito israeliano non sia intervenuto, sebbene in una nota abbia comunicato di essere a conoscenza dell’azione, è intuibile ma non dimostrabile. L’accusa comunque è indirizzata ad Hamas, nonostante non ce ne siano prove.
Che siano stati militanti di Hamas o meno a compiere l’azione non è dato saperlo ma, applicando un ragionamento logico dovrebbero essere elementi sfuggiti al suo controllo visto che Hamas, come detto sopra, starebbe trattando per la fine della grande marcia in cambio di aiuti alla popolazione. Tuttavia, attribuendo ad Hamas qualunque cosa avvenga nella Striscia, il ministro Liberman, dopo i bombardamenti di questa notte – che hanno distrutto due barche destinate a rompere l’assedio portando fuori i malati impossibilitati a uscire e alcune postazioni militari vicino Jabalia – ha sbeffeggiato le Autorità politiche di Gaza invitandole ad ammettere che il loro progetto militare è fallito.
La risposta non poteva che essere una, in questo micidiale gioco di potere in cui le vittime fungono da pedine, la risposta è stata che le proteste popolari saranno alimentate dalla repressione e Israele non riuscirà con la sua violenza a indebolire la determinazione del popolo gazawo.
In effetti, dopo settant’anni di invasione, repressione e occupazione, nonostante le innegabili lacerazioni del tessuto sociale dovute a rivalità politiche e a una forte spaccatura tra movimenti laici e movimenti religiosi, il popolo palestinese, tutto, ha contraddetto la convinzione che Ben Gurion, il fondatore dello Stato israeliano, espresse nell’aprile del ’48 quando affermò che “i vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno”. Infatti non è bastata la violenza dell’occupante e il sostegno di cui gode a livello internazionale a spezzare la determinazione di questo popolo e probabilmente non basterà.
E’ più facile che l’idea di Ben Gurion si realizzi con altri mezzi e Israele, con l’aiuto della sua intelligente propaganda, di una sapienza notevole di psicologia delle masse e del ricorso al sempiterno potere della corruzione in situazioni di bisogno, potrebbe riuscirci. Ma è un obiettivo difficile da raggiungere e probabilmente Israele non ci riuscirà se i palestinesi, e i gazawi in particolare, si renderanno conto per tempo che qualcuno sta tentando di trasformarli da popolo resistente e dignitoso, a popolo di questuanti depressi e disperati.
La partita, secondo chi scrive, ora si gioca su questo terreno oltre che su quello della violenza che l’occupante comunque non abbandonerà finché ci sarà una resistenza che, in forme diverse, seguiterà a opporsi al suo strapotere anche semplicemente seguitando a chiedere il riconoscimento di diritti inalienabili, non solo per i palestinesi, ma per la stessa sopravvivenza del diritto internazionale che sotto la falce israeliana rischia di diventare solo simulacro di se stesso.
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza
Aldo Moro e Peppino Impastato |
08.05.2018 - Il 9 maggio è la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi. Sono passati 40 anni da quando nello stesso giorno, il 9 maggio 1978, sono stati trovati morti Aldo Moro e Peppino Impastato. Il primo ucciso dai terroristi che volevano abbattere lo Stato e l’altro dalla mafia che si presentava come Stato alternativo.
Di Aldo Moro sono fissate nella memoria collettiva le immagini del corpo fatto ritrovare nel bagagliaio di una R4 rossa a pochi passi dalle sedi dei due partiti popolari italiani del dopoguerra, la DC e il PCI. Di Peppino Impastato furono ritrovati soltanto brandelli del corpo, dilaniato dall’esplosivo, sparsi nel raggio di decine di metri.
Aldo Moro è stato il politico che più di tutti ha cercato di costruire un ponte tra cattolici e comunisti, che ha consentito di approvare riforme importanti per i diritti nel lavoro, nella scuola e nella sanità. Peppino Impastato si è ribellato al sistema mafioso, che abitava a 100 passi di distanza, che permeava la sua famiglia e il suo paese (Cinisi), denunciando gli interessi economici perseguiti dai clan con la connivenza di apparati dello Stato.
Aldo Moro fu tra coloro che scrissero la Costituzione e fu il primo firmatario dell’Ordine del giorno approvato all’unanimità l’11 dicembre del 1947 in cui si dice: “L’Assemblea Costituente esprime il voto che la nuova Carta Costituzionale trovi senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado”. Nel 1958, quando Moro fu nominato Ministro dell’Istruzione, mantenne la promessa Costituzionale e istituì l’insegnamento obbligatorio dell’Educazione Civica nelle scuole medie e superiori. Peppino Impastato è nato nel gennaio del 1948 insieme alla Costituzione della Repubblica Italiana. Nel 1967 partecipò alla “Marcia della protesta e della speranza”, organizzata da Danilo Dolci, dalla Valle del Belice a Palermo, così descritta: “gruppi di giovani, con cartelli inneggianti alla pace e allo sviluppo sociale ed economico della nostra terra, confluiscono con incredibile continuità nella fiumana immensa dei manifestanti”.
Aldo Moro trascorse le ultime settimane di vita in un cubicolo di 2 metri quadrati, senza spazio per camminare. Fu ucciso per una sentenza pronunciata da un sedicente “tribunale del popolo”, che intendeva colpire il cuore dello Stato. Peppino Impastato non sopportava le ingiustizie, soprattutto quelle autorizzate dallo Stato. Negli anni ’70 fu in prima linea nelle lotte contro la speculazione edilizia, l’apertura di cave da riempire di rifiuti, la realizzazione di un villaggio turistico su un terreno demaniale, la costruzione di una nuova pista dell’aeroporto. L’art. 9 della Costituzione stabilisce che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Aldo Moro nelle lettere scritte dalla “prigione del popolo” mise a nudo la logica aberrante del potere, con il suo “assurdo e incredibile comportamento”, a tal punto di arrivare a chiedere alla moglie di “rifiutare eventuale medaglia”, essendo ben consapevole della fine. Peppino Impastato contrastò le collusioni della politica con la mafia, con grande creatività, organizzando un carnevale alternativo, con una sfilata di cloni che dileggiavano i potenti del paese e con la trasmissione radiofonica “Onda pazza”, in cui si raccontavano in modo dissacrante le storie di “mafiopoli”.
Il funerale di Aldo Moro venne celebrato senza il corpo dello statista per esplicito volere della famiglia, che non vi partecipò, ritenendo che lo Stato italiano poco o nulla avesse fatto per salvare la sua vita. Al funerale di Peppino Impastato parteciparono migliaia di giovani compagni, nell’indifferenza della gente del paese di Cinisi, nascosta dietro l’omertà delle finestre chiuse. Nelle prime indagini si ipotizzò che Peppino Impastato fosse saltato in aria mentre stava compiendo un attentato. In nome del popolo italiano furono i giudici Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto a riconoscere la matrice mafiosa dell’omicidio di Peppino Impastato.
Aldo Moro fu rapito mentre si stava recando in Parlamento, il giorno della presentazione del nuovo Governo, sostenuto da un’alleanza innovativa, che si era “tanto impegnato a costruire”. Il 6 maggio 1978 il gruppo politico di Peppino Impastato, con riferimento ad Aldo Moro, diffuse nel paese di Cinisi un volantino in cui si leggeva: “Di fronte alla possibilità, che trapela dal modo in cui si conclude il comunicato delle B.R., che l’assurda condanna a morte non sia stata ancora eseguita, rivolgiamo un ultimo appello alla trattativa in nome della vita e per la difesa del diritto a lottare delle masse popolari”. Peppino Impastato, candidato nella lista di Democrazia Proletaria, alle elezioni del 14 maggio 1978 fu eletto consigliere comunale da morto.
Le immagini di Aldo Moro e di Peppino Impastato, persone molto diverse, per una coincidenza di data, per un destino che li accomuna, tendono ad avvicinarsi. Tutti noi siamo in debito verso entrambi, uomini coerenti e attenti al nuovo che avanza, assetati di giustizia e con la voglia di cambiare, ognuno nel proprio contesto, al di fuori e dentro le istituzioni.
Aldo Moro scrisse che commemorare significa “non solo ricordare insieme, ma ricordare rendendo nuovamente attuale” e parlò della necessità di “pulire il futuro”.
Oggi sarebbe un segno dei tempi se un Comune italiano intitolasse una via ad “Aldo Moro e Peppino Impastato”, uniti nella memoria. Facile immaginare che quella strada ogni anno il 9 maggio sarebbe inondata da tanti giovani, per rendere vive le vittime della violenza, per promettere impegno e dare gambe a quelle speranze che Aldo Moro e Peppino Impastato hanno cercato di realizzare.
