L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Diritti Umani (82)


Roberto Fantini
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Presentato in Senato il Rapporto Annuale di Associazione 21 luglio. Sono 26 mila i rom in emergenza abitativa in Italia, il monito: «Ancora inadeguate le politiche volte al superamento dei campi, mancano orientamento strategico e coordinamento nazionale delle politiche disgregative ».

Roma – 6 aprile 2018. Il giudizio degli Enti internazionali ed europei di monitoraggio sui diritti umani* appare chiaro: anche nel 2017 l’Italia ha continuato ad essere il “Paese dei campi”, perseverando nell’utilizzo di politiche discriminatorie e segreganti nei confronti delle popolazioni rom e sinte presenti sul territorio nazionale oltre che nelle persistenti operazioni di sgombero forzato.

È stato presentato oggi in Senato, alla presenza del neo direttore UNAR Luigi Manconi, il Rapporto Annuale 2017 di Associazione 21 luglio che come ogni anno - in vista della Giornata Internazionale dei Rom e Sinti celebrata l’8 aprile - fa il punto sullo stato dei diritti delle popolazioni rom e sinte in condizioni di emergenza abitativa e residenti all’interno di baraccopoli formali e informali italiane.

Rom e Sinti in emergenza abitativa in Italia

Secondo i dati raccolti sul campo da Associazione 21 luglio, a fronte di un totale stimato compreso tra 120 e 180 mila presenze di cittadini di origine rom e sinta, sono circa 26 mila quelli in emergenza abitativa che vivono in baraccopoli formali e informali o nei centri di raccolta monoetnici, numero pari allo 0,04% della popolazione italiana. Rispetto all’anno precedente si registra quindi una leggera flessione di presenze (nel 2016 erano 28 mila unità) dettata non da una graduale risoluzione della questione ma piuttosto dalle drammatiche condizioni di vita all’interno di questi insediamenti che hanno spinto alcuni degli abitanti – prevalentemente comunitari – a spostarsi in altri Paesi o a tornare nelle città di origine.

I numeri

In Italia sono 148 le baraccopoli formali, distribuite in 87 comuni di 16 regioni da Nord a Sud, per un totale di circa 16.400 abitanti, mentre 9.600 è il numero di presenze stimato all’interno di insediamenti informali. A fine 2017 in Italia risultavano ancora attivi 2 centri di accoglienza monoetnici riservati alle comunità rom per un totale di 130 residenti, uno nella città di Napoli e uno a Guastalla, in provincia di Reggio Emilia. Dei rom e sinti residenti nelle baraccopoli formali si stima che il 43% abbia la cittadinanza italiana; mentre sono 9.600 i rom originari dell’ex Jugoslavia di cui circa il 30% - pari a 3.000 unità – è a rischio apolidia. Nelle baraccopoli informali e nei micro insediamenti, infine, vivono nell’86% dei casi cittadini di origine rumena.

La condizione dei minori e gli sgomberi forzati

A vivere sulla propria pelle le tragiche conseguenze della segregazione abitativa sono molti minori, il 55% secondo le stime di Associazione 21 luglio, con gravi ripercussioni sulla salute psico-fisica e sul loro percorso educativo e scolastico. A incidere sui livelli di scolarizzazione contribuiscono infatti in modo significativo sia le condizioni abitative sia la forte catena di vulnerabilità perpetrata dalle operazioni di sgombero forzato attuate in assenza delle garanzie procedurali previste dai diversi Comitati delle Nazioni Unite.

Nella sua costante attività di monitoraggio, Associazione 21 luglio ha registrato in tutto il 2017 un totale di 230 operazioni: 96 nel Nord Italia, 91 al Centro (di cui 33 nella città di Roma) e 43 nel Sud.

Antiziganismo e discorsi d’odio

L’antigitanismo rimane uno degli elementi che continua a caratterizzare la nostra società. Nel 2017 l’Osservatorio 21 luglio ha registrato un totale di 182 episodi di discorsi d’odio nei confronti di rom e sinti, di cui 51 (il 28,1% del totale) sono stati classificati di una certa gravità. È da segnalare quindi un incremento del 4% rispetto al 2016, anno in cui l’Osservatorio aveva rilevato un totale di 172 episodi.

La situazione a Roma

La città di Roma detiene il triste primato del maggior numero di insediamenti presenti, 17 in totale di cui 6 formali e 11 cosiddetti “tollerati”. Nella Capitale, nonostante le aspettative create a fine 2016 con la Memoria di Giunta e il “Progetto di Inclusione Rom” presentato il 31 maggio dalla sindaca Raggi che aveva come obiettivo il graduale superamento dei “campi” presenti all’interno della città – piano di cui Associazione 21 luglio aveva fin da subito evidenziato le fragilità (http://www.21luglio.org/21luglio/associazione-21-luglio-svela-critica-piano-rom-della-giunta-raggi/) – nel 2017 non è stato di fatto avviato alcun processo di inclusione. Caso esemplare quello dell’insediamento di Camping River, per il cui superamento la Giunta ha promosso una serie di azioni che si sono dimostrate fallimentari e non hanno fatto altro che “declassare” l’insediamento da formale a informale.

Le dichiarazioni

«Non è più il momento di tergiversare, non è più il momento di risposte nostalgiche che guardano alle soluzioni del passato - ha dichiarato Tommaso Vitale dell’Università Sciences Po, intervenuto oggi nel corso della presentazione del Rapporto - Questo è il momento del diritto anti-discriminatorio. In Europa le città stanno procedendo verso politiche di opportunità e integrazione, il tempo delle misure speciali, segreganti e discriminanti è definitivamente scaduto».

«Ancora una volta ci troviamo a dover constatare il fallimento delle politiche di inclusione rivolte a rom e sinti in emergenza abitativa – ha dichiarato Carlo Stasolla, presidente di Associazione 21 luglio – non ci sono progressi nell’implementazione della Strategia e le politiche non hanno prodotto alcun processo di inclusione. Sono necessari un chiaro orientamento strategico e un coordinamento a livello nazionale rispetto alle politiche di desegregazione abitativa».

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*European Union Agency for Fundamental Rights (FRA); Human Rights Council (HRC); Committee on the Elimination of Discrimination against Women (CEDAW) e European Parliament Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs (LIBE).

SCARICA IL RAPPORTO ANNUALE 2017 (http://www.21luglio.org/21luglio/wp-content/uploads/2018/04/Rapporto_Annuale-2017_web.pdf)

 Dalla nascita dei primi movimenti pacifisti del XIX secolo, il cammino del pacifismo si è arricchito di molteplici forme di pensiero e di straordinarie esperienze di lotta nonviolenta.

Tante, tantissime cose sono cambiate. I pacifisti, per lo più, oggi, sono trattati con moderato rispetto, non più sbeffeggiati in quanto “anime belle” malate di “panciafichismo”, ma, al contempo, senza mai essere presi veramente sul serio, né in ambito mediatico né tantomeno in ambito politico.

Le vicende balcaniche di fine secolo e l’imperante “guerra al terrorismo” del dopo 11 settembre hanno tragicamente relegato il pensiero pacifista nelle estreme periferie dell’attenzione collettiva, in una sorta di nicchia platonico-epicurea, quasi una dimensione teoretica astrattissima e metastorica. Detto in altre parole, prevale spesso la sensazione che, nel mondo brutale e spietato in cui siamo costretti a vivere, non ci sia più alcuno spazio per chi pretenda di continuare a sognare (e a costruire!) un mondo senza eserciti, con arsenali svuotati e granai riempiti.

Ma la cultura della pace e della nonviolenza è tutt’altro che estinta e tutt’altro che rassegnata a scivolare nella dimenticanza generale. E numerose sono le iniziative che testimoniano la volontà di continuare a difendere e a diffondere i valori del dialogo, dell’amicizia fra i popoli, del rifiuto della violenza in tutte le sue forme, prime fra tutte quelle istituzionalizzate.

In merito al pacifismo di ieri e a quello di oggi, nonché in merito alle reali possibilità di continuare a sperare in un mondo liberato da quello che è stato opportunamente definito “il flagello della guerra”, è nata la conversazione con Francesco Pistolato, antico e prezioso compagno di strada, fondatore del Centro Interdipartimentale “Irene” di Ricerca sulla Pace, all’Università di Udine.*

 

  • Nei testi di scuola in circolazione, dei pacifisti non si parla quasi mai. La scena del cammino storico viene occupata quasi per intero da chi la guerra l'ha voluta e l'ha fatta. Molto poco da chi l'ha subita. Quasi per nulla da chi ha cercato di impedirla. Non ti sembra che bisognerebbe ripensare in maniera sostanziale il modo di concepire, descrivere e tramandare il nostro passato?

Non si tratta solo di un discorso che riguarda il passato.

Per cecità e scarsa consapevolezza delle conseguenze che ciò comporta, noi roviniamo anche il nostro presente sommergendolo in notizie e considerazioni su ciò che di peggio avviene a livello macro, meso e micro.

È come se ci interessasse solo il negativo, come se tutta la bellezza che ancora esiste sul nostro pianeta, e al di là di esso nella meraviglia di un cosmo, che se non altro per la sua immensa vastità dovrebbe incantarci, tutto l’amore che pure è presente nel mondo – pensiamo solo all’amore di ogni madre – non solamente umana – per i suoi figli, ai legami affettivi al di là della propria famiglia, alla solidarietà che per molti non è una parola vana, ai capolavori dell’arte, al fatto di avere un corpo, di respirare, di poter comunicare con la voce, e non solo, i nostri sentimenti e pensieri e tante altre cose che il semplice fatto di essere in vita ci permette di fare, come se insomma la vita per noi non fosse di per sé un’occasione meravigliosa di apprendere e di amare, in onore a un programma propostoci e ripropostoci dagli spiriti più elevati, i quali sì che dovrebbero accompagnare sempre i nostri pensieri, anziché occuparci noi di affari meschini, di dare importanza a gente che non ha nulla da dire, di lamentarci per questo e per quello, di prendere per buone le balle che ci raccontano i media sull’economia, sulla necessità della crescita, sui nuovi despoti ai quali bisogna fare la guerra.

Insomma: se non siamo capaci di immaginare per noi stessi una vita davvero bella, se nutriamo i nostri animi di immondizia, è normale che ci raccontino la storia così, allo stesso modo in cui i telegiornali e i giornali ci inondano di schifezze.

 

  • Ma molti ci dicono che la realtà è questa, solo questa, e che sarebbe infantile cercare di baloccarsi nel sogno ingannevole di altri mondi impossibili …

Perché si racconti la storia in modo diverso, bisogna concepire la vita in modo diverso.

La diversa concezione della vita cui alludo – tra l’altro – non contempla l’opzione della guerra, se non come interruzione del processo vitale della società da parte di pochi – interruzione destinata a divenire sempre più marginale.

Mi rendo perfettamente conto che questo mio discorso può apparire uno sfogo utopistico di qualcuno che vive fuori dal mondo. Eppure l’uomo può scegliere il proprio destino, lo si insegna a scuola, l’esistenza del libero arbitrio appare essere un concetto condiviso a livello di mainstream. Possiamo anche decidere di fare un uso migliore della nostra libertà di scegliere, perché disponiamo appunto di libertà.

Chi vede sempre tutto nero, alimenta ciò che considera negativo e crea un alibi per il proprio e altrui disimpegno.

