L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Carlotta Caldonazzo
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Teheran |
I toni sproporzionatamente aggressivi del presidente degli Stati Uniti Donald Trump nei confronti dell'Iran riproducono una dinamica piuttosto ricorrente, soprattutto nelle fasi di transizione e assestamento dell'assetto geopolitico mondiale: i governi alleati di oggi sono i peggiori nemici di domani.
La questione del controllo delle potenze straniere sull'Iran emerse per la prima volta alla fine del XIX secolo, durante il regno degli ultimi shah della dinastia turkmena dei Qajar (che guidò il paese dal 1786 al 1925), in concomitanza con due processi concomitanti. In primo luogo, le idee che animavano il dibattito politico-ideologico europeo sui sistemi di governo costituzionali e sulle funzioni del Parlamento penetrarono gradualmente tra gli intellettuali, tra i funzionari e soprattutto tra ulema (clero sciita) e mercanti. Un processo favorito, oltre che dall'aumento dei contatti diplomatici ed economici con l'Europa, anche dalle attività degli intellettuali iraniani in esilio a Costantinopoli e a Calcutta. Infatti, nella seconda metà del XIX secolo, laici, riformisti e religiosi crearono società segrete e, tra XIX e XX secolo, anche organizzazioni la cui struttura era ispirata ai soviet russi. In secondo luogo, negli ultimi decenni dell'800, dopo la sconfitta francese contro la Prussia, le potenze europee dirottarono le loro rivalità al di fuori del vecchio continente, trasformando i conflitti per l'egemonia sull'Europa in una corsa al colonialismo imperialista. In tale contesto l'Iran divenne teatro dello scontro tra Gran Bretagna e Impero russo zarista, che se ne contesero il controllo ostacolandone lo sviluppo e “dirigendo” i cambiamenti socio-politici, persino quelli che, come la rivoluzione costituzionale, avevano tra gli scopi principali l'indipendenza.
Britannici e russi furono i primi istituti bancari iraniani, di cui il primo fu la britannica Imperial Bank of Persia, fondata nel 1889, che inizialmente aveva anche il diritto di sfruttare le risorse minerarie. Di poco successiva fu la fondazione, su iniziativa russa, della Banque des Prêts, poi chiamata Banque d'Escompte de Perse. La creazione di queste banche fu al contempo il risultato e la causa del crescente indebitamento nei confronti delle potenze occidentali degli shah Qajar, che con il loro dispendioso apparato dissestarono le finanze e l'economia del paese, riducendolo a una condizione di semi-colonia. Ad esempio, la fondazione della Imperial Bank of Persia fu autorizzata dallo shah Naser al-Din per pagare parte della cauzione stabilita dall'accordo per la concessione al barone britannico Julius de Reuter del controllo di strade, telegrafi, stabilimenti industriali e dell'estrazione di minerali (1872). Accordo che lo shah aveva dovuto annullare su pressione della Russia e dei cortigiani filorussi. Inoltre, dal punto di vista politico, uno dei problemi principali dei Qajar era lo scarso controllo del paese, per la tendenza a governare più secondo il modello dei capi tribù che secondo i criteri di una monarchia moderna. Basti pensare che l'unico esercito moderno in Iran era la Brigata cosacca, corpo di guardia della dinastia regnante, fondato nel 1879 e comandato da ufficiali russi fino alla rivoluzione bolscevica del 1917.
Anche per questo qualsiasi riforma fiscale per risanare il bilancio era difficile da elaborare e da attuare. Pertanto, nel 1897 il primo ministro iraniano Amin a-Dauleh si rivolse a una squadra di consulenti belgi guidata da Joseph Naus. Il cambiamento, che riguardò soprattutto tasse e dazi doganali, aumentò le entrate fiscali della monarchia iraniana (il successo valse a Naus addirittura la nomina a ministro), ma accrebbe anche il malcontento dei mercanti (per il timore di un aumento delle tasse) e dei cortigiani (gelosi dei loro privilegi). In Iran non esisteva una borghesia, ma la classe mercantile (i cosiddetti bazarì) alla fine del XIX secolo, grazie all'incremento dei commerci aveva conquistato un notevole peso all'interno della società. Perciò l'ostilità dei mercanti nei confronti della dinastia regnante fu determinante sia nella protesta del tabacco del 1891, sia nella rivoluzione costituzionale del 1906. Un contributo decisivo al successo di questi moti venne poi dagli ulema, il cui rapporto di interdipendenza con la monarchia si incrinò tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Ciò è da imputarsi in buona parte ai tentativi degli ultimi sovrani Qajar di “intromettersi” in settori chiave del potere religioso, quali l'istruzione e i tribunali.
La situazione esplose quando nel 1890 Naser al-Din concesse al maggiore britannico Gerald F. Talbot il monopolio sulla produzione, la vendita e l'esportazione di tabacco per cinquant'anni, in cambio di 15 mila sterline l'anno più un quarto dei profitti. Un accordo che distrusse il mercato locale di un prodotto molto popolare, quindi non solo colpì i mercanti, ma ridusse in miseria una parte consistente dei ceti più vulnerabili, che traevano sostentamento dalla coltivazione e dalla lavorazione del tabacco. Consapevoli di ciò, le autorità iraniane tentarono di mantenere segreta la concessione, ma un giornale fondato dalla diaspora iraniana a Costantinopoli diffuse la notizia. Quando la protesta dilagò tra i mercanti partendo da Shiraz, la guida religiosa di questa città, esiliata in Iraq, entrò in contatto con religiosi e intellettuali di origine persiana e convinse il leader sciita di Najaf a emettere una fatwa che vietasse il consumo e la vendita di tabacco. A causa del boicottaggio sistematico che questo divieto innescò, lo shah annullò la concessione.
Russia e Gran Bretagna intervennero nuovamente quando, nel 1896, Naser al-Din fu ucciso: la Brigata cosacca prese il controllo di Tehran, mentre sul trono fu insediato il figlio di Naser a-Din, Muzaffar a-Din. Al malcontento generato dalle riforme fiscali si aggiunse quindi la crescente preoccupazione per l'ingerenza straniera. Con il parere contrario della Russia, nel 1901 il nuovo shah concluse un accordo con il miliardario britannico William Knox D'Arcy: la Gran Bretagna avrebbe avuto il controllo delle riserve petrolifere iraniane per 60 anni, in cambio di 20 mila sterline e del 16% dei profitti. Nel 1909 i diritti passarono alla neo-fondata Anglo-Persian Oil Company, che nel 1935 divenne Anglo-Iranian Oil Company. La stessa compagnia fu accusata di monopolizzare i proventi del petrolio tenendo segreti i guadagni effettivi, quindi nazionalizzata nel 1952 dal Parlamento iraniano su impulso, tra gli altri, di Mohammad Mossadegh, poi eletto Primo ministro. Ciò innescò la serie di avvenimenti culminata con il colpo di stato che lo depose nel 1953, fu ordito dall'intelligence statunitense: l'Operazione Ajax stroncò l'opposizione laica allo shah Mohammad Reza, le cui violazioni dei diritti umani allora non preoccupavano Stati Uniti e Gran Bretagna.
La convenzione D'Arcy dunque accese ulteriormente il dibattito politico iraniano: tra gli intellettuali riformisti, religiosi e laici, si fece strada l'idea che solo un regime costituzionale, con un Parlamento, avrebbe posto fine all'arbitrio della monarchia, quindi alla dipendenza dell'Iran dalle potenze straniere. Un'ingerenza che preoccupava anche gli ulema, consolidando la loro alleanza con i mercanti e gli artigiani di Tehran e con gli intellettuali riformisti. La rivoluzione costituzionale del 1906 rappresentò quindi un salto di qualità nei metodi rispetto al boicottaggio del tabacco: durante gli scontri con le autorità, molti ulema si rifugiarono nei santuari di Qom, mentre migliaia di mercanti e artigiani chiesero protezione alla delegazione britannica, tutti portando avanti forme di protesta pacifiche organizzate. Lo shah convocò un Parlamento (formato da mercanti, religiosi, funzionari e latifondisti) e ratificò una Costituzione che limitava i suoi poteri, ma morì poco più di un mese dopo. Temendo che l'instabilità politica ostacolasse i loro interessi, Russia e Gran Bretagna conclusero un accordo per spartirsi le zone di influenza in Iran (1907): alle autorità locali rimaneva praticamente solo il controllo della regione centrale. Così, quando nel 1908 lo shah Mohammad Ali, con il sostegno della Brigata cosacca, tentò il colpo di stato per restaurare la monarchia assoluta, Londra e San Pietroburgo (quest'ultima inizialmente schierata con lo shah) intervennero direttamente. Costituzione e Parlamento furono ripristinati e lo shah abdicò in favore del figlio Ahmad, ultimo sovrano della dinastia Qajar.
Alla Gran Bretagna, che non voleva perdere il suo primato economico (in vista del quale il controllo politico era un mezzo), si aggiunsero nel 1910 gli Stati Uniti, che dal secondo dopoguerra tentarono in tutti i modi di imporsi in Medio Oriente, quindi anche in Iran, in funzione anti-sovietica. Basti citare L'Iran-Contras affaire (1985-1986), in cui fu coinvolto anche l'allora presidente USA Ronald Reagan, oltre alla già menzionata operazione Ajax del 1953, con la quale Gran Bretagna e Stati Uniti deposero il Primo ministro Mossadegh, anche organizzando contro di lui manifestazioni di protesta. Il pretesto fu il referendum per lo scioglimento del Parlamento e l'obiettivo era ripristinare il potere “legittimo” dello shah Muhammad Reza, ma il colpo di stato contro Mossadegh fu in realtà una mossa per evitare che il suo governo, sotto l'embargo britannico, intavolasse trattative con l'Unione Sovietica per il commercio del petrolio. Il risultato fu il logoramento delle forze politiche laiche che si opponevano all'arbitrio dello shah e alla subordinazione degli interessi iraniani a quelli di potenze straniere. Lo shah fu poi rovesciato dalla rivoluzione islamica del 1979: shah mat, scacco matto, ossia “il re (shah) è morto”, ma nella logica di potenza, morto uno shah se ne fa sempre un altro.
Aleksey Navalny |
Novità elettorale natalizia in Russia, protagonista Babbo Natale. Il partito ''Russia Unita'' ha pubblicato un video dove una bambina chiede a Babbo Natale di far vincere le elezioni a Vladimir Putin, ciò mentre proprio la Commissione elettorale centrale del Cremlino aveva accusato Aleksey Navalny, oppositore di Putin, di usare bambini per i suoi scopi elettorali.
Nel video la bambina chiede a BABBO NATALE di far diventare presidente Vladimir Putin, la scena si svolge proprio mentre scorrono immagini di Putin che parla in televisione, e promette che se verrà esaudito questo suo desiderio non chiederà altro a Babbo Natale e questi gli risponde che ha già ricevuto molte richieste del genere.
Come accennato in precedenza le autorità avevano accusato Alexei Navalny di usare e ingannare i giovani. Motivo di tali accuse le proteste del 26 marzo e del 12 giugno scorso nelle quali migliaia di
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giovani sono scesi in piazza. In seguito a ciò il Consiglio della Federazione Russa ha presentato una proposta di legge per impedire ai minori di partecipare a manifestazioni non autorizzate.