Per gentile concessione dell'agenzia di Stampa PRESSENZA
(Foto di Democracy Now) |
29.04.2018 - Credo che la “Dichiarazione di Panmunjom per la pace, la prosperità e l’unificazione della Penisola Coreana” (https://www.pressenza.com/it/2018/04/dichiarazione-panmunjom-la-pace-la-prosperita-lunificazione-della-penisola-coreana/) scaturita dallo storico summit fra le due Coree meriti alcune riflessioni ulteriori, oltre la pioggia di commenti che vi è stata. Intanto dissolve una minaccia che è stata agitata per quasi 30 anni, ed ha prodotto l’effetto esattamente contrario a quello che si diceva di volere.
Personalmente ho sempre ripetuto e argomentato da un anno a questa parte la convinzione:
Mi soffermerò solo su qualche punto che, se pure è stato considerato nei tanti commenti, merita una riflessione più specifica.
Che cosa implica la denuclearizzazione?
Penso che l’aspetto che più ha richiamato l’attenzione del pubblico sia quello della “denuclearizzazione”: il modo in cui esso viene impostato merita un commento approfondito, perché chi non segua da vicino questi problemi può non cogliere alcuni punti fondamentali .
In primo luogo si deve osservare che non si parla di smantellamento dell’arsenale nucleare di Pyongyang, di “denuclearizzazione della Corea del Nord”, come era richiesto finora come condizione dagli Stati Uniti. Si parla invece dell’«obiettivo comune di realizzare, attraverso la completa denuclearizzazione, una Penisola Coreana libera da armi nucleari» (the common goal of realising, through complete denuclerization, a nuclear-free Korean Peninsula). Questo è un obiettivo ben diverso e di portata molto maggiore, e non solo per la penisola coreana. Non è solo Pyongyang, infatti, ad avere introdotto le armi nucleari nella penisola: gli Stati Uniti inviano regolarmente aerei e navi con capacità nucleari verso la Corea del Sud per esercitazioni militari. È un aspetto che parla direttamente anche a noi, che ospitiamo tra le 40 e le 70 testate termonucleari statunitensi, e abbiamo 11 porti che ospitano visite di navi a propulsione nucleare, che dai primi anni Novanta non dovrebbero più trasportare bombe nucleari, ma non possiamo averne la certezza in caso di crisi internazionali, come per esempio l’attacco alla Libia.
La questione poi delle Nuclear Free Zones[1] è di scottante attualità perché richiama direttamente la regione nella parte opposta del continente asiatico – il Medio Oriente – dove minaccia di riesplodere la crisi riferita all’Iran, con la prospettiva sempre più concreta che Trump non certifichi nuovamente in maggio l’accordo sul nucleare JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) del luglio 2015. In questa regione sono in ballo l’arsenale di Israele e le testate termonucleari statunitensi schierate in Turchia. Vale la pena richiamare alcuni fatti che forse non molti hanno presenti. In primo luogo la “Dichiarazione di Teheran” sottoscritta il 21 ottobre 2003 da Francia, Germania e Gran Bretagna con l’Iran, a fronte dell’impegno di Teheran di sviluppare solo tecnologia nucleare civile: la UE si impegnava a cooperare per la realizzazione di una “Zona Libera da Armi di Distruzione di Massa in Medio Oriente”[2]. Senza contare quello che era stato praticamente l’unico risultato positivo nel fallimento della VIIa Conferenza di Revisione del TNP del maggio 2005, l’impegno a convocare per il 2012 una Conferenza Internazionale per rendere il Medio Oriente «Zona Libera da Armi Nucleari e di Distruzione di Massa», con esplicito riferimento (per la prima volta) all’arsenale nucleare di Israele, e l’invito esplicito ad aderire al tnp e ad accettare le ispezioni della iaea. Israele, dopo avere esercitato pressioni fortissime sugli usa, reagì in modo furioso, dichiarando che mai avrebbe partecipato a questa conferenza[3], che poi di fatto non fu mai convocata. Insomma, promesse di marinaio!
La Dichiarazione di Panmunjom parla quindi anche di altri problemi e indica la strada di possibili soluzioni. Ed propone anche un percorso concreto, con l’affermazione che “La Corea del Sud e del Nord hanno concordato di cercare attivamente il sostegno e la cooperazione della comunità internazionale per la denuclearizzazione della Penisola Coreana”.
Questa è la vera posta in gioco. L’impegno della chiusura del centro nucleare di Punggye-ri nel nordest del Paese, dove sono stati condotti i sei test nucleari, sarà probabilmente un segnale positivo, d’immagine, ma certamente non risolutivo.
Quale “pace” e “sicurezza”?
È già stato ampiamente sottolineata l’importanza storica dell’obiettivo di concludere finalmente, a distanza di 65 anni dalla Guerra di Corea (1950-1953), un Trattato di Pace. Così come l’intenzione di “stabilire un permanente e solido regime di pace nella Penisola Coreana”, che però dovrà affrontare e risolvere alcuni nodi cruciali e complessi. In primo luogo la presenza in Corea del Sud di circa 25.000 soldati statunitensi. Per non parlare delle esercitazioni militari che si svolgono periodicamente nelle acque limitrofe alla Corea del Nord, e che non danno certamente un segnale di “sicurezza”.
Queste brevi considerazioni rafforzano l’importanza storica dell’incontro di Panmunjom.
[1] Esistono attualmente quattro trattati che contemplano divieti in parte diversi, ma come minimo proibiscono lo schieramento, la sperimentazione, l’uso e lo sviluppo di armi nucleari all’interno di una particolare regione geografica: Trattato per la Proibizione di Armi Nucleari In America Latina e nei Caraibi (Trattato di Tlatelolco, 1985); Trattato per la Zona Libera da Armi Nucleari del Pacifico del Sud (Trattato di Rarotonga, 1985; la Nuova Zelanda ha un’ulteriore legislazione interna che vieta l’ingresso nei suoi porti di imbarcazioni a propulsione nucleare, o che portino armi nucleari, che non è invece vietato dal trattato di Rarotonga: questa norma ha creato problemi con gli Stati Uniti); Trattato per la Zona Libera da Armi Nucleari del Sud Est Asiatico (Trattato di Bangkok, 1995); Trattato per la Zona Libera da Armi Nucleari dell’Africa (Trattato di Pelindaba, 1996). Vi sono poi altri trattati che vietano specificamente esplosioni nucleari di qualsiasi tipo e lo smaltimento di scorie radioattive: il Trattato sull’Antartide (1959), il Trattato sullo Spazio Esterno (1967), e il Trattato sui Fondi Marini (1971).
[2] Ma un voluminoso documento della UE del 5 dicembre 2005 (http://ue.eu.int/uedocs/cmsUpload/st14520.en05.pdf) sulle strategie contro la proliferazione di armi di distruzione di massa, pur premettendo un riferimento ai tre pilastri del TNP (non-proliferazione, disarmo e usi pacifici), non faceva poi più alcun riferimento agli obblighi di disarmo nucleare nel corpo del documento e nelle azioni e i finanziamenti che proponeva! Evidentemente la UE ha un grosso problema interno costituito dagli arsenali e dai progetti nucleari della Francia e della Gran Bretagna. Ma – come per molti altri aspetti dei rapporti internazionali – avrebbe un grosso peso una decisione dell’Europa di procedere al disarmo nucleare: una decisione unilaterale in questo senso, concordata possibilmente con altri Stati nucleari, metterebbe nell’angolo anche gli Stati Uniti e renderebbe per loro assai problematico proseguire da soli sulle linee attuali.
[3] Sulla pervicace ambiguità mantenuta da Israele sul proprio arsenale nucleare v. ad es. A. Cohen, Israel’s Nuclear Future: Iran, Opacity and the Vision of Global Zero, in C. McArdle Kelleher, J.V. Reppy (eds), Getting to Zero, Stanford University Press, Palo Alto, 2010.