 

  • Purtroppo, però, la storia dei movimenti pacifisti  appare come una storia dolorosa, ricchissima di luce intellettuale e morale, ma costellata da continui fallimenti e sconfitte. Pensi che la situazione attuale del fronte pacifista consenta qualche ragionevole speranza o ritieni che ci sia ben poco di cui rallegrarsi ?

Le cose, per cambiare, richiedono un cambiamento del livello di coscienza generale, per il quale i pacifisti lavorano. Se i tempi sono lunghi, non credo che la cosa si possa imputare loro. Smettere di lavorare per la pace è come chiudere gli ospedali perché la gente continua a morire.

D’altra parte, fallimenti e sconfitte sono interpretazioni. Ogni serio impegno a favore della convivenza è di per sé un successo - considerate le forze che alacremente lavorano per la guerra - e porta a risultati a volte macroscopici, ma minimizzati dai professionisti dei media e dagli storici di professione. Pensiamo alla caduta del muro di Berlino, frutto di un lavoro nonviolento pluridecennale e non solo dell’implosione dell’Unione Sovietica e della RDT. Pensiamo alla stessa Unione Europea, che nel 2012 ha ricevuto il Nobel per la Pace: l’Unione è stata concepita da alcune personalità in epoche in cui le guerre imperversavano – erano anche loro pacifisti, e il loro progetto si è realizzato.

 

  •  Il pacifista austriaco  Alfred Hermann Fried, nel suo "Diario di guerra" (1914-19),** di cui hai recentemente curato la traduzione e la pubblicazione, scrive che ogni qualvolta gli capitava di sentir parlare le persone piene di odio nei confronti delle altre nazioni,  in lui si faceva strada prepotentemente  il pensiero che fosse "assolutamente necessario penetrare maggiormente nella psicologia dell'odio tra le nazioni", nella convinzione che la presenza e la forza dell'odio fossero in stretta correlazione con l'assenza di vere idee e con la latitanza della ragione.

Quanto ti sembrano travasabili nel tempo contemporaneo queste sue riflessioni?

L'attualità c'è naturalmente tutta, e i meccanismi dell'odio irrazionale sono stati studiati sufficientemente nel corso del Novecento. Per il secolo in corso e per quelli a venire proporrei una ripresa del programma mai realizzato di duemila anni fa: scoprire la presenza dell'amore nella vita umana e nella natura. Dove una luce si accende, il buio scompare. Giornali e telegiornali ci parlano delle tenebre, cioè di dove la ragione latita. Così facendo latitano anche loro nel buio e invitano noi a restarci, a rimanere nella disperazione per un mondo sempre più folle. Una ragione illuminata ci parlerebbe piuttosto del buono e del bello e così ne aiuterebbe la manifestazione in questo mondo: le persone comincerebbero a parlare di fatti piacevoli di cui hanno sentito o hanno letto, i bambini crescerebbero meno disincantati.

Vorrei ribadire questo concetto e poi venire al pratico, per non essere preso per un sognatore al limite della demenza. 

Evitare di dipingere e proporre solo il peggio di quello che succede, come fanno i media costantemente, e soffermarsi invece sul tanto di buono che c'è - e già sento, come Socrate nel Gorgia quando proponeva i re filosofi, i tanti che sghignazzano e dicono: "ma questo è un idiota, di che cosa ci sta parlando?" - è possibile, perché mai non dovrebbe esserlo? Chi obbliga i giornalisti a rovesciare addosso alla gente solo l'immondizia? Non sarebbe ragionevole e un gran sollievo per tutti parlare anche e soprattutto d'altro? Proprio non riesco a vedere perché non si possa fare a meno di propinarci tante schifezze. O meglio, so perché questo accade, e vengo al punto successivo, alla proposta pratica. 

 

  • Ma se questo oggi è il mondo dell’informazione, non sembrerebbero esserci molte possibilità per valide alternative. Forse dovremmo recuperare, dal mondo classico e dalla civiltà illuministica, un po’ della straordinaria fiducia nutrita nella autonomia della nostra ragione, nella sua illimitata potenzialità critica …

La ragione, questa facoltà splendida che ci permette di godere di tanti frutti in termini di civiltà, cultura e scienza, da sola non basta. Da sola, usata in modo unilaterale, la ragione produce esiti perversi. Esempi ne abbiamo dappertutto: in economia, ove razionalizzazione significa aumento dei profitti a scapito della forza lavoro; nella scienza, ove di fronte alla possibilità tecnica di realizzazione di un quid, magari nefasto - l'esempio della bomba atomica vale per tutti - lo scienziato non ritiene di doversi tirare indietro. Per questo nelle scienze per la pace viene introdotto l'elemento etico e negata la cosiddetta neutralità della ricerca, che è una neutralità finta, in quanto a priori c'è sempre una scelta sul da farsi e questa scelta a qualcosa si ispira, cioè non è affatto neutra. Il discorso sull'etica tuttavia è vastissimo e molto soggettivo, oltre che culturalmente determinato. 

Viviamo però in un'epoca fantastica, ove menti più avanzate, che non si nutrono dell'immondizia propinataci giornalmente, ma guardano oltre, stanno cominciando a scoprire che l'uomo è molto di più di quello che comunemente si crede e che, strutturalmente, siamo perfettamente attrezzati per elevare le nostre esistenze. Mi riferisco in particolare alle ricerche dell'HeartMath Institute - Home - HeartMath Institute e in italiano Coerenza Cardiaca - HeartMath® in Italia! Controllo dello stress, miglioramento dello stato di salute e della performance umana , laddove si vede, e si può apprendere, dato che viene spiegato a chi voglia conoscere, come il nostro cuore abbia la capacità di metterci in armonia con l'ambiente sociale in cui viviamo. Un lavoro di questo genere è realmente trasformativo e costituisce una metodologia pratica di diffusione della pace, partendo da noi stessi.

Il buon Fried, dal quale siamo partiti, viveva in un'epoca in cui tutte queste cose non erano ancora a portata di mano. Oggi lo sono, e con esse si potrebbero riempire TG e giornali.

In attesa che ciò avvenga, chi è veramente interessato alla pace, parta da queste indicazioni e inizi un percorso serio e proficuo.

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NOTE

*Francesco Pistolato, romano di nascita, insegna tedesco alle scuole medie superiori. Laureato in Giurisprudenza e in Lingue Straniere presso l’Università di Roma, ha conseguito un PhD in Sociologia presso l’Università di Granada. Nella sua vita di studioso ha privilegiato un approccio multidisciplinare, approfondendo tematiche nell’ambito della psicologia, della politica, della filosofia occidentale e orientale, della religione, della storia. Alla cultura di pace ha dedicato gran parte dei suoi sforzi negli ultimi anni.

Selezione bibliografica degli studi per la pace di Francesco Pistolato

(Ed.) Per un’idea di pace, Padova, CLEUP 2006

(Ed.)  catalogo della mostra Die verborgene Tugend / La virtù nascosta Treviso, Europrint Edizioni, 2007

Traduttore di: E. Krippendorff, Lo Stato e la guerra (Staat und Krieg, Frankfurt, Suhrkamp 1985), Pisa, Gandhi Edizioni 2008

(Ed.): Le rose fioriscono in autunno, Pisa, Gandhi Edizioni 2009

(Ed. e traduttore): A.H. Fried, La guerra è follia, Pisa, Gandhi Edizioni 2015

Nel web:

Ekkehart Krippendorff, La paz como cultura étca y libertad: http://digibug.ugr.es/handle/10481/40806

**Alfred Hermann Fried, La guerra è follia. Diario di un pacifista austriaco dal 1914 al 1919, traduttore e curatore Francesco Pistolato, Centro Gandhi Edizioni, Pisa 2015

Pochi giorni fa, è rimbalzata sulla scena mediatica e, ahimè, rapidamente scomparsa, la notizia, giudicata da tutti come sensazionale, relativa ai risultati ottenuti da una neuroscienziata italiana operante in Francia, con un paziente in stato vegetativo “irreversibile”. La dottoressa in questione, Angela Sirigu, direttrice di ricerca all’Istituto di Scienze cognitive Marc Jeannerod del Centro nazionale di ricerca scientifica (Cnrs) di Lione, è riuscita, infatti, servendosi di elettrostimolazioni applicate al nervo vago per un intero mese, a fare recuperare la coscienza ad un paziente in stato vegetativo giudicato “irreversibile” da ben 15 anni. Da precisare che, al fine di rendere particolarmente significativo l’esperimento, il paziente sia stato scelto proprio per la gravità delle sue condizioni e per il fatto di non aver mai manifestato, dal giorno dell’incidente, alcuna forma di miglioramento.

E’ stato molto importante - ha dichiarato la Sirigu nel corso di un’intervista - scoprire che i cambiamenti osservati dopo la stimolazione del nervo vago riproducono esattamente ciò che accade in natura quando un paziente migliora autonomamente da stato vegetativo a stato di minima coscienza, il che suggerisce che abbiamo attivato un meccanismo fisiologico naturale. Inoltre l’esperimento dimostra che anche in pazienti gravissimi, finora ritenuti privi di speranza, dopo molti anni la plasticità del cervello permane (la Pet ha registrato la comparsa di nuove connessioni nervose) e che un recupero della coscienza è sempre possibile.” (Avvenire 28 settembre)

Di importanza straordinaria, a prescindere da tutti gli eventuali ulteriori accertamenti che potranno essere attuati, la conclusione a cui è potuta approdare la ricercatrice:

Da oggi - ha affermato - la parola “irreversibile” non si potrà più dire”.

Insomma, ancora una volta, quello che sembrava impossibile si è verificato. Ancora una volta certezze ritenute indiscutibili sono state smentite. Ma perché stupirsi, poi?! L’intera storia della scienza, della medicina in particolar modo, non è forse perennemente alimentata dal continuo crollare di vecchie credenze e di paradigmi e canoni interpretativi, da un giorno all’altro dichiarati obsoleti o addirittura fasulli? E ogni volta che una vecchia (e falsa) certezza viene abbattuta, non dovrebbe essere per tutti noi festa grande? Anche per coloro che, alle vecchie certezze, si erano tanto affezionati?

Simili eventi, comunque, dovrebbero sempre indurci ad abbracciare la massima cautela e a invitarci alla massima prudenza nel voler erigere a Verità dimostrata quanto ricavato dallo stato attuale delle nostre (sempre modestissime) conoscenze, soprattutto per quanto concerne l’essere più straordinario e misterioso dell’intero universo (l’uomo) e il suo organo più straordinario e misterioso (il cervello).