E’ iniziata la campagna elettorale in vista delle elezioni del 18 marzo 2018 e Vladimir Putin non avrà rivali, vari sondaggi lo danno al 55-63% di consenso, cosa che gli permetterebbe di rimanere alla guida del paese fino al 2024.
In questi ultimi tempi il principale oppositore di Putin e' stato Alexey Navalny , fondatore del Partito del Progresso, protagonista di molte manifestazioni nel paese e, proprio a causa di queste manifestazioni non autorizzate e alcune vicende finanziarie, è' stato condannato per due volte, ciò che gli ha precluso il permesso ad essere candidato. In seguito a ciò ha tentato di raccogliere le 300.000 firme richieste per la candidatura, ma è stato nuovamente arrestato e la sua esclusione dalle elezioni e' stata confermata definitivamente dalla Corte Suprema.
Gli altri partiti per queste elezioni sono il Partito Comunista di Gennadij Zyuganov. Sfiorò la vittoria nel 1996 contro Boris Yeltsin, ma nelle successive elezioni sono arrivate solo sconfitte. Negli ultimi tempi si sta cercando di ringiovanirne la classe dirigente. Per il momento il candidato che dovrà essere il premier è ancora in lista di attesa.
Il partito liberale che punterà ancora su Vladimir Zhirinovsky, i socialdemocratici avranno come leader Sergey Mironov, i verdi Anatoly Batashev, i comunisti di Russia Maxim Suraikin e il partito di centro sinistra Yabloko, Grigory Yavlinsky. C'e' anche un partito monarchico a memoria dell'impero russo e sarà guidato da Anton Bakov.
Altri nomi in odore di candidatura sono il vice primo ministro Dmitry Rogozin, la giornalista Irina Prokhorova, l'attore Ivan Okhlobystin e un volto televisivo, Ksenia Sobchak.
Putin con il card. Parolin |
In questi ultimi tempi molti media parlano di un possibile viaggio di papa Francesco a Mosca, sembra che il Vaticano stia preparando questa ipotesi. Ultimamente tra Vaticano e Putin esiste una nuova politica, soprattutto per quanto riguarda quella estera, e nel messaggio di fine anno di auguri ai leader mondiali Putin ha sottolineato nella missiva indirizzata alla Santa Sede: “che la speranza del dialogo costruttivo per proteggere la pace e i valori umani tra Russia e Vaticano continui ”.
Le visite di Putin in Vaticano, le telefonate con Papa Francesco, hanno creato relazioni di fiducia, ha dichiarato Alexander Avdeev l'ambasciatore russo presso il Vaticano e prelude ad una visita del pontefice in Russia.
Naturalmente sarà interessante anche l'incontro con il Patriarca Kirill, già incontrato il 12 febbraio nel 2016 a Cuba e quella data fu già di per se un evento storico: la chiesa d'occidente e quella d'oriente si divisero nel grande scisma del 1054.
Nel 2017 ci sono stati degli avvenimenti importanti per le relazioni tra Vaticano e Russia e ciò rende sempre più probabile il viaggio di Papa Francesco a
Reliquia di San Nicola Bari |
Mosca. Nel maggio scorso, dopo 930 anni, la reliquia di San Nicola dalla Cattedrale di Bari ha raggiunto la capitale russa e in agosto c’è stata la visita del Cardinale Pietro Parolin che ha incontrato il Patriarca Kirill e Putin.
Tutto ciò fa pensare che il 2018 sarà l'anno di Papa Francesco e Putin, oppure sarà un anno che rimarrà nelle date della storia, e cioè del riavvicinamento tra chiesa cristiana e chiesa ortodossa ....staremo a vedere
Dovremmo smetterla di aiutare i paesi del Terzo Mondo, quelli in via di sviluppo, smettere di ”aiutarli a casa loro”, per lo meno non con il modo spesso portato avanti finora.
Smetterla di approntare “missioni di pace”, avvallate dall’ONU, supportate dai caschi blu, far passare convogli di aiuti umanitari e a seguire tonnellate di bombe, cibo in scatola e milioni di mine antiuomo, supporto logistico e fiumi di armi.
Dovremmo smetterla di indignarci, quando scopriamo che il nostro Ministero della Difesa, allora presieduto dalla signora Pinotti, non andava propriamente a intrattenere “relazioni diplomatiche” con l’Arabia Saudita. Improvvisamente svegliarci un mattino e candidi come un fiocco di neve esclamare indignati…”Oh ma che schifo in Yemen! Bombe italiane che hanno ucciso bambini”
Smetterla, perché la stessa identica cosa avviene da anni in Palestina con le forniture Beretta, Melara, Finmeccanica ecc.
Smetterla di sorprenderci se con quelle stesse armi, in Palestina, qualcuno sparerà alle ginocchia dei bimbi, così da renderli infermi, oppure farà fuoco mirando ai genitali degli uomini, affinché non si possano riprodurre, o ancora piangere quando nei raid israeliani sui campi profughi i civili vengono uccisi con i Mangusta di produzione tutta italiana.
Smetterla di far finta di non sapere che l’Italia da anni è il maggiore esportatore dell’Unione Europea di sistemi militari e di armi leggere dirette verso Israele, con medie di 500 milioni di euro l’anno per esportazione di sistemi militari (dati del Rapporto UE).
Smetterla di dirci “italiani brava gente”, quando da tempo siamo nella “top ten” mondiale dei paesi che esportano più armi. Vicini ai 15 miliardi di forniture d’armi nel 2016, un fatturato raddoppiato dal 2015, e quadruplicato dal 2014, dove oltre il 60% delle nostre armi sappiamo bene finirà in paesi fuori dall’Unione Europea e dalla NATO, paesi coinvolti in guerre, in stermini di massa, in omicidi di Stato.
Smetterla di lavarci la coscienza scrivendo “Verità per Giulio Regeni”, quando siamo legati da anni all’Egitto con tutti i tipi di forniture commerciali, quella di armi in primis fra tutte.
Smetterla di piangere mano sul petto e posa solenne i nostri militari morti all’estero, quando poi in Iraq a Baghdad e a Nassiriya, i terroristi sparavano contro i nostri carabinieri con delle armi Beretta.
Magari stupirci se scopriremo un giorno che, nella “missione umanitaria” italiana in Niger, oltre alla lotta al traffico di esseri umani e al terrorismo internazionale, indisturbato qualcuno con le armi faceva affari.
Sì, per compassione, se non per coerenza, bisognerebbe smetterla una buona volta, dal momento in cui la stessa identica cosa avveniva in Bosnia e in tutta la Ex-Jugoslavia, già 25 anni fa, nell’estate del 1993: da una parte migliaia di volontari civili venuti da tutto il mondo, in marcia verso Sarajevo e Mostar, tentando di riallacciare il dialogo fra le popolazioni, istituire una tregua, porre fine alla guerra, mentre dall’altra i governi europei, la NATO e l’ONU realizzavano e proteggevano a suon di bombe sganciate dal cielo, “corridoi umanitari” non tanto per garantire una via di fuga alle migliaia di profughi e disperati, bensì il passaggio delle merci, di tutti i tipi di merci, specie quelle con cui si alimentano le guerre. Era il 7 di agosto del 1993, sulla strada che va a Sarajevo, col sottofondo di cicale in amore, quando la radio gracchiò: di qua c’eravamo noi volontari civili, a migliaia in ascolto, dal cui passaggio nasceva una miracolosa quanto fragile tregua, dall’altra parte della nostra radio da campo, Umberto Playa, Responsabile Unità di Crisi del Ministero degli Esteri, concitato ci avvisava, su delega Farnesina, di fermarci, che dovevamo arrestare subito la marcia di pace, che di ora in ora il nostro proseguire diventava sempre più pericoloso. A seguire, l’allora Ministro degli Esteri, ci informò che la Nato il giorno dopo e quello ancora successivo avrebbe effettuato un “bombardamento dimostrativo” poco più avanti, proprio lungo la strada che ci avrebbe condotto a Sarajevo e difatti il “bombardamento amico” poco più avanti,il giorno seguente avvenne.
Fu così, che l’allora marcia della pace “Mir Sada”, con la fragile tregua al suo passaggio, si arrestò.
Quel giorno fummo in molti a perdere come un senso di verginità interiore, un candore che ci faceva sentire “buoni” e a capire che eravamo noi occidentali, con le nostre bombe e le nostre armi, i “cattivi” . Fummo allora ingenui testimoni di eventi di guerra e del traffico d’armi e vite umane, lo stesso che ha poi contraddistinto tutti gli anni a seguire, fino ad oggi.
Anche Padre Albino Bizzotto, fra i promotori della marcia, gridò allora di smetterla. In quel giorno caldo e riarso dal sole, in un campo, Albino prese coraggio e voce, e con l’amaro in bocca e lo sguardo abbassato disse: “Le condizioni in questo momento non ci permettono oggettivamente di passare senza il sacrificio sicuro di qualcuno di noi. E’ arrivato il momento, non soltanto di chiedere aiuto, ma di chiedere con determinazione, di pretendere, dai nostri governi e dalla Comunità Internazionale, di assumere la responsabilità perché siano garantiti i nostri diritti umani elementari. Noi non accettiamo, che vengano difese le merci, che possano passare le merci, e invece le persone portatrici di pace non abbiano la possibilità e il diritto di passare.”
Ancora prima di Albino in questi stessi giorni nel dicembre di 34 anni fa, ci fu un giornalista che ci diceva di smetterla di pensare che la Mafia fosse un problema del Sud, uno di quei giornalisti veri, che il proprio lavoro lo faceva bene, con passione e fino in fondo.
Un giornalista siciliano, che autofinanziato con fondi propri aveva realizzato un giornale indipendente, “I siciliani”, dove era apparsa un’inchiesta scottante. Aveva fatto nomi e cognomi degli allora esecutori mafiosi, collegandoli poi ai mandanti, alle teste pensanti di uno Stato di mafia, insediati ormai da anni fra le più alte cariche del paese Italia e non solo.
Non possiamo ora stupirci, quando di fronte a Enzo Biagi, nella sua ultima intervista, oltre 30 anni fa, un giornalista indipendente, già ci ammonì: “Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante; i mafiosi non sono quelli che ammazzano, quelli sono solo gli esecutori.” […] “I mafiosi sono quelli che stanno ai livelli più alti e incensurati. Un’organizzazione che riesce a manovrare 100.000 miliardi l’anno (delle allora lire) più del bilancio annuale dello Stato Italiano, è in condizione di armare degli eserciti, è in grado di possedere delle flotte, di avere un esercito proprio, e di fatti sta accadendo che la mafia si sia pressoché impadronita almeno in Medio Oriente del commercio delle armi, del mercato delle armi. Diciamo che di questi centomila miliardi di giro, un terzo circa resta in Italia e allora bisogna pure impiegarlo in qualche modo… bisogna riciclarlo, ripulirlo, reinvestirlo e allora, ecco le banche, le nuove banche, questo pullulare, questo proliferare di banche nuove ovunque, servono apposta per riciclare. Il Generale Dalla Chiesa lo aveva capito, Dalla Chiesa aveva avuto questa grande intuizione, quella che lo portò alla morte; intuì che era dentro le banche che bisognava frugare, che lì c’erano decine di migliaia di miliardi insanguinati, che venivano immessi dentro le banche e che ne uscivano per andare verso opere pubbliche. La mafia non è più un problema siciliano e nemmeno italiano, ma europeo.”
