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Economics (240)

Roberto

Roberto Casalena
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Si fa un gran parlare dell'autonomia delle banche centrali dalla politica e dagli interessi nazionali, ma un breve volgere all'indietro lo sguardo sulle vicende dell'ultimo mezzo secolo rivela che questa convinzione è né più né meno che una superstizione, basti vedere quello che la banca centrale statunitense sotto la guida di Bernspan, al secolo Ben Bernanke, ha fatto durante gli anni più bui della tempesta perfetta e quello che il suo predecessore e Maestro Alan Greenspan fece ai tempi dello scoppio della bolla speculativa azionaria, quella del Nasdaq se la ricordate, inondando letteralmente di liquidità i mercati dopo la rottura impetuosa del listino tecnologico dal livello di 5.000 punti che poi è quello attorno al quale sta ondeggiando da qualche mese.

Ma non è che in Europa, Gran Bretagna compresa, e in Asia si scherzi su questo, con una politica dei tassi a zero e sottozero che è tutta rivolta a far partire più che lo sviluppo l'inflazione, anche se i risultati in tal senso sono del tutto sconfortanti, al punto da far dire a Supermario e compagni che, senza i loro interventi, chissà dove sarebbe gli indici dei prezzi all'ingrosso e quello dei prezzi al consumo.
L'attuale presidente della Fed, una signora dai modi tranquilli e che risponde al nome di Yellen, è cresciuta alla scuola di Greenspan prima e di Bernspan poi ed è usa a sentire il canto delle sirene di Washington e a far di tutto per non innescare un brusco voltafaccia dei mercati prima delle combattutissime elezioni presidenziali di novembre, elezioni nelle quali le uniche speranze di Hillary Clinton risiedono nel fatto che la congiuntura economica sia favorevole, con il tasso di disoccupazione ai minimi storici e vicino a quella che viene definita disoccupazione frizionale (composta per lo più da persone che non hanno intenzione di trovare un lavoro), con le borse vicine o al di là degli attuali massimi storici e poco importa se uno speculatore puro come George Soros sta scommettendo sulla caduta del più importante indice azionario statunitense lo Standard&Poor's 500!

Ma anche se dovesse andare come dico nel titolo, ciò non verrebbe visto come un problema dal Federal Open Market Committee della Fed, l'organismo decisionale della banca centrale americana, organismo il quale, o meglio i suoi componenti a turno, alternerebbero doccia fredde e calde per far capire che il tanto temuto rialzo dei tassi è più lontano o più vicino e, comunque, gli osservatori specializzati (i cosiddetti Fedwatchers) hanno già spostato la data più probabile per la ferale decisione da giugno a settembre.

In una recente intervista a Bloomberg, il vice ministro dell'Economia, Enrico Morando, ha ventilato l'ipotesi che il pagamento degli ultimi interessi sui Monti Bond per 4 miliardi di euro ricevuti dalla banca senese nel 2012 e interamente rimborsati al Tesoro potrebbe essere pagata in azioni invece che in denaro e questo porterebbe lo Stato italiano a passare dal 4 al 7 per cento del capitale dell'un po' disastrato Monte dei Paschi di Siena, diventandone così il primo azionista in una fase non proprio felice della banca guidata dal bravissimo Fabrizio Viola ma ancora gravata da Non Performing Loans per una cifra che, secondo il Financial Times si aggira sui 40 miliardi di euro e che ha suscitato l'attenzione della vigilanza europea presso la BCE e richiederà senz'altro misure straordinarie per essere affrontato in tempi non biblici.
Agli attuali corsi di borsa, l'operazione si presenta sicuramente come un affare, ma denota innanzitutto, come ha sostenuto nell'intervista citata lo stesso Morando, la volontà dell'esecutivo italiano di cooperare al rafforzamento del gruppo senese, rappresentando al contempo un atto di fiducia nell'operato dei vertici che hanno preso il posto di quelli precedenti e sotto inchiesta della magistratura con accuse molto pesanti legate a una fase molto oscura del gruppo che ha visto anche la morte ancora inspiegata del giovane direttore della comunicazione di MPS.