La scienza è un sapere dinamico, in continua espansione, sempre chiamato ad arricchirsi e a rinnovarsi, di rivoluzione in rivoluzione. E il suo campo è il piano fenomenico, non certamente quello meta-fenomenico o, kantianamente parlando, noumenico. Ovverosia essa è chiamata a cercare di comprendere il “come” della realtà, non certo ad indagare né tantomeno a rispondere in merito ai grandi “perché” e in merito ai massimi problemi della vita umana. Lì entra in gioco la filosofia (oggi alquanto bistrattata) e, per chi sceglie di credere, la teologia. Ma sempre più la scienza tende a mettere le mani sui momenti più sacri e sfuggenti della nostra esistenza, quali il nascere e lo spegnersi della vita. Il pensiero teologico e la morale cattolica hanno tentato e tentano tuttora di non lasciare “carta bianca” al crescente strapotere scientifico, schierandosi fermamente a difesa della vita nascente e di quella morente. Ma, mentre sul primo fronte, indipendentemente dalla loro accettabilità, le posizioni assunte ufficialmente dalla Chiesa presentano una innegabile coerenza, non è possibile dire altrettanto per quanto concerne il secondo. Questo perché, mentre a livello di dichiarazioni di principio si continua a ribadire l’urgente dovere di “affermare il diritto alla morte naturale” (Amoris laetitia, Cap.III, 83), rinunciando però, di fatto, a sollevare il benché minimo dubbio in merito al nuovo criterio di morte (svincolato dalla cessazione del respiro e del battito cardiaco), utilitaristicamente e a-scientificamente introdotto dalla Commissione di Harvard nel 1969, finisce per abbracciare acriticamente la pratica dei trapianti di organi, che proprio dall’accettazione incondizionata della validità della cosiddetta “morte cerebrale” trae fondamento e legittimazione .

Ma quanti, fra di noi, si sono chiesti e si chiedono cosa si debba intendere per morte cerebrale, e, soprattutto, cosa veramente essa sia? Quanti sono disposti ad escludere con categorica certezza che, nel cosiddetto “morto cerebrale” (individuo il cui organismo, pur continuando a presentare una vasta gamma di fenomeni vitali, resi possibili da organi chiaramente funzionanti e quindi vivi, risulta non in condizione di manifestare forme di vita cerebrale), sia totalmente e definitivamente scomparsa quella cosa impalpabilissima che chiamiamo coscienza? Quanti, poi, fra coloro che credono all’esistenza dell’anima e che, pertanto, non si rassegnano a pensare l’essere umano come semplice somma di atomi e di organi destinati, prima o poi, a diventare “concime per i fiori”, sono pronti ad asserire con inattaccabile fermezza che la morte cerebrale coincida (o sia successiva) con la definitiva separazione dell’anima dal corpo? Ovvero, quanti sono pronti ad escludere, senza il minimo dubbio, che, nel più profondo dell’essere di una persona dichiarata “cerebralmente morta”, oltre, cioè, il suo fenomenico, epidermico apparire, al momento in cui il bisturi e la sega elettrica dei chirurghi entreranno in azione, non sia più presente una qualche forma di legame con la sua anima, in grado quindi di provare sensazioni di atroce sofferenza, ancora dotata di libero arbitrio, ancora immersa nel suo lento (ma quanto lento?) processo di distacco dal corpo e dal mondo, ancora capace di ravvedimento, di pentimento e di eventuale conversione, in modo da poter modificare a proprio vantaggio (anche radicalmente) il destino ultraterreno che l’attende?

Possibile, mi chiedo, che il mondo dei cristiani, sia oramai conquistato (ipnotizzato?) a tal punto dai valori terreni (per tanto tempo tanto condannati), da aver totalmente messo in soffitta il concetto di anima e il problema della sua salvezza? Possibile che non si pensi che le pseudo-garanzie e le pseudo-certezze offerteci dall’attuale sapere scientifico (diverso da quello di ieri e diverso da quello di domani) in merito a ciò che veramente siamo e in merito ai confini (imperscrutabili) tra il vivere e il morire non dovrebbero in alcun modo indurre i credenti a dimenticare e a rinnegare il proprio credo, come se parlare di anima e di salvezza sia divenuto anacronistico, come se, di fronte agli sfavillanti progressi della scienza, entrambi i concetti siano diventati oggetti ingombranti di cui ci si dovrebbe magari (in un’epoca così “moderna”), addirittura vergognare?

A proposito del rapporto di sconcertante sudditanza instauratosi fra Chiesa cattolica e Medicina, per quanto attiene la questione morte cerebrale-trapianto di organi, credo possa risultare utile esaminare con attenzione quanto affermato nell’Evangelii gaudium (Cap. IV, 243).

Scrive papa Bergoglio che

Quando il progresso delle scienze, mantenendosi con rigore accademico nel campo del loro specifico oggetto, rende evidente una determinata conclusione che la ragione non può negare, la fede non la contraddice.”

Ora, chiediamoci: cosa “il progresso delle scienze” potrebbe avere a che vedere con la tesi secondo cui la morte cerebrale rappresenterebbe il totale-irreversibile annichilimento di ogni forma di coscienza? Detto progresso è stato certamente determinante, ma non nel senso che ci ha permesso di acquisire maggiori conoscenze tali da farci sentire autorizzati a rivoluzionare radicalmente i millenari criteri di accertamento del processo di morte, bensì soltanto perché, come recita la dichiarazione della Commissione di Harvard, le nuove tecnologie possono consentire di sostenere (spesso rianimare) e mantenere in vita un numero continuamente crescente di malati in condizioni anche molto gravi. Cosa questa che ha inevitabilmente comportato una altrettanto crescente (alquanto dispendiosa) occupazione di posti letto nelle strutture ospedaliere. Proporre l’adozione del criterio della morte cerebrale come via pratica per la risoluzione di un problema di ordine pratico (come esplicitamente dichiarano coloro che per primi hanno coniato tale criterio) cosa avrebbe a che vedere con il “rigore accademico”, con l’evidenza teoretica, con il potere, i diritti e i doveri della ragione e della fede?

Il testo prosegue dicendo che

Tanto meno i credenti possono pretendere che un’opinione scientifica a loro gradita, e che non è stata neppure sufficientemente comprovata, acquisisca il peso di un dogma di fede.”

Ora, una simile affermazione può esattamente essere riferita proprio alla nostra questione. Il credere alla assoluta fondatezza del criterio della morte cerebrale, infatti, è solo e soltanto “opinione scientifica” tutt’altro che “sufficientemente comprovata” (tanto è vero che è stata contestata e continua ad esserlo, oltre che da filosofi e teologi, anche da autorevoli uomini di scienza), ma, ahinoi, molto gradita a larga parte del mondo cattolico, che la abbraccia con favore perché impropriamente correlata alla cosiddetta “cultura del dono”: solo l’accettazione incondizionata, infatti, dell’indiscutibilità della morte cerebrale può rendere legalmente possibile (come ben dichiarano gli stessi membri della Commissione Harvard) espiantare organi vivi destinati al trapianto, nonché vedere nella prassi della “donazione” degli organi una auspicabile manifestazione di straordinaria generosità, volta ad allungare vite e a ridurre sofferenze. Aspirazioni indiscutibilmente nobili e sante, ma non certo in grado di trasformare una mera “opinione scientifica” in verità evidente e razionalmente innegabile, tantomeno “dogma di fede”!

Quando poi il papa si riferisce agli scienziati che “vanno oltre l’oggetto formale della loro disciplina e si sbilanciano con affermazioni o conclusioni che eccedono il campo propriamente scientifico”, come non pensare a quanti pretendono di definire, con boria sprezzante, i confini certissimi dell’inizio e della fine della vita umana? Confini, fra l’altro, continuamente riveduti e corretti dalle continue ricerche ed esperienze scientifiche, che sempre più ci dovrebbero obbligare ad un umile ed onesto atteggiamento di “sospensione del giudizio”.

In dubio pro vita”! Così la migliore saggezza teologica si è espressa per secoli. E così le autorità ecclesiastiche cattoliche continuano a porsi, per quanto concerne l’inizio-vita. Perché, invece, mi chiedo, non per il fine-vita, che, fra l’altro, agli occhi della sensibilità e della dottrina cattoliche, dovrebbe apparire sommamente sacro e doverosamente inviolabile (in quanto decisivo per quanto concerne la “vita eterna”)? Anzi, dubbi e perplessità vengono sollevati a profusione soltanto in merito ai pazienti in stato vegetativo (vedi caso Eluana Englaro). Per quelli ritenuti in stato di morte cerebrale (da qualche ora!), invece, perché no? Chi garantisce che sia davvero così sostanzialmente diversa la condizione dei secondi da quella dei primi? E, inoltre, chi potrà mai offrirci garanzie assolute rispetto alle possibilità umane di determinare con oggettiva sicurezza i confini fra l’una e l’altra condizione? Chi potrà mai escludere a priori che, nella determinazione dello status del paziente, non possano intervenire, oltre ai limiti delle conoscenze scientifiche e della strumentazione tecnologica, fattori contingenti, imprevedibili e incontrollabili, legati a componenti strettamente “umane” (stanchezza, approssimazione, precipitazione, superficialità, interessi di carattere economico e/o carrieristico)?!

Molto opportunamente le parole di Papa Francesco chiamano in causa il rischio del sovrapporsi, inquinante e deformante, di una “determinata ideologia”. Ma tutto il percorso argomentativo che dovrebbe condurci al credere nella validità del criterio di morte cerebrale non è forse totalmente sorretto e legittimato da una ben precisa visione della natura umana di carattere materialistico e meccanicistico?

Il dire: non si registrano più segnali fisici di attività del cervello, quindi tizio è defunto (anche se il suo cuore batte) e lo possiamo lecitamente trattare come una costruzione Lego, prenderci questo e quello, certi che non vi sia in lui più alcunissima forma di coscienza, non è forse una convinzione palesemente ideologica?

Il fatto di far coincidere totalmente cervello e coscienza non è forse una convinzione di chiara natura ideologica, che esclude dogmaticamente la possibilità di forme di coscienza non necessariamente derivanti e dipendenti dall’organo cerebrale (sempre ammesso che si possa davvero, senza dubbi di sorta, dichiararlo definitivamente e irreversibilmente “spento”)?

Non è pura ideologia materialistica non contemplare minimamente (in palese contraddizione con quanto percepibile a livello empirico sensoriale) il poter esserci, nella persona umana, di una dimensione coscienziale non fenomenicamente registrabile attraverso gli strumenti tecnologici a nostra disposizione (sempre limitati e in continuo, travolgente progresso)?

Si dirà: ma la scienza non pretende - non deve pretendere -   di indagare il piano metafisico! Ma, nel momento in cui dichiara “morto” un individuo che empiricamente “sembra vivo” (in quanto caldo e respirante), si arroga indiscutibilmente il diritto/potere di stabilire con certezza l’esserci o meno della coscienza (e quindi della vita interiore), presupponendo di sapere cosa essa veramente sia, cosa la produca e in che modo si relazioni con la dimensione corporea. Così facendo, non irrompe forse, come un elefante infuriato, nella cristalleria delle ideologie metafisiche? E, nel momento in cui si esclude aprioristicamente l’esserci nell’uomo di quella cosa che da millenni chiamiamo “anima”, non stiamo facendo pura metafisica?

E perché - torno a chiedermi con stupore e amarezza - la Chiesa cattolica ha scelto di farsi trascinare su questo carro ideologicamente materialista anti-scientifico, anti-filosofico e anti-teologico?

Potrà forse il successo dell’esperimento condotto dalla dottoressa Angela Sirigu indurre a preziosi ripensamenti, a prendere, cioè, in considerazione, con la necessaria e dovuta serietà, l’eventualità che il “morto cerebrale” non sia una “cosa”, ma sia ancora “persona”, non sia cioè realmente un morto, ma soltanto un (probabile) morente? E quindi un nostro fratello fragilissimo, bisognoso - per quanto possibile - di assistenza, di conforto e di profonda pietà?