Quel giornalista si chiamava Giuseppe Fava, pochi giorni dopo aver rilasciato l’intervista, il 5 gennaio del 1984, pagò con la vita proprio perché fece bene il suo lavoro.
Siamo arrivati al 2018. Forse sarebbe l’ora di smetterla con le armi.
Per gentile concessione dell'agenzia di Stampa Pressenza
Attentato terroristico ieri sera a San Pietroburgo in un supermercato in piazza Kalinin, 13 i feriti. L'ordigno rudimentale pari a 200 grammi di TNT era riempito di chiodi e bulloni.
Il supermercato era affollato di gente, sono i giorni che precedono il capodanno ortodosso, la festa più sentita dai i russi che, per tradizione, scambiano i regali durante la notte di San Silvestro.
In un video della sorveglianza del supermercato si vede il presunto terrorista mentre lascia uno zaino, l'ordigno era nell’area che ospita gli armadietti per depositare borse e valigie. Sembra che il sospettato non sia di origine slava.
Non si sono fatti attendere i messaggi dei sostenitori dell'ISIS inneggiando all'attentato di San Pietroburgo e tra i messaggi lasciati si legge: ''Daremo ai Crociati un assaggio della loro stessa medicina''.
Dieci giorni fa, con l'aiuto della CIA americana, era stato sventato un attentato, sempre a San Pietroburgo, che come obiettivo aveva la cattedrale di Kazan, situata sulla famosa strada della Prospettiva Nievski. Il piano prevedeva altri attentati in vari luoghi affollati da gente. Nei giorni successivi Putin ha ringraziato telefonocamente Trump per il lavoro svolto dall’intelligence americana, e ha promesso di ricambiare il favore.
''Se c’è rischio, non catturate nessuno e uccidere i terroristi sul posto'', queste sono state le parole dure rilasciate da Putin durante la cerimonia di premiazione al Cremlino per il personale russo che ha prestato servizio in Siria.
29.11.2017 - Questa mattina la Corea del Nord ha effettuato con successo il 20o test missilistico in quest’anno, dopo due mesi di “inattività”.
I fatti
L’agenzia ufficiale KCNA ha affermato che il missile era il più sofisticato rispetto a tutti i test precedenti ed è in grado di trasportare una testata nucleare pesante “super-large”.
Queste affermazioni non sono ancora state verificate dagli esperti, ma gli stessi si aspettavano che Pyongyang dimostrasse che ora ha l’intero territorio degli Usa nel suo raggio d’azione: uno sviluppo che rafforza in modo significativo la sua posizione negoziale nei confronti di Washington.
Da quanto viene riportato, il missile ha volato per 50 minuti su una traiettoria molto alta, raggiungendo l’altezza di 2.796 miglia (10 volte maggiore dell’orbita della Stazione Spaziale Internazionale della Nasa), cadendo a una distanza di 621 miglia dal lancio ad ovest della costa del Giappone. David Wright, fisico ed esperto missilistico della Union of Concerned Scientists, calcola che su una traiettoria normale anziché così alta, il missile avrebbe una portata di 8.078 miglia (13.000 km), sufficiente a raggiungere Washington, l’Europa e l’Australia.
Le implicazioni
I commenti parleranno ovviamente di ennesima provocazione, di escalation inaccettabile. Ci sarà un ulteriore polverone. Vogliamo, per lo meno noi, ragionare con freddezza e raziocinio?
Innanzi tutto ho discusso più volte che la responsabilità dell’escalation nucleare della Corea del Nord ricade in primo luogo sugli Stati Uniti[1]. Questo non certo per “giustificare” che Pyongyang si sia dotata di armamenti nucleari, che sono comunque un delitto contro l’umanità, come verrà sancito non appena il nuovo Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari entrerà in vigore: è l’esistenza stessa delle armi nucleari, il loro uso come minaccia, a moltiplicare gli Stati che ambiscono dotarsene. Da un lato è ormai il segreto di Pulcinella che gli armamenti nucleari implicano enormi interessi economici oltre che militari, gli Stati che se ne sono dotati hanno ricevuto informazioni, tecnologie e supporti da cani e porci, e la Corea del Nord non ha certo fatto eccezione.
Si smetta di dipingere Kim come un pazzo fuori di testa, a mio parere è molto lucido, e fa un freddo, ancorché cinico, calcolo: “Saddam ha abbandonato i suoi armamenti e è stato fatto fuori, Gheddafi pure e è stato ucciso”. Più realistico di così! Sono gli Stati Uniti, e Trump in modo esasperato, che conoscono solo il linguaggio della minaccia della coercizione.
Pyongyang ha offerto la disponibilità a negoziare, non da ora ma da anni[2], ponendo come condizione il riconoscimento del suo status di Stato nucleare. Ormai gli Usa, e tutto il modo, devono prendere atto che – per loro precisa responsabilità – la Corea del Nord non pone più un problema di proliferazione, ma è uno Stato nucleare a tutti gli effetti. Kim e il suo regime possono essere legittimamente antipatici, ma di fronte alla minaccia che incombe è necessario mettere in secondo piano l’obiettivo di regime change, e lasciare il posto alla politica, ai popoli e alla storia.
La situazione diventa sempre più drammatica, e il rischio che venga premuto – accidentalmente, per errore o per calcolo – il bottone della fine del mondo è sempre più concreto. Sta al più forte, non al più debole, avere la saggezza di negoziare. La strada è chiara, anche se tutt’altro che priva di ostacoli e problemi: intavolare finalmente – dopo 63 anni dalla Guerra di Corea – un negoziato di pace complessivo che possa pacificare l’intera penisola coreana, e porre le basi per la sua completa denuclearizzazione.
[1] A. Baracca, “La resistibile ascesa nucleare della Corea del Nord”, Pressenza, 3 maggio 2017, https://www.pressenza.com/it/2017/05/la-resistibile-ascesa-nucleare-della-corea-del-nord/.
[2] Si veda ad esempio D. Bandow, “North Korea Wants to Talk Peace Treaty: U.S. Should Propose a Time and Place”, The National Interest, 3 dicembre 2015, http://nationalinterest.org/blog/the-skeptics/north-korea-wants-talk-about-peace-treaty-us-should-propose-14504; A. Denmark, “Time for President Trump to negotiate with North Korea”, The Hill, 10 novembre 2017, http://thehill.com/opinion/white-house/354891-time-for-president-trump-to-negotiate-with-north-korea.
per gentile concessione dell'Agenzia di stampa Pressenza
Mentre le dispute tra Erbil e Baghdad su Kirkuk insidiano gli equilibri regionali, il presidente della Regione autonoma del Kurdistan iracheno Massoud Barzani si dimette
Le dimissioni dell'ex presidente della Regione autonoma del Kurdistan iracheno (KRG) Massoud Barzani, entrate in vigore il primo novembre, sono arrivate poco meno di dieci di giorni dopo la conferenza stampa in cui portavoce del movimento di opposizione Gorran aveva chiesto a lui e al vice-presidente Kosrat Rassoul di porre fine alle loro funzioni, avviando la formazione di un governo di unità nazionale. Lo stesso movimento, nato da una scissione all'interno del Partito di unione patriottica del Kurdistan (il PUK del defunto Jalal Talabani), in agosto si era pronunciato a favore del rinvio del referendum per l'indipendenza della regione curda. Gorran accusa la leadership del KRG di aver gestito in modo inefficace e poco trasparente le questioni interne ed esterne, e di aver illegalmente prolungato le sue funzioni per quattro anni oltre il suo mandato. Inoltre, il fatto che il parlamento sia chiuso dall'ottobre del 2015 impedisce un dialogo tra le forze politiche. Il Partito democratico del Kurdistan (KDP) di Barzani, forte dell'influenza della sua potente tribù, ha di fatto egemonizzato la politica curda, facendo leva soprattutto sui successi militari nella guerra contro i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico. Abbandonata la presidenza, Barzani non potrà candidarsi alle prossime elezioni, ma ha assicurato che resterà sulla scena “come peshmerga”, come combattente. Anche perché le elezioni presidenziali, previste per il primo novembre, sono state rinviate sine die.
“Sono sempre lo stesso Massoud Barzani, sono un peshmerga”, ha dichiarato l'ex presidente alla televisione irachena, “continuerò ad aiutare il mio popolo nella lotta per l'indipendenza”. Tuttavia, le recenti conquiste dell'esercito iracheno (le truppe del governo centrale di Baghdad), in particolare quella della provincia petrolifera di Kirkuk, senza spargimento di sangue, hanno complicato la situazione politica di Barzani, svelandone il sostanziale isolamento internazionale. Nessun paese vicino ha preso posizione perché Kirkuk e altri territori contestati rimanessero sotto il controllo kurdo o perché i curdi iracheni potessero avere un loro stato. Neppure l'alleato statunitense, che pure sui peshmerga aveva contato sia durante l'invasione dell'Iraq del 2003, sia nella guerra contro i cartelli del jihad, mentre ora si è limitato ad accogliere con favore le dimissioni di Barzani come segno di “senso dello stato”. Oltre all'indifferenza degli alleati regionali, Barzani si trova di fronte avversari politici che lo accusano già da anni di cupidigia e nepotismo, di indentificare alleanze politiche e relazioni tribali e di clan e gli attribuiscono la responsabilità del grave deficit di bilancio del KRG.
L'effetto più significativo delle dimissioni di Barzani è l'emergere delle divisioni politiche all'interno del KRG, ancor più gravi perché legate a rivalità tribali profondamente radicate. A poche ore dall'annuncio delle sue dimissioni dalla presidenza, mentre il parlamento regionale si accingeva a ratificarle, gruppi di giovani vicini al KDP hanno tentato di fare irruzione. Nel mirino di questi gruppi sono finite inoltre le sedi dell'emittente televisiva NRT di Shaswar Abdulwahid, vicina all'opposizione (già agli inizi di settembre uomini armati ne avevano attaccato gli uffici di Dohuk, al grido di “sì al referendum”) e le sezioni di Dohuk del PUK e di Gorran.
Anche nello scacchiere politico regionale la debolezza del KRG può avere conseguenze nefaste, costituendo un nuovo focolaio di tensioni. La Turchia, tradizionalmente alleata del KRG a guida Barzani, non ha perdonato a quest'ultimo l'ostinazione nel voler indire il referendum per l'indipendenza. Al punto che un paio di settimane fa il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha ricevuto il primo ministro iracheno Haider al-Abadi, a poco più di un anno dal loro aspro scontro. “L'avventurismo turco può provocare una guerra regionale”, aveva dichiarato al-Abadi, scatenando l'ira di Erdoğan, che aveva replicato: “non sei il mio interlocutore, non sei al mio livello”. Una riconciliazione improvvisa motivata dalla spinosa questione curda, oltre che dal commercio dell'oro nero.