Nella puntata di mercoledì del Diario della crisi finanziaria, parlavo del Veneto come buco nero del credito in Italia, ebbene gran parte delle imputazioni di Mussari e compagni nascono proprio dalle operazioni messe in piedi per nascondere il buco, o la voragine, aperti nei conti in precedenza solidi del gruppo creditizio senese dalla sciagurata e rapidissima acquisizione della Banca Antonveneta che il Banco Santander aveva acquisito dall'olandese ABN Amro per rivenderla in tempo reale al Monte dei maschi di Siena con plusvalenza miliardaria, le famose operazioni Alexandria e Santorini, la prima delle quali ha pesato ancora sui conti del 2015 della banca senese e non se in via definitivamente risolutiva.

Ebbene, quell'acquisizione non è stata molto costosa, ma ha coinvolto anche il Monte dei Paschi di Siena in una zona d'Italia che proprio in quel momento stava vedendo esplodere il fenomeno dei Non Performing Loans e quindi la banca si è trovata di fronte, contemporaneamente, a un deflusso di depositi e ad un aumento degli incagli in una zona del Paese che da locomotiva dell'economia si trasformava nello scenario dei capannoni vuoti e dei capitali degli imprenditori spesso fuggiti all'estero, il tutto con conseguenze disastrose per la banca e con l'unico corollario felice dell'uscita di scena della omonima Fondazione!

Come era largamente previsto e come avevo anticipato in diverse puntate del Diario della crisi finanziaria, nel corso del consiglio di amministrazione straordinario del colosso creditizio italiano Unicredit svoltosi martedì scorso, l'amministratore delegato del gruppo, Federico Ghizzoni, ha annunciato la sua disponibilità a rassegnare le sue dimissioni prontamente accettate dai consiglieri che hanno dato mandato al presidente, anche lui in odore di uscita, di trovare un nuovo numero operativo entro la riunione del 9 giugno del CdA, anche se, a quanto si sa, il candidato sarebbe già stato individuato nelle convulse giornate che hanno preceduto il passo indietro del non troppo rimpianto Ghizzoni.

Ma perché Unicredit cambia in corsa il proprio Chief Executive Officer? La risposta è presto detta, in quanto, sotto attacco da parte delle donne e degli uomini che rispondono agli uomini che rispondono agli ordini di Daniele Nouy, capo della vigilanza bancaria europea presso la Banca Centrale Europea, la resistenza di Ghizzoni a procedere al rafforzamento patrimoniale per 5-7 miliardi di euro e la sua ostinazione a trovare misure alternative sotto forma di alienazioni di pezzi dell'impero internazionale del gruppo di Piazza Cordusio sono state giudicate dai soci non più proponibili e di qui la ricerca di un nuovo numero uno più obbediente alle scelte dei soci stessi che tutto vogliono meno che trovarsi in un conflitto con la Nouy e il suo braccio destro operativo che chiedono alla banca di passare dal coefficiente patrimoniale del 10,5 per cento a quello più solido del 12,25, misura già prevista per la Deutsche Bank.

Ma perché la Nouy chiede ai due gruppi creditizi di stare circa due punti percentuali sopra i requisiti patrimoniali previsti dalla normativa vigente nell'eurozona? Mai si sono viste ragioni più divergenti per un identico risultato. per il colosso tedesco sono legate all'enorme esposizione in derivati e titoli più o meno tossici, rischi sui quali mi sono già soffermato diffusamente in passato, mentre per la banca italiana la ragione è duplice ed è data da un lato alla rilevante esposizione in Non Performing Loans e, dall'altro, nei rischi finanziari, ma anche geopolitici, legati alla presenza in decine di paesi diversissimi tra di loro, con posizioni importanti in Germania, dove Unicredit possiede la quarta e un po' traballante banca tedesca, in Austria e in numerosi paesi dell'Est europeo, in particolare in Polonia con Banca Pekao in procinto di essere ceduta pur essendo un'importantissima banca che fa un agguerrita e a volte vincente concorrenza alle banche tedesche attivamente operante in quel dinamico paese!
Se la mia lettura degli avvenimenti è giusta, vedremo nelle prossime settimane passi importanti di Unicredit in direzione dei desiderata della vigilanza bancaria europea e non è escluso che si assisterà ad un mix tra aumento di capitale e dismissioni.

