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Ho da poco riletto il mio articolo su "Accordi di cambio e speculazione: spunti per un nuovo approccio" (Rivista bancaria-Minerva Bancaria n°5 settembre-ottobre 1993) e ho realizzato che l'approccio ivi individuato è perfettamente applicabile al percorso lungo e faticoso che dovrebbe, il condizionale è d'obbligo, portare alla nascita di una valuta unica dei paesi BRICS (i cinque originari più i sei che hanno successivamente aderito) e alla preventiva nascita di una banca centrale adeguatamente fornita di riserve auree e valutarie.
Per chi non ricordasse gli sconvolgenti eventi del giugno-luglio 1992, ricordo che, in conseguenza dell'attacco del finanziere George Soros e della flotta di operatori che a lui si erano accodati, la lira italiana e la lira sterlina furono, dopo una strenua difesa delle rispettive banche centrali, costrette a svalutare e ad abbandonare temporaneamente il Sistema Monetario Europeo, salvo rientrarvi successivamente ad un allargamento del margine di fluttuazione che venne fissato al 15 per cento.
Fu proprio quella svalutazione, unita ai movimenti al ribasso conseguenti alla accentuata instabilità politica del 1995 a mettere in discussione la possibilità dell'ingresso della nostra valuta nel gruppo di partenza dei paesi che avrebbero dato vita sin dall'inizio all'euro e che, comunque, influirono fortemente sul valore della lira al momento della fissazione delle parità fisse e irrevocabili tra le singole dodici valute partecipanti e l'euro.
Nei miei quattro articoli sui danni provocati dall'ingresso "prematuro" nell'euro pubblicati sul Nuovo Giornale Nazionale non intendo tornare se non per dire che si trattò dell'ultima e significativa svalutazione della nostra moneta e che la gestione politica della transizione (Governo Berlusconi) determinò per tutti coloro che subivano e non determinavano i prezzi un significativo e mai recuperato impoverimento.
Mentre tutto quanto sovra menzionato è Storia, un importante gruppo di Paesi, Russia, Sudafrica, Cina, India e Brasile più altri cinque nuovi aderenti ed altri in lista di attesa si accingono, almeno nelle intenzioni dichiarate, a percorrere l'impervia via che porta alla realizzazione di una banca centrale unica e all'emissione di una valuta, con l'assistenza dello stesso esperto statunitense che si occupò della realizzazione dell'euro.
Ora sono a tutti evidenti le maggiori diversità tra i Paesi partecipanti rispetto a quelle esistenti tra le nazioni che dettero vita all'euro, nazioni che avevano alle spalle decenni di convivenza nelle istituzioni economiche e politiche nate negli Anni Cinquanta e valute che da lungo tempo coesistevano più o meno pacificamente nei sistemi monetari via via succedutisi, anche se ritengo che le differenze sul piano dei rispettivi sistemi politici pesino di gran lunga di più di quelle relative ai dati economici.
Nel frattempo, questi Paesi non sono stati con le mani in mano e attraverso la banca cinese AIIB hanno sviluppato un sempre più intenso volume di interscambi regolati in prevalenza sotto la forma del baratto di merci ma non escludendo scambi espressi in valuta.
Lasciando questo gruppo di Paesi alle prese con il lungo percorso che potrebbe concludersi nella nascita di una vera e propria banca centrale e di una valuta comune, assistiamo sul mercato dei cambi dominato, almeno per ora, dal dollaro, dall'euro, dallo yen e dalla sterlina inglese ad un difficilmente sostenibile clima di tensione dovuto al fatto che ci si trova in una situazione di avanzi e disavanzi strutturali che non viene appieno riflesso nelle quotazioni delle valute dei rispettivi paesi e questo richiama, in particolare, alla mente uno dei più noti accordi di cambio, quello denominato del Plaza (dal nome dell'albergo di Manhattan dove si svolsero gli incontri) e che portò il Giappone ad accettare una rivalutazione dello yen sino a quota 100 nei confronti del dollaro statunitense.
Lo scivolone estivo dello yen sino ed oltre quota 160 va evidentemente in tutt'altra direzione e, anche sotto il profilo dei rispettivi tassi ufficiali di interesse, è facile notare che in presenza di un taglio dei tassi statunitensi di mezzo punto percentuale e all'annuncio de facto di ulteriori tagli per almeno un punto complessivo si è assistito al rafforzamento dello yen nei confronti del dollaro e dell'euro, un movimento certamente sgradito altre principali aree valutarie e che non va certo in direzione di una maggiore stabilità e prevedibilità del mercato dei cambi. È dovuto alla inazione della banca centrale giapponese che non adegua i tassi ad una inflazione che tocca ormai il tre per cento.
Gran parte delle imprese agricole italiane sta attraversando un momento di grande difficoltà che si ripercuote sul sistema agroalimentare. Sono diverse le motivazioni che hanno spinto i trattori a protestare in tutta Italia e a marciare verso Roma, ma l’obiettivo primario è quello di far sopravvivere il mondo agricolo nonostante le difficoltà. Le proteste ebbero inizialmente luogo in Germania per un problema di bilancio legato al taglio dei sussidi al carburante, poi la problematica diventò un fenomeno continentale. Nel corso degli ultimi anni migliaia di aziende hanno chiuso l’attività e tante altre sono allo stremo. In 15 anni, tra il 2005 e il 2020, 5,3 milioni di aziende agricole in Europa hanno chiuso i battenti.
Nello stesso arco di tempo in Italia, le imprese del settore si sono dimezzate: se si considera l’anno 2022, sono 3.623 le aziende, in gran parte piccole e piccolissime, che hanno dovuto chiudere l’attività. I problemi dell’agricoltura fondano le loro radici negli anni 90 con la questione delle quote latte, dove il governo con la complicità dei sindacati agricoli in primis la Coldiretti, istituì a livello nazionale un sistema, dove le aziende agricole se superavano un certo quantitativo venivano multate. Inoltre a seguito dei finanziamenti europei delle quote latte, si scoprirono vicende poco chiare e a tal proposito si aprirono delle inchieste.
Proprio per chiarire una serie di problematiche complesse per chi non è addetto ai lavori, abbiamo incontrato Giovanni Fava Vice Presidente del CRA. Ci puoi spiegare Giovanni il vostro intento come CRA?
E’ dal 2007 che esistiamo come CRA, “Comitati Riuniti Agricoli” e posso testimoniare le difficoltà che versa da anni l’intera categoria. Purtroppo ogni decisione adottata negli ultimi trent’anni è andata sempre contro l’Agricoltura italiana.
Molte aziende zootecniche che producevano latte e si parla di oltre l’80%. negli anni hanno chiuso. Sono dati allarmanti, in Italia non abbiamo più mucche da latte, così il latte di tutta Europa viene portato in Germania dove viene disidratato, reso in polvere e poi importato nuovamente nei paesi dove occorre per essere reidratato. Con questa procedura si fanno i formaggi. Eppure la produzione di latte e formaggi italiani come il Parmigiano Reggiano negli anni non è mai diminuita.
Voi avete criticato con decisione nel passato il piano agricolo del Corridoio Verde dove si dava la facoltà ai paesi del nord africa di produrre e importare in Europa.
Nel 2010 il governo istituì il “Green Corridor”. ossia il Corridoio Verde. La politica ha sempre dimostrato poca attenzione per la categoria e c’è sempre stata l’incapacità dei politici di turno di prendere una posizione chiara, quando si decise di coltivare prodotti agricoli nel Nord Africa per poi farli arrivare qui da noi. Era un piano che prevedeva degli aiuti a paesi quali Tunisia Marocco e soprattutto Egitto per la coltivazione in loco, per importarli poi in Europa attraverso il corridoio italiano. Questa collaborazione si effettuò con la compiacenza delle Coldiretti, un Sindacato privato agricolo italiano che non abbiamo mai visto dalla nostra parte e per questa ragione non apprezziamo assolutamente.