È probabile che a preoccupare Ankara sia la consapevolezza che un KRG debole, con Barzani e il suo partito-clan non saldamente al potere, ridurrebbe notevolmente la sua influenza sulla regione. In Iraq infatti sta crescendo il peso dell'organizzazione Badr, partito politico filo-iraniano che ha la sua milizia all'interno delle Unità di mobilitazione popolare, un corpo di paramilitari in maggioranza sciita, fondato nel 2014 per combattere i cartelli del jihad. L'influenza iraniana sarebbe in aumento anche nella regione di Kirkuk, dove la popolazione turcofona dei turkmeni è in maggioranza sciita, mentre le dimissioni di Barzani potrebbero spianare la via a un'ascesa del PUK, che con Tehran ha storicamente buone relazioni. Si potrebbe tuttavia inserire il riavvicinamento tra Turchia e Iraq nel quadro dell'alleanza stretta di recente tra Turchia, Iran e Russia (anche a livello commerciale), che ha consentito ai tre paesi di giocare un ruolo chiave nei negoziati per una soluzione diplomatica del conflitto siriano. Negli ultimi mesi, infatti, anche Iran e Russia hanno firmato importanti accordi commerciali con l'Iraq e Ankara non intende cedere il passo.
Contestualmente, si inaspriscono le relazioni tra Turchia e Stati Uniti: l'instabilità nelle aree del KRG ricche di petrolio ha reso le riserve di Tehran una valida alternativa. Washington ultimamente ha inasprito le sanzioni, mettendo a rischio quello che alcuni analisti definiscono un accordo oil-for-goods, che comporterebbe una cooperazione finanziaria. A New York è ancora in corso il processo contro l'imprenditore turco Reza Zarrab, accusato di aiutare l'Iran a eludere le sanzioni. Intanto, il primo novembre il presidente russo Vladimir Putin è stato in visita ufficiale a Tehran per incontrare il presidente iraniano Hassan Rohani, la Guida suprema della rivoluzione, ayatollah Ali Khamenei e il presidente dell'Azerbaijan Ilham Aliyev. Oggetto di discussione la “cooperazione politica, economica, culturale e umanitaria”, la “lotta contro il crimine e il terrorismo” e soprattutto strade, oleodotti e gasdotti.
Nel programma di Berlusconi e Lega, ora è ufficiale, c’è anche la Lira come seconda moneta. Berlusconi lo ha annunciato Sabato 14 Settembre , nella sua visita ad Ischia. Dunque, ci sarebbe , in prospettiva, anche il varo della nuova Lira. Il pensiero berlusconiano, assecondato, peraltro, anche da Salvini , non dovrebbe rappresentare una complicazione nell’attuazione , anche perché non andrebbe in contrasto con i dettami della UE. Infatti, nella sostanza, la Lira non creerebbe debito, purché applicata con il Signoraggio puro, cioè lo Stato che crea moneta a seconda del proprio fabbisogno interno, facendo stampare la moneta da Bankitalia e pagandone solo le commissioni, quindi senza interessi , e senza creare debito, perché relegata solo all’interno dello Stato, senza emissioni di titoli. Quindi lo Stato pagherebbe solo la stampa della moneta. Si calcoli che oggi un biglietto da 100 euro, tanto per fare un esempio, costa tra i 20-30 cnt di euro. Nel caso della lira, il costo verrebbe pagato con i soldi stampati, comunque una pulce in un bosco. Quindi, con la circolazione della Lira solo all’interno del Paese si otterrebbero numerosi vantaggi. lo Stato potrebbe intervenire massicciamente sulla ripresa, attraverso la ristrutturazione di imprese, anche acquisendole in toto od in parte, finanziando cantieri stradali, opere necessarie di ogni genere, ristrutturazione delle Ferrovie, ecc. Di conseguenza, fine delle criticità delle imprese, che hanno visto paesi esteri, dalla Cina a Francia e Germania in primis, far man bassa delle nostre imprese a prezzi di saldo, ed anche con conseguenti negatività sull’occupazione. Ed infine, quando i prezzi fossero espressi in Lire ce ne sarebbe anche la convenienza all’interno Paese. Un conto è pagare un cappuccino un euro, ed un altro 1.000 lire. E l’Euro? Solo per le transazioni internazionali o per chi viaggia, o comunque abbia rapporti con l’estero. Tra l’altro, stampando moneta propria lo Stato potrebbe anche ridurre il proprio
indebitamento, vendendo Lire ed acquistando Euro. Insomma, la liretta tornerebbe a far sognare ed a far star meglio tutti. Naturalmente Renzi ed il Pd non ci pensano affatto al ritorno della Lira, anche come seconda moneta. Ed il M5S? Sarebbe interessante sapere cosa ne pensano i vertici . D’altronde il malessere generale, e la povertà dilagante, non possono essere più lasciate nelle mani di Germania, Francia e paesi nordici.
Ultimo interrogativo da sciogliere: chi vincerà le elezioni? Certamente, con il Rosatellum, truffa o non truffa che sia, manderà il centro-destra in avanti, anche se il M5S seguirà a ruota, ma non avendo coalizioni rischierà di rimanere alla finestra. Ora, comunque, sarebbe il caso che partiti e movimenti mettano nero su bianco i loro programmi, in modo tale che gli elettori possano confrontarli tra loro e farsi un’idea più certa.
8 settembre 2017 , 20:07
*Questa è una lettera che avevo indirizzato ad Alessandro Di Battista in merito al suo intervento alla Camera sul caso Regeni-NYT e, per conoscenza, ad alcuni parlamentari 5Stelle di mia conoscenza. Non ho ricevuto risposta e questa lettera diventa pubblica, anche perché contiene considerazioni che possono essere indirizzate a molte altre persone* *Questa che è una critica all’intervento del deputato 5Stelle e un invito a riconsiderare certe sue posizioni, non mette minimamente in questione la stima e la solidarietà che ho nei confronti di tante ottime battaglie condotte da Di Battista, alcune delle quali sono state anche da me condivise sul campo*
Caro Alessandro Di Battista,
faccio il giornalista da oltre mezzo secolo, oggi indipendente ma vengo da organi come la BBC, Paese Sera, Panorama (pre-Berlusconi), L’Espresso, The Middle East, Giorni Vie Nuove, Astrolabio, Rai-TG3. Ho sostenuto molte attività del M5S e con il MoVimento e suoi illustri sostenitori ho organizzato nella mia zona pubbliche iniziative (con Morra, Ruocco, Imposimato, Lanutti, Scibona, Bertorotta…) Ho intervistato deputati e senatori del MoVimento, compreso te, sono amico della senatrice Ornella
Bertorotta e ho partecipato a numerose vostre iniziative alla Camera e al Senato. Miei documentari sono stati presentati al Senato. Ho lavorato con militanti 5Stelle sul territorio per i miei documentari e articoli No Tav, No Muos, No Triv, No Basi, terremotati. Spero che tutto questo mi dia un po’ di credibilità.
Conosco la tua esperienza in America Latina e nel Sud del mondo e quindi presumo una tua conoscenza del modus operandi di certe grandi potenze dagli insopprimibili appetiti coloniali in quelle parti del mondo.
Perciò sono rimasto sinceramente esterrefatto per le tue dichiarazioni alla Camera sulla questione Giulio Regeni e, in particolare, per aver accreditato la manifesta bufala di un giornale come il New York Times sulle presunte “prove inconfutabili”, di un suo articolo assolutamente privo di prove inconfutabili, che sarebbero state fornite da un oscuro e anonimo funzionario dell’amministrazione Obama. Prove di cui da allora non si è saputo più nulla. Documenti di cui il governo italiano dice di non aver mai
saputo nulla (e mi sembra difficile negare qualcosa che potrebbe poi, apparendo, ritorcersi in maniera disastrosa su chi aveva negato).
Considerare il NYT lo standard aureo dell’informazione è perlomeno azzardato, visto il ruolo che questo quotidiano, espressione dell’estrema destra israeliana, ha sempre sostenuto nell’avallare le ragioni, false, per tutte le guerre d’aggressione Usa, comprese le famigerate armi di distruzione di massa.
La questione Regeni è complessa e vi si incrociano interessi dichiarati e altri molto poco dichiarati. Merita un’analisi attenta come quella che in parecchi, compreso il sottoscritto, vi hanno dedicato. Va inquadrato nella contesa geopolitica sul controllo dell’Egitto e dei suoi rapporti con un paese cruciale nel Mediterraneo come l’Italia, controllo che è diventato oggetto di contesa tra potenze varie, soprattutto da quando l’Egitto, sotto la spinta di una rivolta di massa (molto meno che di un golpe militare che l’ha solo assecondata), si è liberato del regime oppressivo e ntegralista dei Fratelli musulmani, da sempre fiduciari degli interessi coloniali occidentali nel mondo arabo e matrice di buona parte del terrorismo che oggi vi imperversa.
Ciò che turba nell’accanita campagna per la verità per Giulio Regeni è che tutti trascurano i precedenti professionali del giovane e in particolare il suo lavoro per un gruppo di persone specializzate in operazioni sporche: i dirigenti dell’impresa transnazionale di spionaggio “Oxford Analytica” John Negroponte, organizzatore degli squadroni della morte in Nicaragua e Iraq, Colin McColl, già capo dell’MI6, e David Young, processato e incarcerato per il suo ruolo nello scandalo Watergate. E tutti fingono anche di non vedere come, nelle sue trattative con il capo del sindacato ambulanti, Regeni rifiutasse di sostenere le cure per la moglie dell’interlocutore ammalata di cancro, ma fosse disposto a pagargli ingenti somme purchè presentasse “progetti”. Quali “progetti”, a nome di chi? Comportamento sufficiente per alimentare sospetti, non solo nel suo interlocutore. E’ stato mai chiesto all’Università di Cambridge, o a *Oxford Analytica*, per quali progetti a Regeni fossero state messe a disposizione decine di migliaia di euro? L’interesse di governi Nato, in particolare anglosassoni e francese, concorrenti con quello italiano nella corsa alle risorse energetiche (incalcolabili, al largo dell’Egitto) nel Mediterraneo e in Libia, e, quindi, una strategia per emarginare un’Italia una volta fortemente egemone in quel settore (come accadde con Enrico Mattei), si è resa evidente con l’intensificarsi dei rapporti di questi governi con il pur tanto deprecato Al Sisi, nel momento spesso in cui, con scoperta ipocrisia, i media più rappresentativi di queste potenze si accanivano sul caso Regeni e condannavano l’Italia per aver ristabilito rapporti diplomatici con l’Egitto.
Ne risulta evidente che l’interesse del NYT, portavoce dei circoli neocon del complesso militar-industrial-finanziario Usa, a sollevare il caso Regeni, ha molto poco a che fare con i diritti umani (sul cui abuso lo stesso giornale tace ostinatamente quando si tratta di regimi alleati o subalterni), o con la sorte del giovane ricercatore. Ha a che fare con la negazione all’Italia di qualsiasi sovranità e autodeterminazione in politica estera ed economica.