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza
Tra i “prodotti” mediorientali degli sviluppi geopolitici successivi al crollo dell'Unione Sovietica c'è la Turchia, aspirante membro dell'Unione Europea, ma anche pilastro dell'Alleanza atlantica (NATO): in Siria, Ankara raccoglie i frutti del suo pragmatismo politico dell'ultimo trentennio
Lo scorso 21 aprile, in un'intervista alla rete privata NTV, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato che la principale minaccia per la Turchia sono i partner strategici, criticando gli Stati Uniti e i loro alleati per il loro sostegno ai curdi delle Unità di difesa popolare (YPG) nella guerra contro i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (IS). “Noi (turchi) non possiamo comprare armi dagli USA con il nostro denaro”, ha lamentato Erdoğan, “e purtroppo gli USA e le forze della coalizione danno gratuitamente queste armi, queste munizioni a organizzazioni terroristiche”. Quindi, ha accusato direttamente “i paesi occidentali” di strumentalizzare i terroristi dell'IS per sostenere “organizzazioni terroriste separatiste” curde. Dopo il suo commento ostentatamente equilibrato agli attacchi di USA, Francia e Gran Bretagna contro presunti siti di produzione e stoccaggio di armi chimiche in Siria, il presidente turco ha dunque marcato nuovamente le differenze tra Ankara e Washington: questa volta con il pretesto che dopo aver proposto all'ex presidente USA Barack Obama una collaborazione nella lotta contro il terrorismo, la Turchia è stata costretta ad affrontare questa guerra da sola, a causa della tattica temporeggiatrice degli Stati Uniti. Un riferimento all'operazione Ramo d'ulivo, lanciata da Ankara il 20 gennaio scorso: alcune regioni nella Siria settentrionale, tra le quali Afrin, ha precisato Erdoğan, sono state già “pulite” dalla presenza dei “terroristi”.
Per il presidente turco, la parola “terroristi” indica principalmente le YPG curde, che fanno riferimento al Partito dell'unione democratica (PYD), vicino al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Questo partito è ufficialmente ritenuto organizzazione terroristica anche dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea, che nondimeno hanno sostenuto le YPG nella guerra contro i cartelli del jihad. Contraddizioni simili hanno permesso alla Turchia di imporsi come attore protagonista nello scacchiere mediorientale, al punto tale da poter agire in piena autonomia da tutti gli altri attori regionali e mondiali. Questo è stato infatti il tono del ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu, la scorsa settimana, quando ha affermato che contrariamente alle aspettative del presidente francese Emmanuel Macron, il lancio di missili in Siria non è riuscito a “separare” la Turchia dal suo alleato russo. “Possiamo pensarla diversamente”, ha spiegato Çavuşoğlu, “ma le nostre relazioni con la Russia sono troppo solide per essere interrotte dal presidente francese”, anche se “non sono un'alternativa” a quelle con la NATO. Ankara conduce quindi una politica “conforme ai suoi interessi”, come ha puntualizzato il portavoce del governo turco, il vice primo ministro Bekir Bozdağ, senza schierarsi “pro o contro un paese”.
Sulla stessa linea si è espresso il 22 aprile il ministero degli Esteri turco a proposito dell'ultimo Rapporto sui diritti umani del Dipartimento di Stato USA. Il rapporto “privilegia i punti di vista di fonti legate ai terroristi”, “ignora i fatti” ed è “fondato su una considerazione distorta della responsabilità”, perché dà credito alle accuse di “circoli legati ai terroristi”. Esso inoltre ignora la lotta che la Turchia sta conducendo “contro il gruppo terrorista radicale FETÖ”, acronimo di Fetullahist Terrorist Organization, etichetta con cui le autorità turche bollano i sostenitori veri e presunti del predicatore islamico in esilio negli USA Fethullah Gülen. In proposito, il ministero degli esteri turco ha commentato che “non è una coincidenza che un simile rapporto, che riporta le parole di gruppi legati al terrorismo e descrive la lotta contro il terrorismo come un conflitto interno, è scritto in un paese dove vive il capo di FETÖ”. Sarà interessante ora osservare l'atteggiamento di Çavuşoğlu alla prossima riunione dell'Assemblea Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a New York, prevista per il 24 e 25 aprile, sul tema della pace.
Erdoğan è riuscito quindi a instaurare relazioni con tutte le parti coinvolte nel conflitto siriano i cui interessi siano compatibili, almeno in una certa misura, con quelli della Turchia. Anche al di fuori del complesso quadro mediorientale, Ankara si dice pronta ai negoziati per aderire all'Unione Europea, ma reagisce duramente a qualsiasi tentativo da parte di Bruxelles o di singoli paesi europei di mettere in dubbio i metodi autoritari delle autorità turche. Inoltre, dopo quasi due anni di tensioni con la Grecia, a seguito della decisione di Atene di concedere l'asilo agli ufficiali turchi fuggiti dopo il tentativo di colpo di Stato del luglio 2016, Erdoğan ha affermato la necessità di una “pace”, apprezzando la volontà del primo ministro greco Alexis Tsipras di “voltare pagina”.
A questa “versatilità” in politica estera, corrispondono, sul fronte interno, l'impazienza di applicare la riforma costituzionale (approvata da un'esigua maggioranza al referendum del 2017) e la volontà di dare al nuovo sistema presidenziale una connotazione di massa. Per questo, consumata la rottura con l'antico alleato Gülen, Erdoğan cerca i consensi del tradizionale elettorato islamico (in buona parte conquistato proprio grazie a Gülen), pur mantenendo una solida alleanza con il Partito del movimento nazionalista (MHP) di Devlet Bahçeli. È a quest'ultimo che tende la mano quando, ad esempio, si scaglia contro USA e UE, perché i suoi voti potrebbero essere decisivi in vista delle prossime elezioni legislative e presidenziali. Una delle ragioni principali per cui il presidente turco ha voluto anticiparle al prossimo 24 giugno (erano previste per novembre 2019), su suggerimento di Bahçeli, è il rischio rappresentato da Meral Akşener, ex esponente dell'MHP che ha rotto con il partito e con Bahçeli a causa dell'atteggiamento di quest'ultimo, giudicato troppo compiacente nei confronti di Erdoğan. Soprannominata “la signora di ferro”, la Akşener ha fondato il Partito del bene (25 ottobre 2017), per proporre una forma di nazionalismo laico, critico nei confronti dell'islamizzazione della Turchia, ma anche della repressione scatenata da Erdoğan dopo il tentativo di colpo di Stato. Secondo le leggi turche, i partiti che non abbiano tenuto almeno un congresso nei sei mesi precedenti non possono partecipare alle elezioni: anticipando la data di queste ultime, la Akşener potrebbe essere esclusa dalla competizione.
Una scelta che è costata al presidente turco non poche critiche da parte delle opposizioni, che si sommano alle perplessità espresse dall'ONU a proposito della proroga (per la settima volta) dello stato di emergenza in Turchia. In proposito, Erdoğan ha chiarito che “lo stato di emergenza colpisce solo i terroristi”, quindi è una forma di tutela. Quanto alle elezioni, ha specificato che tutti i partiti potranno condurre la loro campagna con maggiore serenità e che “i brogli che si verificano alle elezioni americane non esistono nelle nostre elezioni”.
Il 18 marzo le Forze Armate Turche (TSK) della Repubblica di Turchia insieme alle forze armate dell’Esercito Libero Siriano (FSA) sono entrate nel centro di Afrin in Siria.
Dopo circa due mesi di scontri con i membri dell’Unità di Protezione Popolare (YPG-J) il governo al potere in Turchia ha ottenuto ciò che voleva. L’obiettivo dell’operazione era quello di “liberare la città dai terroristi”, anche perché le forze YPG e YPJ e la loro espressione partitica PYD sono state definite da parte del governo AKP (Partito dello Sviluppo e della Giustizia) come delle “organizzazioni terroristiche”.
In realtà non è stato soltanto il partito al governo da più di 15 anni ad adottare una definizione del genere. L’operazione è stata difesa da una buona parte della cittadinanza, oppure è stato fatto di tutto perché fosse così.
In questa seconda parte del mio approfondimento parlerò dei mezzi e dei metodi utilizzati dal governo per giustificare questa operazione. In primis i media, ma non soltanto, si sono messi a disposizione del governo. Insieme analizzeremo come la scuola pubblica, lo sport ed il mondo degli artisti sono stati utilizzati per creare un’opinione pubblica a favore della guerra.
Neanche un mese dopo l’inizio dell’intervento militare, un gruppo di artisti ha deciso di andare nella città di Hatay, al confine siriano, per dimostrare solidarietà ai soldati. Yavuz Bingöl, Tamer Karadağlı, Erhan Yazıcıoğlu, Erhan Güleryüz, Mustafa Ceceli e Zuhal Yalçın sono i primi nomi che saltano all’occhio. Il titolo dell’iniziativa era “Gli artisti insieme ai soldati”. Alla conferenza stampa, il 15 febbraio, era presente anche il vice presidente generale dell’AKP, Harun Karacan. Dopo l’incontro con la stampa i partecipanti sono andati in una caserma militare per incontrare i soldati e farsi delle fotografie. Tra i promotori dell’iniziativa c’era anche il cantante Erhan Güleryüz, l’ex solista del gruppo musicale Ayna. Güleryüz ha detto nel suo intervento: “Siamo qui per dire ai nostri soldati che gli 80 milioni di cittadini sono con loro”.
