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Alle orecchie di Padoan e di Renzi sono suonate come miele le parole concilianti sulle possibilità che l'Italia trovi un accordo con l'Unione europea sullo spinoso argomento del salvataggio delle banche italiane senza dover ricorrere ai meccanismi di risoluzione previsti dall'apposita direttiva europea, una direttiva che prevede il bail in, ossia la partecipazione degli azionisti, degli obbligazionisti e dei depositi per la parte eccedente ai 100 mila euro (in Italia, secondo la nostra banca centrale, ve ne sono per 425 miliardi di euro) il tutto entro il limite massimo dell'otto per cento del totale dell'attivo della banca in questione.
A pronunciare queste parole sono persone come Angela Merkel, come l'arcigno presidente olandese dell'eurogruppo, come lo stesso ministro tedesco delle finanze, tutte persone che fino a poche ore prima si trinceravano dietro il mantra dell'inviolabilità delle regole, pur avendo, in tempi assolutamente non lontani, utilizzato centinaia di miliardi di euro di fondi pubblici, cioè soldi dei contribuenti per ripianare le perdite delle banche olandesi e tedesche appunto, cosa fatta anche dai governi di altri importanti paesi dell'area euro, in particolare Francia e Spagna.
Poiché è molto improbabile che i suddetti personaggi siano stati illuminati sulla via di Damasco, credo proprio che siano stati invece convinti da considerazioni molto più prosaiche al limite degli interessi di bottega e che sono rappresentate da un lato dalle difficoltà incontrate da un numero crescente di banche tedesche a rispettare le dure previsioni della vigilanza europea presso la Banca Centrale Europea (è di pochi giorni fa la notizia che la Deutsche Bank avrebbe fallito gli stress test della Federal Reserve, cui è soggetta in quanto banca globale, e sia in attesa di quelli disposti dall'EBA, mentre è nota a tutti la difficoltà che sta vivendo la Landesbank di Brema), mentre, dall'altro lato, vi è un timore crescente di rischio di controparte per le loro banche derivante dall'eventuale default di qualche importante banca italiana, compresa tra le cinque che sono state sottoposte agli stress test il cui esito sarà noto il 29 giugno.
D'altra parte, il fatto che l'accordo sia pressoché cosa fatta lo dimostra la mossa del fondo Atlante che si è offerto di rilevare 10 miliardi di euro di sofferenze nette dal Monte dei Paschi di Siena, una mossa che esaudisce i desiderata della vigilanza BCE ma che apre il problema della ricapitalizzazione della banca senese per colmare le perdite derivanti dalla cessione.
E' stata davvero una giornata surreale quella di lunedì, seguita sullo stesso tono da quella successiva, con tutti i giornali italiani e anche parecchie testate di altri paesi europei che discettavano sui possibili accordi e probabili scontri in seno alla riunione dell'eurogruppo prima, presieduta dal falco olandese dal cognome impronunciabile, e quella dell'Ecofin a seguire, accordi o scontri sul non marginale argomento dei possibili salvataggi delle banche europee derogando dalle regole sui processi di risoluzione e bail in stabiliti da una direttiva che gli eurodeputati italiani prima e i parlamentari del nostro paese poi hanno approvato pressoché all'unanimità senza dibattito alcuno.
Si è creato così un clima di attesa tale da costringere il ministro dell'Economia italiano, Piercarlo Padoan, a improvvisare una sorta di comizio nell'atrio del palazzo dove si tenevano gli incontri per ribadire che l'argomento degli aiuti pubblici alle banche non era presente nell'ordine del giorno di nessuna delle due riunioni, ma approfittando dell'occasione per ribadire che i provvedimenti precauzionali sono in parte stati già presi, mentre altri sono in dirittura d'arrivo, sempre in sintonia con gli organismi decisionali di Bruxelles e sempre a scopo esclusivamente precauzionale, anche se non sfugge nelle parole di Padoan e nei passaggi della lunga intervista del premier Renzi al Corriere della Sera che i meccanismi di garanzia sarebbero orientati a proteggere i depositanti e gli obbligazionisti intesi come persone fisiche ma non gli azionisti e gli obbligazionisti intesi come investitori istituzionali.