Nella puntata del 13 maggio, avevo titolato: Il Veneto è il buco nero del credito? riferendomi alle quattro grandi banche operanti nella regione caratterizzata un tempo dall'economia più dinamica d'Italia, delle quattro tra hanno sede nella regione (Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca e, the last but not the least, quel Banco Popolare che presto convolerà a nozze con la Banca Popolare di Milano, previo un aumento di capitale da un miliardo di euro), mentre la quarta, il Monte dei Paschi di Siena, ha sede altrove ma ha acquisito i dolori della Banca Antonveneta per la modica cifra di poco meno di dieci miliardi di euro.
Sul Corriere della Sera di ieri, Federico Fubini ha pubblicato i risultati di una approfondita inchiesta sul credito nella regione Veneto e ha spiegato che ad avere i conti a pezzi sono ben tredici banche con sede nella regione, la maggior parte di piccole e medie dimensioni, banche che diventano quattordici includendo, come è doveroso, il Monte dei Paschi e ha anche chiarito che il meccanismo che ha portato a piazzare azioni non quotate a prezzi stratosferici seguito dalla Banca Popolare di Vicenza (in questo caso si è già avuta la prova della verità con il valore originario dell'azione di 62 euro passato, in sede di aumento di capitale, a 10 centesimi) e Veneto Banca, ebbene questo stesso metodo è stato seguito da quella Crediveneto, messa recentemente dalla Banca d'Italia in liquidazione coatta amministrativa, che ha convinto migliaia di clienti della banca, e moltissime imprese spesso in cambio di aperture di credito, a sottoscrivere azioni che oramai sono carta straccia.

L'elenco delle banche venete fallite e solo in alcuni casi salvate da concorrenti non sempre con sede nella regione è lungo e, anche se si tratta di realtà creditizie nella maggior parte piccole, il danno per il rapporto tra clientela e sistema bancario è bello che fatto, un danno che non è ancora perfettamente quantificato perché viene da chiedersi quanti dei 125 miliardi di crediti erogati torneranno realmente a casa, anche perché le normative italiane sulla classificazione delle sofferenze sono ancora troppo elastiche, non vigendo da noi e in Europa il principio statunitense secondo il quale un credito si trasforma in perdita dopo pochi mesi di insoluti.

Ma anche stando ai dati ufficiali, abbiamo sofferenze pari a svariate decine di miliardi di euro, a fronte dei quali spesso non ci sono garanzie di nessun tipo e il cui valore è persino inferiore a quel 20 per cento che viene corrisposto in sede di acquisizione di sofferenze da parte degli operatori specializzati, per non dire che con gli aumenti di Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Banco Popolare le disponibilità del Fondo Atlante previste a questo scopo sono pressoché finite.

Sembra proprio che la riunione dei ministri economici e dei governatori delle banche centrali del gruppo dei sette paesi maggiormente industrializzati riunito nel week end in Giappone non avesse altra preoccupazione che quella della scelta che i sudditi della novantenne Elisabetta seconda faranno il prossimo 23 giugno tra l'opzione di restare, remain, nell'Unione europea e quella di uscire, leave, dall'augusto consesso che riunisce 28 paesi in molti casi molto diversi tra di loro per struttura economica, cultura, assetto politico e chi più ne ha ne metta.