Pochi giorni dopo, il 23 febbraio, con un’iniziativa lanciata su internet da una serie di artisti, sono stati mandati numerosi messaggi di solidarietà ai soldati in missione. Mentre il famoso cantante di musica arabesca, Ibrahim Tatlises, definiva i soldati come degli “eroi”, la famosa attrice Hulya Koçyigit scriveva così: “ogni giorno prego perché i soldati ritornino sani e salvi a casa” e la famosa cantante Sibel Can scriveva queste parole per mostrare il suo sostegno: “Allah aiuti i nostri soldati”.
Forse il peggio è arrivato quando l’operazione si è conclusa. Il primo aprile un gruppo di artisti, insieme al Capo dello Stato Maggiore e al Presidente della Repubblica, si sono trovati in una caserma militare nella città di Hatay. Il cantante Ahmet Şafak ha descritto così il motivo della sua presenza in quel luogo: “Siamo qui accanto ai nostri figli. Abbiamo dimostrato che teniamo all’unità del nostro Stato e riteniamo che sia implacabile l’unità della nostra nazione turca”. Questa iniziativa è stata criticata duramente dai partiti all’opposizione (CHP e HDP) soprattutto per via delle canzoni patriottiche cantate dai cantanti con l’ausilio degli strumenti musicali in caserma. Il leader del Partito Popolare e Repubblicano, Kemal Kiliçdaroglu, ha trovato scorretto questo gesto allegro fatto in un contesto di morte. All’incontro erano presenti anche alcuni sportivi.
Con questi gesti “simbolici” il mondo artistico ha contribuito alla costruzione dell’immagine dell’operazione come se fosse una guerra d’indipendenza.
Il secondo campo, a livello nazionale e popolare, in cui si è cercato di legittimare e normalizzare la guerra, è stato il mondo dello sport.
Il primo marzo un gruppo di sportivi, insieme a un gruppo di artisti e numerosi parlamentari e dirigenti locali dell’AKP, sono andati nella città di Kilis per incontrare i soldati. Il 7 febbraio la società sportiva Aski Spor insieme ad alcuni atleti olimpici, ha lanciato un video messaggio in cui venivano pronunciate queste parole: “Sono nostre queste terre che abbiamo conquistato lottando nel 1071. E’ nostra questa patria”. Pochi giorni dopo l’inizio dell’operazione militare sono arrivate le prime notizie sulla morte dei soldati. Così la Federazione Turca Calcio (TFF) ha deciso di dedicare un minuto di silenzio prima di ogni partita “per commemorare i nostri martiri”. Ovviamente nelle tribune non mancava lo storico slogan patriottico “I martiri non muoiono, la patria non si spacca”. Nelle tribune non c’erano soltanto queste frasi ma c’erano anche dei momenti di grande coreografia. Prima della partita di calcio tra Konyaspor e Galatasaray, i tifosi della squadra anatolica hanno occupato una sezione intera scrivendo “Afrin” ed hanno alzato dei cartelli con scritto “Turchia”; in sottofondo non mancava un inno militare ottomano.
Il 15 marzo, alla luce dell’anniversario della vittoria militare dei Dardanelli del 1915, nelle tribune dello stadio appartenente alla squadra calcistica di Istanbul Basaksehir, si è vista sorgere la mappa rossa della Turchia con la bandiera disegnata sopra, i soldati con le divise dell’epoca ed in un angolo un soldato moderno che alzava la bandiera turca. Al centro di questo poster gigantesco c’erano alcuni giocatori della squadra che facevano il saluto militare. Sotto invece si leggeva questa frase: “Anche oggi, come il 18 marzo 1915, vinceranno i credenti, non quelli che sono in maggior numero”.
Ormai si parlava dell’operazione “Ramoscello d’ulivo” come di un intervento totalmente corretto e legittimo. Nei messaggi dei membri del governo, degli artisti e del mondo sportivo si leggevano soltanto parole nazionaliste e patriottiche. Si parlava di “conquistare” un territorio che per alcuni, in realtà, “era già nostro”. Non c’era spazio per avere dubbi sulla legittimità della guerra. Per chi avesse avuto qualche dubbio, invece, erano aperte le porte dei centri di detenzione. Di questo parlerò nel prossimo pezzo.
Come già detto, anche il mondo della musica ha sostenuto questa operazione militare. Il gruppo rap Geeflow ha lanciato il suo video su internet a favore dell’operazione. Il 24 febbraio è uscito il pezzo col titolo “Ramoscello d’ulivo”. Alcuni versi della canzone recitano: “Se ci sacrifichiamo, possiamo accedere al paradiso, se versiamo il nostro sangue, la patria diventa nostra”. Nel video ovviamente non mancano le immagini dei soldati e degli scontri, anche se non in modo netto e chiaro. Anche il rapper Yunus Akpunar si è dedicato a questa missione ed ha usato anche lui il nome dell’operazione come titolo del suo pezzo. In questo caso si vede il cantante allacciare i suoi anfibi e portare una casacca militare mentre canta la canzone. Alcuni versi del pezzo dicono: “Ci sono diversi terroristi nascosti tra di noi, facciamoci attenzione. Ci sono tanti traditori che vorrebbero dividere il nostro paese. Facciamoci attenzione e non dimentichiamoci dei nostri antenati”. In alcune immagini del video si vede il cantante sventolare la bandiera turca con una mano mentre con l’altra tiene una pistola grigia.
Un altro pezzo musicale invece è di Idris Altuner. Stavolta si tratta di un lavoro diverso. Mentre i pezzi rap sono tanti, Altuner decide di fare un pezzo tradizionale utilizzando gli strumenti e le melodie dell’orchestra militare ottomana, Mehter. Si tratta di un video professionale di alta qualità. Il cantante è vestito con dei costumi antichi e tradizionali. Durante il video si vedono i musicisti dell’orchestra Mehter. Nel pezzo in cui si vede il cantante andare su un cavallo in Cappadocia, Altuner pronuncia queste parole: “La vittoria si espanda da Afrin a Mimbic, tremino le montagne con il rumore degli anfibi del Turco”.
Forse la parte più aggressiva, per via dei suoi protagonisti, di tutta questa campagna di propaganda della guerra è quella del mondo della scuola.
Il 4 marzo, nella città di Bursa, gli studenti del Liceo Gursu Yildiz, si sono riuniti nel cortile della scuola per scrivere con i loro corpi la parola “Afrin” mentre li riprendeva un drone. Come sottofondo del video c’è una canzone militare ottomana. Nella città di Karabuk, sulla costa del Mar Nero occidentale, presso il Liceo Cumhuriyet un gruppo di studenti è sceso nel cortile per fare un’azione simile. Nel loro caso il lavoro svolto era più sofisticato. Mentre alcuni studenti scrivevano, con i loro corpi, “Ramoscello d’ulivo”, altri sventolavano una grande bandiera turca ed un altro gruppo con vestiti militari leggeva “il giuramento del commando”. Ovviamente anche in questo caso tutto è stato ripreso da un drone e nel video si sente una canzone militare ottomana.
In altri casi invece, oltre alla coreografia all’aperto, sono state fatte delle preghiere collettive di solidarietà con i soldati in missione. Proprio come nel caso della Scuola Femminile per gli Imam della città di Manisa, vicina alla costa dell’Egeo, dove 130 studentesse prima hanno scritto “Ramoscello d’ulivo” con i loro corpi, poi sotto la direzione del preside hanno letto delle preghiere.
Un altro caso di preghiera collettiva invece è stato fatto nella scuola elementare di Birikim Okullari di Istanbul. Stavolta la rappresentazione si è svolta all’interno, su un palco. Un gruppo di bambini che hanno, molto probabilmente, meno di 10 anni, si sono uniti con i palmi rivolti verso il cielo. Al centro un bambino prega per il bene della nazione e dei soldati ad Afrin e in sottofondo si sentono gli altri dire “Amen” in modo collettivo. Il video realizzato con gli studenti delle elementari si conclude con un pezzo ripreso all’aperto in cui si vedono decine di bambini sventolare una grande bandiera turca gridando: “I martiri non muoiono, la patria non si spacca”.