Ma a rinfocolare le polemiche sulle banche italiane ci ha pensato un breve ma feroce articolo del Financial Times, forse il più autorevole quotidiano finanziario del mondo, che sostiene che, nonostante la riforma delle banche popolari e di quelle di credito cooperativo, l'Italia ha perso più occasioni per dare una raddrizzata al proprio pletorico sistema bancario come fatto dalle banche tedesche, da quelle francesi e, in ultimo, da quelle spagnole, possibilità ora precluse dalle nuove regole che bloccano di fatto gli aiuti di Stato, e che il nostro paese ha più filiali di banche che pizzerie e che, quindi, una delle soluzioni è quella di ridurre il numero degli istituti di credito mediante fusioni che mettano mano drasticamente ala rete distributiva e tagliando, a livello di sistema, decine di migliaia di posti di lavoro.
Tra gli addetti ai lavori, non è un mistero che il vero problema del sistema bancario europeo non è rappresentato dai Non Performing Loans che, per l'intera area dell'euro sono pari a circa 700 miliardi di euro, 360 dei quali concentrati nelle banche italiane, ma che la vera bomba ad orologeria risiede nella montagna di derivati per molte decine di migliaia di miliardi di valore nozionale, una parte dei quali fanno capo al colosso tedesco Deutsche Bank che, per ragioni che non sono state mai chiarite a sufficienza, rappresentano un multiplo del totale dell'attivo della banca tedesca e a sua volta pari a mille e settecento miliardi, una sproporzione tale da escludere che si tratti soltanto di operazioni di hedging, ma lascia pensare piuttosto ad un'intensissima attività di trading con un numero elevatissimo di controparti, per non parlare poi dei 32 miliardi di titoli a livello 3, comunemente definiti titoli tossici e che segnalano una crescita costante segno del fatto che non riescono proprio ad essere smaltiti.
Ma Deutsche Bank in questo non è sola, in quanto quasi tutte le banche globali del Continente, per quelle britanniche sarebbe necessario un discorso a parte, presentano situazioni analoghe anche se i loro multipli rispetto al totale dei rispettivi attivi non raggiungono il livello stratosferico toccato dalla banca con sede a Francoforte, una circostanza che tuttavia fa interrogare sul fatto che nello stabilire i criteri prudenziali sia stato assegnato un peso maggiore ai crediti, che nella maggior parte dei casi sono assistiti da garanzie reali e personali, e uno molto più basso ai derivati.
In questi mesi, le autorità governative tedesche si sono sgolate nel ripetere il solito mantra che recita che Deutsche è solida come una roccia e in questo si è distinto in particolare l'arcigno ministro delle finanze tedesco, Schauble, ma, nonostante quanto detto sopra sulla sottostima dei rischi da parte della vigilanza europea, Daniele Nouy ha richiesto a Unicredit e Deutsche di elevare i loro coefficienti patrimoniali da poco sopra il 10 per cento all'alquanto proibitivo 12,25 per cento, quasi due punti che significano uno sforzo considerevole per entrambe le banche in termini di aumento di capitale o cessione di attività, ma soprattutto un'implicita ammissione del fatto che il mantra sulla solidità del colosso tedesco era alquanto infondato.
Ma ecco che, in vista di una riunione decisiva dei ministri delle finanze dell'Unione Europea, Deutsche avanza a sorpresa la proposta di istituire un fondo di 150 miliardi di euro in favore delle banche in difficoltà, una proposta che è in apparente contrasto con la posizione ufficiale del governo tedesco che per ora ammette solo le difficoltà della più piccola delle Landesbanken, quella basata a Brema e che richiede interventi per poche centinaia di milioni di euro e che fa pensare che, mai come in questo caso, Deutsche abbia parlato come Cicero pro domo sua!
Doveva essere il giorno dell'Associazione Bancaria Italiana, con la relazione del presidente Patuelli e gli attesissimi interventi del ministro dell'Economia, Piercarlo Padoan, e del Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ma, da oltreoceano, è pervenuta una nota del Fondo Monetario Internazionale che invita le autorità monetarie italiane ad utilizzare tutta la flessibilità presente nella normativa europea sulle banche, quel processo di risoluzione delle stesse con annesso bail in che tanto sta facendo discutere anche perché è evidente a tutti che si tratta di norme che sono state introdotte in assenza di un'unione bancaria e, soprattutto, di un meccanismo di salvaguardia dei depositi a livello europeo.
Mentre Padoan, Visco e Patuelli intrattenevano una folta platea di banchieri, di giornalisti ed esperti del settore, tutti gli occhi dei presenti erano fissi sulle cifre riportate sui loro touchscreen che indicavano una netta inversione di rotta delle azioni delle banche che, in particolare dalla Brexit, sembravano ormai destinate a proseguire nella loro caduta libera, mentre ieri, in particolare per alcune di loro, è stato il giorno del riscatto, con il Banco Popolare, con un rialzo di oltre il 18 per cento, ha ritrovato il livello posto per l'aumento di capitale, 2,17 euro, livello che era stato fissato quando l'azione del Banco valeva oltre quattro euro, ma bene sono andate tutte le principali banche italiane, compreso il Monte dei Paschi di Siena, la cui azione non è riuscita però a chiudere oltre la soglia dei 30 centesimi con un rialzo del 5 per cento circa che è stato molto più basso di quello medio delle principali concorrenti.