L’esperienza storica, da Enrico Mattei ad Aldo Moro, ma anche con Minniti oggi, dimostra che la coalizione israelo-euro-atlantica non consente all’Italia una politica estera autonoma, che valorizzi i nostri rapporti di mutuo beneficio con i paesi arabi. Il nostro, per l’alleanza diseguale in cui siamo inseriti, era e dovrebbe rimanere un ruolo ancillare. Quanto al Medioriente, l’attuale offensiva contro l’Egitto è con ogni evidenza la persecuzione di una strategia che punta alla frantumazione di Stati arabi forti, laici e indipendenti. Che ha già lasciato sulla sua strada la Libia e persegue la sua opera con i tentativi di disgregazione, tra aggressioni dirette, surrogati jihadisti e della Fratellanza Musulmana, di Siria, Iraq, Sudan. Ne abbiamo ricavato esclusivamente conseguenze negative.
Il M5S ha dato ripetute dimostrazioni di autonomia e chiaroveggenza nelle sue iniziative di politica estera. Penso alle posizioni sulle sanzioni alla Russia, su Nato, i paesi dell’A.L.B.A, l’Iran, la guerra alla Siria.
L’allineamento con una campagna chiaramente strumentale contro l’Egitto, fondata su premesse del tutto indimostrate e su altre mistificate e occultate, mi auguro possa essere, alla luce di quanto sopra, sottoposto ad accurata verifica.
Per finire, permettimi di avvisarti sulla pericolosità di ricorrere a stereotipi assai sospetti e invariabilmente strumentali, come quello di affibbiare la qualifica di “dittatore” a destra e manca. A parte che in alcuni casi la qualifica è del tutto arbitraria (Milosevic, Putin, governanti eletti in modo molto meno fraudolento di quelli con cui si condizionano gli elettori nella cosiddette democrazie) e, in altri, non tiene conto di una realtà storica, culturale, politica, del tutto diversa dalla nostra, non solo mostra un’inclinazione all’eurocentrismo sempre un po’ colonialista, ma contribuisce a spianare la strada alle aggressioni delle potenze che si arrogano il diritto di impartire tali etichette. Si tratta di questioni che, come constatiamo ogni giorno, coinvolgono la vita e provocano la morte di milioni di persone, sulle quali non è consentita approssimazione o ripetizione di stereotipi.
Non occorre essere grandi etnologhi, antropologi o storici per capire che i modelli istituzionali usciti in Europa dalle rivoluzioni borghesi difficilmente sono applicabili a contesti completamente diversi. I paesi che si definiscono disinvoltamente e strumentalmente “dittature”, da parte, tra l’altro, di chi è sottoposto alla più feroce dittatura finanziaria e alle più proterve manipolazioni mediatiche, hanno alle spalle una storia diversa. E sono usciti all’indipendenza e alla modernità solo da pochi decenni, dopo secoli e millenni di tirannie imperiali. Erano dominati da autocrazie distanti e sanguinarie, romana, ottomana, britannica, francese e altre. Non gli era consentita la minima autodeterminazione politica, se non una limitata gestione degli affari locali minori, specie sulle controversie giudiziarie. Ogni forma di organizzazione politica era bandita. La tribù poteva darsi al massimo un capo, nella persona più anziana o autorevole, per le questioni locali e per l’interlocuzione con gli emissari dell’impero. Nell’immaginario collettivo, all’inizio dell’era dell’indipendenza e della nazione, il quadro era quello tribale del capo e dell’assemblea degli anziani. Non poteva non perpetuarsi all’alba della nascita dello Stato, tanto più se questo era da attribuirsi al merito di un padre della patria come è stato il caso nella maggioranza dei paesi decolonizzati. Credo che la legittimità di un governo, poi, si misuri anche dal consenso e dal confronto con la situazione del passato. Quella determinata da noi democratici europei.
Noi italiani, poi, del resto come gli inglesi, che con Churchill hanno gasato i civili iracheni, o i francesi delle torture algerine, dovremmo adottare un po’ di cautela nelle condanne. Il maresciallo Graziani ha sterminato un terzo del popolo libico, 600mila, Gheddafi ha dato a tutti i libici dignità, acqua potabile e benessere, come riconosciuto dall’ONU che, nel 2011, aveva ancora classificato la Libia prima per “sviluppo umano” in Africa.
Aggiungo alcuni illuminanti dettagli, già ripetutamente riferiti in miei articoli sul blog e su FB, oggi riassunti da chi si occupa del caso da tempo e che non dovrebbero essere trascurati da chiunque voglia occuparsi, in alternativa ai produttori di fake news nei mass media al servizio del revanscismo neocoloniale, di politica estera con onestà e competenza.
Grazie dell’attenzione.
Con stima per tanta parte che il M5S e tu avete avuto nel prospettare agli italiani una sorte migliore.
Fulvio Grimaldi
www.fulviogfrimaldicontroblog.info
*-Giulio Regeni è stato* un brillante studente che ha studiato a lungo negli USA e poi in Gran Bretagna (UK).
*-Nel momento in cui* è stato inviato in Egitto per effettuare una non ben precisata “ricerca” sui sindacati indipendenti egiziani, stava per conseguire un dottorato di ricerca presso la prestigiosa Università di Cambridge.
*-In precedenza, nell’UK,* aveva lavorato negli anni 2013-2014 anche per la Oxford Analytica, una vasta organizzazione con migliaia di dipendenti, presente in molti paesi del mondo, incaricata ufficialmente di svolgere “analisi politiche” i cui principali dirigenti erano:
--John Negroponte (cittadino USA), già importante agente della CIA ed organizzatore degli squadroni della morte in America Centrale che uccidevano gli oppositori antimperialisti di quell’area;
---David Young (cittadino USA), già membro del gruppo di spie implicato nello scandalo Watergate, incaricato dal Presidente Nixon di spiare e raccogliere informazioni sul rivale Partito Democratico;
--Colin McColl (cittadino UK), già alto dirigente del noto servizio di spionaggio britannico MI6 (quello di 007).
*--In Egitto Regeni* era anche “visiting scholar” dell’Università Americana del Cairo, notoriamente implicata in iniziative atte a diffondere il pensiero e l’influenza USA nella classe colta egiziana e difendere gli interessi statunitensi.
*-Durante il periodo* in cui è stato in Egitto, Regeni ha pubblicato con uno pseudonimo vari articoli sui sindacati egiziani, anche sul “Manifesto”, ma si sa pochissimo sulla sua attività di “ricerca”.
*-E’ certo che Regeni* avesse agganciato il sindacalista Abdallah, capo del sindacato degli ambulanti.
*--In una registrazione* (parziale) diffusa da organi di stampa italiani qualche mese fa, si sente Regeni offrire 10.000 dollari ad Abdallah in cambio di fantomatici “progetti” non meglio specificati. Abdallah, già in contatto con la polizia egiziana, registra il colloquio e chiede a Regeni denaro per sé.
Regeni rifiuta e si mostra molto prudente. Forse già sa, o sospetta, che Abdallah lo sta registrando e lo ha già denunciato alla polizia. Di fatto Regeni è “bruciato”.
*-Il 25 gennaio 2016* Regeni scompare in circostanze mai chiarite. Il suo cadavere, recante segni di gravi maltrattamenti e percosse, viene ritrovato il 3 febbraio in un luogo aperto, non nascosto e di facile accessibilità, presso l’inizio dell’autostrada per Alessandria.
*-Proprio in quei giorni* è in corso al Cairo un’importante riunione economica tra una delegazione italiana guidata dalla Ministra Federica Guidi ed una delegazione del Governo Egiziano. Tra gli argomenti trattati anche eventuali concessioni all’ENI relative al più grande giacimento di gas off-shore del Mediterraneo scoperto presso la costa egiziana.
*-Il Ministro Guidi* rientra precipitosamente in Italia (anche se si ritiene che trattative economiche siano continuate sottobanco).
*-Le autorità italiane* accusano gli inquirenti egiziani di scarsa collaborazione nelle indagini sull’assassinio e l’ambasciatore italiano viene fatto rientrare dal Cairo. Tutta la stampa italiana, ed i partiti ed i movimenti politici, tranne poche eccezioni, si scatenano in una prolungata campagna contro il Governo Egiziano, accusato quale mandante dell’omicidio (ma senza prove concrete).
*-L’Università di Cambridge* rifiuta di collaborare con gli inquirenti italiani per chiarire l’esatto mandato ricevuto da Regeni. Nessuna pressione viene fatta dal Governo Britannico sull’Università di Cambridge o sulla Oxford Analytica perché forniscano chiarimenti sull’attività di Regeni. Lo stesso si può dire per il Governo USA nei confronti dell’Università Americana. Il Governo italiano non esercita pressioni e non prende alcun provvedimento verso le istituzioni ed i Governi di cui sopra.
*-Solo pochi gruppi o persone* in Italia si pongono il problema del “cui prodest”. L’omicidio Regeni ha certamente messo in difficoltà il governo egiziano, posto sotto accusa, e che non aveva interesse ad eliminare un informatore di basso profilo già “bruciato”. L’assassinio ha invece fortemente favorito gli interessi economici di altri paesi, come UK e Francia, che si sono affrettati a concludere una serie di accordi economici con l’Egitto profittando dell’allentamento dei rapporti Italia-Egitto e non mostrando nessuna solidarietà con l’Italia. Non appare peregrina l’ipotesi che l’informatore di basso profilo Regeni, già “bruciato”, sia stato “sacrificato” per creare una situazione come quella descritta sopra, magari con la complicità di qualche gruppo deviato dei servizi egiziani (eventualmente infiltrato dalla Fratellanza Musulmana, all’opposizione).
–*Recentemente il Governo* italiano decide di cambiare politica e riallaccia relazioni con l’Egitto, parlando di partnership ineludibile e di una possibilità di una maggiore collaborazione dei due stati anche nelle indagini.
-Si scatena l’attacco di ampi settori politici e della stampa, spesso facenti parte dell’area dell’interventismo “umanitario” (già sponsor delle guerre in Jugoslavia, Libia e Siria) al Governo, reo di un eccesso di realismo politico. Si comincia però in vari settori ad avanzare anche una critica alla non collaborazione di Cambridge e ad porre ipotesi alternative sull’omicidio e domande sulla reale attività di Regeni.
–*In un’intervista* il gen. Tricarico, ricoprente incarichi governativi (vedi sotto), ribatte alle accuse, parlando di “utili idioti” che non comprendono il reale contesto di questi tragici avvenimenti.
Fulvio Grimaldi
Fonte: http://fulviogrimaldi.blogspot.it
Link: http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2017/09/regeni-
new-york-times-dittatori-caro.html
8.09.2017
Sul referendum consultivo nel Kurdistan iracheno molte le perplessità della comunità internazionale: conflitti politico-tribali, crisi economica, ma soprattutto le possibili ripercussioni sullo scacchiere regionale.
Il prossimo 25 settembre, nella Regione autonoma del Kurdistan iracheno (KRG), è previsto un referendum consultivo che chiamerà gli elettori a pronunciarsi sull'indipendenza. Il quesito è: vuoi che la regione del Kurdistan e le aree curde al di fuori dell'amministrazione della regione diventino uno stato indipendente?