L’operazione militare “Ramoscello d’ulivo” è stata un elemento di grande dimostrazione di potere del governo ed è stata utilizzata anche per rafforzare i sentimenti nazionalistici già presenti nel tessuto sociale e storico del Paese. In realtà il governo AKP non ha fatto nulla di nuovo. In Turchia il terreno è molto fertile per le politiche nazionaliste e religiose, la sua storia è piena di periodi del genere. Il sentimento/l’orgoglio nazionalista ha radici molto profonde nella storia dei cittadini ed è il frutto di una serie di politiche nel mondo dell’istruzione, dell’arte, dello sport e non solo.
Dove non è stato possibile ottenere il sostegno popolare a favore dell’operazione militare, il governo, insieme al sistema giudiziario e alle forze dell’ordine, ha attivato il meccanismo della repressione e della censura. Questo sarà il tema del prossimo pezzo di questa serie.
da l"Avanti"
Venerdì 6 aprile presidii di fronte alle Prefetture e nelle piazze siciliane-A Catania alle ore 17,30 in via Etnea, angolo via Prefettura
Il giro d’Italia 2018 quest’anno partirà da...Israele. Dietro un contributo di MILIONI di euro da parte di Israele, gli organizzatori del Giro hanno deciso di far diventare lo sport uno strumento di propaganda; le prime tre tappe del Giro d’Italia partiranno da città israeliane, con partenza da Gerusalemme ovest. Tale scelta non è casuale, soprattutto dopo che il Presidente USA Donald Trump ha tentato di far dichiarare all’ONU Gerusalemme capitale di Israele. Che, se mai avvenisse, sarebbe l’atto simbolicamente conclusivo dell’annessione dei territori palestinesi. Anche il mese della data della partenza non è causale. Il 15 maggio 2018 è il 70° anniversario della creazione dello Stato d’Israele. Ma questa è anche la data che sancisce la Nakba, ossia la deportazione del popolo palestinese a seguito dell’occupazione del 1948.
Il 30 marzo, Giornata della Terra per il popolo palestinese, l’esercito israeliano ha ucciso 17 palestinesi e ne ha feriti 1630 nell’illusione di poter fermare la Grande Marcia per il Ritorno. I crimini israeliani, da decenni denunciate da decine di risoluzioni dell’Onu, sempre disattese, proseguono grazie alle collusioni del complesso militare industriale occidentale ed alle complicità politiche degli Usa, dei governi europei e delle petro-monarchie arabe; le stesse istituzioni del nostro paese si rendono complici dello stato sionista avviando progetti comuni di sviluppo e di produzione di armamenti, che coinvolgono non poche Università italiane, promuovendo esercitazioni militari congiunte e fornendo materiale bellico. Denunciamo inoltre la subalternità di quasi tutti i media che hanno falsato la realtà di ciò che è accaduto nella Striscia di Gaza: non scontri o guerriglia , ma criminali cecchini israeliani che hanno fatto il tiro a segno su migliaia di donne, bambini ed uomini palestinesi.
Oramai non c’è più spazio per l’ipocrita equidistanza fra vittime e carnefici!
Facciamo appello al governo, dimissionario, Gentiloni ed a tutte le forze politiche, all’UCI (Unione Ciclistica Internazionale) di non essere complici dei crimini sionisti, strumentalizzando un momento di sport popolare, e di adoperarsi affinchè vengano annullate le 3 tappe del Giro d’Italia in Israele (4-5-6 maggio).
Chiamiamo alla mobilitazione tutte le realtà solidali con la resistenza del popolo palestinese durante le tappe siciliane, a partire dalla prima in Italia l’8 maggio a Catania, aderendo alla campagna internazionale “CambiaGiro”.
Boicottiamo l’economia di guerra israeliana
Lo sport è libertà Lo stato d’Israele è morte
Terra, Vita, Libertà per il popolo palestinese
Comitato catanese di Solidarietà col popolo palestinese (seguici su FB)
Assemblea regionale di Solidarietà col popolo palestinese
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https://bdsitalia.org/index.php/la-campagna-bds/ultime-notizie-bds/2405-pacbi-usa
http://nena-news.it/gaza-hrw-uccisioni-di-manifestanti-illegali-e-calcolate/
Tensioni diplomatiche, strappi all'interno di alleanze storiche, violazioni più o meno velate della sovranità degli Stati, tentativi di ritorno al protezionismo o di rispolverare dinamiche da guerra fredda, ma se il prossimo assetto geopolitico mondiale dovesse affermarsi nel cyberspazio?
Il duro botta e risposta tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il premier israeliano Benjamin Netanyahu riaccende uno scontro innescato nel 2010 dalla morte dei nove attivisti turchi, uno dei quali con cittadinanza statunitense, a bordo della nave Mavi Marmara. Commentando la brutale repressione da parte dell'esercito israeliano delle proteste nella Striscia di Gaza, Erdoğan ha chiamato Netanyahu “occupante” e “terrorista”, aggiungendo: “ciò che fai ai palestinesi oppressi sarà parte della storia e noi non lo dimenticheremo mai”. Immediata la reazione del premier israeliano, che ha respinto gli “insegnamenti morali” di un paese, la Turchia, che “da anni bombarda i civili indiscriminatamente”. Abbandonata la linea moderata dell'ex ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu, Erdoğan mira ad affermare il ruolo di potenza regionale della Turchia. Da un lato, quindi, con l'operazione ramo di ulivo, lanciata a gennaio, continua il suo progetto di sottrarre più territori possibili dal controllo delle forze curde siriane; dall'altro affianca Russia e Iran nelle vesti di garante del cessate il fuoco in Siria del dicembre 2016, ponendosi tra i promotori di una soluzione politica del conflitto; infine, ospita la delegazione statunitense in visita ufficiale per la quinta riunione del vertice sull'industria della difesa di Turchia e USA, confermando l'intenzione di cooperare con Washington e con la NATO in materia di sicurezza e lotta al terrorismo. Una tanto complessa quanto pragmatica costruzione di reti diplomatiche, che nelle intenzioni di Erdoğan dovrebbe assicurare ad Ankara un significativo peso geopolitico, anche attraverso il controllo di regioni che si estendono oltre i suoi confini riconosciuti.
La quasi totalità degli attuali focolai di tensione internazionali riguarda più o meno esplicitamente la nozione di sovranità nazionale, imperniata su due presupposti: primo, il diritto di ogni Stato a gestire autonomamente le proprie vicende interne; secondo, più controverso, la fondatezza e l'opportunità dell'identificazione di uno Stato con una nazione. Un concetto, dunque, già svuotato di senso dalla globalizzazione degli anni '90 del secolo scorso, nuova fase evolutiva del sistema capitalista. Ma la questione era resa ancor più urgente dagli interventi militari pseudo-umanitari a guida statunitense, ad esempio nel Golfo e nei Balcani, e dalle guerre civili a sfondo etnico o religioso in Asia e Africa (per citare qualche esempio, Nagorno Karabagh, Cecenia, il decennio nero in Algeria, Ruanda, Liberia, Sierra Leone, Somalia, Etiopia ed Eritrea). Dopo la caduta dell'Unione Sovietica, e la conseguente demonizzazione dell'utopia socialista fondata sulla solidarietà sociale e internazionale, era necessario dunque gestire nel modo più efficace possibile la transizione dal bipolarismo mondiale a un assetto dominato da un'unica potenza, gli Stati Uniti. L'obiettivo era fare in modo che tale processo recasse vantaggio alle economie “vincitrici” conglobandole in un unico sistema, in grado al contempo di garantire profitti e limitare al massimo le tensioni sociali e politiche interne e internazionali. Tuttavia, se il mercato è globale, la sovranità tenderà a essere parimenti globale, e se l'economia si basa più sulla finanza che sulla produzione, saranno gli interessi degli organismi finanziari a prevalere. Per le istituzioni politiche dei singoli Stati il margine di manovra iniziava a essere quasi nullo.
Parallelamente, già durante la guerra fredda, e con rinnovato vigore dagli anni '90, Washington ha incoraggiato l'emergere di potenze regionali. Anzitutto, per l'area europea e africana, è stata rafforzata la Comunità europea (oggi Unione Europea, il cui progetto iniziale risale al 1957), con la stipula del trattato di Maastricht e la definizione di precise responsabilità geopolitiche: la Germania riunificata avrebbe dovuto gestire le relazioni con l'Europa dell'Est anche in vista dell'ampliamento della NATO, mentre la Francia si sarebbe occupata dei rapporti con l'Africa (in primis la galassia soprannominata Françafrique). Quanto alle regioni economicamente strategiche dei Balcani e del Caucaso ex-sovietico, Washington ha scelto come riferimento la Turchia, in parte su basi storiche ma principalmente per il suo peso all'interno della NATO. Per il Medio Oriente e il mondo arabo (attraversato dalla diatriba tra nazionalismo e islam politico) la scelta è ricaduta invece sull'Arabia Saudita, sede dei principali luoghi santi dell'islam, ma soprattutto eminente produttore di petrolio, con i suoi satelliti nel Golfo. Infine, in funzione anti-cinese, Washington ha rinsaldato l'alleanza con il Giappone, oggi resa ancor più significativa dalle tensioni con la Corea del Nord e dall'eventualità che le velleità protezionistiche del presidente Donald Trump deteriorino le relazioni tra Stati Uniti e Cina. Particolare riguardo è stato poi riservato da Washington alle relazioni amichevoli con Israele: dopo gli accordi di Camp David del 1978, due tappe fondamentali sono state gli accordi di Oslo e l'intesa siglata lo stesso anno alla Casa Bianca dal premier israeliano Yitzhak Rabin e dal capo dell'Organizzazione di Liberazione della Palestina Yasser Arafat, alla presenza del presidente USA Bill Clinton.