Dalla riunione giapponese è venuto uno scenario di sciagure per il Regno Unito, che poi tanto non lo sarebbe visto che la Scozia già prevede nel caso un secondo referendum per lasciare l'unione e chiedere l'ammissione all'Unione europea, con conseguenze ferali sul prodotto interno lordo e una svalutazione della sterlina stimabile tra il 15 e il 20 per cento, un aumento del tasso di disoccupazione e un forte impatto sulla già strutturalmente deficitaria bilancia commerciale, tutte eventualità che avevo segnalato nella puntata del Diario della crisi finanziaria dedicata all'argomento, esclusa una svalutazione così massiccia della sterlina.
Ma questo intervento a gamba tesa dei potenti della terra sulla libera scelta di una grande nazione, intervento ovviamente fortemente caldeggiato dalle autorità monetarie britanniche presenti all'incontro e dai rappresentanti della Unione europea per non parlare del presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ben presente al centro della foto di gruppo dell'incontro e pressione gradita da tutti gli altri partner presenti rischia di arrivare tardi, perché la partita sembra già decisa in favore della permanenza e ben lo testimonia il forte recupero della sterlina nei giorni scorsi (con un euro si acquistavano 81 centesimi di sterlina poche settimane fa e ora se ne ricevono poco più di 77 centesimi).

Infatti, tutti i sondaggi danno una percentuale dei no all'uscita del Regno Unito dall'Unione europea di sette punti percentuali superiore a quella di quanti vorrebbero invece lasciarla, con gli indecisi ridotti all'infima quota del dieci per cento, sondaggi corroborati dalle quote degli allibratori che pagano pochissimo sopra la pari la possibilità della vittoria del si.
Dando ai sondaggi il credito che meritano, va detto che la partita non è del tutto chiusa e le prossime settimane di campagna possono ancora modificare l'esito che si inserisce in un quadro europeo che vede le presidenziali in Austria che comunque assegnano all'estrema destra circa la metà dei consensi e la partita della Grecia che vede l'Unione europea molto meglio intenzionata verso un accordo, facilitato dal passaggio del secondo pacchetto proposto dal governo Txipras, ma anche qui voglio vedere l'accordo firmato!

In questa analisi della terza ondata della tempesta perfetta che ha preso le sue mosse a cavallo tra il 2015 e questo anno di disgrazia 2016, sto prestando particolare attenzione al sistema bancario italiano ed europeo, anche se non sottovaluto quanto sta accadendo oltreoceano con l'esplosione delle sofferenze nel credito al consumo e la ripresa delle attività delle fabbriche prodotto delle banche globali a stelle e strisce con nuove e pericolose invenzioni escogitate dagli apprendisti stregoni che le popolano, e questa attenzione al sistema bancario è data da un lato ai problemi nostrani in materia di Non Performing Loans, crediti deteriorati per i quali la vigilanza della BCE ci chiede l'avvio di un'opera di pulizia, mentre per quanto riguarda le banche globali europee, Deutsche Bank in testa, continuano a permanere rischi reputazionali e ancor di più rischi legati alla montagna di derivati e titoli tossici che le stese hanno in pancia.

Si è tenuta giovedì scorso l'assemblea di bilancio della Deutsche Bank davanti a 5 mila azionisti molto nervosi, non solo e non tanto perché per il secondo anno consecutivo rimarranno all'asciutto e il gruppo ha registrato una perdita di 6,8 miliardi di euro, ma anche perché la banca è sommersa da 7.800 azioni giudiziarie con contenziosi che vanno da cifre esigue ad altre che prevedono sanzioni per miliardi di euro, molte delle quali già pagate al di qua e al di là dell'Oceano Atlantico.

Ha un bel dire il bravissimo Chief Executive Officer di Deutsche, John Cryan (rimasto solo al comando dopo l'uscita di scena del co CEO, Jurgen Fitschen), che "noi siamo meglio della nostra reputazione", perché è universalmente noto che per una banca, al di là dei dati reddituali patrimoniali, la reputazione è tutto e non è stato visto bene l'allontanamento di Gerog Thoma, l'uomo incaricato di presiedere una commissione incaricata di fare piena luce sugli scandali e del gruppo e che è stato costretto alle dimissioni per le critiche ricevute da membri del consiglio di sorveglianza che lo accusavano di eccessivo zelo. Resta e pesa la richiesta della vigilanza BCE di portare i requisiti patrimoniali dall'attuale 10,7 per cento all'alquanto proibitivo 12,25.