Per essere chiari il “Green Corridor”. che doveva durare inizialmente diciotto mesi, è ancora in atto nel 2024. Ad esempio un prodotto quale le zucchine dopo essere state raccolte in Marocco, vengono messe dentro delle grandi casse, imbarcate e portate qui da noi. Una volta arrivate a Civitavecchia e scaricate sono poi inserite su un cassettino più piccolo. Questa operazione è considerata un ciclo di lavorazione che fornisce la possibilità al prodotto di entrare nelle nostre Cooperative anche dell’Agro Pontino. Con questo semplice artificio gli viene conferito l’Etichetta di prodotto italiano. Ecco l’inganno prima a noi agricoltori e poi a voi consumatori.
Dietro a questo commercio si nasconde una problematica ancora più grave vero?
Noi agricoltori italiani siamo bravissimi a produrre un prodotto integro e con disciplinari molto severi come è giusto che sia, utilizzando pesticidi di origine biologica o con tecniche agronomiche che aiutano alla difesa da malattie. Ci dispiace pertanto dover competere con prodotti provenienti dal corridoio verde dove utilizzano ancora il famoso DDT che all’epoca era usato per debellare la malaria. Qui in Italia viene raccolto un campione e poi analizzato e se non rientra nei parametri di presenza di pesticidi non ti viene pagato ed è giusto che sia così.
I prodotti che vengono importati invece si basano tutto su una autocertificazione del produttore in base al quale il produttore dichiara che il prodotto è salubre e genuino. Il rapporto con i paesi del Nord Africa la consideriamo una concorrenza sleale, in quanto da loro, la manodopera dell’operaio costa tra i 12 euro e gli 80 euro. Qui da noi inoltre abbiamo a che fare con costi di produzione elevatissimi a causa del prezzo del gasolio agricolo che tende ad aumentare e arriverà all’apice a gennaio 2026.
I fondi sono effettivamente stanziati dalla Comunità Europea ma probabilmente è a valle che si verifica qualche problema
Il settore finanziato di più dalla Comunità Europea è l’Agricoltura con oltre 350 miliardi di Euro dove si calcolano 45 miliardi ogni anno solo all’Italia. Il problema è che negli altri paesi la problematica agroalimentare è trattata da sindacati statali mentre in Italia tutto il settore è gestito da Sindacati privati tra i quali la più importante è la Coldiretti, che a nostro parere non opera correttamente e non tutela i nostri interessi. Vogliamo parlare inoltre delle situazioni poco chiare riguardanti i PSR i Piani di Sviluppo Rurale che erano fondi dati alle imprese agricole per modernizzare e rinnovare l’azienda ed il permesso di soggiorno per gli extracomunitari che ormai viene chiamata caporalato?
Giovanni Fava vedi un futuro migliore per l’Agricoltura o secondo te la situazione andrà sempre più a deteriorarsi ?
Noi del CRA è dal 2007 che esistiamo e negli anni abbiamo effettuato numerose proteste sempre pacifiche. Ci hanno avvicinato tantissime persone e consumatori, noi siamo coloro che organizzarono la prima manifestazione in piazza nel 2013 dove ci indicarono con il nome di “forconi”. Dai dati delle questure tra il 2013 e il 2014 abbiamo portato in piazza 9 milioni e 700 mila persone. Nei nostri giorni a mio avviso i dimostranti dalla nostra parte sono ancora di più, perché dopo 11 anni sono aumentati i disagi così come i problemi e si è aggravata ancor più la disoccupazione. Nell’ultima manifestazione ci hanno avvicinato tanti cittadini di diversa estrazione e stanno tutti male.
Giovanni Fava |
Come si fa a vivere con uno stipendio fermo a vent’anni fa, con una spesa comune che è aumentata di quattro volte? Dal 2013 la contestazione è aumentata sempre più, in quanto i problemi sono maggiorati, così come la disoccupazione. Purtroppo non prevedo un futuro roseo per l’Agricoltura e neanche per i consumatori. Noi intendiamo sempre collaborare con le forze dell’ordine, ma ho timore che un giorno la pazienza possa finire. I nostri giovani nel nostri paese probabilmente non hanno più futuro. Io ho un figlio che studia all’Università e mi dice: papà io l’Italia la vedo in futuro ormai solamente per venirci in vacanza. Sinceramente come facciamo a dare loro torto? Hanno perfettamente ragione.
Giovanni cosa ne pensi del Piano Mattei varato recentemente dal Governo?
E’ stato inferto un ulteriore danno all’agricoltura italiana. Con il piano Mattei si intende finanziare con cinque miliardi di Euro la produzione di 36000 ettari in Algeria per produrre grano e cereali. La produzione si effettuerà in Algeria finanziata dall’Italia e sarà gestita da “Bonifiche ferraresi”, un consorzio in mano alla Coldiretti. Hanno detto che solo un 30% di questi prodotti alimentari saranno importati in Italia, ma noi ne dubitiamo. Intanto sono state approvate misure che vietano di piantare il grano in Lombardia e Puglia che in Italia sono le regioni dove si produce più grano.
Il nostro grano italiano non può essere prodotto più di tanto e per questa ragione hanno detto “ lo potete piantare ma non vi diamo la Pac” cioè gli aiuti che sono concessi dall’Europa. Il grano in ogni caso ce lo pagano 20 centesimi al Kg e per arrivare al prezzo del pane che nella zona di Milano costa 8 euro al Kg c’è una inspiegabile differenza. Da questi dati si può dedurre che più di qualcosa non funziona. Quest’anno poi con la siccità di grano se ne è prodotto 15 quintali per ettaro che è pochissimo, quindi non sono state coperte neanche le spese.
Noi come CRA abbiamo subito delle violenze e degli abusi di stato, proprio perché diciamo la verità. Il nostro Presidente Danilo Calvani è stato sfrattato da casa senza sentenza, senza sfratto e senza una vera motivazione. La scelta scellerata di servirsi delle Cooperative è stato un grave danno per tutti noi che lavoriamo nell’ambito dell’Agricoltura. Oggi la Cooperativa ti dà un acconto e poi ti dice che (in base a quanto sarà venduto il prodotto), ti pagherà alla fine. Questo è qualcosa di assurdo, perché ad esempio il Kiwi ha otto mesi di frigoconservazione, il che vuol dire che se si raccoglie ad ottobre si è liquidati a giugno. A noi il Kiwi viene pagato 40 centesimi e voi lo pagate 4 euro o 6 euro al Kg. La finanza oggi è entrata in queste Cooperative, ha ottenuto l’accesso agli atti e sta indagando. Al momento in quanto persona informata ai fatti non posso dire di più.
Grazie Giovanni Fava
Dal 5 di agosto scorso, il giorno in cui la borsa giapponese (indice Nikkei 225) ha perso il 12,5 per cento la vera e propria diga eretta dalle maggiori banche e corporation del mondo “occidentale”, tramite massicce operazioni di buy back (riacquisto di azioni proprie debitamente autorizzate in sede di assemblea) sono riuscite solo per un breve lasso di tempo a frenare il brusco declino dei corsi azionari che nelle ultime tre sedute ha assunto sempre più l’aspetto di una frana.
Solo ieri i maggiori indici statunitensi hanno registrato perdite stellari con i titoli del settore tecnologico che hanno perso diverse centinaia di miliardi di dollari di capitalizzazione ma che restano, esemplare il caso di NVIDIA, a multipli tra utili e capitalizzazione totalmente insostenibili, come ben ha notato in un suo commento il solitamente cauto Professor Romano Prodi.