Ma è davvero giustificata questa euforia dei mercati? Da un lato, vi è la certezza che il Monte dei Paschi verrà aiutato nella sua opera di pulizia delle sofferenze, ma soprattutto nel conseguente aumento di capitale che, a bocce ferme, è assolutamente indigesto per il mercato, così come è chiaro è che questo avverrà con il soccorso di Atlante o del Fondo bis in corso di costituzione, ma, d'altro lato, è sicuro che all'orizzonte si profila una fusione con una banca di cui si sa nome e cognome, ma il cui amministratore delegato minaccia querele se qualcuno gli attribuisce l'intenzione di compiere questo passo verso cui, e questo si può dire, lo stanno spingendo in tanti e, tra questi, vi sono persone a cui è difficile dire di no.
Ma il problema vero è rappresentato dal fatto che nessuno conosce le vere intenzioni di Madame Nouy e della sua fida collaboratrice tedesca, anche se è evidente che dal solo gruppo di testa dei cinque grandi gruppi bancari la responsabile della vigilanza europea può chiedere pulizie di bilancio per qualcosa come 30-40 miliardi di euro, una cifra che andrebbe ad aggiungersi ai 9,6 miliardi chiesti al Monte dei Paschi!
Dopo aver toccato ieri, in pieno blocco delle micidiali vendite allo scoperto disposto per tre mesi dalla CONSOB, un nuovo minimo storico nell'area dei 26 centesimi e aver incassato la doccia fredda dell'arcigno presidente olandese dell'eurogruppo che ha ribadito che per il salvataggio delle banche valgono le nuove regole, bail in incluso, continuano le febbrili trattative tra Italia e Commissione europea per trovare una soluzione alla ricapitalizzazione del Monte dei Paschi di Siena, un aumento da 2 forse 3 miliardi di euro necessari per eliminare in via definitiva sofferenze per 9,6 miliardi di euro come richiesto dalla vigilanza presso la Banca Centrale Europea nella sua recente lettera alla banca senese.
Al termine di un consiglio di amministrazione straordinario durato oltre sei ore, è stato diffuso un comunicato scritto a firma dell'amministratore delegato, Fabrizio Viola, un testo alquanto stringato nel quale si rende noto che è stata approvata la lettera di risposta alla vigilanza europea, ma che, sia i contenuti della lettera ricevuta dal Monte dei Paschi, sia quelli della risposta della banca senese saranno resi noti solo quando perverrà la lettera definitiva da Francoforte, lettera che dovrebbe tenere conto, almeno in parte, delle controdeduzioni contenute nella missiva che partirà oggi per Francoforte.
Nel comunicato, Viola rivendica i successi della gestione ordinaria della banca e, soprattutto, rimarca con forza il fatto che i cinque milioni di clienti sono rimasti legati alla banca, nonostante i rischi connessi al bail in, questo, ovviamente non lo ha detto esplicitamente ma, come si suol dire, intelligenti pauca...
Credo di aver fatto una cronaca fedele di quanto è successo ieri, ma quello che è certo è che l'istituto di Rocca Salimbeni non intende avvalersi dell'arco temporale offerto dalla vigilanza BCE e cioè non diluirà l'intervento da qui al 2018 perché una soluzione, quale che essa sia, deve essere trovata entro pochi mesi!
Sono di ritorno da un breve soggiorno in una città dell'Inghilterra che è stato un epicentro della rivoluzione industriale e una storica roccaforte del partito laburista ma dove, una settimana prima del mio arrivo aveva vinto il leave, seppur non in proporzioni drammatiche, lasciando intendere quanto sia stato profondo il sommovimento che ha portato, forse al di là delle stesse reali intenzioni dei promotori del fronte dell'abbandono dell'Unione europea, quasi un milione e mezzo di cittadini britannici a fare la differenza con quel 48 per cento di loro compatrioti che invece hanno votato per rimanere.