Le aree al di fuori dell'amministrazione del KRG includono città economicamente e strategicamente importanti (come Kirkuk, Khanqin, Sinjar e Makmor, occupate dai peshmerga curdi nel conflitto con il cosiddetto Stato islamico) e il cui controllo è motivo di disputa con il governo centrale iracheno. Anche per questo, con l'eccezione di Israele, favorevole a un'eventuale indipendenza del KRG, la comunità internazionale ha espresso le sue perplessità a riguardo, richiamando al rispetto del diritto internazionale (Russia) e della costituzione irachena (Iraq, Iran, governo siriano) e al dialogo con il governo di Baghdad (Russia e Unione Europea) e argomentando che sarebbe meglio rinviare la consultazione a data da definirsi, per non perdere di vista le priorità attuali in Medio Oriente (Stati Uniti e Gran Bretagna) e per non creare altri conflitti. Turchia e Iran, inoltre, hanno chiamato in causa il rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale irachene.
Oltre all'Iraq, la questione curda riguarda anche Siria, Turchia e Iran. In Siria i curdi, grazie alle vittorie sul campo nella guerra contro i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (IS), cui ha contribuito il sostegno USA, hanno proclamato la Federazione democratica della Siria settentrionale, modello di stato multietnico e multiconfessionale, alternativo al KRG. La sua impostazione politica è, teoricamente, ispirata a principi come il confederalismo democratico, l'ecologia e la parità di genere, propalati da oltre un decennio da Abdullah Öcalan, guida del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), ancora detenuto nel carcere turco di massima sicurezza di İmralı. Il suo progetto, abbandonata la linea marxista dopo il crollo dell'Unione Sovietica, era indurre la società curda (in particolare in Turchia, ma non solo) a superare i retaggi feudali e tribali, ma da questo punto di vista i risultati sono ancora modesti, complice l'arretratezza economica. Al PKK, inoltre, i curdi siriani del Partito di unione democratica (PYD) e della sua ala armata, le Unità di difesa popolare (YPG), devono in buona misura i successi bellici, ma i legami con questo partito rischiano di minare il loro “esperimento politico” e di privarlo di una qualsiasi legittimazione internazionale. Intanto, il PKK da qualche anno raccoglie un numero crescente di consensi tra i curdi iracheni, molti dei quali sono insoddisfatti della gestione del KRG da parte del presidente Massud Barzani e del suo Partito democratico del Kurdistan (KDP)e non trovano alternative valide nelle altre forze politiche, l'Unione patriottica del Kurdistan (PUK, indebolito dal ritiro dalla vita politica di Jalal Talabani) e il movimento Gorran, fondato nel 2009.
Tale evoluzione preoccupa alquanto la Turchia (che pure ha ottime relazioni con il KDP di Barzani), anche perché, da quando Öcalan è in prigione, le redini del PKK rischiano di passare nelle mani di personalità meno propense al dialogo e a rinunciare alla lotta armata, iniziata nel 1984. Qualche speranza di soluzione del conflitto era venuta dal processo di pace avviato nel 2013 dall'allora primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan e da quest'ultimo interrotto nel 2015. La distensione, peraltro, è resa più ardua dall'emarginazione cui il governo di Ankara ha condannato il Partito democratico dei popoli (HDP), di cui dieci esponenti, compreso uno dei due presidenti, Selahattin Demirtaş, sono in carcere per condanne relative al terrorismo, mentre altri quattro, tra i quali l'altra presidente Figen Yüksekdağ, si sono visti revocare il mandato parlamentare. Impedendo all'HDP di avere una rappresentanza parlamentare proporzionale al consenso riscosso tra la popolazione, Erdoğan rischia di avvalorare la tesi dell'inefficacia di una soluzione politica per il Sud-est a maggioranza curda, “affidandone”, di fatto, la gestione all'artiglieria.
In Iran, dove la comunità curda è più integrata nel tessuto sociale, il presidente Hassan Rohani, che nel dicembre 2016 aveva promulgato la Carta dei diritti del cittadino (volta a garantire pari diritti a tutti i cittadini della Repubblica islamica), ha visto aumentare negli ultimi mesi la tensione tra i curdi e le autorità iraniane. Il Partito democratico del Kurdistan iraniano (PDKI, legato al KDP ed esiliato nel KRG da circa vent'anni) ha annunciato di voler riprendere la lotta armata per indebolire la Repubblica islamica, come ha dichiarato di recente il suo leader Mustafa Hijri. Scontri tra gruppi armati curdi e l'esercito iraniano si sono verificati dal 2015, con ingenti perdite da entrambe le parti. Ma la principale preoccupazione di Tehran riguarda i curdi salafiti, alcuni dei quali si sono arruolati nelle formazioni jihadiste in Iraq, compreso l'IS. Basti citare Abu Aisha al-Kurdi, che ha più volte attraversato il confine tra Iran e Iraq prima di essere ucciso nel novembre 2016 dalle forze di sicurezza di Tehran. Secondo il Ministero dell'intelligence iraniano, inoltre, almeno quattro componenti dei due commandos che lo scorso 7 giugno hanno assaltato il Parlamento iraniano e il Mausoleo di Khomeini a Tehran erano salafiti curdi. Rohani ha scelto la linea diplomatica e della distensione: alleanze e intese con Russia e Turchia e la nomina, lo scorso agosto, di un curdo come Ministro del Petrolio. Si tratta di Bijan Namdar Zangeneh, che dal 1984 ha ricoperto cariche simili durante i governi di Mirhossein Mousavi, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e Mohammad Khatami.
Persino tra i curdi iracheni non tutti sono d'accordo con il referendum sull'indipendenza, che in molti considerano un espediente demagogico di Massud Barzani e del KDP per distogliere l'attenzione dalla cattiva gestione dell'economia e della società della regione, anche prima dell'inizio del conflitto con l'IS. Alla radice della questione c'è la struttura sociale curda, tribale e ancorata ai legami familiari e di clan, sostanzialmente ricalcata dall'appartenenza di partito e dalla distribuzione di cariche amministrative e di polizia nella regione. Barzani, membro di una delle tribù più potenti, è stato più volte accusato di un eccessivo accentramento di poteri e un'eventuale indipendenza rischia di acuire le divisioni e gli attriti tra le forze politiche attive nel KRG. Da oltre un secolo, passando per il trattato di Sèvres e per l'accordo di Losanna, i curdi sono stati spesso strumentalizzati dalle potenze mondiali e regionali che, dopo aver promesso loro autonomia o indipendenza, una volta raggiunti i loro scopi, hanno voltato loro le spalle. Per citare un esempio, gli USA negli anni '70 sostenevano lo Shah di Persia che istigava la rivolta dei curdi contro l'Iraq filo-sovietico di Ahmad Hassan al-Bakr. Ma, dopo l'accordo tra Tehran e Baghdad del 1975, che pose fine alle dispute sul confine, Washinton e lo Shah negarono il loro appoggio ai curdi, lasciando che la loro insurrezione venisse repressa nel sangue.
La perplessità della maggior parte della comunità internazionale sul referendum sull'indipendenza del KRG ha dunque una motivazione pragmatica, ossia il timore delle ripercussioni di una vittoria del sì sull'intera regione: su paesi già sfiniti dalla guerra come Siria e Iraq, sulla Turchia, membro fondamentale dell'Alleanza atlantica (NATO), e sull'Iran, che ha in corso con la comunità internazionale un delicato negoziato sul programma nucleare. Inoltre, anche a proposito di un eventuale referendum in Catalogna, occorrerebbe riflettere lucidamente sia sull'opportunità di fondare stati fragili e geopoliticamente deboli in un'epoca di globalizzazione (processo che ha svuotato di senso il concetto di stato-nazione), sia sull'esito disastroso della disgregazione di entità statali eterogenee come la Federazione jugoslava e il Sudan, dalla cui dissoluzione sono nati stati che ancora oggi non godono di alcuna forma di autosufficienza. Trattandosi di indipendenza, sarebbe opportuno dunque chiedersi: indipendenza da cosa?
04.09.2017 - Mesi fa 108 ricorrenti presentarono una causa legale che chiedeva che venga stabilita una legislazione che regoli le funzioni della Commissione per l’Energia Atomica Israeliana (IAEC), i suoi ruoli, autorità, forma di organizzazione e gestione, e per chiedere il controllo delle sue attività e dei suoi impianti. In qualsiasi paese democratico è una cosa ovvia, un settore così importante non può essere lasciato al completo arbitrio del governo.
Infatti l’IAEC fu creata nel 1952, ma i suoi ruoli e i metodi di controllo delle attività non sono mai stati regolati da una legge: essi furono stabiliti con ordini amministrativi segreti, emessi dall’allora Primo Ministro David Ben-Gurion, e in seguito con una serie di decreti governativi pure segreti. La Commissione si occupa di temi che riguardano la salute e la sicurezza dei cittadini israeliani, compresi la sicurezza nucleare, l’autorizzazione degli impianti e delle attività, il trattamento delle scorie nucleari (pensiamo alle vicende e le contestazioni del progetto di deposito nucleare nazionale in Italia), oltre ad essere consulente del governo per la politica nucleare.
È appena il caso di ricordare che Israele non ha mai ammesso ufficialmente e pubblicamente l’esistenza del suo arsenale nucleare, e non ha aderito al Trattato di Non Proliferazione: che cosa accadrebbe in qualsiasi altro paese che tenesse segreto ai suoi stessi cittadini il proprio arsenale nucleare?
Il governo israeliano aveva chiesto alla Corte Suprema di rigettare totalmente la causa, senza nessuna udienza, sostenendo che la Corte Suprema non ha l’autorità di ordinare al primo ministro di legiferare. Ma la Corte ha respinto la posizione del governo: questa è la prima volta nella storia dello Stato di Israele che una corte esercita una critica legale sulla IEAC e le sue attività. Durante l’udienza i giudici si occuperanno dei regolamenti più segreti dello Stato di Israele, e decideranno se essi sono soddisfacenti e se consentire al governo di continuare ad usarli, oppure accettare la richiesta dei ricorrenti di stabilire una legislazione che regoli le operazioni e consenta un reale controllo.
Shimon Dolev, Direttore del Movimento Israeliano per il Disarmo, ha dichiarato che “il solo fatto che la Corte Sprema esaminerà questo caso è una vittoria. … Speriamo che a seguito di ciò, sia che vinciamo o che perdiamo, avremo alla fine una discussione vera sulla natura del controllo della IAEC e delle sue strutture. Questa non è la fine del ‘regno del segreto’, l’ambiguità nucleare di Israele non cambierà, ma la sicurezza dei cittadini deve essere tenuta in conto più della convenienza dello Stato e della Commissione”.
Si tenga presente che la IAEC ha il compito di controllare che il reattore nucleare di Dimona operi secondo la legge e non in segreto: il reattore fa parte del centro segreto nel deserto del Negev in cui è stato sviluppato l’arsenale nucleare di Israele.
Anche il Prof, Avner Cohen, dell’Istituto Internazionale Middlebury di Monterrey, autore del libro Israel and the Bomb (1998), ha riconosciuto la novità senza precedenti di questa udienza, perché la Corte Suprema riconosce che la situazione attuale è altamente problematica.
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza
ISIS/SITE: tocca a voi!