Ma cali altrettanto significativi hanno riguardato la star indiscussa della logistica, Amazon, il settore delle grandi banche a stelle e strisce e via discorrendo.
Ne meno preoccupante si presenta la situazione nel mercato azionario nipponico che in sole tre sedute ha perso oltre il sei per cento e si avvicina pericolosamente allo stesso livello toccato il 5 agosto.
Molto meno inquietanti sono i dati relativi alle major dei listini dell’area dell’euro o della stessa Gran Bretagna, anche perché non si erano registrate da noi le vere e proprie esagerazioni vissute nel settore Hi Tech statunitense e perché i multipli tra utili e capitalizzazione sono ben più modesti se non modestissimi nel settore bancario italiano, comunque ben provvisto di piani di buy back miliardari dovuti in larga parte ai profitti stellari legati maxi margini di interesse. Ma questo non ci esime dal soffrire, seppur in minor misura, dell andazzo generale (si può leggere in tal senso il pressing della BCE affinché le banche europee siano meno generose nella distribuzione degli utili agli azionisti e aggiungano un di più alle già ingenti riserve previste nell’ultima versione degli accordi di Basilea).
Ho cercato invano nelle edizioni online dei maggiori quotidiani italiani e della stessa ANSA notizie del massacro di ieri e degli ultimi giorni ma non ne ho trovato traccia.
Così come sono state ridotte a poco più che trafiletti le notizie relative alle massicce uscite del fondo di Warren Buffet da Apple, Bank of America e da tante altre società del Dow Jones Industrial, giungendo ad un tale livello di liquidità che porta il suo fondo ad essere il primo detentore (con qualcosa come 400 miliardi di dollari di Treasury Bills a un mese) smobilizzo che ha già effettuato con successo quando erano in vista le ultime quattro crisi finanziarie, Tempesta Perfetta assolutamente inclusa, insomma un vero e proprio sell signal di certo non sfuggito ai suoi principali competitor e che ha portato là capitalizzazione del suo fondo alla ragguardevole cifra di mille miliardi di dollari, primo caso per una società non tecnologica e, come si è detto, quasi del tutto risk free.
Per chi ne avesse la curiosità, rinvio agli articoli redatti nella calda estate del 2023 e, più in particolare, alla lunga intervista che ho rilasciato a Virgilio Violo sul canale YouTube della Freelance International Press.
Lascerei protagonisti e fatti della Tempesta perfetta a quella riunione a porte chiuse nell'hotel esclusivo di Manhattan perché penso che quanto avvenne quella sera non fu che il prodromo delle decisioni che portarono al "sacrificio" di Lehman Brothers sull'altare della fine del principio del Too Big to Fail, un sacrificio che coinvolse pure altre entità del panorama finanziario a stelle e strisce, rinviando chi è interessato alla letture delle prime annate del "Diario della crisi", il mio blog di Google che godeva di un grande seguito alla luce del semplice fatto che prediceva, a volte con largo anticipo come nel caso di Lehman, quanto poi sarebbe più o meno puntualmente avvenuto (diariodellacrisi.blogspot.com).
Mi sembra, invece, utile tornare alla fase invero convulsa che intercorse tra le dimissioni alquanto "spintanee" di Antonio Fazio e la nomina di Mario Draghi quale Governatore della Banca d'Italia, ma, e forse soprattutto, sui padrini dichiarati e quelli soltanto e faticosamente intuibili di una nomina che, come in quel caso, non andava a premiare una luminosa carriera in quel di Via Nazionale.
Ovviamente l'indicazione del nome del prescelto era nelle prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri, all'epoca Silvio Berlusconi (tralascio volutamente i passaggi istituzionali che rendono tale nomina effettiva perché del tutto ininfluenti), ma vi fu un altro personaggio politico, fortemente assiso in quel della Prima Repubblica che ebbe tre anni dopo a rendere nota sia l'influenza sulla decisione di Berlusconi che il forte pentimento per quel suo endorsment e, cioè il più volte ministro e due volte premier nonché Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga.
Questo personaggio, dichiaratamente interno alla struttura di Stay Behind, per sua stessa ammissione utilizzatore dei servigi di Licio Gelli anche se per una causa meritoria quale quella del rintracciamento di desaperecidos di origine italiana in Argentina, grandissimo amico del Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Armando Corona, nella già citata intervista a Luca Giurato nella popolare trasmissione Uno mattina del 2008, si attribuì un ruolo determinante nella decisione salvo poi aggiungere che di poche sue azioni si era pentito come di quella, definendo Draghi "un vile opportunista" e sottolineando i suoi legami con "i suoi amichetti" di Goldman Sachs, nonché gettando palate di fango sulla sua opera nel settore delle privatizzazioni avvenute nel corso degli anni Novanta e ventilando che avrebbe potuto toccare anche le aziende di un settore al quale il Presidente Emerito era particolarmente affezionato che sono quelle del settore della Difesa e dintorni.
La quasi contestualità dell'intervento a gamba tesa di Cossiga, come altre iniziative verbali o meno, viene ascritta dai più ad aspetti caratteriali al limite del patologico con il forte impegno di Draghi nel fronteggiare gli alti marosi della Tempesta Perfetta, tesi che poco condivido anche perché vengo da una terra dove si dice che Pulecenella pazziando pazziando ricette a verità, ma credo invece che i suoi espliciti riferimenti agli incontri sul panfilo Britannia (gentilmente prestato dalla casa regnante britannica) fossero tutt'altro che casuali e lasciassero intendere che i veri padrini della nomina di Mario Draghi al vertice di Bankitalia fossero gli stessi con i quali aveva, efficientemente aggiungo io, per privatizzare banche, industrie dei settori più disparati e non mi soffermo sull'elenco sterminato di aziende di ogni ordine e grado efficacemente riportato nel breve saggio della ricercatrice che ho avuto modo di citare in una delle puntate precedenti.
Pur essendo certo che non si arriva a vendere "roba" per qualcosa meno di 200 mila miliardi delle vecchie lire non essendo riconosciuto come valido e affidabile interlocutore dalle grandi e grandissime banche d'affari è, tuttavia, altrettanto certo che quello di Draghi fosse un nome, come si diceva ai tempi del Sessantotto, conosciuto al potere e pressoché sconosciuto alle "masse".
Non dimenticherò mai quello che ebbe a dirmi il mio capo all'ufficio studi della BNL, l'ex direttore del Sole 24 Ore e vicedirettore del Corriere della Sera ai tempi di Di Bella, Alberto Mucci, a proposito di quel Carlo De Benedetti che era allora un mio idolo, quasi come poi lo sarebbe divenuto Warren Buffett, definendolo spietato e senza scrupoli, pur avendo il suo numero personale diretto in un'agenda nella quale erano presenti tutte le persone che allora contavano nel panorama economico italiano.
E' peraltro evidente che l'idea che la gigantesca finanza globale fosse un gigante con i piedi di argilla non era, in quella fine di dicembre del 2005, nota soltanto in Goldman Sachs, era presente all'attenzione del Gotha della finanza mondiale, così a quell'antagonista storico di Berlusconi e al suo braccio operativo in politica, intendo Carlo De Benedetti e Romano Prodi, il che induce a ritenere che la nomina di Draghi avesse l'avallo sia del Governo che dell'opposizione, con i rispettivi punti di riferimento nella finanza nazionale e internazionale.
Del sollievo dei colleghi Governatori delle banche centrali al di là e al di qua sia dell'Oceano Atlantico che di quello Pacifico ho già avuto modo di parlare, un sollievo che si è presto tradotto nella decisione pressoché unanime dei suoi nuovi colleghi di investirlo della presidenza del comitato (questo comitato cambierà denominazione nel corso della crisi finanziaria ma avrà sempre alla presidenza Mario Draghi) e, risolte in breve tempo le beghe legate alla ristrutturazione di Bankitalia, Draghi si dedicherà a questo gravoso compito in modalità full immersion.
