L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Mai come in momenti come il presente, in cui ci troviamo quotidianamente immersi in fiumi di notizie allarmanti, meritano la nostra massima attenzione le notizie che ci permettono di intravedere un futuro migliore.
E’ questo certamente il caso di quanto recentemente accaduto in Colorado, divenuto ufficialmente il 23 marzo il ventiduesimo stato degli Usa ad avere abolito la pena di morte ed il decimo a farlo dal 2004.
Conseguentemente all’approvazione dei due rami del parlamento e la firma del governatore Jared Polis, le tre condanne a morte ancora in attesa di esecuzione sono state prontamente commutate in ergastolo.
Non è stato, però, un risultato semplicissimo da raggiungere, vista la ferma resistenza operata dai repubblicani, schierati a sostegno della necessità assoluta della pena capitale a soddisfazione dei legittimi diritti dei familiari delle vittime di omicidio di vedere definitivamente risolta la propria tragedia grazie alla morte dei responsabili.
Quanto accaduto fornisce una ulteriore, preziosa e gradita conferma del fatto che negli Usa, che per il terzo anno consecutivo non compaiono tra i primi cinque stati per numero di esecuzioni (al settimo posto nel 2016, all’ottavo nel 2017, al settimo nel 2018), il fronte abolizionista stia conquistando sempre più forza e consenso, soprattutto grazie al diffondersi della consapevolezza di quanto ci sia di arbitrario e di iniquo nell’applicazione della pena capitale.*
«Sono commosso dalla testimonianza e dal dibattito che abbiamo ascoltato» - ha dichiarato il presidente dell’Assemblea, il democratico Alec Garnett. «Spero in una società - ha poi aggiunto - in cui spendiamo le nostre risorse in riabilitazione, non in appelli; nel trattamento delle tossicodipendenze e non nella somministrazione di iniezioni letali».
Oltremodo sagge e illuminanti le parole di Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center, il quale, al termine di una lunga dichiarazione, ha così concluso:
“Il parlamento del Colorado si è impegnato in un dibattito sentito, rispettoso e sincero su problematiche molto sensibili. Alla fine, ha basato la sua decisione sulle prove e sui sentimenti personali di ciascun parlamentare riguardo a ciò che fosse giusto fare per il popolo del Colorado. Il Governatore Polis ha riconosciuto che, per quanto orrendi fossero i crimini commessi dagli ultimi tre condannati a morte, era meglio chiudere questo capitolo della storia della giustizia penale del Colorado, piuttosto che lasciare che il problema imputridisse mentre venivano spesi inutilmente milioni di dollari dei contribuenti.”
*Otto stati americani hanno messo a morte nel 2018. Il Texas ha quasi raddoppiato i numeri dell’anno precedente (da 7 a 13), rappresentando poco più della metà del totale nazionale, dopo che la Corte suprema ha concesso un numero inferiore di sospensioni delle esecuzioni. Il Nebraska ha eseguito la sua prima condanna a morte dal 1997, il South Dakota dal 2012 e il Tennessee dal 2009. Tuttavia, a differenza dell’anno precedente, Arkansas, Missouri e Virginia non hanno eseguito sentenze capitali, determinando lo stesso numero di stati esecutori del 2018 come del 2017.
25 Novembre: Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne, vittime ignare di uno stereotipo di genere OVVERO la Degenerazione del Femminismo.
… Correa l’anno 1791, in una Francia “illuminata”, giovanissima figlia della Rivoluzione per eccellenza, viene proclamata la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, di quelle donne scese in piazza, insieme agli uomini, a rivendicare i diritti politici e civili negati dall’assolutismo monarchico.
Inconsapevolmente, in quella sede, si sono poste le basi di un movimento, oggi, irreparabilmente viziato nel mondo occidentale, un fenomeno che, ai giorni nostri, contraddice i primigeni, nobili, intenti di uguaglianza e libertà… “Sua Maestà il Femminismo”!
Un movimento destinato a durare nei secoli.
Pace, Pane e Libertà reclamavano le donne di San Pietroburgo nel non così lontano 1917.