Ma è quello che è successo dopo il voto ad essere realmente surreale con le dimissioni a certo tempo data di David Cameron che ha dato due mesi e mezzo di tempo al suo partito, che gode alla Camera dei Comuni di una maggioranza solida, per individuare il nome del suo successore, aprendo di fatto una fase di estrema incertezza sul nome, anche se è quasi certa l'investitura al congresso dell'attuale ministro dell'interno, la non proprio carismatica May, ma quello che ha colpito davvero è stato il passo indietro del vincitore nell'ambito del partito conservatore, Boris Johnson, un uomo che tutti davano a Downing Street in sostituzione di Cameron e che è stato certamente vittima di una congiura di partito, ma che è sembrato sollevato all'ipotesi di non essere lui il primo ministro che dovrà trattare con la Commissione europea i termini della separazione.
Ma se Atene piange Sparta di certo non ride e, con una schiacciante maggioranza di eletti in Parlamento, è stato chiesto al leader laburista, Jeremy Corbyn, di farsi da parte e lasciare il passo ad un nuovo leader che eviti, in caso di nuove elezioni, che i laburisti patiscano una cocente sconfitta, richiesta alla quale il pressoché neoeletto Corbyn ha opposto un netto rifiuto, effettuando un rapido rimpasto del governo ombra con pochissimi esponenti che hanno dovuto accettare doppi incarichi per sopperire ai vuoti lasciati dai dimissionari.
Ma quello che ha fatto più clamore è stato l'abbandono della scena politica da parte del vero vincitore del referendum, quel Nigel Farage che non ha convinto nessuno sui veri motivi del suo gesto e che ha dato l'idea di non volere essere coinvolto in quella oscura fase del dopo rispetto alla quale nessun politico britannico sembra avere le idee chiare, con la sterlina che continua ad essere ai minimi storici e mentre non si sa nulla delle intenzioni di imprenditori e finanzieri che, prima del voto, avevano minacciato di trasferire sul continente europeo la sede delle loro attività, con un impatto che è stato stimato, se alle parole seguiranno i fatti, come quantificabile nella perdita di qualche centinaio di migliaia di posti di lavoro!
E' stata un'altra giornata di fuoco sull'azione del Monte dei Paschi di Siena dopo altrettante giornate terribili seguite alla Brexit, un fuoco incrociato di vendite che si e' intensificato quando la banca senese ha finalmente ammesso di avere ricevuto una missiva da parte della vigilanza bancaria operante presso la Banca Centrale Europea, una lettera nella quale senza giri di parole si chiedeva di eliminare 10 miliardi circa di euro di sofferenze nette entro il 2018, un vero e proprio bagno di sangue per la banca guidata da Fabrizio Viola che produrrà miliardi di euro di perdite che dovranno giocoforza essere coperte da un aumento di capitale, il tutto mentre il mercato ha già mandato deserti due aumenti di capitale richiesto dalle due tecnicamente fallite banche venete e quando ancora non si hanno notizie dell'aumento da un miliardo di euro richiesto, sempre dalla vigilanza BCE al Banco Popolare.
Mentre sono in corso febbrili trattative tra il Governo italiano e la Commissione europea, quello che e' chiaro e' che quello che e' stato già concordato non risolve assolutamente il prolema del Monte dei Paschi di Siena, così come non risolve quello di Unicredit e delle altre banche italiane in attesa ansiosa di sapere se riceveranno a loro volta una draft piu' o meno ultimativa da Francoforte, perché in realtà il problema delle banche italiane e' molto semplice e consiste nel fatto che servono, come scrive la potente ma ancor piu' preveggente Goldman Sachs, circa 40 miliardi per coprire le perdite derivanti dalle pulizie di bilancio e, di questi tra i 7 e i 9 miliardi per la sola Unicredit, un fabbisogno che non ha niente a che vedere con quello scudo da 150 miliardi di euro che la Commissione ha autorizzato per garantire l'emissione di altrettanti bond da parte delle banche italiane, una possibilità che rischia di arrivare quando alcune delle maggiori banche potrebbero essere nel pieno della procedura di bail in che, lo ricordo, prevede che gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti per la quota eccedente i 100 mila euro paghino il conto del default entro il limite dell'otto per cento dell'attivo della banca in questione.
Avendo a mente quanto e' accaduto con Banca Etruria e le altre tre anche coinvolte a novembre dello scorso anno in tale procedura, non voglio nemmeno pensare a cosa accadrebbe nel caso dello terza banca italiana e credo che altrettanto stiano pensando i nostri vertici governativi e il governatore della Banca d'Italia e sono quindi sicuro che alla fine uscirà un coniglio dal cilindro e che una simile eventualità verrà scongiurata nell'interesse nazionale!