Come sta facendo in questi mesi (per la precisione dell'autunno del 2023), Warren Buffet e come lui molti altri grandi investitori stanno facendo esattamente quanto fecero nei mesi precedenti l'avvio della Tempesta Perfetta, e cioè stanno trasformando i loro investimenti azionari in liquidità, per lo più investita in titoli a brevissimo termine, così come ora ed allora le grandi Investment Bank e le banche più o meno globali stanno invertendo le loro posizioni, lasciando i piccoli investitori in balia della scarsa attitudine ad adottare efficaci sistemi di take profit e di disinvestimento in presenza di predeterminati livelli di perdita.
Respingendo la tentazione di fare un salto nel presente discutendo del voluminoso rapporto di Mario Draghi sulla competitività dell'Unione Europea rispetto al gigante statunitense e a quello (alquanto ammaccato in verità) cinese, cercherò di concentrarmi nella prossima puntata sulla crisi del debito che vedrà la definitiva consacrazione di Draghi sia come candidato pressoché indiscusso alla presidenza della Banca Centrale Europea sia come risolutore della più grave crisi che l'area dell'euro (ma non solo) ha dovuto affrontare nella sua relativamente breve vita.
(segue)
Proprio mentre stiamo passando dai sinistri scricchiolii del sistema finanziario globale che ho segnalato in un mio articolo del giugno 2023 e che ora si stanno manifestando sempre più nelle avvisaglie di una nuova Tempesta Perfetta, è utile ripercorrere fasi e modalità della crisi finanziaria avviatasi nell'estate del 2007, pienamente deflagrata nel corso del terribile 2008 e che poi ha lasciato pesanti strascichi negli anni successivi.
Quella che è stata definita la crisi dei mutui subprime è in realtà un fenomeno più vasto favorito dalla quasi totale assenza di regole del mercato globale dovuta alla selvaggia deregulation dell'era Clinton, un fenomeno che, unito ad una globalizzazione altrettanto senza regole chiare e certe ha permesso che le ondate della Tempesta Perfetta investissero in pieno navi e navigli della finanza più o meno globale con conseguenze che prescindevano del tutto o in parte dalle dimensioni dei soggetti coinvolti.
Come dicevo nella precedente puntata, alla base del fenomeno non vi erano tanto i prodotti escogitati dagli apprendisti stregoni delle Investment Bank o dalle divisioni CIB delle banche più o meno globali, quanto l'abbandono di quello che è quasi un presupposto dell'attività creditizia e che consiste nella attenta valutazione del merito del richiedente una qualsivoglia forma di finanziamento ed è esattamente quello che è accaduto quando l'erogazione di mutui e finanziamenti collegati al credito al consumo sono state di fatto appaltate dalle banche a società finanziarie che concedevano mutui e prestiti non guardando troppo per il sottile tanto i destinatari finali di questi mutui e finanziamenti sarebbero stati acquisiti dalle banche di ogni ordine e grado previa trasformazione degli stessi in pacchetti che, grazie all'aggiunta di un po' di Treasury bond avrebbero ricevuto la tripla A dalle molto compiacenti agenzie di rating.
Sembrava un meccanismo perfetto e numerose sono le evidenze che queste stesse finanziarie sollecitassero i futuri mutuatari con contatti di vario tipo e che spingevano quelli che allora erano affittuari ad impegnarsi per un mutuo che spesso aveva lo stesso importo dell'affitto che stavano pagando in precedenza.
Questa sottovalutazione del rischio era mitigata da clausole contrattuali che impegnavano le suddette finanziarie a riprendere in carico i mutui in presenza di un predeterminato livello di default.
Come spesso accade il diavolo si nasconde appunto nei dettagli e così accadde che in un giorno di settembre del 2007 la quasi totalità delle finanziarie a stelle e strisce fecero simultaneamente ricorso alla protezione del Chapter 13 della legge fallimentare statunitense e ciò impedì alle banche di rivalersi sulle stesse finanziarie anche se va detto che il fenomeno aveva raggiunto dimensioni tali che tale travaso sarebbe stato del tutto impossibile.
La contromossa delle banche a stelle e strisce peggiorò le cose perché, a differenza di quelle britanniche che, grazie anche alla pressione di Governo e banca centrale acconsentirono di riprendersi le case trasformando gli ormai ex proprietari in affittuari, si affrettarono a mettere all'asta le case dei moltissimi che non riuscivano più a tenere fede agli impegni presi, determinando un crollo verticale dei prezzi delle abitazioni.
E' illuminante il caso di Newark, località molto ambita per la relativa vicinanza dalla metropoli statunitense che divenne a seguito delle procedure esecutive delle banche un vero e proprio deserto.
Non voglio con questo esaurire il discorso sui problemi perché, oltre ai subprime e i finanziamenti per il credito al consumo (e non sottovalutando l'enorme impatto delle micidiali carte di credito revolving) vi era stata una proliferazione di titoli tossici questi sì dovuti alle alchimie dei sovramenzionati apprendisti stregoni di Investment Bank e di fabbriche prodotto delle divisioni di Corporate &Investment Banking delle banche più o meno globali.
A tutto questo si aggiunga che nel diritto statutinitense esiste la fattispecie del fallimento delle persone fisiche e che lo stesso toccò in sorte in quella dramma ad un numero sterminato di persone, creando peraltro le basi per quel sentimento di rabbia che nel 2016 ha avuto grande parte nell'elezione a Presidente degli Stati Uniti d'America di un politico altrimenti improbabile come Donald Trump.
Credo che siano pochi quelli che hanno dimenticato le drammatiche scene degli assalti agli sportelli della britannica Northern Rock, motivati da qualcosa di più serio che la bella favoletta narrata in Mary Poppins della bambina che chiede indietro al presidente della banca i suoi due pence.
Al crollo immobiliare, sempre negli States, fece seguito quello delle auto più o meno di lusso, con auto del valore di decine di migliaia di dollari che si vendevano ad un quarto se non ad un quinto del valore.
Pur disponendo come Segretario al Tesoro di una vecchia volpe come Hank Paulson che le magagne strutturali del sistema finanziario a stelle e strisce e di quello globale, il presidente Bush lasciò che le cose seguissero il loro corso, mandando in soffitta l'antico adagio del Too Big to Fail con il clamoroso e devastante fallimento di Lehman Brothers, vero e proprio agnello sacrificale in omaggio alla teoria del laissez faire e fu solo con l'avvento di Obama e il quasi contestuale licenziamento di Paulson che si aprì la strada a quella che forse era l'unica via di salvezza possibile, aprendo presso le varie sedi della Fed enormi "discariche" per decine di migliaia di miliardi di titoli più o meno tossici, con l'impegno delle banche a restituire appena possibile quanto ricevuto.
Molto diversa è la posizione di Mario Draghi che, come ho sottolineato più volte, oltre ad essere il Governatore della Banca d'Italia era anche il presidente della commissione istituita tra le banche centrali per riscrivere le regole del mercato finanziario globale ed è in questa veste che indice una riunione a porte chiuse in un noto albergo di Manhattan con tutti i banchieri globali e anche se non esistono verbali del suo discorso i giornalisti in attesa all'esterno raccontarono di un clima post riunione tutt'altro che allegro.
(segue)
La nomina di Draghi al vertice di Bankitalia precede di soli sei mesi quella di Hank Paulson al dicastero del Tesoro a stelle e strisce, nomina fortemente voluta dal presidente in carica George W Bush che si trovava allora nella seconda parte del suo secondo mandato presidenziale.