Potranno le sue fermissime parole (“da oggi la parola “irreversibile” non si potrà più dire”) incitare il mondo della medicina e della Chiesa a usare maggiore umiltà, a rinunciare a stolte pretese di onniscienza, in rispettosa sintonia con un sano filosofico “sapere di non sapere”, a rispettare, con maggiore coerenza quanto tutti osannano in coro, il “valore della vita” e la “dignità inviolabile della persona”?

A scegliere, in nome della sapiente norma “in dubio pro vita”, di non correre mai e in nessun caso il rischio di trattare un paziente vivo (probabilmente moribondo) come se fosse già cadavere, un vivo come se fosse un morto?

geutruAll’ONU il 7 luglio scorso è stato adottato uno storico Trattato che proibisce gli ordigni “atomici” promosso dalle nazioni che non possiedono il nucleare, assenti le 9 nazioni che possiedono la bomba “atomica” e tutti i paesi NATO (eccetto l’Olanda).

Un movimento mondiale disarmi sta , che ha sospinto il voto coraggioso di 122 stati “battistrada” – per lo più del “movimento dei non allineati” -, ha reso concreta la speranza che l’Umanità riesca finalmente a liberarsi della più terribile minaccia per la sua sopravvivenza, tenendo conto che una guerra nucleare può essere scatenata addirittura per caso, per incidente o per errore di calcolo.

Anche il Parlamento Europeo ha approvato, il 27 ottobre 2016, una risoluzione su questi temi (415 voti a favore, 124 contro, 74 astenuti), invitando tutti gli stati membri Dell’Unione Europea a “partecipare in modo costruttivo” ai negoziati ONU, quelli che successivamente hanno varato il Trattato del 7 luglio.

Il governo italiano è stato assente alle sedute dei negoziati in sede ONU.

Giovedì 21 settembre scorso si è svolta una manifestazione a Roma avanti il nostro Ministero degli Esteri dei movimenti anti-nuclearisti per chiedere al nostro governo di lavorare perché questi ordigni siano ripudiati, di attivarsi perché vengano ovunque aboliti e che l’Italia ratifichi al più presto il Trattato di interdizione delle armi nucleari del 7 luglio scorso, in coerenza con l’articolo 11 della nostra costituzione, anche per dare impulso ad un’economia di pace.

Di conseguenza, per essere coerente e credibile con quanto richiesto, il nostro Paese deve liberarsi con decisione autonoma delleruuu bombe nucleari USA ospitate a Ghedi ed Aviano, anche perché violano il Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Si tratta delle bombe B6 1 indicate dalla Federation of atomic Scientists (ufficialmente è “riservato” quante e dove siano), che ora verranno rimpiazzate dalle più micidiali B6 1-12. Da mettere anche in conto la possibilità di Cruise con testata atomica a bordo della VI flotta USA con comando a Napoli e che attracca anche in numerosi altri porti italiani.

“Eliminiamo le armi nucleari prima che loro elimino noi !”, l’appello di Russell ed Einstein è stato fatto proprio dalle numerose associazioni presenti: Disarmisti Esigenti, WILPF Italia, No guerra No NATO, Pax Cristi, IPRI-CCP, Pressenza, LDU, Accademia Kronos, Energia Felice, Fermiamo chi scherza con il fuoco atomico (Campagna OSM-DPN), Peace-link, la Fucina per la Nonviolenza di Firenze, la Chiesa Valdese di Firenze, Mondo senza guerre e senza violenza, Comitato per la Convivenza e la Pace di Danilo Dolci-Trieste.

 

Abbiamo raccolto qualche testimonianza.

Giuseppe Padovano, Coordinatore Nazionale del Comitato No Guerra No Nato:” Il nostro comitato niente affatto ideologico, niente affatto legato a partiti politici o a progetti elettorali, vuole allontanare dal nostro paese ogni rischio di coinvolgimento militare in guerre che servono esclusivamente a tutelare interessi non dei nostri concittadini ma dei potenti di altri paesi.

Questo rischio è sempre più concreto e sempre più nucleare. Quini noi siamo partiti dal presupposto che l'uscita dalla Nato e una politica autenticamente neutrale sia l'obiettivio da conseguire. Per farlo drrtdobbiamo avere la consapevolezza e poi l'appoggio dell'insieme del popolo italiano in quanto, lo ripeto, ne va direttamente delle nostre vite il cui destino verrebbe ykklldeciso da altri, assai lontani da noi.

Per questo la nostra mobilitazione è rivolta a tutti, non è una invenzione di ambienti di sinistra per uscire dall'attuale insignificanza politica.

Nota a parte, ma decisiva, il Partito Democratico non è più un partito della sinistra storica italiana, ma è l'autentico partito americano nel nostro paese.

In questa campagna popolare abbiamo trovato una grande attenzione del mondo cattolico che è molto presente e collabora alle nostre iniziative, certamente un significativo intervento lo giocano ma  sporadicamente, non ancora con una linea chiara, coerente, e conseguente sia i partiti della sinistra radicale, sia a macchia di leopoardo i 5 stelle. Ma una svolta importante, ed è questo il motivo della  nostra campagna assieme a Disarmisti esigenti a Wilpf ed altre espressini pacifiste, l'abbiamo avuta quando si è concretizzata una iniziativa internazionale per la interdizione  completa degli armmamenti atomici e da quel momento abbiamo deciso di unificare la nostra richiesta politica e pratica di far rispettare al nostro paese la firma che nel 1975 ha posto al trattato di non proliferazione che impedisce  al nostro paese di detenere a qualsiasi titolo (direttamente o per conto di altri) qualsiasi tipo di ordigni nucleari, alla battaglia perché il nostro paese aderisca positivamente alla battaglia di civiltà e di  sopravvivenza per l'intera umanità che vota a favore dela risoluzione ONU su tale argomento. Sul piano pratico unitariamente investiremo tutte le istituzioni rappresentative del nosra paese di mozioni  dirette in questo senso. Finisco osservando che già due Consigli regionale (Toscana e Puglia) ed alcuni consigli Comunali tra cui quelli di Ancona e Firenze hanno votato questi O.D.G.. Sarà nostra cura non farli restare nei cassetti.”

Giovanna Pagani – delegata della società civile italiana alla conferenza ONU per il Trattato di interdizione delle armi nucleari: “ Un appuntamento doveroso per pacifisti convinti come noi appartenenti a tante associazioni che sono per l’abolizione del nucleare. E' stato approvato all’O.N.U. il trattato di interdizione delle armi nucleari, 50 stati hanno già firmato, di cui tre anche ratificato i precetti della Santa Sede, siamo qui per chiedere al Governo italiano, con forza e determinazione, che si associ agli stati e firmi, ratifichi il trattato, abbiamo un’urgenza straordinaria in quanto sul nostro territorio sono depositate circa 70 bombe nucleari USA nelle basi di Ghedi e di Aviano, abbiamo circa 12 siti nucleari che mettono a rischio la popolazione civile per via del problema della contaminazione; facciamo questa battaglia di civiltà in nome dell’umanità intera, perché il rischio nucleare non è legato ad uno stato ma al Mondo intero.”

Marco Palombo, attivista,” questa campagna, secondo me, potrebbe diventare qualcosa di storico; io quel poco che posso fare lo faccio, cosa succederà comunque lo vedremo; vedo che c’è  la possibilità di spingere per l’eliminazione delle armi nucleari, quindi quel poco che posso fare lo faccio.”

Ada, dell’associazione “Disarmisti Esigenti” , “ Questa mattina sono venuta qui per partecipare a questa manifestazione che è importantissima per quanto riguarda la pubblicità all’appello del trattato contro le armi nucleari, mi sto occupando in particolare della traduzione del libro dal francese, che è la copia originale, all’inglese, di Stephane Hessel: “Esigete! Un disarmo nucleare totale”, a cura di Mario Agostinelli, Luigi Mosca e Alfonso Navarra; cosa molto ardua, dato il fatto che sia l’Inghilterra che gli U.S.A. sono potenze nucleari; difficile trovare un traduttore in possesso anche di quei dati tecnici e scientifici per trattare gli argomenti, ma spero comunque di riuscirci.”

Alfonso Navarra, disarmista esigente e obiettore di coscienza: “ Con l’appuntamento che abbiamo tenuto questa mattina davanti al Ministero degli affari Esteri iniziamo a premere con questa campagna della ratifica italiana del trattato di proibizione che non è il trattato di “Non proliferazione”. Proibizione significa che le armi nucleari sono illegali, fuori legge, non solo per quanto riguarda l’uso, ma anche per la semplice minaccia d’uso, dice il trattato, quindi lo stesso possesso: questo è un fatto molto importante. Lo stesso fatto di minacciare come ora vediamo che succede nell’attuale crisi mondiale. Non interessa capire chi è stato primo o chi è stato secondo... o chi è più grosso: con questo trattato tutte le armi nucleari diventano fuori legge, tutte vanno smantellate e questo è il nostro compito futuro: riferendomi a quello che diceva poc’anzi Marco Palombo; bisogna riuscire a passare dalla proibizione giuridica, all’eliminazione effettiva di questi ordigni.”

6575765Patrizia Sterpetti del WILPF, Women's International League for Peace and Freedom,” Sono qui questa mattina perché credo fermamente in questa iniziativa, in questa campagna di progressiva ratifica. Il punto fondamentale è che il fatto stesso della presenza di arsenali nucleari, o che ci siano alleanze militari, impedisce di usare risorse economiche per altri aspetti dell’organizzazione della vita sociale. Questo è un aspetto molto sentito dalla WILPF, cioè occorre assolutamente togliere il badget destinato alle spese militari e destinarlo alla spesa sociale, all’istruzione,alla sanità, all’agricoltura, all’arte, cioè a tutto ciò che può consentire un progresso e un avviamento più compiuto alla democrazia e al rispetto dei diritti umani.”

Pino: antinuclearista, “ Penso che questa manifestazione sia da moltiplicare in tutte le sedi possibili; nel mondo ognuno di noi dovrebbe avere un tremendo terrore della probabilità che questo secolo, anziché come si prospettava sia il secolo dell’America, o anziché come si dice adesso, il secolo della Cina, possa essere il secolo della fine dell’umanità perché causata da un presidente folle messo a capo di una delle nazioni più potenti, oppure perché casualmente si preme un bottone, o c’è un errore di interpretazione, di calcolo, ecco, tutte queste possibilità si sono fatte sempre più vicine come testimonia anche l’associazione degli scienziati contro la guerra che spostato in avanti le lancette dell’orologio di questo nostro povero pianeta a due minuti e mezzo dalla mezzanotte: cioè il pericolo è molto più imminente di quando se ne parlava tanto tempo fa, prima della caduta del muro di Berlino, durante l’epoca della

deterrenza reciproca, cioè del terrore reciproco.”