Spezzati gli antichi pregiudizi sedimentati sul fondo di un’arcaica incoscienza patriarcale, nel 1929, si innalzano le “Torce della libertà”.
Ma dov’è finita la razionalità promossa, in tempi non sospetti, da Mary Wollstonecraft, prima femminista in assoluto e quali le deviazioni che sono maturate, nel corso degli anni, man mano che, dai suoi primi, timidi tentativi, il fenomeno si trasformava da movimento culturale elitario in fenomeno di massa, più o meno esasperato, non tanto nelle premesse, quanto negli esiti?
E sì, perché, a giudicare da quello che oggi ci propone e ci sottopone il panorama mediatico, di razionale sembra esserci davvero molto poco!
Si cominciò nel ’68, toccando quei temi scottanti, quali divorzio e aborto, fino ad allora protetti da un’aura quasi sacrale, pensando, in qualche modo, che l’affrancamento della donna fosse, in primis, affrancamento sessuale, quindi libertà dall’obbligo di procreare.
Da quel momento la parabola discendente del femminismo occidentale non subirà più arresti.
Lentamente, si è passati, dalla legittima pretesa di parità, a quella, più insensata che inesaudibile, di un’arrogante castrazione maschile.
Prerogativa di chi rivendica un diritto negato è il rifiuto della prevaricazione, a buon rigor di logica!
Ma quello che è nato con il preciso intento di liberare la donna è diventato la sua prima causa di schiavitù, perché, nel tentativo di modificare un rapporto di forza precostituito, ne è diventata vittima volendolo ribaltare.
E per farlo non ha certo badato a spese, servendosi della diffusione mediatica ossia la manipolazione delle masse più riuscita dopo quella della Chiesa.
Le pubblicità inneggiano, in maniera palese, alla mortificazione fisica e mentale dell’uomo, sminuendo drasticamente, nell’immaginario collettivo, la figura maschile.
La violenza verbale è ammessa e concessa, gli aborti morfologici proponibili in nome di una battaglia a senso unico senza precedenti.
E, qualora tutto ciò non si dimostrasse sufficiente a ribaltare un clichet, tiriamo fuori le accuse di sessismo noi POPOLO ROSA!
Basta una parola, un’accusa di violenza per rovinare la vita di un uomo, non facendosi scrupolo di denigrare la figura paterna anche nei confronti dei figli. La parola, l’arma più potente di cui il genere umano dispone.
Ma è il furore ideologico tipicamente adolescenziale che, proprio per la sua natura di “minorenne”, è condannato ad una visione schematica che non sa andare oltre il bianco e il nero, ignorando la complessità e le contraddizioni del mondo e del genere umano.
Questi poveri maschi improvvisamente sono diventati dei sempre meno efficienti padri, mariti, lavoratori, quasi una categoria a rischio, sì, perché fanno tutto loro, LE DONNE, o, almeno, così dicono…
Poi però rivendichiamo le quote rosa e, nei divorzi, pretendiamo l’assegno di mantenimento, ci sono padri che mantengono figli che non vedono mai.
Quanta ipocrisia!
Ci sono padri che, nel silenzio e, con dignità, hanno svolto lavori umilianti, massacranti per sostenere la propria famiglia.
Questa è memoria storica oltre che grande esempio di coraggio, civiltà e senso del dovere.
Un abominio che nulla ha a che vedere con la gloriosa storia di Olympe de Gouges o, molto presumibilmente, una degenerazione funzionale all’attuale sistema economico-sociale.
L’emancipazione avvenuta, non è quella della donna dall’uomo, ma quella della donna da se stessa.
L’emancipazione della donna dalla sua maternità, la caratteristica biologica più spiccata, permette di disporre di lavoratrici più efficienti.
Via, quindi, alla virilizzazione del femminile, a quella mortificazione della femminilità che, a volte raggiunge livelli davvero aberranti.
Urge il recupero di un’autentica coscienza di genere da contrapporre al femminismo più spietato, bacino ideologico del capitalismo imperante.