A proposito dell’annuncio post-Barcellona di un imminente attentato in Italia, ce ne sono stati altri che minacciavano sfracelli in Vaticano, al Colosseo, la conquista di Roma. Ma stavolta potrebbe essere diverso. Intanto la notizia proviene da fonte autorevole e credibile: il sito SITE di Rita Katz, portavoce e diffusore da anni del jihadismo più efferato, in particolare dell’ISIS, con il quale la collaborazione nella promozione di quel panico che si sa funzionale alle aggressioni belliche e all’instaurazione di regimi di polizia, è stretta e, come provano i risultati, efficacissima. Senza l’istantanea diffusione a dimensione mondiale dei più raccapriccianti video e comunicati, prodotti con la nota perizia professionale dagli studios del mercenariato imperialista, di cui siamo debitori a Rita Katz, titolare del sito SITE, gran parte del messaggio terrorizzante e intimidatorio assegnato ai protagonisti della guerra al e del terrore sarebbe andata persa.
Rita Katz, ufficiale israeliano e portavoce Isis
Non deve stupire, data l’intesa strategica sugli obiettivi, l’amalgama Israele-jihadisti, evidenziato nel concorso israeliano alle operazioni sul campo dell’Isis e di Al Nusra e nel recupero israeliano di combattenti jihadisti curati negli ospedali allestiti sul Golan. Così non può sorprendere che Rita Katz, israeliana ex-ufficiale di Tsahal e da allora e sempre agente dei servizi israeliani, abbia costruito il meccanismo per il quale ogni azione e ogni parola del terrorismo jihadista entri nel conscio e nel subconscio delle popolazioni di mondi da condizionare. I grandi vecchi della guerra al/del terrorismo, la testa della piovra gigante, hanno in SITE lo strumento indispensabile perchè di ogni iniziativa jihadista non sia perso l’effetto propagandistico: odio per l’Islam e guerre, panico e autorepressione. Piovra che alla periferia, per la penetrazione anche in nicchie potenzialmente refrattarie, si avvale dei formidabili tentacoli della grande informazione internazionale, a partire dal New York Times e, scendendo per li rami, dei tentacoli di seppioline mediatiche come gli organi ripetitori italiani, non escluso l’apporto di meduse tossiche dai peletti urticanti come “il manifesto”.
Ci si dovrebbe porre una domanda facile facile, ma che nessuno si pone perchè sarebbe un po’ come utilizzare un piede di porco contro la cristalliera: come mai a nessuno è mai venuto in mente di indagare per quali vie un video Isis, tipo che mostra un gruppo di esseri umani chiusi in gabbia, incendiati e poi affogati, sia riprodotto istantaneamente nel canale di Rita Katz. Con chiaro effetto glorificatore. Domanda alla quale potrebbe appaiarsi l’altra, circa una totale apatia, se non accidia, del dotatissimo apparato investigativo, di sorveglianza, di controllo, sviluppato in occidente con le nuove tecnologie, rispetto a qualche indagine su natura e dislocazione degli avanzatissimi studi e macchinari dai quali escono le perfette produzioni audiovisive dei jihadisti. E siccome le domande, volendo, sono come le ciliege, si potrebbe considerare che l’assenza di queste domande, epocali quanto ne sarebbe la risposta, equivale a quella che per anni, fino all’arrivo dei bombardieri russi, non si è posto l’interrogativo di cosa fossero, da dove venissero, dove andassero (a Haifa) , cosa contenessero, quali profitti generassero e per chi, le colonne di cisterne che viaggiavano alla luce del sole tra pozzi petroliferi di Iraq e Siria sotto occupazione Usa-Isis-curdi, Turchia, mare e porti israeliani?
Siamo diventati discoli
Ma lasciamo il fumo e torniamo all’arrosto. Perchè a questa nuova, diretta minaccia post-Barcellona di Rita Katz/Isis andrebbe dato più rilievo che alle passate smargiassate contro papa e Colosseo? Perchè prima non risultava esserci motivo per impartire all’Italia una qualche lezione imperiale via terroristi sedicenti islamisti. Le minacce erano fuffa, fumo che obnubilasse un po’ di cervelli perchè chiedessero “Strade sicure”, soldati agli angoli della metro e accettassero le intemerate della Boldrini per l’accoglienza senza se e senza ma e contro le fake news. Poi nell’opinione pubblica è incominciato a muoversi la sensazione che con tutti questi migranti, tutti da noi, con queste Ong che andavano a raccattarli dai trafficanti, qualcuno puntava a fregarci. Noi e pure i migranti. La coperta buonista su certe malefatte in mare veniva lacerata da politici e magistrati.
E, a coronamento dell’insubordinazione ai piani imperialisti, appaltati a Soros, un ministro italiano, che evidentemente non aveva imparato la lezione Moro, è uscito dallo sgabuzzino dove curano le scope della villa i nostri politici, e ha messo la mordacchia a un anello della filiera criminale che svuota paesi per alluvionarne altri. Insomma è spuntato qualcosa e qualcuno che minacciava di far vedere nudo il re. E questo è niente: quando gli era stato fatto capire che l’ENI doveva limitarsi a fare le pulizie alle Sette Sorelle, che Roma doveva starsene lontana dal gas del Mediterraneo, che a occuparsi di Al Sisi, dell’Egitto e della Libia, cuore della regione, ci pensavano Usa, UK, Francia, ma mica i loro subalterni, addetti all’accoglienza e basta, Roma non si è addirittura azzardata di far tornare l’ambasciatore al Cairo! Lo svuotatore di posaceneri che si intrufola nella partita di briscola? E Rita Katz ha tuonato.
Regeni e Oxford Analytrica, la sete di verità dei regeniani
Vogliamo allargarci, eccedere in domande impudiche, anche riguardanti campi lontani, ma pur sempre connessi a quelli di cui sopra? Sappiamo, anche se il silenzio sulla cosa è di tomba (a offesa di quella in cui è rinchiuso Giulio Regeni), che tutti sanno che il giovanotto, definito ricercatore a Cambridge, ma invece, o anche, collaboratore dell’agenzia internazionale di spionaggio e affari sporchi vari “Oxford Analytica”, al Cairo andava sfrucugliando soggetti sindacali “indipendenti”, potenzialmente sovversivi, ai quali, per conto dei suoi mandanti, offriva ricchi fondi perchè presentassero e attuassero “progetti” (testuale nel video). .
Qualche timido tentativo di risalire a dove originava la missione di Regeni, consultando i suoi referenti a Cambridge, ebbe piena collaborazione quanto alle domande poste dagli investigatori italiani. Lo dichiarano quelli di Cambridge, lo negano i corifei italiani di Regeni e di Aegyptum delendum est. Sarà, non sarà. Ma la domanda da un milione e passa di verità è un’altra. Stabilito, sebbene sottaciuto, che Regeni aveva lavorato, almeno per un anno e mezzo, ufficialmente per Oxford Analytica, prima di spostarsi al Cairo per offrire progetti a oppositori del governo, alle dipendenze e su disposizioni di provati criminali come John Negroponte, David Young e l’ex.capo-spione britannico McColl, c’è un solo motivo al mondo che spieghi perchè coloro che si sono arrabattati da 17 mesi per Regeni e contro Al Sisi, con un accanimento degno della neutralizzazione di Mengele, non si siano mai occupati di Oxford Analytica, non siano mai andati a sentire che cosa il ragazzo ci facesse tra le grinfie di quei pendagli da forca che avevano insanguinato interi continenti?
Un autentico antimperialista come Manlio Dinucci, valido illustratore delle mene militari di Usa e Nato attorno al resto del mondo, che ancora si pregia di poter inserire la sua settimanale pecetta nell’angolo più remoto del “manifesto”, sarebbe titolato a porre questa domanda ai colleghi del “manifesto”. Forse a lui risponderebbero. Sempre che non siano troppo impegnati, come in questi giorni, a raddrizzare la barca delle bufale su Al Sisi, Regeni, il terrorismo, riempiendo paginate con interviste su Regeni e Al Sisi ai rinomati professori dell’Università Americana del Cairo, noto covo di intelletti antimperialisti, o ai tanti che, nel web e sui giornali, sbertucciano o demoliscono il presidente di questa povera repubblica, sottoposta a una dittatura che reprime ogni libertà d’espressione. Salvo quella di dire peste e corna dell’assassino di Regeni.
Fonte: http://fulviogrimaldi.blogspot.it
LInk: http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2017/08/il-katziatone-di-
rita-katz-o-zitti-e.html
16 agosto 2017 10 <http://www.maurizioblondet.it/adesso-sappiamo-mandato-morte-regeni/#comments>
Il giorno in cui finalmente il governicchio Gentiloni rimanda l’ambasciatore al Cairo, ecco che il New York Times, nientemeno, esce con la notizia presunta bomba, che i nostri media servizievoli titolano così: “Obama diede le prove a Renzi sul ruolo dell’Egitto nell’omicidio di Giulio Regeni”.
*Prove “incontrovertibili”, secondo Repubblica. Poi, leggendo si scopre che i servizi Usa non diedero alcuna prova. Dissero che “non c’era dubbio”, ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero per intero le informazioni di intelligence, né dissero all’Italia quale agenzia** di sicurezza ritenevano fosse dietro alla morte di Regeni, spiega ancora il giornale. *
“Non era chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, ucciderlo”, ha detto al giornalista del Nyt un altro ex funzionario Usa”.
*E sarebbero queste le prove incontrovertibili? Nessun dato di fatto. Nessunissimo.*
E’ così evidente che si tratta di una “operazione” americana di intox, disturbo alla ripresa delle nostre relazioni diplomatiche col Cairo, che non ci sarebbe nemmeno bisogno di perderci tempo, se non fosse per il clamore che ne fanno i nostri giornali. Se invece di essere in malafede sono solo ignoranti, possiamo ricordare a questi incapaci due o tre cose: *Barak Hussein Obama ha cercato – anzi è riuscito – a portare al potere in Egitto i Fratelli Musulmani,** con la “primavera araba” di ordinanza, e dunque aveva ben forti motivi di odio (personale e politico) contro il generale Al Sisi, che gli ha sventato il piano. E quindi ben motivato a creargli difficoltà con un vicino molto amichevole, Italia, che aveva scoperto per gli egiziani un importantissimo giacimento.*
Obama stesso è fortemente sospettato di essere un fratello musulmano. Quel che è certo è che la sua segretaria di Stato, Hillary Clinton s’è tenuta come braccio destro, confidente intima e forse amante, Huma Abedin, figlia di un importantissimo esponente dei Muslim Brothers, “Syed” Zainul Abedin.
Huma era sposata con Anthony Weiner, il clintoniano di ferro, ebreo, che fu scoperto a fare proposte oscene a ragazzine sui social, con sue foto in cui mostrava le proprie erezioni. Aveva una scusante: Huma è stata continuamente a fianco di Hillary seguendola in tutta la campagna elettorale come consigliera, appunto della campagna.