 

 

La lista degli aderenti sarà sempre aperta:singoli e gruppi potranno sottoscrivere anche on line alla URL: https:www.petizioni24.com/italiaripensacisulbandodellearminucleari

20170913 181650Era la prima guerra mondiale e il 24 agosto 1917, da poco scoccate le 20 e trenta, a Roma una micidiale esplosine riecheggia violentemente in tutta la capitale. L’immane fragore è così intenso da essere udito fino in centro, al palazzo della Regia Questura. Si scoprirà che quell’immensa sciagura riguarda la Caserma dell’Appia Nuova che, altro non era, che il Vecchio Forte dell’Acqua Santa, ovvero il deposito carburanti per Aerostati e Dirigibili dell’aviazione italiana, in quella che era allora aperta campagna oltre l’estrema periferia di Roma. In estrema segretezza e fuori del recinto murario del Forte, 20170913 200958erano stati approntati due enormi capannoni che rilevati da privati, dopo lavori di ampliamento, erano stati attrezzati per la fabbricazione di bombe da lanciare proprio da mezzi d’aria, come aerostati o palloni, sulle trincee nemiche. Ma il laboratorio allestito all’Acqua Santa era sempre meno in grado di assicurare spazi di lavoro adeguati e di accogliere in condizioni di sicurezza, sia i materiali da utilizzare nelle lavorazioni, in particolare gli esplosivi, sia i prodotti finiti. Due giorni prima dello scoppio, il 22 agosto il lavoro della polveriera era stato ulteriormente intensificato a causa di nuove richieste avanzate in quei giorni dal Comando Supremo.

In seguito allo scoppio si parlo di almeno 98 morti. Le autorità preposte all’indagine propesero per la tesi che all’origine del disastro c’era stata la deflagrazione di una piccola quantità di perclorato di ammonio, mentre veniva triturata prima di essere utilizzata per caricare le granate. I morti, in realtà, furono molti di più come dimostra, documenti alla mano, Enrico Malatesta, professore, giornalista e scrittore autore del libro:” Orrore e sangue a Roma – Padre Pio e la strage dell’Acqua Santa”. Incrociando i documenti militari con altri altrettanto sconosciuti e segretati della Questura di Roma, l’autore scopre che i morti del Forte dell’Acqua Santa, alias Caserma Appia, sono più di 240 e che, oltre i 98 artificieri dichiarati morti, gli altri sono tutti ragazzi tra i diciassette e i  vent’anni, analfabeti e soldati di bassa forza, senza la minima cognizione e competenza da artificiere, ai quali segretamente era stato affidato il medesimo incarico: armare 20170913 192326bombe, granate ed altri proietti, con polveri anche scadenti. Di questi ultimi, a tutt’oggi, a distanza di cento anni, non se ne conosce né nome, né cognome.

Il triste evento è stato ricordato a Roma in una commovente cerimonia il 13 settembre scorso presso il reparto sistemi informativi automatizzati dell’Aeronautica Militare, situato nello stesso luogo dove esisteva la polveriera dell’Acqua Santa. Al termine della celebrazione della S. Mesa, a ricordo dei caduti, è stata scoperta e benedetta una targa commemorativa. A seguire una tavola rotonda dal titolo: Il contributo dell’Acqua Santa alla grande guerra” cui hanno partecipato il Gen. Giovanni Fantauzzi, Comandante Logistico A. M, l’arch. Simone Ferretti, Presidente dell’associazione “Progetto Forti”, il prof. Enrico Malatesta, giornalista e scrittore, e il Gen. Isp. GArm Basilio Di Martino, storico militare.

Sempre più spesso, i mezzi di comunicazione di massa, riportano fenomeni sociali e spinosi, legati alla violenza sulle donne. Oggi,    sebbene l’evoluzione e il progresso della società, ha raggiunto alte vette, le donne continuano ad essere vittime di violenze, fisiche e psicologiche. Il più delle volte, la violenza viene perpetrata da persone che vivono nello stesso contesto familiare. I casi più diffusi di violenze, secondo dati statistici, sono infatti quelli che si consumano dentro le mura domestiche. Il dato più inquietante è che, nella maggior parte dei casi, le vittime amano i loro carnefici e sono disposte a tessere la loro difesa, nella speranza di un cambiamento. Le donne, nella storia, sebbene rappresentano l’altra metà del cielo, hanno dovuto lottare parecchio per l’affermazione dei loro diritti. Molti passi avanti sono stati fatti, ma la strada è in salita e, ancora oggi, la donna viene considerata il “sesso debole”. Questa debolezza fisica, che biologicamente può essere anche vera, si è tramutata nel tempo, in taluni casi, in una forma di sottomissione obbligata della donna all’uomo. Ogni qualvolta le donne cercano di cambiare questa condizione, spesso tacitamente accettata e considerata normale dalla società, hanno dovuto subire ritorsioni di ogni genere, in alcuni, assimilabili al concetto di violenza. Il silenzio è ovviamente la forma peggiore di accettazione, per questa ragione, la violenza sulle donne è un tema ampiamente dibattuto ai nostri giorni. Femminicidio è una parola coniata, proprio per esternare alla società di oggi, che esiste un problema, grande, grave, serio e apparentemente irrisolvibile. Un fenomeno che porta con se paura, dolore, incertezze e in casi estremi, può portare anche alla morte.


Nella pienezza dei tempi, il fenomeno della violenza contro le donne è stato considerato degno di nota, al punto da essersi meritato una giornata mondiale, che si svolge il 25 novembre, con manifestazioni che hanno risonanza in tutto il mondo.
Una giornata dedicata e rivolta alle donne, però, non è sufficiente ne esaustiva. Per cambiare la realtà bisogna, innanzitutto, provocare un cambiamento nella mentalità radicata nella nostra società. Le donne che subiscono violenza non sempre trovano la forza per denunciare l’accaduto, specie quando si tratta dei loro compagni. Tutto può iniziare con uno schiaffo o una presa un po’ troppo forte delle braccia, che genera qualche livido. Alcuni lividi sono facili da nascondere, ma con il passare del tempo, le ferite provocate diventano insanabili e si perde progressivamente la forza di reagire e di chiedere aiuto a qualcuno. La seconda volta è un pugno, la terza un oggetto che viene lanciato contro. La quarta potrebbe diventare l’ultima.
Bisogna cambiare le mentalità di tutti: delle donne in primis. Bisogna imparare ad essere sensibili alla violenza, a riconoscerla in quanto tale, per poterla combattere nel modo giusto. Per farlo è importante partire dal basso, dalle piccole cose del quotidiano, a volte trascurate.

Violenza non è soltanto quella fisica; nel concetto di violenza vanno annoverate tutte quelle azioni che si compiono per annullare volontà e libertà, elementi sui quali si costruisce l’autostima. E’ notorio che le parole hanno un peso e spesso possono ferire più delle azioni. Usare termini denigratori contro una donna è un modo per farle del male, per screditare il suo valore. Tutto ciò è un dramma di non facile soluzione. Ma questo non vuol dire che non si possa far nulla per cambiare la realtà: basterebbe partire dall’assunto che non esistono assolutamente differenze tra gli uomini e le donne e che, queste ultime, andrebbero trattate esattamente allo stesso modo. La parità di genere è una locuzione che deve trovare applicazione nella pratica e ciò con l’intento di garantire all’uomo, e alla donna, gli stessi diritti e la stessa dignità. Solo così la donna può veramente rappresentare l’altra metà del cielo.

                                                 

                                                                            “7 agosto 1914

                     Un dolore tremendo mi opprime. La guerra mi pesa come se avessi addosso una pietra da un quintale; è come se tutto ciò che nella vita ha valore fosse stato soffocato. Quando mi sveglio al mattino, mi capita sempre lo stesso: per un istante mi sento bene, ma solo per un istante, poi subentra l’idea della guerra e lo stato di benessere scompare, sostituito da un gran peso psichico. Lo stesso mi succede durante il giorno, quando, leggendo o conversando mi dimentico per qualche minuto della situazione: il pensiero della guerra ritorna subito e mi schiaccia.

Per me il mondo ora è completamente diverso. Non è più come prima, come due settimane fa. Come per un incantesimo tutto appare differente. I monti dinanzi alla mia finestra, il verde dei prati, le ville deliziose, tutto mi si presenta come i resti di una vita da me un tempo vissuta ed ora perduta per sempre. Un criminale deve sentirsi così dopo la condanna. Pensa a un mondo esterno pieno di splendore e felicità, dal quale è escluso. Anch’io mi sento come dietro mura di ferro che mi separano dal passato.

Dal 25 luglio, giorno della rottura delle relazioni diplomatiche fra l’Austria e la Serbia, non riesco più né a lavorare, né a leggere un libro. Mi muovo inquieto su e giù senza combinare niente, leggo i giornali e aspetto il numero successivo dei quotidiani. Non è possibile né concentrarmi per lavorare né riflettere. Mi sento peggio di coloro che passivamente accettano quello che sta succedendo: le famiglie che devono separarsi dai loro cari arruolati, l’economia bloccata. Vedo già quello che sta per accadere, tutta la miseria che genererà la guerra appena cominciata e il tempo infinito che durerà, ben più di un anno. Tutto questo mi divora.”

(pp.37-38)

             Potrebbe, forse, questa pagina con cui si apre il diario di Alfred Hermann Fried (La guerra è follia. Diario di guerra di un pacifista austriaco dal 1914 al 1919, Centro Centro Gandhi Edizioni) risultare già ampiamente sufficiente per entrare in contatto con le dimensioni profonde della sua anima di generoso e sempre coerente pacifista, caratterizzate, in maniera particolarmente pronunciata, da:

-          viscerale empatia nei confronti della sofferenza umana;

-          naturale tendenza a sentirsi moralmente responsabile verso coloro che più sono colpiti dalle sventure;

-          lucidità intellettiva nitida e penetrante;

-          capacità clinica di lettura dei fatti;

-          attitudini intuitive che, in più casi, acquistano il volto della chiaroveggenza.

Scrive Paul Fussell che, benché ogni guerra possa essere definita “ironica”, risultando sempre “peggiore di quel che ci si aspettasse”, la Grande Guerra - senza alcun dubbio - si impone come la più ironica di tutte le precedenti e anche di tutte le successive, perché nessun evento bellico sarebbe stato in grado di arrivare, in modo tanto radicale e sconvolgente, a capovolgere la stessa “idea di Progresso”.

Ma la follia nazional-militarista di inizio secolo, che ha saputo ubriacare intere opinioni pubbliche e anche nutrite e titolate schiere di intellettuali, non è riuscita minimamente ad intossicare le acutissime capacità di analisi di Fried che, come gli altri pochi veri pacifisti dell’epoca, si è costantemente dimostrato perfettamente consapevole dell’immensità del baratro che si stava aprendo sotto le fondamenta stesse della civiltà moderna, nonché delle incalcolabili rovinose conseguenze che ne sarebbero derivate.

Per molti, infatti, la Grande Guerra ha rappresentato un traumatico squarciarsi di “veli di Maya”, tutto un crollare di mitologie beote, un liquefarsi di deliri statolatrici e di nefandezze parolaie farsescamente titanico-superomistiche.