Qualche anno fa, posi sul Diario della crisi finanziaria la stessa domanda che pongo nel titolo di oggi, ma allora il gruppo senese era ancora dominato dalla fondazione omonima e guidato dall'allora presidente Mussari e dal direttore generale Vigni, gli stessi che, insieme ad altri, sono sotto processo per diverse ipotesi di reato legate alle operazioni messe in piedi per occultare il buco miliardario emerso dopo la dissennata acquisizione di banca Antonveneta, un'acquisizione non solo costata quasi dieci miliardi di euro, ma che ha portato in dote un ammontare pressocche' equivalente di crediti andati a male che hanno quasi raddoppiato l'ammontare delle sofferenze del Monte dei Paschi di Siena.
Il nuovo ticket posto alla guida della banca senese, composto dal presidente Alessandro Profumo, l'ex golden boy di Unicredit, e dall'amministratore delegato Fabrizio Viola, si trovo' di fronte una situazione dei conti davvero disastrosa e fu costretto a convincere i molto riottosi soci, in particolare la fondazione omonima, a procedere a sostanziosi aumenti di capitale che pero' non erano in grado di affrontare radicalmente il problema delle sofferenze che, in particolare nell'ultimo triennio, sono aumentate in linea con quelle dell'intero sistema creditizio, e cioe' molto, portando alla fine i Non Performing Loans a circa 40 miliardi di euro.
Su questo fronte, Fabrizio Viola sta lavorando molto intensamente ed entro fine anno dovrebbe partire una piattaforma delle sofferenze gestita da Mediobanca, ma il tempo stringe e l'ultimatum della vigilanza europea di cui ho dato conto ieri prevede un abbattimento delle sofferenze nette (che sono ovviamente di gran lunga inferiori agli NPL) nell'ordine del 40 per cento dello stock attuale entro il 2018.
Come e' noto, la Commissione europea ha dato il via libera ad uno scudo da 150 miliardi di euro sotto forma di garanzie governative alle obbligazioni di nuova emissione, ma e' rimasta sorda rispetto alla richiesta italiana di poter iniettare fino a 40 miliardi di euro di nuovo capitale nelle banche o di poter fare qualcosa di piu' sul fronte delle sofferenze, il che ha provocato una forte insoddisfazione del Governo italiano, sfociata,a quanto pare, in un diverbio tra Renzi e il presidente della BCE Mario Draghi.
L'attenzione della vigilanza bancaria della Banca Centrale Europea si sposta dalle banche venete tutte costrette a procedere ad aumenti di capitale che hanno fatto finire la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca nel non molto capace carniere del Fondo Atlante e il Banco Popolare ancora alle prese con la risposta del mercato alla sua richiesta di aumento da un miliardo di euro propedeutico alle nozze entro l'anno con la Banca Popolare di Milano (il prezzo di mercato nelle ultime sedute e' posto al di sotto di quello di offerta).
Ora e' giunta la volta del Monte dei Paschi di Siena che ha ricevuto una missiva da Francoforte che intima alla banca guidata dal bravo Fabrizio Viola di abbattere entro il 2018 le sofferenze nette (pari all'incirca al patrimonio della banca senese), una richiesta che produrra' perdite per centinaia di milioni di euro, con conseguente aumento di capitale nell'ordine presumibile di un miliardo di euro almeno da effettuare nel prossimo biennio.
Ovviamente, la notizia e' piombata come un macigno su un mercato alquanto depresso e il valore dell'azione del Monte dei Paschi, gia' crollato nelle precedenti sedute, ha perso in apertura qualcosa come il 10 per cento, discesa che si e' accompagnata con le solite sospensioni per eccesso di ribasso, sospensioni che hanno innervosito ancora di piu' gli investitori che davvero non sanno quando il mercato tocchera' il fondo.
Ma non e' stata questa l'unica notizia riguardante il gruppo creditizio senese, perche' sempre stamane si e' saputo che la banca ha chiesto il patteggiamento nel processo sui derivati Alexandria e Santorini, quelli messi in piedi per nascondere il buco miliardario determinato dall'acquisizione fulminea nel 2007 di Banca Antonveneta dal Santander allora guidato da Emilio Botin, un'acquisizione fortemente voluta dalla coppia Mussari-Vigni e che ha determinato il fatale deterioramento dei conti del gruppo senese. Con il patteggiamento, il Monte dei Paschi accetta di dichiararsi colpevole di non avere vigilato a sufficienza sull'operato della coppia allora al vertice e propone di pagare 600 mila euro come sanzione e un sequestro di 10 milioni di euro.