*Il meno che si possa dire è che i Muslim Brothers e i loro interessi erano ben rappresentati alla Casa Bianca di Obama. E dunque ben piazzati per vendicarsi di Al Sissi.*
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“*La musulmana Huma è l’ombra di Hillary, immancabile al suo fianco come nelle e-mail più confidenziali, e sempre nel mirino dei nemici. Nessuno quanto lei è vicino a Hillary, che quando lavorava da casa, le scrisse via email: «Bussa alla porta della camera da letto se è chiusa» (Corriere della Sera)*
*Adesso sappiamo, grazie alla rivelazione presunta bomba del New York Times, che Giulio Regeni, mandato dall’università di Cambridge a infiltrarsi tra gli oppositori clandestini ad Al Sissi, era fin dal suo arrivo seguito, controllato e intercettato della NSA**, la National Security Agency americana. Sappiamo anche che il sindacalista degli ambulanti Abdallah, che di nascosto girò il video in cui lui chiedeva dei soldi a Regeni (al quale la sua “Università” aveva dato 10 mila sterline per pagare chi di dovere..Tipico, per un ricercatore) aveva fatto quel colloquio-trappola per conto della NSA stessa.*
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A che scopo? Per usare l’ingenuo italiano? Per sacrificarlo onde buttare un morto tra i piedi del presidente egiziano, e dell’Eni? Ognuno si risponda da sé, sapendo di quanti doppi giochi, trame storte e delitti si sia macchiato Obama, l’idolo delle “sinistre”, dalla Libia alla Siria, a cominciare dalle esecuzioni di persone ordinate coi droni, sempre per favorire i Fratelli Musulmani.
*Tutte le ipotesi sono possibili, anche che Regeni sia stato fatto uccidere da loro, gli americani.* Che ci hanno la mano in questo genere di crimini.
Nella pretesa rivelazione,* “alcuni funzionari di Obama erano convinti che qualcuno “di alto grado” del governo egiziano potesse avere ordinato l’uccisione di Regeni “per mandare un messaggio ad altri stranieri e governi stranieri, cioè di smettere di giocare con la sicurezza dell’Egitto”.*
Già: magari era un messaggio per la NSA. O per quella “università di Cambridge” che, in base a un progetto chiamato Antipode, aveva affidato all’italiano 10 mila sterline – con cui pagare chi? Per cosa? Ah, pardon “per la promozione e lo sviluppo di ricerche in campo sociale”. Normale che un ricercatore venga imbtttito di soldi da spendere. *Perché nè Antipode né Cambridge hanno mai accettato di spiegare le cose ai magistrati italioti, e al governo italano? *Non serviva: bastavano le strida e i cartelli delle sinistre sui palazzi comunali, “Verità per Regeni”.
Tra le altre rivelazioni, la più succosa e grave viene espressa così: “Secondo un funzionario del ministero degli Esteri italiano, i diplomatici erano giunti alla conclusione che l’Eni si era unita alle forze del servizio di intelligence dell’Italia nel tentativo di trovare una rapida risoluzione del caso”, si legge. E “l’avvertita collaborazione fra Eni e servizi di intelligence italiani diventò fonte di tensione all’interno del governo italiano. Ministero degli Esteri e funzionari dell’intelligence cominciarono a essere prudenti gli uni con gli altri, talvolta trattenendo informazioni”, scrive il New York Times Magazine. Che cita la dichiarazione di un funzionario italiano.
Scusate, ma gli Esteri e l’intelligence italiana non dovrebbero lavorare per lo stesso paese e lo stesso scopo?
*Gli americani ci fanno sapere che invece si nascondevano le notizie a vicenda, e ciò perché “l’Eni s’era unita” con la sua, di intelligence, per “trovare una rapida soluzione del caso”. Ciò che Obama, i Fratelli Musulmani, la NSA di Obama, e “Antipode” non volevano. Complimenti.*
<https://i1.wp.com/www.maurizioblondet.it/wp-content/uploads/2017/08/comune-di-milano.jpg>Sul
Comune di Milano. “La sinistra fa sempre il gioco del grande capiitale. A volte perfino senza saperlo”.
A poco meno di un mese dal referendum per l'indipendenza del Kurdistan iracheno, la questione curda potrebbe far convergere gli interessi strategici di Turchia e Iran; sullo sfondo la possibilità di stabilire una cooperazione economica e militare tra Ankara, Mosca e Tehran.
Dopo la storica visita in Turchia, la scorsa settimana, del capo di Stato Maggiore della Difesa iraniano, il generale Mohammad Hossein Baqeri, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha espresso l'intenzione di discutere con Tehran una possibile azione militare congiunta contro i combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) e del suo affiliato iraniano, il Partito per una vita libera in Kurdistan (PJAK). Prima della sua partenza per la Giordania, Erdoğan ha reso noto che “un'azione comune contro gruppi terroristici che sono divenuti una minaccia per entrambi i paesi è sempre in agenda”. Possibile obiettivo di queste operazioni sono, secondo i media turchi, le regioni del Qandil e del Sinjar, nel Nord della regione autonoma del Kurdistan iracheno (KRG), già in passato bombardate a più riprese sia dall'aviazione militare turca, sia dall'artiglieria iraniana in quanto basi del PKK. Secondo il sito di informazione Al-monitor, nelle ultime settimane, il Partito democratico del Kurdistan iraniano (PDKI, dichiarato fuorilegge dal 1979 e con basi nel KRG) ha aumentato le azioni armate in Iran, riprese nel 2016 dopo anni di tregua apparente.
Dunque, ad Ankara, il generale Baqeri ha incontrato il suo omologo turco Hulusi Akar, il ministro della Difesa turco Nurettin Canikli e lo stesso Erdoğan, superando, almeno in apparenza, decenni di tensioni, come quelle suscitate dall'accusa a Tehran di sostenere il PKK, avanzata dall'intelligence turca dopo la cattura nel 1999 di Abdullah Öcalan, guida di questo partito. Appare ugualmente superata anche l'appartenenza dei due paesi a diversi sistemi di alleanze nel conflitto siriano: l'Iran è tra gli alleati storici del governo di Damasco, mentre la Turchia, che con quest'ultimo non ha stabilito relazioni di cooperazione (da quando l'ex presidente della Siria Hafiz al-Asad, padre di Bashar al-Asad, ospitò Öcalan dal 1980 al 1998), si è finora adoperata per provocarne la fine. Vale la pena menzionare, infine, che la Turchia ha un peso di rilievo nell'Alleanza atlantica (NATO), organizzazione alquanto ostile all'Iran.
Quella della scorsa settimana è la prima visita ufficiale di un'autorità iraniana in Turchia dal 1979 e la stessa composizione della delegazione di Tehran chiarisce che all'ordine del giorno ci sono la sicurezza e l'integrità territoriale dei due paesi. Al fianco del generale Baqeri c'era infatti il comandante delle truppe di terra del Corpo delle Guardie rivoluzionarie (IRGC), generale Mohammad Pakpour. La visita ha seguito di pochi giorni l'uccisione, da parte dei cartelli del jihad del sedicente Stato islamico (IS), di Mohsen Hojjaji, soldato dell'IRGC inviato in Siria. La guerra al terrorismo è stata dunque uno degli argomenti maggiormente discussi, oltre ai tre aspetti della questione curda: i timori che il referendum per l'indipendenza del KRG, previsto per il prossimo 25 settembre, possa accendere un altro focolaio di tensione nella regione, la possibilità di operazioni militari nel Qandil e nel Sinjar e la necessità di mettere in sicurezza il confine turco-iraniano. Su tutti e tre gli aspetti la collaborazione di Tehran è fondamentale.
Nel maggio scorso, l'Iran aveva accolto con favore il progetto turco di costruire un muro di 70 km lungo il confine, in seguito prolungato a 144 km, che secondo Ankara servirà a bloccare gli “sconfinamenti” dei combattenti del PKK e del PJAK e a rendere più sicuri gli scambi economici via terra tra Iran e Turchia. Stessa funzione e stessa struttura del muro che la Turchia ha costruito al confine con la Siria. In tale contesto, l'accordo su una possibile azione militare congiunta con l'Iran (che ha un ruolo significativo nella ricostruzione dell'Iraq devastato dalla guerra e ha buone relazioni con Baghdad) nel Kurdistan iracheno permetterebbe alla Turchia di evitare, o almeno allontanare il più possibile, eventuali accuse di invasione di un paese sovrano. Per ragioni analoghe, un'eventuale pressione iraniana sul governo centrale iracheno per ottenere un rinvio del referendum sull'indipendenza del KRG a dopo le elezioni politiche di aprile 2018 in Iraq, o che la questione sia dibattuta nel parlamento iracheno, potrebbe risultare più efficace delle mere richieste di Ankara, soprattutto in un momento in cui Erdoğan non gode di particolari simpatie in Europa e negli Stati Uniti. Occorre tuttavia notare che a manifestare perplessità sul referendum sono stati anche paesi “occidentali” come la Germania, gli USA e la Gran Bretagna. In particolare, con Washington le tensioni si sono acuite a proposito del sostegno statunitense in funzione anti-IS ai curdi siriani del Partito dell'unione democratica (PYD, politicamente vicino al PKK) e per il rifiuto di estradare in Turchia il predicatore islamico Fethullah Gülen (che secondo Ankara è la mente del fallito tentativo di colpo di stato del luglio 2016). Il presidente turco, inoltre, sa che nel breve periodo rovesciare con mezzi diplomatici il governo di Damasco è quasi impossibile, quindi potrebbe risultare “utile” un riavvicinamento all'Iran, tradizionale alleato di Damasco e Baghdad, le uniche due autorità attualmente in piedi in grado di dissuadere i curdi da progetti di autonomia o indipendenza.
La visita ufficiale di Baqeri si inserisce nel quadro più ampio di una cooperazione economica e militare tra Iran, Turchia e Russia e precede la sesta tornata di negoziati fra i tre paesi (che si dovrebbe tenere entro la fine di agosto ad Astana, Kazakistan, dopo lo stallo di luglio) sulle zone cuscinetto in Siria e sul possibile dispiegamento di una forza di polizia congiunta nella regione di Idlib. Lo scorso mese, inoltre, Erdoğan ha parlato di un accordo concluso con la Russia per l'acquisto di un sistema di difesa missilistico S-400. Il ministro degli esteri turco ha recentemente sottolineato che “la Russia ha compreso meglio degli USA la sensibilità della Turchia a proposito dell'invio di armi ai curdi del YPG”, anche se Washington afferma di non aver fornito armi a questa organizzazione, ma solo “carri armati e un bulldozer”.
La cooperazione con Russia e Iran riguarda infine importanti accordi economici. La scorsa settimana, la società turca Unit International ha firmato un accordo da 7 miliardi di dollari con la società russa Zarubezhneft e l'iraniana Ghadir Investment Holding per l'estrazione di petrolio e gas naturale in Iran. Con Tehran, la Turchia ha inoltre in ballo la possibilità di aumentare le esportazioni al Qatar attraverso il territorio iraniano. Si tratta di un altro tassello importante nella politica regionale, visto che il 5 giugno scorso Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto hanno interrotto le relazioni con il Qatar, che si era rifiutato di esaudire le loro richieste: interrompere il sostegno a movimenti legati ai Fratelli Musulmani nel mondo arabo, chiudere una base militare turca e ridurre le sue relazioni con l'Iran. Il rifiuto di Doha, la capitale del Qatar, è motivato dalla sua dipendenza dalle importazioni di generi alimentari da Iran e Turchia, che hanno in tal modo trovato un ulteriore punto di convergenza dei rispettivi interessi.