Per uno spirito saggio come Fried, l’unico immenso stupore che non finirà mai di straziarlo scaturirà dal dover constatare, con incommensurabile amarezza, l’oltremodo prolifico generarsi di mostruosità derivanti dal sonno miope ed ottuso della ragione. E alla ragione insistentemente si riferisce in tutte le pagine del suo straordinario diario, sempre animato da una passione etico-civile incrollabile, che lo spinge a lottare con tutte le sue forze per tentare di dimostrare come il dire NO a quella guerra (e così pure a tutte le guerre) non fosse una stolta forma di ingannevole chimericità degna soltanto di ingenue “anime belle”, ma l’unica strada obbligata indicata da un uso corretto del pensiero inteso sia nel senso più raffinatamente e nobilmente ideale, sia nel modo più sanamente e concretamente pragmatico ed utilitaristico. Per lui, è una “vecchia favola” il ritenere che per far cessare le guerre tutti gli uomini dovrebbero “diventare angeli”. I pacifisti, invece, hanno sempre spiegato - dice - che per liberarsi dalla piaga della guerra occorrerebbe semplicemente “essere egoisti intelligenti” (pp.107-8).

Gli utopisti, - scrive - quelli si badi bene più pericolosi, non sono oggi i tecnici della pace, ma coloro che ripetono la frase “guerra perpetua”. Sono questi che hanno causato la presente sventura mondiale, che impediscono che si concluda e che cercano fin d’ora di far ripiombare il mondo in questa disgrazia.”

E proprio appellandosi all’analisi razionale, Fried denuncia, innanzitutto, la rozza quanto perfidamente abile opera di sistematica propaganda bellicista portata avanti dalle forze governative e dal mondo dell’informazione, nonché da buona parte della “migliore” cultura e delle varie gerarchie ecclesiastiche.

Con tutte le forze - annota a questo proposito nell’agosto 1914 - si cerca di presentare ogni atto compiuto dal nemico come folle, perfido e indegno. Si esagera ogni azione del singolo e la si rinfaccia a tutta la nazione cui appartiene. Non contano più niente i contributi culturali di un popolo, tutti dimenticati nel momento in cui gli si può rimproverare un singolo comportamento scorretto.” (p.39)

Dal punto di vista militare ­- scriverà con gelido quanto amaro realismo quasi quattro anni dopo (8 giugno 1918) - la censura è figlia dell’istinto di sopravvivenza. La guerra e il militarismo non potrebbero sopravvivere per tre mesi se venisse abolita la censura. Solo nascondendo la verità su queste istituzioni si permette loro di continuare ad esistere …” (p.146)

Ma già dall’ottobre del ’14, Fried riesce ad individuare e a smascherare con estrema precisione i meccanismi economico-mediatici che riescono ad esercitare un’enorme influenza sull’intera società, ed anche a fare una raffinata lettura psicologica delle dinamiche che vengono innescate e alimentate dalla efficientissima macchina della guerra.

   “Quando sento parlare le persone così piene di odio nei confronti delle altre nazioni, - scrive nel settembre 1914 - penso sempre che è assolutamente necessario penetrare maggiormente nella psicologia dell’odio tra le nazioni. Questo sembra diffondersi meglio laddove mancano le idee. Riempie il vuoto della ragione. (…) Al posto dell’idea subentra la rappresentazione, ma non una rappresentazione oggettiva, bensì quella influenzata dai sentimenti d’odio, che riprende tutti i dettagli riportati dalla stampa o da altri organi della pubblica opinione. Nella mente della maggior parte delle persone si crea così un’immagine spaventosa, infondata e primitiva dell’altra nazione.” (pp.50-1)

Alfred Hermann Fried dimostra, poi, un’intelligenza critica davvero portentosa non soltanto quando mette allo scoperto le trame e le strategie che hanno prodotto il conflitto in corso e nel denunciare le continue mistificazioni, strumentalizzazioni e manipolazioni dell’informazione e delle coscienze ad opera del potere, ma anche nell’intuire, in maniera limpidissima, le conseguenze disastrose del conflitto, sia in seguito al generale abbrutimento morale e alle immense paludi avvelenate di odio rovesciate negli animi delle popolazioni, sia in seguito alla feroce iniquità dei cosiddetti “accordi di pace”. Le sue valutazioni su quanto si delinea nelle fasi conclusive del conflitto e a conflitto concluso sono sempre esatte e calzanti, caratterizzate da una visione storica ariosa, priva di pregiudizi di qualsiasi tipo e rigorosamente ancorata alla realtà dei fatti. La Germania - a suo parere - avrebbe potuto riprendersi soltanto alle seguenti condizioni:

-          restituendo l’Alsazia-Lorena e lasciando ai suoi abitanti il diritto di decidere le loro futuro;

-          abbandonando i territori occupati ad est e riconoscendo il diritto di autodeterminazione al popolo polacco;

-          pagando equi risarcimenti per i delitti commessi;

-          accettando “apertamente il disarmo e l’applicazione del diritto a livello internazionale”;

-          liberandosi dagli Hohenzollern, dagli junker prussiani, dai pantedeschi, dai militari e militaristi fanatici.

Nello stesso tempo, è fermamente convinto che costringere “al disarmo un solo Stato, mentre gli altri restano armati”, sarebbe stata una vera “mostruosità”. (p.168)

La Germania - scrive - sopporterà quest’umiliazione per tutto il tempo che non potrà fare altro che sopportare” (ivi), preparandosi alacremente al momento in cui sarebbe stato possibile liberarsi dalle imposizioni, in modo tale da rivitalizzare i gruppi militari e nazionalisti solo momentaneamente e apparentemente sconfitti.

Le riflessioni di Fried, infine, hanno anche il pregio di risultare di grande utilità per la corretta comprensione di alcuni aspetti cruciali del pensiero pacifista (non soltanto di inizio secolo XX), mettendone in luce la solida portata speculativa, la scientifica attenzione verso la genesi dei fenomeni bellici, l’incisiva potenza demitizzatrice e smascheratrice, l’ intelligente e responsabile consapevolezza della necessità di un sistematico lavoro costruttivo su più piani, mirante, in primissima istanza, al rinnovamento radicale del tessuto culturale degli interi orizzonti mentali e morali delle coscienze individuali e collettive.

   Insomma, con   La guerra è follia siamo di fronte ad un’opera che arricchisce significativamente il già vasto panorama bibliografico relativo alla Prima guerra mondiale, consentendo di entrare in contatto con una delle voci più ferme e cristalline che si siano battute contro lo scatenarsi e lo svolgersi dell’ignobile mattanza, e permettendo di meglio comprendere le intime, autentiche ragioni che animano e sostengono, nella teoria quanto nella prassi, ogni sincera forma di pacifismo.

Non facile, pertanto, riuscire a ringraziare adeguatamente i promotori ed artefici di questa eccellente iniziativa editoriale, primi fra tutti Rocco Altieri, infaticabile direttore del Centro Gandhi di Pisa (editore dei Quaderni Satyagraha**) e Francesco Pistolato, traduttore e curatore puntualissimo e illuminante dell’opera.

Il volume, inoltre, è corredato da tre pregevoli contributi critici:

Rocco Altieri (Gli intellettuali e la guerra);

Raffaello Saffioti (Se vuoi la pace, educa alla pace); Rosario Greco (In ricordo di Thomas Merton, pacifista nonviolento nel centenario della sua nascita: 1915-2015).

 

 

La guerra è follia. Diario di guerra di un pacifista austriaco dal 1914 al 1919

Alfred H. Fried

Curatore:F. Pistolato

Editore:Centro Gandhi

Collana:Quaderni Satyagraha

Anno edizione: 2015

*Paul Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, Il Mulino, Imola, 1984.

** GandhiEdizioni è una casa editrice nata per riempire un vuoto presente nell’editoria italiana sui temi della Pace e della nonviolenza.
Nasce in risposta all’appello dell’ONU contenuto nella risoluzione 52/15 del 1997 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che aveva proclamato il 2000 “anno internazionale della cultura della pace” e alla risoluzione 53/25, approvata il 10 Novembre 1998 che proclamava per il 2001-2010 il “Decennio Internazionale per una Cultura di Pace e Nonviolenza per i Bambini del Mondo”.
Il Centro Gandhi onlus organizza corsi di formazione, laboratori educativi, convegni di studio in collaborazione con scuole e università.
Accoglie i maggiori studiosi italiani e internazionali dei conflitti e della pace.
Dispone di una biblioteca specialistica con 30 mila volumi, una videoteca e spazi per le arti, la musica, la pittura e il teatro.
E’ specializzata nello studio dei conflitti moderni e dei metodi per la loro trasformazione nonviolenta.
Pubblica una serie di collane: i Quaderni Satyāgraha,
i classici della spiritualità e del pensiero politico, i manuali di formazione.

GandhiEdizioni svolge la sua attività editoriale senza fini commerciali e senza scopo di lucro.

I Quaderni Satyāgraha sono ideati e curati da Rocco Altieri,
già docente di “Teoria e prassi della Nonviolenza” nel corso di laurea di Scienze per la pace dell’Università di Pisa.

http://www.gandhiedizioni.com/page2/files/category-quaderni-satyagraha.html

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   “La vendetta non deve mai essere confusa con la giustizia, e la pena di morte serve solo ad aggravare l’ingiustizia”

Zeid Ra’ad Al Hussein, Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, 9 agosto 2016

              

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               Come tutti sanno, Amnesty International si oppone alla pena di morte in tutti i casi, senza alcuna eccezione riguardo alla natura o alle circostanze dei vari crimini, alla colpevolezza o meno dell’imputato, al metodo usato per eseguire la condanna a morte, ecc.

A tale scopo, da lunghi decenni ormai, Amnesty International lavora per raggiungere l’abolizione totale e definitiva della pena capitale in tutto il mondo, conseguendo risultati che potremmo giudicare sia incoraggianti, sia molto frustranti, ricchi, cioè, di luci ed ombre fortemente contrastanti.

Tale fenomeno è facilmente riscontrabile, in particolar modo, grazie all’esame dell’ultimo rapporto pubblicato dall’Associazione, relativo ai dati del 2016.

Nello studio dell’uso globale della pena di morte, infatti, è stato possibile riscontrare, da una parte, una generale diminuzione del ricorso a questa punizione rispetto all’anno precedente, con significativa diminuzione anche dei paesi che hanno eseguito condanne, mentre, dall’altra, il numero totale delle nuove sentenze capitali è aumentato rispetto a quello dell’anno precedente, superando anche il massimo complessivo registrato nel 2014.

Inoltre, due paesi hanno abolito la pena di morte per tutti i reati e un paese l’ha abolita solo per i reati ordinari, mentre molti altri si sono mossi per restringere l’uso della pena capitale, confermando che, nonostante i passi indietro in alcuni stati, l’andamento globale si è mantenuto favorevole all’abolizione della pena di morte in quanto punizione estrema, crudele, inumana e degradante.

Nel 2016, pertanto, è stato registrato un calo del 37% del numero di esecuzioni rispetto allo scorso anno. Almeno 1.032 persone sono state messe a morte, 602 in meno del 2015, anno in cui Amnesty International ha registrato il più alto numero di esecuzioni dal 1989. Nonostante tale significativa diminuzione, il numero complessivo di esecuzioni nel 2016 si è mantenuto, però, più alto della media registrata nella decade precedente.