Come ho avuto più volte modo di sottolineare nelle puntate precedenti, quella di Paulson fu una scelta molto dolorosa sul piano personale e questo sia sotto il profilo reddituale (come Chairman e CEO della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs guadagnava infatti 100 milioni tondi di dollari l’anno) sia sotto quello del potere effettivo.
Va, inoltre, sottolineato che il ruolo delle Big Five le cinque grandi Investment Bank a stelle e strisce, così come quello di alcune delle maggiori Corporation le collocava (e in qualche modo le colloca tuttora) ben al di sopra dei governi di tutto l’orbe terracqueo, Stati Uniti pienamente inclusi.
Ma il “sacrificio” di Mario Draghi prima e del suo ex capo solo sei mesi dopo aveva ben solide radici nel sempre più traballante mondo della finanza globale, a causa ma non solo delle crescenti degenerazioni nell’operativita’ delle fabbriche prodotto delle banche più o meno globali e delle stesse Investment Bank che sono di per sé fabbriche prodotto.
Nel corso del mio intervento al Convegno sulla crisi finanziaria svoltosi nel 2008 al residence Ripetta (gli altri relatori erano i professori Luigi Spaventa, Paolo Leon ed Elsa Fornero) cercai di offrire uno spaccato dell’ operatività delle fabbriche prodotto anche perché la Direzione Finanza della BNL nella quale operavo come economista si era trasformata, dopò l’acquisizione da parte di BNP Paribas in una appendice della Corporate&Investment Banking della Casa Madre.
Tutti ricorderanno gli scricchiolii del primo trimestre del 2007, ma, come ho già ricordato, che il re fosse nudo lo certificarono il 7 agosto di quello stesso anno le più importanti banche del mondo partecipanti al mercato dell’EURIBOR rifiutando di applicare le altre banche per il semplice motivo che nessuna su fidava delle altre e la situazione senza precedenti si sblocco’ solo dopo un intervento in extremis della BCE che inietto’ nel corpo rigido del sistema interbancario globale un’iniezione di svariate centinaia di miliardi di euro.
A quel punto fu chiaro ai più quello che sino a quel momento era evidente solo ai massimi regolatori del sistema finanziario globale e cioè che i partecipanti di ogni ordine e grado avevano realmente esagerato e che quelle stesse agenzie di rating che avrebbero dovuto certificare la bontà dei prodotti avevano compiuto azioni letteralmente incredibili e per le quali furono costrette molto successivamente a pagare sanzioni multimiliardarie, ma fu altresì chiaro ai più che oramai la frittata era fatta.
Uno degli errori più comuni in cui si incorre nella analisi ex post di quella terribile fase denominata sin da subito ed a ragione la Tempesta Perfetta consiste nel ritenere che alla base della più grave crisi finanziaria dopo quella del 1929 vi siano state operazioni molto complesse elaborate da quelli che nelle puntate del “Diario della crisi” ho definito gli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle CIB delle banche più o meno globali e certamente questi si sono dati molto da fare nell’ escogitare prodotti molto astrusi, ma alla base dell’ondata ci fu un’operazione molto semplice ma non per questo meno delittuosa, ma di questo parlerò nella prossima puntata.
(segue)
Quando Mario Draghi oltrepassa l'ingresso della sede centrale della Banca d'Italia è ben consapevole di essere un corpo estraneo per quella istituzione con la quale aveva avuto solo un rapporto di consulenza successivo al lunghissimo periodo di formazione post laurea al MIT di Cambridge, Massachussets (periodo nel quale aveva molto probabilmente usufruito di una borsa di studio Stringher o Mortara, dettaglio tuttavia non chiarito nel suo curriculum desuto da Wikipedia o dalla Treccani) e quando era già professore ordinario presso l'Università degli studi di Firenze.
C'era stato in passato il precedente di Guido Carli, Ministro per il Commercio Estero prima di approdare in Via Nazionale, ma si trattava di un personaggio che aveva, direttamente o indirettamente vigilato sul delicato tema degli scambi valutari quando gli stessi erano soggetti ad esplicita autorizzazione governativa.
Come ho già avuto modo di notare nella puntata precedente, la Banca d'Italia nella quale Draghi assume la posizione di vertice era ben diversa da quella nella quale avevano operato i suoi predecessori, differenze sostanziali avvenuti dopo la creazione della Banca Centrale Europea e dopo l'ingresso della lira nell'euro, circostanze queste che privavano Via Nazionale delle funzioni di politica monetaria e, cosa non certo meno rilevante alla luce del fortissimo processo di concentrazione avvenuto negli anni precedenti delle stesse funzioni di Vigilanza sugli istituti di credito di maggiori dimensioni che da soli rappresentavano oltre il sessanta per cento del totale dell'attivo del sistema.
Ma vi era un'altra sostanziale differenza con le banche un tempo vigilate ed era rappresentata dal fatto che i sindacati interni di Bankitalia non erano, a differenza dei loro colleghi delle banche italiane di ogni ordine e grado, stati travolti dalle incisive innovazioni contrattuali del "contratto di svolta" del 1999, un contratto che mise la parola fine alla categoria dei funzionari, diluì significativamente l'impatto dell'anzianità e creò una dirigenza di ingresso caratterizzata da un livello retributivo inferiore a quello dei funzionari di maggiore livello e anzianità.
Questa differenza aveva fatto sì che le previsioni contrattuali e i trattamenti retributivi dei dipendenti della Banca d'Italia venissero ad avere quelle caratteristiche distintive rispetto alle banche del sistema rafforzando il concetto di Istituzione con livelli di autonomia simile a quelli dei dipendenti di Camera e Senato, Presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale, Corte dei Conti e via discorrendo.
Draghi non disponeva quindi di un armamentario non solo economico ma anche, e soprattutto, normativo che aveva consentito ai neo formatisi grandi gruppi bancari di accompagnare la loro ristrutturazione e concentrazione ottenuta pressoché senza colpo ferire grazie alla estrema disponibilità delle sigle sindacali di settore, disponibilità che le sigle sindacali interne a Bankitalia rifiutarono fermamente di prestare.
E' importante questa sottolineatura per comprendere come mai il nuovo Governatore fu costretto a profondere parecchie energie per far passare il suo progetto di riforma della sede centrale e di quelle periferiche della banca centrale, mettendo in campo quella capacità di ascolto che sedici anni più tardi gli avrebbe consentito di varare un Governo con un sostegno di larghissima parte delle alquanto riottose forze politiche italiane.
Qui torniamo all'importanza del percorso formativo di Draghi, con particolare riferimento al periodo trascorso in quella vera e propria fucina di premi Nobel che è il Massachussets Institute of Technology, una fase nella quale evidentemente apprese l'arte di comprendere fino in fondo le posizioni degli interlocutori mantenendo comunque le sue posizioni, doti che gli furono fondamentali nel decennio in cui riuscì a vendere in modo brillante i "gioielli di famiglia" dello Stato italiano, contribuendo ad abbassare di dieci punti il rapporto debito/PIL, avendo come controparti banche di affari, potentati economici italiani e internazionali e dovendo rispondere a Premier e Ministri dell'Economia che si susseguivano a raffica.
L'altra caratteristica distintiva di Draghi è stata, nel tempo, la capacità di individuare collaboratori cui delegare parte del lavoro e sfido chiunque dal ricordarne i nomi, a parte quelli dei Sottosegretari alla Presidenza del Consiglio nei diciotto mesi del suo Governo.
Come ho, peraltro, avuto modo di dire nella puntata precedente, Draghi da un lato e Hank Paulson dall'altro erano, in tempi leggermente diversi e con responsabilità differenti chiamati ad un compito ben più importante e che era quello di rabberciare le sempre più evidenti falle nei velieri della finanza più o meno globale che si stavano preparando ad affrontare gli alti marosi della Tempesta Perfetta, ufficialmente iniziata il 7 agosto del 2007, ma che i cui prodromi erano perfettamente chiari agli uomini ai vertici della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs.