In realtà la riduzione, o l'abolizione di fatto, della sovranità nazionale (e peggio ancora del principio di sovranità popolare, pilastro della democrazia) intesa come controllo e gestione di un territorio, rappresenta l'altra faccia della medaglia di un fenomeno meno evidente, ma più incisivo. L'avvento e la diffusione della “rete” internet, e successivamente l'estensione capillare dell'uso di computer portatili, tablet e smartphones, ha consentito di svolgere in uno spazio virtuale importanti operazioni che fino a un paio di decenni fa erano compiute in uno spazio fisico, come acquisti e pagamenti. All'interno della nuova società di massa 2.0 (o meglio 4.0) è praticamente impensabile una vita sociale “ordinaria” senza una connessione a internet. Le dispute sulla vendita dei dati degli utenti delle reti sociali, e soprattutto le restrizioni all'uso della rete imposte in paesi come la Russia, la Cina o l'Iran mostrano che il vero scacchiere geopolitico mondiale potrebbe ben presto spostarsi dagli spazi “tradizionali” di terra, acqua e aria a quello meno definibile e perciò più penetrante della rete.
15.01.2018 - Ormai è evidente, e viene spesso ripetuto, che Trump costituisce la più grave minaccia alla pace e alla sicurezza mondiali per lo meno degli ultimi 3 decenni (dopo che il Trattato INF del 1987 allontanò la minaccia di un conflitto nucleare, che il Doomsday Clock aveva valutato in soli 3 minuti dalla Mezzanotte), oltre che all’ambiente. Più volte ho commentato che la crisi coreana è stata causata in primo luogo dalla politica di minacce e di ricatti esercitata dagli Usa nei passati 20 anni, e che attualmente il vero irresponsabile è Trump che dichiara “fuoco e fiamme” mentre si trova sotto scacco, ben più che Kim Jon-un, il quale ha deciso di correre un rischio calcolato per uscire dalla crisi e da tempo offre la sua disponibilità a negoziare.
Che Trump stia irresponsabilmente alzando la posta anche per quanto riguarda le armi e la minaccia nucleari è confermato una volta di più dalle indiscrezioni che sono trapelate sulla Nuclear Posture Review che la sua amministrazione adotterà a fine mese. La Nuclear Posture Review (NPR) è un documento che definisce la “postura”, la strategia nucleare che ogni amministrazione statunitense stabilisce all’inizio del proprio mandato. Quella precedente dell’amministrazione Obama risale a 8 anni fa: essa senza dubbio tradiva decisamente il discorso visionario pronunciato da Obama nel 2009 a Berlino su “un modo libero dalle armi nucleari” (e il Trattato Nuovo START che un anno dopo stabilì con la Russia confermava questa delusione), ma tuttavia questi atti, pur timidi e insufficienti, depotenziavano la minaccia nucleare immediata che era stata riaccesa dall’amministrazione Bush Jr. (il quale nella guerra all’Iraq del 2003 esplicitamente non aveva escluso il ricorso a qualunque tipo di arma, con evidente riferimento all’arma nucleare; e ho anche ricordato recentemente le sbronze con allucinazioni nucleari di Nixon https://www.pressenza.com/it/2017/10/alla-fiera-delle-follie-nucleari-mondo-sempre-meno-sicuro/, in che mani siamo!).
Trump ci riporta indietro di tre decenni, quando però i demenziali arsenali nucleari con 70.000 testate erano per così dire “motivati” con l’intenzione della deterrenza per la minaccia della “Distruzione mutua assicurata”, mentre oggi le armi nucleari vengono sviluppate dichiaratamente per potere essere usate!
Forse è opportuna una riflessione prima di esaminare i provvedimenti in materia nucleare. Trump ha recentemente proclamato la sua intelligenza superiore, ma credo che anche lo psicoanalista più in erba possa dire che egli è in preda a fobie, ossessioni, deliri di persecuzione (quindi in realtà senso di inferiorità) – sublimate, mascherate da deliri di onnipotenza – che come presidente della potenza militare più grande di tutti i tempi ne fa un pericolo capitale per tutta l’umanità. Ovviamente non si può ignorare che Trump impersona enormi interessi del complesso militare-industriale, e la componente più retriva, i falchi, del Pentagono.
La NPR di Trump
La sua NPR ne è una testimonianza emblematica: la paranoia che che gli Usa rischino di perdere la loro supremazia nucleare e debbano rafforzare negli altri la dissuasione ad usare queste armi portano a decisioni e provvedimenti che invece aggravano ulteriormente questo rischio, e finiscono per ritorcersi contro gli stessi Stati Uniti e diminuire la loro sicurezza (il paranoico è spesso autolesionista). Sapendo che gli Usa si sono preparati con le modernizzazioni in corso (avviate dall’amministrazione del Nobel per la Pace Obama!) per poter sferrare un first strike disarmante alla Russia (https://www.pressenza.com/it/2017/05/lallarme-un-first-strike-nucleare-alla-russia/), gli ulteriori potenziamenti e minacce rischiano di indurre uno Stato che sia minacciato a sferrare un primo colpo prima di venire annientato! E Trump di queste micce nucleari ne ha innescate più di una (https://www.pressenza.com/it/2017/12/bando-nucleare-urgente-molte-micce-innescate-la-santa-barbara-nucleare/).
Veniamo specificamente alla NPR di Trump. Alcune cose si sapevano, erano nell’aria o già dichiarate e le ho commentate su Pressenza, ma l’imprimatur ufficiale pone il sigillo definitivo, il punto di non ritorno.
Gli aspetti cruciali si possono così riassumere: gli Usa svilupperanno nuove testate nucleari di piccola potenza – “più utilizzabili” (more usable) –, e ampliano le circostanze in cui potranno fare ricorso a queste armi, abbassando così la soglia per il loro uso. Si deve sottolineare che il citato Nuovo START del 2010 vieta espressamente lo sviluppo di testate nucleari nuove (anche se questa norma è già stata aggirata dalle modifiche sostanziali della testata termonucleare B-61, che diventa di fatto una testata nuova, con nuove capacità militari). Vediamo i due aspetti separatamente.
Nuove testate di piccola potenza
La nuova NPR stabilisce lo sviluppo di due nuovi tipi testate nucleari:
1) Una nuova testata low yield, profondamente modificata, per i missili Trident D5 lanciati dai nuovi sommergibili nucleari della classe Columbia (con una sola parte della testata termonucleare, quella a fissione). Wolfsthal, che fu assistente speciale di Obama per il controllo degli armamenti e la nonproliferazione, commenta che questo progetto è “decisamente stupido” (dumb) perché il lancio di una testata di piccola potenza rivelerebbe la posizione del sommergibile: “spendiamo 5 miliardi di $ per ogni sommergibile per renderlo invisibile, e gli mettiamo testate il cui lancio lo renderebbe vulnerabile a un attacco russo; per me è inconcepibile dal punto di vista della strategia navale”. La paranoia che si tramuta in autolesionismo.
2) La reintroduzione di missili cruise, pure lanciati dai sommergibili: questa decisione, che Trump aveva preannunciato qualche settimana fa, viene giustificata con il pretesto di rispondere all’accusa alla Russia di violare il trattato INF (che ho già commentato in: https://www.pressenza.com/it/2017/12/bando-nucleare-urgente-molte-micce-innescate-la-santa-barbara-nucleare/).
Anche un bambino capisce che sviluppando testate nuove si va in direzione diametralmente opposta a quella del disarmo nucleare!