Va comunque precisato, al fine di riuscire ad avere un quadro maggiormente completo e fedele alla cruda realtà dei fatti, che Amnesty International riporta esclusivamente esecuzioni, condanne a morte e altri aspetti legati all’uso della pena di morte, come commutazioni o proscioglimenti, di cui è possibile ottenere ragionevole e credibile verifica. Le informazioni di cui si serve provengono da diverse fonti, inclusi dati ufficiali, notizie provenienti dagli stessi condannati a morte, nonché dai loro familiari e rappresentanti legali, rapporti di altre organizzazioni della società civile e resoconti dei mezzi di comunicazione. In molti paesi, però, i governi non rendono pubbliche le informazioni riguardo al proprio uso della pena capitale. Per quanto concerne alcuni paesi, come Bielorussia, Cina e Vietnam, i dati sull’uso della pena di morte sono classificati come segreto di stato, mentre, per paesi come Corea del Nord, Laos, Siria e Yemen, a causa delle restrizioni governative e/o dei conflitti armati, le informazioni reperibili sono state poche, se non addirittura nulle.

Per cui, con poche eccezioni, i dati di Amnesty International sull’uso della pena di morte sono da considerarsi, purtroppo, valori minimi:

quelli reali saranno certamente molto più alti!

In particolare, è necessario tener presente che, dal 2009, Amnesty International ha scelto di smettere di pubblicare le stime sull’uso della pena di morte in Cina, precisando che i dati documentabili risultano essere significativamente inferiori a quelli reali, a causa delle restrizioni di accesso alle informazioni. Da quanto disponibile, comunque, emerge chiaramente che ogni anno in Cina avvengono migliaia di condanne a morte ed esecuzioni.

Il solo Iran, poi, è responsabile del 55% di tutte le esecuzioni registrate. Insieme ad Arabia Saudita, Iraq e Pakistan, ha eseguito l’87% di tutte le sentenze capitali registrate lo scorso anno. L’Iraq ha più che triplicato il numero di esecuzioni, l’Egitto e il Bangladesh lo hanno raddoppiato. Nuove informazioni sul numero di esecuzioni in Malesia, e soprattutto in Vietnam, hanno fornito una maggiore comprensione del livello e della reale portata dell’uso della pena capitale in questi paesi.

Il numero totale di esecuzioni in Iran è comunque diminuito del 42% rispetto allo scorso anno (da almeno 977 ad almeno 567). Una significativa riduzione nell’emissione di sentenze capitali, pari al 73%, è stata registrata anche in Pakistan. Le esecuzioni sono diminuite notevolmente anche in Indonesia, Somalia e Stati Uniti d’America.

Per la prima volta dal 2006, gli Stati Uniti d’America non sono comparsi tra i primi cinque esecutori mondiali, in parte a causa dei ricorsi legali sul protocollo dell’iniezione letale e anche alla difficoltà di reperire i farmaci per le esecuzioni tramite questo metodo.

Amnesty International ha registrato esecuzioni in 23 paesi, due in meno rispetto al 2015. La Bielorussia e le autorità dello Stato di Palestina hanno ripreso le esecuzioni dopo un anno di interruzione, mentre Botswana e Nigeria hanno eseguito le loro prime condanne a morte dal 2013. Nel 2016, Amnesty International non ha registrato esecuzioni in sei paesi, Ciad, Emirati Arabi Uniti, Giordania, India, Oman e Yemen, che, invece, ne avevano eseguite nel corso del 2015, mentre non è stata in grado di confermare se siano avvenute esecuzioni in Libia, Siria e Yemen.

Per saperne di più:

https://www.amnesty.it/pena-morte-nel-mondo-rapporto-2016-17/

Nove carabinieri oggi sono stati raggiunti da misure cautelari in un’indagine su presunti reati nella zona di Massa Carrara. Quattro gli arrestati, uno in carcere e gli altri ai domiciliari.

Sono decine gli episodi di violenza che vengono contestati ai militari, in particolare pestaggi.

Dei nove carabinieri sei erano in servizio alla caserma di Aulla e tre presso quella di Albiano Magra, sempre in provincia di Massa Carrara. Secondo l’accusa, non siamo di fronte a episodi isolati, bensì i carabinieri sottoposti a indagine si sarebbero accaniti su più persone, sia italiane che extracomunitarie. “Erano metodici, sistematici” ha sottolineato il PM Giubilaro. Al vaglio degli inquirenti vi sono quasi un centinaio di episodi: uno riguarderebbe anche una prostituta che, portata in caserma, avrebbe subito abusi sessuali.

Questa è solo l’ultima di una lunga serie di reati fatti di abusi, pestaggi, soprusi, spesso torture vere e proprie, fino ad arrivare alle uccisioni di poveri disperati, operati da persone che operano e rivestono la figura dello Stato quando sono in servizio.

Pestaggi, scosse elettriche e umiliazioni sessuali sono fra le numerose accuse di abusi, si legge in un rapporto di Matteo de Bellis, che s’impegna da tempo per Amnesty International.

“I leader dell’UE hanno spinto le autorità italiane al limite e oltre il limite di ciò che è legale. Il risultato è che persone traumatizzate, che arrivano in Italia dopo viaggi strazianti, vengono sottoposte a definizioni fallaci del loro status e in alcuni casi a spaventosi abusi da parte della polizia, così come a espulsioni illegali.

Decine e decine i casi, citati nel rapporto: una donna eritrea di 25 anni ha raccontato di essere stata schiaffeggiata ripetutamente sul volto da un poliziotto finché non ha acconsentito a lasciarsi prendere le impronte.

Altri raccontano di essersi visti negare cibo e acqua. In un caso è stata negata l’assistenza medica a una donna in gravidanza che aveva già fornito generalità e le proprie impronte digitali.

In alcuni casi le detenzioni preventive superano le 48 ore. Il rapporto di Matteo de Bellis ricorda che anche oggi pur non avendo una seria legge sul reato di tortura, la legge italiana non prevede azioni coercitive per ottenere campioni fisici da individui che non cooperano.

In un altro passaggio del rapporto si legge: “Un ragazzo di 16 anni e un uomo di 27 hanno raccontato che la polizia li ha umiliati sessualmente e ha inflitto loro dolore ai genitali. L’uomo ha riferito che alcuni poliziotti a Catania lo hanno picchiato, gli hanno inflitto scosse elettriche prima di farlo spogliare e di usare su di lui delle pinze a tre punte: “Ero su una sedia di alluminio che aveva un’apertura nel sedile. Mi tenevano per le braccia e per le spalle, mi hanno stretto i testicoli con le pinze e hanno tirato due volte. Non riesco neanche a spiegare quanto sia stato doloroso.’”

In Italia si dibatte da oltre 40 anni ormai dell’introduzione di una legge seria che possa impedire tutto questo. A maggio purtroppo con l’ultima approvazione del DDL sul reato di tortura, si è di fatto prodotto aria fresca, un Decreto Legge che è stato contestato e bocciato da tutte le organizzazioni e associazioni che si battono per il rispetto dei diritti umani. Persino alcuni rappresentanti di sigle sindacali dei corpi di Polizia hanno bollato l’introduzione di questo DDL come totalmente inutile ed inefficace a prevenire e fermare il reato di tortura operato da alcuni rappresentanti delle Forze dell’ordine.

“Introdurre una legge seria sul reato di tortura è necessario”, affermava poco tempo fa Luigi Notari. Non stiamo parlando di un attivista, né d’un parlamentare, ma di un uomo in divisa. Uno “sbirro”.

Luigi Notari è stato poliziotto per oltre 40 anni. Arrivato alla segreteria nazionale del Siulp, il “sindacato unitario lavoratori polizia”, in pensione da un paio di anni. Notari da tempo ha deciso di intervenire nel dibattito aperto dalle modifiche in commissione Giustizia del Senato alla legge contro la tortura, modifiche che impongono concetti quali “reiterazione” […] “crudeltà” e “verificabile trauma psichico”.

“E’ necessario rassicurare le persone e sancire un nuovo patto democratico fra le forze dell’ordine e la popolazione” affermava poco tempo fa prima dell’approvazione del DDL. A nulla sono valsi il suo impegno e i suoi appelli; nel 2017 continuiamo adessere uno Stato facente parte dell’Unione Europea che non ha una serie legge per prevenire il reato di tortura.

In una recente intervista Notari ha affermato che le posizioni oltranziste del sindacato di Polizia Sap contro l’introduzione del reato di tortura non rappresentano la posizione diffusa tra la maggior parte degli agenti, che da una parte sono obbligati dallo Stato stesso ad operare in condizione di stress e pressione psicologica, e dall’altra sono stanchi di essere affiancati a colleghi che operano in nome dello Stato tradendo tutti i principi fondamentali del rispetto dei diritti umani. “Una maggioranza di agenti” come affermava Notari, “che ad oggi però è troppo silenziosa.”

Boicottando persino il testo della Convenzione di Ginevra, sostiene Notari: “La polizia dimostra uno spirito revanchista che fa male alla democrazia. È una reazione da appartenenti a un corpo e non da tutori della legge”.

Sì, avete letto bene, la Convenzione di Ginevra, perché l’alta Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per le violenze alla scuola Diaz e per non aver introdotto il reato nel codice penale, come prevede la Convenzione Onu dal 1984. Un Parlamento, quello italiano, che ha fatto di tutto pur di non tener fede agli impegni presi, approvando nel mese scorso un impresentabile DDL che non tocca nessuno dei punti per cui l’Italia era stata richiamata.

A questo punto stando così le cose, la maggioranza degli agenti dei vari corpi di Polizia, “finora rimasta troppo silenziosa”, come affermava Notari, per lo meno quella maggioranza che sente operare di nel rispetto della legge e dei diritti dei propri cittadini, dovrebbe distinguere con forza la propria posizione da quei colleghi che sempre più spesso abusano della propria divisa, del proprio ruolo e funzione, perché questi colleghi, sebbene apparentemente operino al loro fianco, in realtà con il loro comportamento infangano tutti gli appartenenti ai corpi di Polizia.  Una maggioranza che dovrebbe far sentire più forte la propria voce. Ciò quantomeno perché non siano dichiarati moralmente e tacitamente d’accordo con tutti quei casi dove i più elementari diritti delle persone vengano abusati e calpestati.

Personalmente sono convinto di quello che in molti affermano, ovvero che seppur siano tanti i casi di abuso delle Forze di Polizia, che si tratti di mele marce da isolare dal resto delle Forze dell’Ordine. Sono convinto che ancora oggi nonostante il moltiplicarsi dei casi siano molte di più le brave persone che rivestono una divisa onorandone il ruolo, rispetto a quelle che invece la infangano. Proprio in nome di questa convinzione, è adesso che la voce di chi mela marcia non lo èdovrebbe farsi sentire forte e chiara. Difendendo la propria divisa e i valori ad essa legati, chiedendo con forza che le mele marce vengano punite alla stessa stregua di un normale cittadino che compie un crimine, con la vile aggravante però che tale crimine viene commesso in una condizione privilegiata, una condizione di forza, quasi d’intoccabilità garantita solo dall’indossare una divisa nel nome e per conto dello Stato.

A luglio dell’anno scorso durante una manifestazione a Taranto, dove a manifestare contro le allora scelte del governo sull’Ilva, c’erano gli abitanti del posto, colpiti a migliaia dai tumori per via dell’emissioni inquinanti dell’Ilva, a un certo punto un poliziotto in assetto antisommossa, mandato a tenere sotto controllo la manifestazione, si ricordò il suo essere umano prima ancora che poliziotto. Si abbracciò commosso con Elena, una mamma che portava al collo un cartello con un hashtag, #siamotutti048,  il codice di esenzione del sistema sanitario per i malati di cancro.  Il poliziotto la strinse forte  a sé e si commosse mentre tutti intorno urlavano.  Elena disse al poliziotto “Ognuno di noi ha un caso in famiglia, aspettiamo da anni un nuovo ospedale. Qui i reparti chiudono, manca l’oncoematologia pediatrica e per diversi esami bisogna rivolgersi fuori città, Io lo so che siete anche voi con noi, lo so. Perché siete figli, padri e fratelli di questa terra, siete poveri cristi come noi, come gli operai dell’Ilva portate il pane a casa” Così parlò Elena all’agente di Polizia.