Dopo che si erano esaurite tutte le possibili strade di pressione istituzionale sui vertici di Unicredit per giungere alla nomina di un nuovo amministratore delegato che prendesse il posto di Federico Ghizzoni dimissionario dal 14 maggio, erano intervenuti, nell'ordine, il ministro dell'Economia, Padoan e lo stesso premier Renzi. mancava solo il presidente della Repubblica ma i contrasti tra i soci storici e gli stranieri non permettevano di giungere ad una soluzione e alla fine ha deciso il mercato spingendo l'azione giu' del 30 per cento circa in poche sedute e allora gli azionisti hanno ritrovato l'unita' nominando all'unanimita' Jean Pierre Mustier nuovo Chief Executive Officer del colosso creditizio milanese.
Il nome di Mustier certamente non dice molto ai piu' ma mi permetto di ricordare che era a capo della Corporate&Investment Banking di Socgen ai tempi dello scandalo Kerviel il trader che si imposseso' di svariati miliardi di euro della banca francese e fu lui stesso multato per insider trading e poi da li' passo' a fare il capo della CIB di Unicredit per tre anni dal 2011 al 2014 per poi passare alle dipendenze di una banca straniera.
Mustier e' dunque un uomo di finanza e cioe' esattamente il contrario dello skill di uomo retail fortemennte voluto dai soci di Unicredit nei loro primi e un po' confusi intendimenti anche se la borsa ha ieri timidamente premiato il titolo perche' francamente non se ne poteva piu' di questa situazione di stallo e perche' la mission principale che ha ricevuto e' quella di evitare la svendita degli assets e portare a termine un massiccio aumento di capitale che riporti i ratio patrimoniali ai nuovo livelli richiesti a Unicredit e Deutsche Bank dalla vigilanza europea.
Sono in viaggio nella patria della Brexit e cerchero' di mantenere questo appuntamento anche se non necessariamente a livello quotidiano (anche se spero che la prossima puntata del Diario della crisi finanziaria potro' scriverla con una tastiera che prenda le virgole) ma voglio subito dire che le cose qui sono gia' un po' cambiate rispetto alla mia visita di sei mesi fa pur in assenza di variazione dei trattati.
Mentre tutti si stanno interrogando su quale è la prossima tappa del percorso di discesa senza freni del valore delle azioni delle banche italiane quotate nei mercati regolamentati, si viene a sapere che il Governo italiano ha allo studio dei non meglio precisati provvedimenti per venire in soccorso delle banche italiane tramortite dal livello elevatissimo dei Non Performing Loans, dall'ipotesi tutt'altro che remota di dover procedere, sotto la pressione della vigilanza europea, ad aumenti di capitale che il mercato assolutamente non gradisce, dalla normativa sul bail in che spaventa azionisti e risparmiatori, una normativa che ovviamente non distingue tra le molto disastrate banche venete e i colossi del settore che un tempo vantavano capitalizzazioni di borsa per decine e decine di miliardi di euro, basti pensare ai 60 miliardi di euro di Unicredit che ora si sono ridotti a meno di 12 miliardi, ma sorte analoga tocca a Intesa San Paolo, Monte dei Paschi di Siena e Ubi.
D'altra parte è quanto va sostenendo da mesi il poco carismatico Governatore della Banca d'Italia e membro del Board della Banca Centrale Europea, il quale non perde occasione per ripetere il suo mantra sulla eccessiva rigidità del bail in che provoca la fuga precipitosa di azionisti e risparmiatori sin dalla prima lettera di messa in mora da parte della collaboratrice tedesca del capo della vigilanza europea creando così le premesse per un ulteriore dissesto della banca sotto esame, insomma un meccanismo perverso che aggiunge danni alla situazione spesso già traballante dell'istituto di credito attenzionato.
Una valutazione di assoluto buon senso quella di Visco e un ragionamento che ha ispirato il Governo e il suo braccio armato, la Cassa Depositi e Prestiti, a favorire la nascita del Fondo Atlante un organismo chiamato ad affrontare tutti e due i corni della questione, gli aumenti di capitale e lo smaltimento almeno di una parte delle sofferenze che affliggono le banche italiane, essendo a tutti chiaro che gli aumenti di capitale sono in tutto o in larghissima parte determinati dalle perdite cui le banche vanno incontro quando cedono, spesso al venti per cento del loro valore nominale, i crediti deteriorati alle entità specializzate nel recupero dei crediti.