Partono da qua le analogia con il caso Unicredit, anche esso alle prese con una richiesta di forte rafforzamento patrimoniale da parte della vigilanza europea, ma alle prese anche con problemi di governance interna che si intrecciano a quella richiesta, vista la contrarietà del CEO Federico Ghizzoni a procedere ad aumenti di capitale, aumento che, secondo le stime degli analisti, dovrebbero essere nell'ordine dei 5-8 miliardi di euro e che diluirebbero in modo significativo la quota delle tre fondazioni un tempo padrone indiscusse del colosso creditizio milanese.

L'eventuale uscita di Ghizzoni apre poi un capitolo a parte di questa storia, perché è prassi consolidata nel sistema bancario italiano che un cambio al vertice venga annunciato solo quando è stato deciso e, particolare non secondario, quando è pronta una soluzione di ricambio!

Dopo un'attesa durata parecchi mesi, i risparmiatori coinvolti nel dissesto di Banca Etruria, Carimarche, Cariferrara e Carichieti hanno visto accendersi la luce verde su un provvedimento del Governo che prevede, a partire da un fondo portato da 100 a 300 milioni circa di euro, la possibilità di coprire in tutto o in parte quanto da loro perso investendo in obbligazioni subordinate delle stesse banche, in molti casi senza ricevere adeguate informazioni sulla rischiosità dell'investimento che stavano effettuando, situazioni spesso al limite, limite spesso superato, della truffa orchestrata da dipendenti di queste banche, come dimostrano i recenti sviluppi dell'inchiesta della procura di Arezzo su Banca Etruria.

Il provvedimento governativo prevede però alcuni paletti, il primo dei quali è dato dal fatto che le obbligazioni devono essere state sottoscritte prima del 12 giugno 2014, quando è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la nuova normativa sui salvataggi bancari nell'eurozona approvata anche dall'Italia con l'introduzione del bail in, mentre il secondo è rappresentato dal fatto che il reddito lordo del richiedente non deve superare i 35 mila euro e la sua posizione in titoli non deve superare i 100 mila euro; in ogni caso, invece del rimborso automatico si potrà ricorrere all'arbitrato presso l'autorità anticorruzione guidata da Cantone.
Perché il caso di queste quattro banche di dimensioni tutto sommato modeste è così importante, al punto da condizionare l'andamento in borsa di banche di ben maggiori dimensioni nel primo trimestre di quest'anno di disgrazia 2016? Semplicemente perché si è trattato del primo caso di applicazione del bail in, la normativa europea che prevede che, in caso di dissesto, siano gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti per le somme che eccedano la soglia dei 100 mila euro a pagare entro il limite dell'8 per cento dell'attivo della banca coinvolta, un meccanismo che sostituisce il cosiddetto bail out che prevede, invece, che al salvataggio contribuiscano tutti gli incolpevoli e ignari contribuenti.

Ma, se il bail in entrava in vigore solo alcuni mesi dopo, e precisamente il primo gennaio 2016, perché si è scelto di percorrere questa strada alquanto sanguinosa? La tesi del Governo è che altrimenti si sarebbe andati al fallimento vero e proprio delle quattro banche, con conseguenze sulla stabilità delle zone interessate, nonché il licenziamento di qualche migliaio di dipendenti delle banche stesse, una tesi che si fonda tuttavia sul presupposto che il Governo non avrebbe proceduto al salvataggio pubblico delle quattro banche, pur essendo lo stesso ammissibile a quella data dalla normativa europea vigente.
Emblematica è l'idea di stabilire uno spartiacque per i rimborsi automatici alla data del 12 giugno 2014, data nella quale il meccanismo del bail in viene approvato in sede italiana, una data che ha tagliato fuori dall'automaticità solo 186 investitori che avevano acquistato on line le obbligazioni al 50-60 per cento del loro valore e sono stati così classificati come speculatori, tesi che condivido appieno!