Ma di questo argomento che mi ha visto impegnato per dieci anni nella redazione quotidiana del "Diario della crisi" un blog di Google seguito da lettori di 92 paesi del mondo parlerò più diffusamente nelle prossime puntate. (segue)
E’ la fine di dicembre del 2005 quando Mario Draghi è nominato Governatore della Banca d’Italia al posto dell’indagato Antonio Fazio ed è possibile dire che l’istituzione un tempo faro della politica monetaria e occhiuta vigilatrice della politica economica dei governi con vita media di diciotto mesi è ormai al livello reputazionale più basso della sua lunga storia.
Prescindendo dalla ovvia constatazione che, al pari delle banche centrali dei paesi dell’area dell’euro, non dispone più della potestà in materia monetaria e non ha diretta autorità in materia di vigilanza sulle banche di maggiori dimensioni (in virtù del rapido processo di concentrazione nel settore creditizio ciò significa che oltre il sessanta per cento del totale dell’attivo delle banche italiane e’ direttamente sotto la vigilanza di Francoforte), ma il problema in quel di Via Nazionale è molto più grave e complesso.
L’uscita di Carlo Azeglio Ciampi divenuto Presidente del Consiglio dei Ministri a seguito del collasso del sistema dei partiti della prima Repubblica conseguente al fenomeno di Tangentopoli aveva, infatti, innescato un gioco di veti incrociati di cui furono vittime sia il Direttore Generale Lamberto Dini che il membro del Direttorio Padova Schioppa e quindi la nomina di Antonio Fazio fu in larga parte il risultato di questa conventio ad escludendum e forse determinata dal carattere un po’ incolore dell’uomo di Alvito.
Non sarà questo il primo ne’ l’ultimo caso di palese sottovalutazione della pericolosità del cosiddetto uomo tranquillo che muta aspetto nel momento in cui assurge ad una carica di tal potere.
Come economista della Direzione Finanza della BNL, ho avuto modo di sentire di persona i dubbi del Governatore in sede degli incontri annuali del Forex sulla possibilità dell’ingresso della lira nell’euro sin dalla fase del suo avvio, l’ultimo di tali interventi a ridosso della notte in cui vennero stabilite le parità fisse e irrevocabili tra le valute partecipanti.
Come ho avuto modo di sottolineare in quattro articoli sull’argomento, la lira aveva recuperato ma aveva ancora molto spazio di recupero nei confronti delle principali valute europee ma occorreva da dodici a diciotto mesi almeno, ma la mia era la posizione di un economista aziendale e non quella del Governatore della Banca d’Italia che avrebbe dovuto agire in sintonia con il Governo e, in questo caso, la presidenza della Repubblica, carica peraltro ricoperta allora dal suo autorevole predecessore in Via Nazionale.
Le cose dette sopra inducono a più di un dubbio sulla convenienza per Mario Draghi di accettare un incarico che lo avrebbe costretto a rinunciare ad una posizione d’oro in Goldman Sachs, inclusa la doverosa necessità di costituire in fretta e furia un blind trust delle sue rilevanti posizioni personali, ma forse c’è una risposta a questo interrogativo ed è data dal fatto che ai livelli cui operava Draghi (da circa un anno era stato cooptato nel comitato esecutivo mondiale di Goldman Sachs) era perfettamente in grado di percepire i rischi presenti nel mercato finanziario globale e, come il numero uno della potente ma ancor più preveggente Goldman, Hank Paulson, che lascia una posizione da 100 milioni di dollari per andare a fare il Segretario di Stato al Tesoro per poche centinaia di migliaia di dollari.
Non è d’altra parte un caso se da neo nominato Governatore tutti i suoi colleghi al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico e di quello Pacifico si trovano pressoché totalmente d’accordo nel ritenerlo la persona più indicata per ricoprire l’incarico di presidente di un importante organismo incaricato di riscrivere le regole del mercato finanziario globale che i li a poco più di un anno andrà letteralmente a carte quarantotto. (segue)
Alla vigilia del suo novantaquattresimo compleanno, il Leone di Omaha ha avuto la soddisfazione di vedere la sua creatura, Berkshire Hathaway, raggiungere e superare la soglia del trilione di miliardi di dollari, unica società estranea al mondo Hi Tech a raggiungere un tale livello di capitalizzazione.
Eppure il nostro ha fatto parlare di sé per un altro motivo e cioè per la sua decisione di uscire gradualmente da buona parte dei suoi investimenti azionari, partecipazioni affatto secondarie (si pensi alla rilevante partecipazione in Apple, società nella quale pur avendo dimezzato la quota rimane socio al nove per cento o a quella in Bank of America).
D’altra parte, l’anziano investitore non è nuovo al quasi totale abbandono del mercato azionario, lo ha fatto alla vigilia di almeno quattro delle ultime crisi finanziarie, inclusa quella profondissima del 2007-2008, la cosiddetta Tempesta Perfetta, ma l’entità delle attuali “uscite” (non è modo di sapere se terminate) presenta dimensioni tali da far sì che il suo fondo e’ divenuto il primo possessore di Treasury Bills a un mese, superando addirittura la Federal Reserve e nelle sue comunicazioni ai partecipanti comunica la sua piena soddisfazione per il rendimento elevato dovuto anche all’attuale inversione della curva dei rendimenti, situazione che gli garantisce un reddito risk free di 12 miliardi l’anno.
Un giornalista con cui ho parlato della mossa di Buffett, faceva risalire il suo comportamento all’età dell’Oracolo di Omaha ma poi ho scoperto che era nato nello stesso anno del mio figlio minore e ho capito perché quella vecchia volpe di Carlo De Benedetti se ne era prontamente liberato!
Quello del 5 agosto scorso è stato uno shock quasi paragonabile a quello vissuto dal mercato dell’ EURIBOR il 7 agosto del 2007 (per gli smemorati e’ quando le banche partecipanti al sistema smisero
di prestarsi i soldi l’un l’altra e dovette intervenire la BCE inondando il mercato per centinaia di miliardi di euro).
Improvvisamente tutti i commentatori e gli analisti si sono affrettati a spiegare quello che da mesi era più che chiaro e che aveva indotto gli investitori più accorti ad uscire dal mercato e diventare “liquidi”.
Ma quello che è più comico se non fosse tragico è che nei giorni successivi, a fronte di un parziale rimbalzo, gli stessi commentatori e analisti gridavano allo scampato pericolo e diffondevano ottimismo a piene mani, il tutto dimenticando un particolare che è però grande come una casa.
E cioè che negli anni delle vacche grasse corporation e banche hanno fatto approvare dalle rispettive assemblee degli azionisti corposi, a volte corposissimi, piani di buy back e che ora sono costrette a renderne pubblica l’esecuzione.
Così veniamo a scoprire che in un mercato sottile, quale è quello agostano, aziende e banche di quasi ogni ordine e grado stanno acquistando a man bassa le proprie azioni anche se con risultati tutto sommato alquanto modesti, circostanza che ci fa ben comprendere il “reale moto di fondo” del mercato!
L'estradizione in Italia di Danilo Coppola, protagonista insieme a Stefano Ricucci e altri della stagione dei "furbetti del quartierino" ci porta dritti dritti a quella bancopoli che vede le tentate acquisizioni della Banca Nazionale del Lavoro da parte del Banco Bilbao Vizcaja y Argentaria e della banca Antonveneta da parte dell'olandese banca ING, due operazioni ostacolate in modo quasi spudorato dall'allora Governatore di Bankitalia Antonio Fazio e dal dirigente centrale addetto alle autorizzazioni di operazioni di simile natura.