Quale è quindi la soluzione a cui stanno lavorando dei ministeri e economici, della Banca d'Italia e della Cassa Depositi e Prestiti? Tutto parte dalla situazione eccezionale determinata dalla Brexit, una situazione che consente di utilizzare quanto previsto dai trattati europei che non escludono che in un frangente simile si possa derogare dal divieto di aiuti di Stato alle banche, anche se poi come si declinerà concretamente questa possibilità è ancora avvolto dalle nebbie, perché si passa da interventi di ricapitalizzazione a un rafforzamento di grandi dimensioni del fondo di dotazione del Fondo Atlante ad un mix di questi due interventi o altre misure che dovessero uscire dal lavoro del gruppo di esperti incaricato di individuare soluzioni!
Quando venerdì ho scritto "Brexit un vero bagno di sangue", pensavo francamente, come tanti, che quel crollo verticale del valore delle azioni delle principali banche italiane e, seppur in proporzioni leggermente più attenuate, di quelle europee rappresentasse un minimo da cui non si poteva che risalire, anche perché vedere Unicredit cedere in una sola seduta poco meno di un quarto del suo valore e Intesa San Paolo e Banco Popolare perdere, rispettivamente, il 24 e il 23 per cento, mentre l'alquanto disastrato Monte dei Paschi di Siena riusciva, nell'ultima seduta della scorsa settimana, a "contenere" le perdite al 16 per cento.
Comprendere i motivi di questo vero e proprio crollo delle azioni delle banche italiane e dei principali colossi bancari europei non è semplice anche perché un nesso causale non c'è o è molto difficile da comprendere, anche perché è vero che esiste la possibilità che dalla Gran Bretagna possa spirare verso il Continente un vento recessivo, ma le proporzioni del crollo sono troppo grandi perché questa spiegazione regga, per non parlare poi del fatto che verosimilmente il divorzio della Gran Bretagna dall'Unione europea si consumerà soltanto tra un paio di anni.
Un motivo in realtà c'è ed è dato dall'ipertrofico settore bancario in Gran Bretagna, un comparto di attività che occupa circa un milione di persone (in Italia non si arriva a 300 mila) e intermedia un quarto dei flussi dell'intera Unione europea.
Analisti e operatori erano quindi in attesa all'apertura delle borse di ieri di assistere al previsto rimbalzo dai livelli davvero infimi toccati venerdì dal listino milanese, maglia nera in Europa con perdite che superavano di quasi sei volte quelle subite dal principale indice della borsa di Londra e inizialmente questo è avvenuto con un timido rimbalzo di qualche decimo di punto, ma è bastato poco per capire che non eravamo di fronte ad una inversione di tendenza, perché i titoli bancari hanno iniziato nuovamente ad affondare ed è scattata una raffica di sospensioni al ribasso che, solo nel listino principale, sono state dodici e tra queste spiccavano quelle dei titoli bancari ed è poi andata così per tutta la giornata per finire con perdite del 13 per cento circa per il Monte dei Paschi, dell'11 per cento circa per Intesa San Paolo e dell'8 per cento per Unicredit che così in due sole sedute ha perso il 32 per cento circa, pari a 83 centesimi in meno, mentre il Footsie Mib 100 ha lasciato sul terreno, tra venerdì e lunedì, oltre il 16 per cento. Perdite importanti anche per tutti gli altri listini europei, per le borse sudamericane e Wall Street. E domani è un altro giorno!
In alcune puntate precedenti del Diario delatrici finanziaria, avevo messo in guardia dal facile ottimismo che si era diffuso nei giorni che hanno immediatamente preceduto questo 23 giugno 2016 che non so se, come sostiene Nigel Farage, sarà ricordato come l'Indipendence Day britannico o come il giorno della catastrofe, un ottimismo basato su sondaggi che si sono rivelati franchi come già in occasione del referendum sull'indipendenza della Scozia, quello vinto con buon margine da quello stesso Cameron che venerdì ha dovuto dichiarare le sue dimissioni a certo tempo data per lasciare il passo a colui o colei che saranno incoronati a ottobre dal congresso dei conservatori.
Eppure la sera stessa del voto gli opinion polls davano un discreto margine a favore del remain, ma le banche della City avevano preparato per tempo i propri piani, mobilitando nella notte centinaia di traders e di analisti che si sono scatenati tra le tre e le quattro del mattino vendendo la sterlina e i future sugli indici azionari britannici e su quelli dei più importanti paesi membri dell'Unione europea che hanno poi aperto con livelli di perdita che in genere si verificano solo a fine seduta nei giorni più neri. Ma il peggio doveva ancora venire e devo dire che, mai come nella giornata di venerdì, la realtà ha superato di gran lunga l'immaginazione.