Chi mi segue dal settembre del 2007 sa bene che, nel tenere il giornale di bordo della flotta finanziaria scossa dagli alti marosi della tempesta perfetta, ho dichiarato subito che il mio punto di riferimento teorico era il mai troppo compianto John Maynard Keynes, mentre nel panorama contemporaneo le stelle polari erano lo speculatore George Soros e il Leone di Omaha, al secolo Warren Buffett, due persone diversissime tra di loro ma che analizzavano la crisi finanziaria più grave dal secondo dopoguerra mondiale con una lucidità senza pari.
Ebbene, in queste ultime settimane i miei punti di riferimento vanno ognuno per la sua strada, perché George Soros, spaventato dalla sempre più possibile crisi della Cina (e come dargli torto), sta disinvestendo dagli Stati Uniti d'America, anzi sta scommettendo su un tracollo dell'indice Standard & Poor's 500 e gettandosi a capofitto su quello che Keynes definiva un relitto barbarico, sì proprio l'oro che sta comprando fisicamente e a mezzo di futures nonché acquistando quote di società specializzate nell'estrazione e nella commercializzazione del metallo giallo, mentre Buffett, da parte sua (e da par suo) si è lanciato a lancia in resta sull'alquanto traballante Apple e forse anche sulla tecnicamente fallita Yahoo.

Insomma, c'è da farsi venire il mal di testa, anche perché non riesco a dimenticare che solo pochi anni fa il metallo giallo aveva toccato i 1.750 dollari l'oncia per poi precipitare poco al di sopra dei mille dollari, un mercato cioè abbastanza ballerino e nel quale si rischia di bruciarsi le dita se non addirittura le mani, un mercato, cioè ballerino non meno di quello del petrolio dove i giochetti dal lato dell'offerta stanno determinando una corsa basata su alquanto risibili motivi come l'incendio in Canada e gli scioperi in Nigeria, due fenomeni certamente importanti ma largamente surclassati dalla rapida crescita dell'offerta di petrolio iraniano che sta recuperando a grandi passi i livelli di produzione precedenti alle sanzioni.

Il problema è rappresentato dal fatto che Soros non è una stella polare solo per me e, quindi, c'è una quantità di investitori che si stanno mettendo in scia sia sul mettersi contro lo S&P 500 sia nell'acquistare a piene mani l'oro, incuranti del fatto che il metallo giallo vive i suoi momenti migliori quando l'inflazione corre, mentre ora siamo in presenza di una vera e propria deflazione in Europa e di una crescita moderata dei prezzi negli States, ma è ovvio che Soros sta vedendo una recessione mondiale guidata dal crack della Cina e di fronte a questo si va verso i porti sicuri e il porto sicuro per eccellenza rimane l'oro!

Come avevo scritto nelle puntate precedenti, Daniéle Nouy e la sua fidata collaboratrice tedesca incaricata di seguire il dossier delle procedure di risoluzione delle banche appartenenti all'area dell'euro non si accontentano più di pressare, in certi casi molto giustamente, le banche venete o Carige o Monte dei Paschi di Siena ma puntano dritte dritte al cuore del sistema bancario, invitando la seconda banca italiana e la prima per internazionalizzazione, Unicredit appunto, a fare uno sforzo rilevante sul capitale, non bastando i livelli attuali di Cet1 fully loaded che attualmente è al 10,85 per cento, ma chiarendo che non basterebbe nemmeno portarlo, come prevede il piano aziendale, al 12,6 nel 2018, perché la vigilanza della Banca Centrale Europea vuole molto di più anche se non è stato reso noto a quale livello vuole che il gruppo di Piazza Cordusio debba salire, ma quello che è certo è che lo vuole molto prima di quella data.


La notizia delle pressioni della Nouy aumenta il malcontento dei soci di Unicredit nei confronti dell'amministratore delegato del gruppo creditizio milanese, Federico Ghizzoni, un manager un po' grigio che non si è distinto per azioni eclatanti, concentrato come era a garantire la tenuta dei conti che, però, non è sufficiente a garantire lo sviluppo di una banca molto forte in Germania e in Austria e fortissima in alcuni paesi dell'Est dell'Europa, così come evidentemente non è bastato il piano di allontanamento di 18 mila dipendenti annunciato lo scorso anno.