Alla prima di tali operazioni si opposero Coppola, Ricucci e l'allora patron di Unipol, Giovanni Consorte, mentre per sbarrare la strada agli olandesi si mosse, facendo il possibile e l'impossibile, l'allora dominus della Banca Popolare di Lodi, Gianpiero Fiorani che non faceva mistero della amicizia con Antonio Fazio.
Successive e tempestive indagini di diverse procure portarono a bloccare l'acquisizione dell'Antonveneta da parte della Popolare di Lodi (nel frattempo ribattezzata Banca popolare Italiana) e all'arresto del suo presidente e allo scioglimento degli organi societari della banca nel frattempo acquisita, mentre per la BNL, ritiratosi il BBVA, vi fu l'acquisizione da parte del colosso creditizio francese Bnp Paribas.
Le indagini della magistratura investirono anche il Governatore Fazio e il suo dirigente centrale con l'accusa di aggiotaggio per la quale sarà successivamente condannato con sentenza confermata in cassazione, ma il caso sollevò tali e tante reazioni politiche trasversali da indurre il Governatore a rassegnare le sue dimissioni il 19 dicembre del 2005, dimissioni che portarono contestualmente ad una riforma che prevedeva che la carica non fosse più senza scadenza ma fosse limitata a sei anni rinnovabili una sola volta.
L'allora Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, fu quasi costretto dal clamore delle due vicende, in particolare di quella relativa a BNL (si ricordi la famosa telefonata nella quale Piero Fassino chiede all'uomo al vertice di Unipol: "Allora abbiamo una banca?") a chiamare Mario Draghi al vertice della Banca d'Italia, considerando l'economista allora in forza alla potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs un altissimo tecnocrate non schierato politicamente.
Del pentimento di Francesco Cossiga abbiamo già parlato, ma certamente l'evoluzione futura della carriera di Draghi da Bankitalia al vertice della Banca Centrale Europea con annesso memorandum inviato al Governo italiano che costrinse Berlusconi a rassegnare le dimissioni verso la fine del 2011, aprendo la strada al Governo tecnico di Mario Monti, un personaggio che, seppur per strade diverse, presenta parecchie affinità con Mario Draghi.
Prima di Fazio, solo una volta Bankitalia aveva dovuto subire, ma allora si trattava di una manovra giudiziaria del tutto pretestuosa, che toccò l'allora Governatore Paolo Baffi e il Direttore Generale Mario Sarcinelli che ottennero entrambi giustizia, ma ben diverse erano le accuse mosse ad Antonio Fazio, accuse che, come detto, trovarono conferma in caso in via definitiva e nel secondo grazie alla prescrizione.
Anche Fazio, come dopo di lui, Draghi, aveva frequentato l'MIT con Franco Modigliani, ma la sua permanenza si limitò ad un solo anno contro i sei di Draghi e anche il suo corso di studi è stato ben diverso in quanto Fazio si è diplomato geometra e non ha certo frequentato il liceo Massimo. L'unico punto di contatto è la laurea in Economia presso la Sapienza di Roma.
Va, inoltre, ricordato che Draghi era un corpo estraneo a Bankitalia con la quale aveva solo un rapporto di consulenza e non aveva certo percorso tutti i gradini della carriera in Via Nazionale e ciò è ben dimostrato dal fatto che all'inizio i suoi progetti di riforma dell'istituto sia a livello centrale che periferico incontrarono un forte resistenza da parte degli agguerriti sindacati del personale, sindacati che godevano di una forte autonomia all'interno delle rispettive sigle di appartenenza, ma in questo, come in altri casi, Draghi dimostrò una rapidissima capacità di adattamento e una sagace scelta dei più stretti collaboratori.
Ma c'è un aspetto che non è stato, almeno a quanto mi risulta, molto sottolineato ed è rappresentato dal fatto che sin da neonominato Governatore assurge alla Presidenza del comitato istituito tra le banche centrali, comitato incaricato di sorvegliare il mercato finanziario globale e, in particolare dopo la crisi del 2007-2008 riscriverne, in modo anche radicale, le regole di funzionamento.
Un incarico (mantenuto anche quando il comitato mutò denominazione) che lo portò a radunare, nella fase più calda della crisi finanziaria, a convocare una riunione a porte chiuse in un albergo di Manhattan i massimi esponenti delle banche più o meno globali per esporre le linee guida di quelle nuove regole rispetto ad un'operatività che ben conosceva dall'esperienza triennale in quella che forse è la più grande Investment Bank al mondo e il cui Chairman e CEO sedeva, dopo aver lasciato un incarico da 100 milioni di dollari, al vertice del Tesoro a stelle e strisce (un incarico che prevedeva un appannaggio di poche centinai di migliaia di dollari. (segue)
In un bel film, Sliding Door, l'attrice Cameron Diaz vive due vite parallele determinate dal fatto che riesca o meno a prendere la metro di Londra ad una certa ora.
Pensando al prolungato periodo formativo post laurea di Mario Draghi, non riesco a togliermi dalla mente le molteplici possibilità che si aprivano innanzi a lui al termine della frequentazione, dal 1971 al 1977, dell'MIT di Boston, Massachussets, un periodo addirittura superiore a quello necessario al conseguimento della laurea in medicina presso la prestigiosa facoltà di quella stessa città.
Il trentenne Draghi, conseguito "finalmente" il PhD, avrebbe potuto seguire, ad esempio le scelte del suo primo Maestro, Federico Caffè, e cioé quello di dedicarsi esclusivamente all'insegnamento (il docente di politica economica della sapienza di Roma che si fregiava del fatto di aver portato alla laurea oltre mille studenti e che ricoprì solo l'incarico di consulente della casa editrice Laterza, al punto che una delle cause della sua "scomparsa" venne, a torto, indicata proprio nelle sue condizioni finanziarie) o quello dei suoi prestigiosi mentori nella facoltà di Cambridge, Massachussets, Modigliani e Solow (Fischer in realtà lo anticipò diventando Governatore della Bank of Israel).
In effetti Draghi, prima e dopo il 1977 ricoprì incarichi di docenza presso diversi atenei, fino a diventare titolare di cattedra a Firenze nel 1981 a soli 34 anni, ma, già l'anno successivo, come già detto divenne consigliere del ministro del Tesoro Giovanni Goria e per sei anni, sempre nei ruggenti anni ottanta, svolse l'incarico di Direttore Esecutivo della Banca Mondiale per poi diventare, come più volte ricordato, Direttore Generale del ministero del Tesoro con delega all'importante capitolo delle privatizzazioni.
Pur detestando sinceramente le tesi dietrologiche, penso molto verosimile quanto suggeritomi da più parti e cioè che Draghi sia stato opportunamente preparato, per non dire addestrato, per mission molto più impegnative ed ambiziose, nonché propedeutiche alla necessaria modernizzazione dell'Italia, ma non solo, necessità che divenne ancora più urgente quando, con la caduta del Muro di Berlino e l'implosione del sistema sovietico e dei suoi satelliti nell'Europa dell'Est, diviene necessario e improcrastinabile smantellare l'immane apparato delle imprese pubbliche e letteralmente "spazzare" mediante le inchieste giudiziarie quel sistema dei partiti non più utile a garantire quella fedeltà atlantica che appariva non più un must in un nuovo assetto geopolitica che vedeva gli Stati Uniti assurgere al ruolo di unico polo strategico a livello globale.