Per quanto riguarda la borsa italiana, di proprietà della borsa britannica e il cui indice principale si chiama Footsie Mib, l'unica cosa che riusciva a partire era l'indice, mentre le principali azioni che lo compongono erano in massa sospese per eccesso di ribasso, condizione dalla quale sono faticosamente uscite denotando, in particolare le maggiori banche, perdite intorno ai 20 punti percentuali, livelli di perdite dai quali davano nelle ore successive l'impressione di potersi risollevare, per poi risprofondare su perdite ancora peggiori che poi hanno mantenuto fina a quando è finalmente giunto il segnale di chiusura delle contrattazioni.
Era come se fosse stato allestito uno stress test reale e ben diverso da quelli cui le autorità di vigilanza europea le sottopongono in modo virtuale ed è così che Unicredit ha perso il 24 per cento circa del valore segnato solo ventiquattro ore prima, mentre Intesa-San Paolo di punti ne ha persi 2£, in linea con le perdite del Banco Popolare che ancora una volta avvicina il valore di mercato a quello previsto per l'aumento di capitale in corso, mentre il Monte dei Paschi di Siena è riuscito a limitare le perdite al 16 per cento. La perdita dell'indice di Piazza Affari ha segnato un record storico coni 12,48 per cento. Nel frattempo la sterlina perdeva il 10 per cento contro l'euro, mentre oro e Bund tedeschi volavano e la somma delle perdite dei mercati europei, Londra inclusa, superava i 600 miliardi di euro.
Quando leggerete questo articolo, forse sarete già al corrente del risultato del referendum svoltosi ieri e nel quale i cittadini britannici sono stati chiamati a decidere se rimanere nell'Unione europea con un pacco di eccezioni che non ha pari in nessuno degli altri 27 paesi dell'Unione o semplicemente decidere di recidere quel cordone ombelicale esistente da più di quaranta anni e tornare ad una politica isolazionistica con i vantaggi e i rischi che questo comporta.
Sì, perché, al contrario di quello che in tanti pensavamo, lo spoglio delle schede del referendum pur essendo iniziate ieri alla chiusura dei seggi alle 23 verrà ufficialmente comunicato questa mattina (e senza la diffusione di veri e propri exit exit polls dopo la chiusura dei seggi) aggiungendo suspence, ove se ne sentisse il bisogno, ad una attesa che ha prodotto sfracelli sui mercati con perdite di oltre mille miliardi di euro in poche sedute, perdite solo parzialmente recuperate quando i mercati si sono convinti che con il barbaro assassinio della giovane deputata laburista Jo Cox il vento fosse radicalmente cambiato a favore del remain, una visione che ho criticato in "Brexit o non dir quattro se non l'hai nel sacco", sia per motivi etici sia per la scarsa consistenza in un Paese spaccato in due e dove le convinzioni di chi propende per il leave sono molto radicate e molto emotive.
Sono andato a dormire, come tanti, sull'indicazione di opinion polls che davano in testa il fronte del remain su quello del leave per quattro punti percentuali, mentre si profilava un record di affluenza alle urne eccezionale per la Gran Bretagna e che oscilla intorno al 70 per cento, ma quando, a metà delle schede scrutinate, si è visto un prevalere dei sì all'uscita sui no per mezzo milione di voti la sterlina ha iniziato a perdere contro il dollaro portandosi a 1,30 dollari contro gli 1,50 di ieri sera, livelli non toccati dal lontano 1985 e i futures sul principale indice borsistico di Londra segnalano un meno 6 per cento e la borsa di Tokyo sta perdendo sette punti percentuali, le quotazioni dell' oro sono cresciute di quasi il 5 per cento, mentre si registra una significativa flessione del prezzo del petrolio, ma il grosso, se la tendenza attuale favorevole all'uscita dall'Unione europea si trasformerà, come è ormai certo, in certezza, lo vedremo quando apriranno i mercati europei.
Sono certo che molti giornalisti hanno preparato due pezzi, a seconda dello scenario che prevarrà, ma io penso sinceramente che, alla luce del risultato, nulla sarà come prima perché al Governo Cameron non sono bastati i quattro punti strappati all'Unione europea a febbraio e molto probabilmente sarà costretto a dimettersi aprendo la strada ad elezioni che vedranno il prevalere dei partiti sensibili alle ragioni dei sostenitori della Brexit e a una politica dell'immigrazione dai paesi dell'Unione europea che si profila già come molto dura!