Inoltre, l’affidamento a testate di piccola potenza è estremamente pericoloso perché alimenta l’illusione, e quindi la tentazione, che esse possano venire realmente utilizzate, e quindi abbassa pericolosamente la soglia per una guerra nucleare. Ormai è chiaro da molto tempo che una guerra nucleare non può rimanere limitata, poiché l’escalation e la generalizzazione sarebbero inevitabili, e gli effetti dell’esplosione o di uno scambio anche limitati di testate nucleari avrebbe conseguenze catastrofiche e livello globale (si veda Alfonso Navarra, “Gli ordigni nucleari come arma di distruzione climatica”, https://www.pressenza.com/it/2018/01/gli-ordigni-nucleari-armi-distruzione-climatica/).
Allargamento delle circostanze per l’uso delle armi nucleari
In questa direzione va anche un notevole allargamento delle norme che consentono il ricorso alle armi nucleari. La precedente NPR di Obama escludeva tale uso contro “ Stati non nucleari aderenti al Trattato di Non Proliferazione che ottemperano gli obblighi del trattato”. La nuova NPT di Trump apre invece la possibilità di ricorrere alle armi nucleari in risposta a un attacco non nucleare “che causi vittime di massa (mass casualties)” o sia “diretto contro infrastrutture critiche o siti di comando e controllo nucleare”: l’ambiguità di termini quali “mass casualties” e “critical infrastructure” implica che gli Stati Uniti possono considerare il ricorso alle armi nucleari praticamente in qualsiasi conflitto armato!
Vale la pena di ricordare che nella Conferenza di Revisione del TNP del 2010 gli Stati Uniti e gli altri Stati nucleari si impegnarono solennemente a “diminuire il ruolo e il significato delle armi nucleari in tutti i concetti, le dottrine e le politiche militari e di sicurezza” e di perseguire negoziati per l’ulteriore riduzione degli arsenali nucleari.
Inutile dire che la NPR ribadisce esplicitamente le note tesi dell’amministrazione Trump sul nuovo trattato TPAN del 7 luglio scorso, dichiarando che esso “ha alimentato aspettative completamente irrealistiche”, e danneggia il regime di non proliferazione.
Oltre a quanto detto, gli Usa non ratificheranno il Trattato di messa al bando dei test nucleari (CTBT) del 1996: gli Usa non lo avevano mai ratificato nei trascorsi 21 anni (perché si sono sempre riservati di poter riprendere i test nucleari, e avevano potenziato il poligono del deserto del Nevada), ma ora questo rifiuto è ufficiale.
La NPR non fa assolutamente menzione dell’Art. VI del TNP.
Per gentile concessione dell'agenzia di Stampa Pressenza
La accettazione di Trump a trattare direttamente la questione coreana con Kim Jong – Un, pone il Presidente USA in una posizione molto più vulnerabile di qualsiasi altro capo di Stato.
Le conseguenze del negoziato - In tema di politica estera la mossa coreana, ossia, la proposta di una trattativa, che adesso Trump ha in mano, sarebbe molto perniciosa per la stessa leadership USA qualora il Presidente non ottenesse un risultato di tutta evidenza nel negoziato diretto con la Corea del Nord.
E’ però, altrettanto vero che il fronte politico contrario, composto dagli avversari di Trump, subirebbe in caso di un accordo con la Corea un notevole spiazzamento; spiazzamento soprattutto se questo ipotetico accordo fosse sufficiente a riportare la sicurezza del mondo fino adesso vicino al conflitto nucleare, nei ranghi dell’accettabilità.
Il previsto imminente colloquio Usa – Corea per un incontro diretto sulla contesa nucleare - di questo in effetti si tratta – ha sicuramente imbarazzato la stessa Cina, tradizionale alleata della Corea del Nord.
La Cina infatti, finora avvantaggiata dall’escalation delle ostilità tra Pyongyangd e Washington, avrebbe potuto far leva sul pragmatismo della Corea del Sud stretta tra i due fuochi, per incoraggiare l’unificazione territoriale tra le due Coree per affinità culturale, in tal caso, a gravissimo discapito degli americani in stanza nel sud-est asiatico.
Questo sarebbe equivalso per la Cina ad estendere anche a Seul, la medesima influenza che ha su Pyongyang. Invece, il colloquio diretto per un concordato tra USA e Corea del Nord, non ha dato alla Cina - che comunque si è dovuta diplomaticamente congratulare per questo tentativo di conciliazione - la ambita possibilità di fungere da mediatrice con i propri indirizzi politici. Attualmente, gli eventuali possibili suggerimenti della Cina, non possono contare sulla propria supremazia ideologica comunista, perché come si vedrà, il comunismo coreano ha uno stampo politico diverso.
Le convergenze tra USA e Corea su questo ipotetico accordo, saranno così svincolate dalle dirette pressioni cinesi su Pyongyang; pressioni che sicuramente avrebbero salvaguardato la politica espansionistica della stessa Cina nell’Oceano Pacifico.
L’ anima della Corea - La Corea del Nord è formalmente uno stato socialista aderente ai principi del marxismo leninismo, ma è anche uno degli Stati che reggono il passo della necessità interne con la convenienza dei rapporti internazionali. L’ideologismo politico della Cina maoista e comunista, non trova perciò, riscontro nel regime coreano, quantunque alleato strategico fin dagli anni 50. L’aiuto alla guerra coreana contro gli Stati Uniti che la Cina ha assicurato attraverso le proprie forniture militari alla Corea del Nord, ha garantito l’ attuale regime prima e dopo l’accordo di suddivisione territoriale lungo la linea del 38º parallelo tra le due Coree.
La Corea del Nord è piuttosto uno Stato retto da un governo che dal punto di vista occidentale, assume i connotati dittatoriali di uno Stato nazionalista che concepisce l’amministrazione del Paese a immagine e somiglianza della stessa impostazione politica dominante. Non a caso, appaiono dei parallelismi tipici dell’estremismo di tutta evidenza, come l’emozione delirante e la dedizione fino al sacrificio del popolo coreano per il suo capo a cui tutto è dovuto, in quanto egli esprime simbolicamente l’anima della nazione.
L’interesse cinese - Merita una rapida digressione non sottovalutare il rilevante interesse della Cina anche nei confronti delle risorse minerarie coreane perché le immense potenziali ricchezze del sottosuolo coreano sono stimate dai 5 mila ai 10 mila miliardi di dollari. Tra queste vi sono i giacimenti delle cosi dette “terre rare” tra i più capienti del mondo, recentemente scoperti nelle alture della Corea del Nord. Attualmente la richiesta di mercato di questi elementi per una vasta gamma di applicazioni industriali, soprattutto del settore elettrico, è strategica. La Cina infatti, sensibilizzata pelosamente dal cosiddetto ambientalismo occidentale, ha investito enormi risorse economiche per la rapida trasformazione nel mondo dell’ attuale trasporto, da motori endotermici a benzina e diesel, a motori elettrici. Come poi se qui da noi, la ricarica delle batterie, avvenisse senza inquinamento, per grazia ricevuta.
La forza dei negoziati - La possibilità di successo per un colloquio di tal genere per le due Coree, poggia su aspetti di sicura convenienza politica interna, soprattutto della Corea del Nord, prima ancora che su valori internazionalmente riconosciuti a Trump.
Per quanto riguarderà l’eventuale successo americano, soprattutto di fronte all’opinione occidentale, questo dovrà superare con ampio margine, le attuali frontiere strategiche commerciali americane nell’est asiatico, e, dimostrare che il risultato ottenuto dalla Corea del Nord ha sicuramente rafforzato la leadership USA nel mondo, attraverso il Presidente Trump.
Svincolare la Corea del Nord dalle dipendenze cinesi e favorire in questo caso, una confederazione coreana aperta all’Occidente in cambio della denuclearizzazione militare, sarebbe un notevole successo per Trump e per il tutto l’ Occidente. Questa possibilità non è proprio così remota anche se del tutto in salita.
Altrettanto allettante sarebbe per il popolo coreano un novello “piano Marshall” USA che giocherebbe a favore del dittatore Kim Jong-un per l’improvviso benessere che si riverserebbe sulla popolazione e che sarebbe comunque a lui attribuito. La sopravveniente abbondanza dei beni di prima necessità, perennemente carenti, costituirebbe infatti per Kim Jong-un, un rafforzativo del consenso interno di grande rilevanza politica.
Il paradosso della razza - Altro fattore coreano di carattere emotivo tradizionale molto sentito dall’intero Paese è il concetto della cosiddetta purezza di razza, della quale noi occidentali disconosciamo da un pezzo ogni valore. Per i coreani del Nord invece, che si considerano l’espressione genuina della purezza asiatica, la riunificazione della propria gente assume un valore di notevole importanza anche per la Corea del Sud. Disse infatti, Kim Young-sam, il primo Presidente sud coreano eletto democraticamente, che nessun alleato è migliore di uno della stessa razza.