Lo smantellamento del pentapartito e la ricostruzione di un polo progressista tra gli eredi del PCI e quello che rimane della sinistra democristiana, lo smantellamento, sempre per via giudiziaria, delle logge massoniche segrete e di strutture politiche militare quali Gladio, o per dirla con linguaggio più atlantico, Stay Behind, un mondo quest'ultimo che vede sfiorare anche un più volte ministro, per due volta Presidente del Consiglio e, last but non least, Presidente della Repubblica italiana, Francesco Cossiga, un uomo politico la cui strada si intreccerà più volte con quella di Mario Draghi, a proposito del quale il politico sardo ascriverà a sé un ruolo determinante nella nomina dell'economista romano alla carica di Governatore della Banca d'Italia nel 2005, fino alla "picconata" del 2008, quando intervistato dal giornalista Luca Giurato ad Unomattina, popolare trasmissione di Rai Uno dirà di Draghi cose terribili che sono fedelmente riportate da Wikipedia, un testo che riporterò integralmente quando giungerò a quel periodo, lo stesso periodo nel quale Draghi oltre ad essere Governatore di Bankitalia era anche alla guida dell'organismo deputato, a fronte delle devastazioni determinate da una crisi finanziaria seconda per profondità solo a quella del 1929, a riscrivere le regole del mercato finanziario globale, un incarico che gli era stato attribuito dai suoi colleghi anche in virtù del suo standing tecnico e della sua indiscussa reputazione, incarico che avrà un grande peso quando, nel 2011 si tratterà di individuare un successore a Claude Trichet alla guida della Banca Centrale Europea.
Tornando al 2002, Draghi non può non rendersi conto che una fase, quella galoppante delle privatizzazioni, è fatalmente terminata, anche alla luce dell'estrema polarizzazione della politica italiana tra la parte progressista guidata dal Professor Romano Prodi e la destra francamente illiberale che si coagula intorno alla figura di Silvio Berlusconi.
Faccio solo un esempio ed è quello della mancata vendita di Alitala ad Air France KLM, una cessione di fatto finalizzata dal Governo Prodi e poi vanificata dal subentrante Governo Berlusconi che tirò allora fuori dal cilindro la trovata dei "capitani coraggiosi", cordata che in un breve volgere di tempo si squaglierà come neve al solo, lasciando Alitalia in mezzo ad un guado periglioso che costerà allo Stato svariati miliardi euro e che dovrebbe finalmente trovare la parola fine con il progressivo inserimento di Lufthansa.
Sulla potente ed ancor più preveggente Goldman Sachs ho pubblicato decine di puntate del Diario della crisi finanziaria, un blog di Google che, almeno stando ai dati forniti da Google Analytics, veniva seguito da migliaia di lettori in 92 paesi del globo, un blog avviato nei primi giorni di settembre del 2007 con cadenza quotidiana e nel quale avevo previsto con largo anticipo la non più perdurante attualità del principio del Too Big to Fail e, quindi, la possibilità fattuale di un default di Lehman Brothers con qualche mese di anticipo.
Non tornerò in questa sede sulle origini, la natura e il modus operandi di Goldman, se non per dire che si trattava e si tratta di un'eccellenza (nel bene e/o nel male) nel mondo dell'Investment Banking e in quello delle CIB (divisioni di Corporate&Investment Banking) delle banche più o meno globali con sede al di là e al di qua dell'Oceano Atlantico.
Quello che si può dire è che Goldman si caratterizza rispetto alle principali concorrenti per almeno due caratteristiche: la prima è la tendenza alla fidelizzazione spinta dei dipendenti a prescindere dall'inquadramento, fedeltà ed estrema riservatezza che sono ben compensate non solo da remunerazioni d'eccezione, ma anche da condizioni all'avanguardia in quasi tutte le previsioni possibili e immaginabili. la seconda è rappresentata da un sistema di porte girevoli che che vede l'ingressi, in generale a titolo consulenziale di personalità politiche ed accademiche di alto o altissimo livello a livello internazionale, ma anche l'uscita verso posizioni apicali neel Governo a stelle e strisce anche qui grazie ad una buona dose di preveggenza, quale quella che ha visto l'uscita del Chairman e CEO, Hank Paulson, con l'assunzione da parte dello stesso top manager della posizione di Segretario al Tesoro nel 2006, un momento in cui i vertici delle principali istituzioni finanziarie globali sono consapevoli del fatto che si stanno concretizzando i rischi della Tempesta Perfetta che pur avendo lanciato dei segnali nei mesi precedenti inizierà in modo eclatante quando il 7 agosto del 2007 si verifica per la prima volta nella Storia un blocco totale delle attività sul mercato dell'Euribor, circostanza che costringerà un oscuro dirigente della BCE, dopo un frenetico giro di telefonate con i membri del Board in vacanza ad inondare con centinaia di miliardi di euro il mercato, ma a quel punto è oramai chiaro che "il re è nudo".
Ma, tornando all'ingresso di Draghi nella sede di Londra di Goldman Sachs, vi è una profonda differenza tra il ruolo consulenziale e qualche volta per incarichi da "sinecura" e quello direttamente operativo che i vertici di Goldman assegno a Mario Draghi, un ruolo che l'economista romano svolge evidentemente talmente bene che, in un relativamente breve volgere di tempo, viene cooptato nel Comitato Esecutivo di Goldman.
D'altra parte, questa esperienza triennale consentirà a Mario Draghi di vedere dall'interno l'operatività della regina indiscussa dell'Investment Banking, esperienza che gli sarà di fondamentale ausilio nella successiva esperienza di Governatore di Bankitalia ma, e certamente ancora di più, nella sua qualità di Presidente dell'organismo formato da rappresentanti delle banche centrali con il compito di sorvegliare il mercato finanziario globale e riscrivare in modo significativo, in piena Tempesta Perfetta, le regole di quello che con rara efficacia Nicolas Sarkozy ebbe a definire il grande casinò della finanza globale, ma di questo parlerò più diffusamente nella quarta puntata.
(segue)
L’allarme da me lanciato nel corso dell’estate 2023 riguardava criticità strutturali presenti nel settore bancario (in particolare a causa del peso nei bilanci di una quantità abnorme di bond governativi decennali acquisiti ai tempi in cui, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, prevaleva la politica dei tassi ufficiali a zero), nella finanza pubblica e in quella privata statunitense nonché l’esistenza di vere e proprie bolle speculative riguardanti singole imprese o interi settori con rapporti tra utili e valorizzazione di borsa caratterizzati da multipli francamente esagerati.
Eppure segnali che ve ne erano stati: repentina scomparsa del Credite Suisse, crack di quattro medie banche a stelle e strisce, scoppio della bolla immobiliare cinese con il default pressoché contemporaneo delle due maggiori società immobiliare cinesi che, sommate, avevano un’esposizione di 600 miliardi di dollari in buona parte nelle mani di investitori esteri.
Al riguardo ho scritto più di un articolo sul Nuovo Giornale Nazionale, rilasciato due lunghe interviste al canale YouTube della Freelance International Press.
A dispetto delle mie analisi, la crescita abnorme delle quotazioni di borsa delle Big Tech è continuata, lampante in questo è il caso dell’azione di NVidia che dal giugno del ‘23 al giugno di quest’anno è pressoché triplicata.
Ma nel frattempo, zitto zitto in mezzo al mercato, il novantaduenne Warren Buffet ha, come è solito fare da decenni, bagnato il naso a tanti più giovani competitor vendendo a man bassa, a partire dall’autunno dell’anno scorso buona parte degli investimenti del fondo Berkshire, accelerando nel trimestre che si è appena concluso nel corso del quale ha, per esempio, dimezzato la partecipazione in Apple.
Il risultato della sua lunga attività di dismissione è che ora, come è accaduto alla vigilia delle quattro ultime crisi finanziarie sta seduto su un mare di liquidità e può osservare in tutta tranquillità quello che ci aspetta nei prossimi mesi.
Ben scavato vecchia talpa!