Sono queste le cose che dovrebbe sempre cercare di ricordarsi un rappresentante delle Forze dell’Ordine quando compie il proprio servizio. Rammentarsi anzitutto, come fece questo collega che abbracciò questa mamma, il proprio essere umano, prima ancora che poliziotto, carabiniere o altro.

Così come spero possano essere d’ispirazione le parole di Luigi Notari che ha vestito una divisa per oltre 40 anni. “Io sono stato educato in un altro modo. I miei superiori mi hanno insegnato che una persona in stato di fermo, indifesa, consegnata alla nostra tutela, non si tocca. Mai. A volte anch’io ho rischiato di sbagliare, ma sono stato richiamato in tempo. Fermato dai miei colleghi più lucidi in quel momento, perché meno stanchi o meno coinvolti emotivamente»” [….] “È un meccanismo di autotutela consolidato e necessario, anche i controllori devono essere controllati.” Il perché servirebbe una vera legge sulla tortura, non questo abuso nell’abuso prodotto con l’ultimo DDL, lo si può trovare nelle parole di Notari. “Perché chi ha paura del controllo, chi si oppone al reato di tortura, dimostra a sua volta di non potere e non sapere controllare il suo ufficio, i propri agenti nell’esercizio delle loro funzioni”.

 

per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza

ewApprendiamo spesso, da notiziari più o meno telegrafici o da servizi giornalistici marcatamente enfatici, che, in seguito ad un triste evento, i parenti di un qualche poveretto (spesso un bambino), avrebbero dato il consenso per la “donazione degli organi” del loro congiunto. La notizia o viene fatta scivolare via, quasi come mero episodio di routine, oppure viene ben sottolineata al fine di innalzare la scelta della donazione a modello esemplare di comportamento, a paradigma di generosità e sensibilità civile.

Mai e poi mai ci è dato di imbatterci in qualcuno a cui sia consentito sollevare un seppur minimo dubbio, esprimere una perplessità, magari lieve lieve, cauta e blanda. Mai e poi mai qualcuno che si dedichi a spiegarci (senza finalità apologetico-propagandistiche) cosa sia effettivamente la cosiddetta “morte cerebrale”, quando essa sia riscontrabile, quando e come, pertanto, sia possibile effettuare il prelievo degli organi, secondo quali criteri, ecc. Solo fiumi di potenti e belle emozioni, nel deserto sconfinato del generale non sapere …

Ci si limita a dire che tizio sfortunatamente “non ce l’ha fatta” e che, quindi, i parenti hanno encomiabilmente concesso l’autorizzazione a procedere all’espianto degli organi … cosa che consentirà a tanti individui di avere una nuova vita, ecc.

Nessuno si preoccupa di renderci conto dei numerosi e considerevoli aspetti problematici insiti nel concetto di morte cerebrale. Nessuno che ci spieghi o ci ricordi che il morto cerebrale non è un gelido cadavere, bensì un organismo con il cuore che batte e con gli organi ben irrorati dal sangue. Nessuno che si preoccupi di informarci del fatto che, secondo la legge italiana vigente, la morte cerebrale può essere dichiarata solo a condizione che “tutte le funzioni cerebrali” siano indubitabilmente cessate. E nessuno ci fa notare che non è poi così semplice capire come sia possibile avere certezze assolute in merito a tale eventualità. Chi può dire, infatti, di conoscere tutte (proprio tutte) le nostre funzioni cerebrali? Non ci viene forse continuamente insegnato, dai più autorevoli esperti della materia, che l’organo ancora più inesplorato è proprio il nostro meravigliosamente sconfinato cervello? E chi può ritenersi davvero in grado di possedere   (e di saper correttamente applicare) metodi di accertamento in merito all’esserci o meno di tali funzioni, con validità assoluta e senza alcuna possibilità di errore? Errore che comporterebbe - fatto non certo proprio irrilevante - di trattare da morto un paziente in gravi condizioni (quindi soltanto probabilmente moribondo), provocandone, di conseguenza, la vera morte (quindi uccidendolo).

Chi potrebbe asserire, con apodittica certezza, ad esempio, che, negli individui dichiarati cerebralmente morti, sia del tutto assente qualsiasi forma, seppur minima, di attività intellettiva? E stiamo parlando - occorre ribadirlo con insistenza - di organismi con cuore pulsante, sangue circolante, polmoni (magari sostenuti da ausilio meccanico) respiranti. Non certo di organismi in via di disfacimento, né tantomeno affetti da “rigor mortis”.

Ma chi potrebbe escludere che, pur avendo constatato, per qualche ora soltanto, il fenomeno dell’encefalogramma piatto (che dovrebbe fornirci le garanzie necessarie per poter considerare totalmente e definitivamente distrutto l’apparato cerebrale), sia del tutto impossibile un recupero della funzionalità? E chi potrebbe ritenere inattaccabile la pretesa di considerarsi perfettamente in grado di registrare in modo oggettivo l’esserci ancora o il non esserci più (anche in forma ridottissima) di tutte le facoltà cerebrali?

In altre parole, come possiamo decretare (senza il sospetto del benché minimo margine di errore) che quell’organismo, all’apparenza soltanto addormentato, immerso nella condizione di coma profondo (condizione che un tempo veniva chiamato “coma dépassé”) sia davvero del tutto privo di vita mentale, sia del tutto svuotato di coscienza, ovvero soltanto un respirante simulacro di vita? Soltanto, cioè, un appetibile serbatoio di organi funzionanti, benché non più in alcun modo “diretti” e coordinati dal proprio cervello, irrimediabilmente “fuori uso”?

In definitiva, chi potrà mai davvero garantirci, al di là di qualsiasi possibile ragionevole e doveroso dubbio, che la vera morte, quella sì incontestabilmente irreversibile, non sia quella prodotta dalle mani del chirurgo che, armato di bisturi, preleva, da un organismo (che certamente morto non è) organi vivi e palpitanti, che, proprio perché vivi, potranno continuare a vivere in altri corpi … facendo vivere i corpi degli altri?

E se provassimo tutti, lasciando da parte ogni sorta di partito preso (in particolare la convinzione secondo cui, siccome trapiantare organi aiuterebbe a continuare a vivemhklre e a vivere meglio tante persone, tutto, di conseguenza, andrebbe fatto per agevolare tale pratica, evitando, in particolar modo, tutto quello che potrebbe frenarla), a porci, in totale onestà, qualche ulteriore insidiosa domanda?

La mancata percezione, ad esempio, della manifestazione di funzioni cerebrali quanto può essere ritenuta prova incontrovertibile della loro assenza totale e definitiva? Ovvero: il manifestarsi coincide totalmente con l’essere e viceversa?

Non potremmo essere noi semplicemente non in grado di percepire la loro presenza? Non potrebbero, dette funzioni, essere entrate in una fase di latenza o semplicemente essere tanto flebili da non poter essere registrate? Non potrebbero i nostri attuali criteri risultare fallaci? Non potrebbe la tecnologia di cui attualmente disponiamo risultare inadeguata? E, in ogni caso, chi potrebbe darci la certezza che la coscienza sia qualcosa di pienamente coincidente e dipendente dalle (da noi percepibili) funzioni cerebrali? E quanto potremmo considerare il credere nell’indiscutibilità di tale corrispondenza come qualcosa di correttamente sostenibile in sede strettamente scientifica? Non si potrebbe, infatti, pensare che, in questo modo, il sapere scientifico verrebbe ad arrogarsi indebitamente il diritto di invadere il territorio della metafisica … facendosi esso stesso metafisica?!

Quanto ci possiamo, noi umani, sentire in diritto di mettere le mani (nonché bisturi e sega elettrica) sul corpo caldo di un nostro simile, soltanto perché lo abbiamo, sulla base di criteri e protocolli convenzionali, strumentalmente ideati, mutevoli e ovviamente opinabili (differenti, tra l’altro, da un paese all’altro!), classificato come “cadavere”, ovvero espulso dalla “famiglia umana”, retrocesso a “cosa”, non più “res cogitans” ma “res extensa”?

E, in particolare, mi chiedo, come mai il mondo cattolico, perlopiù appassionato sostenitore di donazioni e trapianti (anche se sono molte le autorevoli e ignorate voci critiche dissenzienti), non si sente moralmente obbligato a meditare con attenzione e serietà sulle parole terribili pronunciate dall’allora cardinale J. Ratzinger?

                             “Siamo testimoni di un’autentica guerra dei potenti contro i deboli, una guerra che mira all’eliminazione degli handicappati, di coloro che danno fastidio e perfino semplicemente di coloro che sono poveri e inutili, in tutti i momenti della loro esistenza. Con la complicità degli Stati, mezzi colossali sono impiegati contro le persone, all’alba della loro vita, oppure quando la loro vita è resa vulnerabile da una malattia e quando essa è prossima a spegnersi.

Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma irreversibile, saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d’organo o serviranno, anch’essi, alla sperimentazione medica (cadaveri caldi).”

O su quelle successivamente pronunciate da Giovanni Paolo II?

                       “Del resto, è noto il principio morale secondo cui anche il semplice dubbio di essere in presenza di una persona viva già pone l’obbligo del suo pieno rispetto e dell’astensione da qualunque azione mirante ad anticipare la morte.”*

Come possono le alte gerarchie ecclesiastiche non avvertire l’evidentissima monumentale contraddizione che le vede scendere pugnacemente in campo a difesa di feti ed embrioni, a scagliare anatemi contro un povero Welby o un papà Englaro, e, al contempo, abbandonare nelle mani delle équipes trapiantistiche i cuori pulsanti e i polmoni respiranti di individui che si suppone (in palese contrasto con la propria stessa millenaria speculazione teologica, oltre che con il più elementare buon senso) oramai abbandonati dalla propria coscienza e, perché no, da quella cosa che una volta non si aveva vergogna di chiamare ANIMA? Quella cosa misteriosa, cioè, che si è fermissimamente pronti ad attribuire anche ad un minuscolo embrione esistente da poche ore, mentre la si nega, con altrettanta (quanto ingiustificata) fermezza al corpo (vivo) di una persona dichiarata cerebralmente morta … solo da qualche ora …

*Mie le evidenziazioni.

PER SAPERNE DI PIU’:

Roberto de Mattei (a cura di), Finis Vitae. La morte cerebrale è ancora vita?, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.

R.Barcaro, P.Becchi, P.Donadoni, Prospettive bioetiche di fine vita. La morte cerebrale e il trapianto di organi, Franco Angeli, Milano 2008.

P.Becchi, Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica giuridica, Morcelliana, Brescia 2008.

R.Fantini, Vivi o morti? Morte cerebrale e trapianto di organi: certezze vere e false, dubbi e interrogativi, Efesto, Roma 2015.

www.antipredazione.org

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