Da quello che si apprende dai giornali, Ghizzoni sarebbe disponibile all'uscita purché la stessa sia onorevole e non si capisce se alluda alle condizioni economiche, certamente generose, o ad una sua eventuale ricollocazione nel panorama economico nazionale, cosa che prevede molto probabilmente un intervento del Governo che, secondo la stampa, sarebbe molto preoccupato per quello che sta accadendo in Unicredit.
Per chi ricorda quanto avevo scritto nelle numerose puntate sulla vigilanza della BCE, uno dei punti più dolenti sollevati dalle banche italiane era proprio la discrezionalità delle regole applicate, una discrezionalità che ora si estende al livello dei requisiti patrimoniali richiesti alle banche dell'eurozona, perché è evidente che i requisiti di Unicredit soddisfano perfettamente quelle stabilite dalla normativa, anche se non siamo a conoscenza dell'esito dello stress test cui è stato sottoposto l'istituto alla fine dell'anno scorso e se questo esito sia alla base delle pressioni attualmente esercitate nei confronti del gruppo milanese.

Riguardavo gli ultimi articoli ul sistema bancario italiano e ho notato che erano uniti da una visione pessimistica, in buona parte dovuta al pressing e all'inedito attivismo della vigilanza della Banca Centrale Europea sulle nostre banche, in particolare quelle più fragili, se non disastrate, e segnatamente quelle con sede legale in Veneto. Ma va detto che, nell'era dei tassi bassi, se non negativi, non tutto va male e a testimoniarlo è l'esplosione dei mutui a fronte dell'acquisto degli immobili da parte delle famiglie, cresciuti nel 2015 del 90 per cento circa (60 per cento al netto delle rinegoziazioni di mutui già esistenti) e del cosiddetto credito al consumo che, nell'aprile di quest'anno, è cresciuto di poco meno del 14 per cento e si è portato ai livelli più alti da quel 2011 che segna l'inizio della tempesta perfetta su quelle banche italiane che avevano superato pressocché indenni la prima ondata della crisi ifnanziaria in quanto molto poco esposte ai rischi connessi ai derivati e ai titoli tossici e che non avevano richiesto interventi di salvataggio da parte del Governo fino ai Monti Bonds che sono successivi a quella data e dei quali sarà, in buona sostanza. unico fruitore il molto mal messo Monte dei Paschi di Siena.

Il discorso cambia e di parecchio se volgiamo lo sguardo agli impieghi bancari alle imprese non finanziarie e qui le banche italiane nel loro insieme continuano a procedere con i piedi di piombo, gravate come sono di 360 miliardi di Non Performing Loans, un aggregato che è vero che non si trasforma del tutto in sofferenze che sono intorno ai 200 miliardi, mentre, al netto di rettifiche e accantonamenti, sono finalmente scese a 83 miliardi, ma, purtroppo, questo aggregato non viene preso in considerazione dalla vigilanza della BCE che sostiene che, in caso di dissesto, quegli accantonamenti e quelle rettifiche non potrebbero essere utilizzati per la crisi di liquidità che sopravverrebbe inevitabilmente, in particolare se si tratta di gruppi bancari di grandi dimensioni.

Ma il ritorno del credito al consumo a livelli precedenti la crisi, una crisi che non è stata solo e forse non tanto finanziaria quanto economica, è una buona o una cattiva notizia? Per poter rispondere bisognerebbe disporre di dati di dettaglio che dividano per lo meno tra finanziamenti finalizzati all'acquisto di un bene e finanziamenti finalizzati alla costituzione di scorte monetarie, mentre l'unica cosa che ho potuto vedere dalla notizia è che i richiedenti appartengono alle classi centrali di età, le due che vanno dai 25 ai 45 anni, a dimostrazione che le classi di età più anziane hanno una minore propensione all'indebitamento, in particolare nei confronti di questo tipo di finanziamenti a tassi normalmente non leggeri erogati dalle finanziarie di ogni ordine e grado.

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