In conclusione - Ciò starebbe a significare che un eventuale Stato federale tra le due Coree avrebbe una motivazione interna in più, per preferire questa nuova realtà.
Se così avvenisse il successo del Presidente Trump consisterebbe nella denuclearizzazione militare della Corea del Nord e nel relativo allentamento coreano dai vincoli strategici dalla Cina. La Cina però non si limiterà a guardare.
Quando è l’emotività a prevalere sull’opportunità e sulle ragioni di Stato non si agisce per il bene del Paese ma, piuttosto, per ideologia politica
La scelta emotiva - Non giova all’Italia denigrare emotivamente le decisioni del Presidente Trump osteggiate dagli avversari politici e personali che non lasciano passare un giorno senza esprimere sotto ogni pretesto, la loro contestazione.
L’America è una nazione che ha, in particolare con l’Europa, l’interesse di mantenere il saldo legame che unisce le due realtà territoriali della civiltà occidentale oltre oceano e che finora ha consentito ai due continenti di realizzare e mantenere il grado di progresso e di confort della nostra quotidianità a cui non vorremmo mai rinunciare.
Se i livori ideologici di alcuni rappresentanti dell’informazione come ad esempio, la “nostra inviata speciale da New York”, dovessero far breccia attraverso la TV di Stato (che non è una TV delle tante) sulla consolidata simpatia del popolo italiano verso gli Stati Uniti d’America, sarebbe allora inevitabile che l’effetto di reciprocità prendesse il sopravvento. D’altra parte, a prescindere entro certi ragionevoli limiti della libertà di informazione dei vari inviati speciali da parte dello Stato che controlla l’emittente, se dopo un anno in mezzo di pressoché quotidiano report, gli organi di controllo lasciano immutate le cose, questo significa condividere l’informazione. Ma in tal caso si rischia di vanificare secoli di cordialità e amicizia tra Italia e America che hanno costituito il ponte della libertà a duro prezzo conquistata. E tutto questo in cambio di che cosa?
“Tanto peggio tanto meglio” - E altrettanto evidente il sarcasmo che si prepara in vista di un insuccesso di Trump, già preannunciato su alcuni importanti quotidiani del fronte opposto verso il Presidente degli Stati Uniti d’America che ha accettato di trattare con il dittatore coreano le modalità di un accordo antinucleare.
Non sarebbe la prima volta leggere nella stampa nostrana le buone ragioni a sostegno di Kim Yong nel confronto con il mondo occidentale rappresentato dall’America, per offrire un motivo in più ai seminatori di discordia contro le legittime ragioni dell’Occidente, purché possano indebolire la posizione di Trump.
La preferenza che sottende tanto astio nei confronti del bistrattato Presidente accusato di tutto e di più, trae origine dal risultato della scelta elettorale che le diverse lobby politiche avversarie ritenevano dover essere appannaggio dello schieramento di Hillary Clinton. Ma l’insuccesso delle elezioni presidenziali, ancora non digerito dopo un anno e mezzo di quotidiani tentativi denigratori, si è progressivamente trasformato in una avversione permanente verso Trump.
Non stupisca pertanto, qualora l’incontro tra Usa e Corea del Nord non abbia un successo americano più che evidente, un sostegno dei media occidentali a favore delle “buone ragioni” coreane, per indebolire ulteriormente la posizione di Trump.
Il premio Nobel per la Pace - D’altra parte, altri segni collaterali di rivalutazione mediatica del pregresso mandato presidenziale Usa al "democratico" ma forse più "conservatore" Obama, a cui è stato attribuito il Premio Nobel per la Pace nel 2009, si contrappongono sicuramente alla attuale politica USA del Presidente Trump, ritenuta temeraria.
È previsto infatti un iniziale talk-show su Net flix, ossia sugli schermi tv, nonché una successiva consacrazione hollywoodiana programmata per l’ ex Presidente Obama con la di lui famiglia, in antitesi a tutto quanto Trump rappresenterebbe di negativo, con particolare riferimento alla aggressiva politica estera a lui attribuita.
Certamente, trattandosi di opinioni e di libero pensiero, ognuno in Occidente può esprimere ciò che vuole; ma per quanto riguarda i fatti, come ad esempio, l’assegnazione a Obama nel 2009 del premio Nobel per la Pace, si fa rilevare semplicemente la pretestuosità politica dell’attribuzione di questo premio. Egli infatti, se non è stato il promotore, ha comunque preso parte a ben sette guerre nel mondo: Afghanistan, Libia, Somalia, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria mentre il Presidente Trump, che risponde verbalmente in modo congruente alle tracotanze coreane, naturalmente è lui il guerrafondaio.
14 mar 2018 — Sono in corso simultaneamente, nella prima metà di marzo, due grandi esercitazioni di guerra – l’una nel Mediterraneo di fronte alle coste della Sicilia, l’altra in Israele – ambedue dirette e supportate dai comandi e dalle basi Usa/Nato in Italia.
Alla Dynamic Manta 2018 – esercitazione di guerra sottomarina, appoggiata dalle basi di Sigonella e Augusta e dal porto di Catania – partecipano forze navali di Stati uniti, Canada, Italia, Francia, Belgio, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Grecia e Turchia, con 5000 uomini, navi di superficie, sottomarini, aerei ed elicotteri.
L’esercitazione è diretta dal Comando Nato di Lago Patria (Jfc Naples), agli ordini dell’ammiraglio statunitense James Foggo. Nominato dal Pentagono come i suoi predecessori, egli comanda allo stesso tempo le Forze navali Usa in Europa e le Forze navali Usa per l’Africa, il cui quartier generale è a Napoli Capodichino.
A cosa serva la Dynamic Manta 2018 lo spiega lo stesso ammiraglio Foggo: è iniziata la «Quarta battaglia dell’Atlantico», dopo quelle delle due guerre mondiali e della guerra fredda. Essa viene condotta contro «sottomarini russi sempre più sofisticati che minacciano le linee di comunicazione marittima fra Stati uniti ed Europa nel Nord Atlantico».
L’ammiraglio accusa la Russia di condurre «una attività militare sempre più aggressiva», citando come esempio caccia russi che sorvolano a bassa quota navi Usa. Non dice però che queste navi da guerra incrociano nel Baltico e nel Mar Nero a ridosso del territorio russo.
Lo stesso fanno i droni-spia Usa Global Hawk che, decollando da Sigonella, volano due o tre volte la settimana lungo le coste russe sul Mar Nero.
L’ammiraglio Foggo, mentre col cappello di comandante Nato prepara in Italia le forze navali alleate contro la Russia, col cappello di comandante delle Forze navali Usa in Europa invia dall’Italia la Sesta Flotta alla Juniper Cobra 2018, esercitazione congiunta Usa-Israele diretta principalmente contro l’Iran.
Dalla base di Gaeta è giunta ad Haifa la Mount Whitney, nave ammiraglia della Sesta Flotta, accompagnata dalla nave da assalto anfibio Iwo Jima. La Mount Whitney è un quartier generale galleggiante, collegato alla rete globale di comando e controllo del Pentagono anche attraverso la stazione Muos di Niscemi.
La Juniper Cobra 2018 – cui partecipano 2500 militari Usa e altrettanti israeliani – è iniziata il 4 marzo, mentre il premier Netanyahu, incontrando il presidente Trump, sosteneva che l’Iran «non ha rinunciato alle sue ambizioni nucleari» (non dicendo che è Israele l’unica potenza nucleare in Medioriente) e concludeva «l’Iran va fermato, questo è il nostro comune compito».
L’esercitazione simula la risposta israeliana al lancio simultaneo di missili da Libano, Iran, Siria e Gaza. Lo scenario reale può invece essere quello di un lancio missilistico falsamente attribuito agli Hezbollah libanesi alleati dell’Iran, quale pretesto per attaccare il Libano mirando all’Iran.
Al massino 72 ore dopo, dichiarano ufficiali statunitensi e israeliani, arriverebbero dall’Europa (in particolare dalle basi in Italia) forze statunitensi per affiancare quelle israeliane nella guerra.
La presenza alla Juniper Cobra del generale Scaparrotti, capo del Comando Europeo degli Stati uniti, conferma tale piano, che egli ha definito in un incontro con lo stato maggiore israeliano l’11 marzo. Poiché Scaparrotti è anche Comandante supremo alleato in Europa (carica che spetta sempre a un generale Usa), il piano prevede una partecipazione Nato, soprattutto italiana, a sostegno di Israele in una guerra su larga scala in Medioriente.
(il manifesto, 13 marzo 2018)