“UMANO TROPPO UMANO” urlava Nietzsche già nel 1878!
Oggi, nel tempo della tecnica, non c’è più spazio per l’uomo e, quindi, neanche per la donna.
Dove “Dio è morto”, volendo ancora citare Nietzsche, anche l’uomo deve morire.
Ormai vige il principio che una donna se non si realizza nel lavoro è una persona frustrata, sempre a detta delle stesse, incapaci di capire che la scelta è una possibilità. Che c’è sempre un “padrone” da asservire e che una donna può realizzarsi ed esercitare il proprio, legittimo, autorevole potere in seno alla famiglia al di là di quanto rende in termini economici.
Perché, diciamocelo chiaro, signori miei, il vero potere delle donna, delle grandi società matriarcali, è proprio quello!
Oggi la donna dovrebbe un pochino imparare a svestire i panni dismessi di Wonder Woman, a liberarsi da quel furore mistico di cui si è auto investita, fare pace con se stessa e non la guerra con l’altro sesso, nella sana accettazione del fatto che, aver bisogno dell’altro non è segno di debolezza ma il naturale completamento di due identità parallele.
L’onnipotenza non è di questo mondo!
Appena qualche giorno dopo l’annuncio di un aumento delle tariffe dei trasporti pubblici a Santiago del Cile, diverse migliaia di persone si sono mobilitate per chiedere un congelamento dell’aumento delle tasse e soluzioni concrete in merito a una varietà di scelte politiche che stanno gravando su vasti settori della società cilena e che hanno un pesante impatto sui diritti economici, sociali e culturali dell’intera popolazione.
In seguito a diversi episodi di violenza nelle strade, il governo ha deciso di sospendere il servizio di trasporto pubblico e di decretare uno stato di emergenza il 18 ottobre, cosa questa che ha comportato l’invio del comando di difesa nazionale alle manifestazioni e l’imposizione del coprifuoco nell’area metropolitana di Santiago e in altri città.
In base ai dati diffusi dal governo cileno, durante le manifestazioni, lo stato d’emergenza e il coprifuoco, risulterebbero decedute ben diciotto persone.
Secondo l’Istituto nazionale dei diritti umani (Indh), cinque di queste persone sarebbero state uccise dalle forze di sicurezza. La stessa fonte segnala l’arresto di 2600 persone, 584 feriti (245 dei quali a colpi d’arma da fuoco) e altre gravi violazioni dei diritti umani.
Con una lettera aperta inviata al presidente Sebastián Piñera, l’organizzazione mondiale per la difesa dei diritti umani Amnesty International ha rammentato alle autorità cilene gli ineludibili obblighi in materia di diritti umani, esortandole insistentemente ad ascoltare le richieste della popolazione e ad agire efficacemente con adeguati provvedimenti.
“Invece di paragonare le manifestazioni a uno ‘stato di guerra’ e di definire coloro che protestano nemici dello stato, aumentando così il rischio che subiscano violazioni dei diritti umani - ha dichiarato in una nota ufficiale Erika Guevara-Rosas, direttrice di Amnesty International per le Americhe - il governo del presidente Piñera dovrebbe ascoltare e prendere seriamente in considerazione le ragioni del malcontento“.
Le autorità cilene hanno infatti l’obbligo di indagare in modo approfondito, rapido e imparziale su tutte le denunce di uso eccessivo della forza, arresti arbitrari, maltrattamenti e torture e su ogni ulteriore violazione dei diritti umani commessa durante lo stato d’emergenza, così come investigare sulle circostanze e sulle responsabilità nei casi in cui persone hanno perso la vita.
“Criminalizzare le proteste non è la risposta. - ha aggiunto Guevara-Rosas - Se le autorità cilene devono prendere misure per prevenire ed evitare azioni violente, in nessuna maniera queste azioni possono essere usate come pretesto per limitare i diritti alla libertà di espressione e di manifestazione pacifica o per fare uso eccessivo della forza.”
Inoltre, con una nota ufficiale, Amnesty ha annunciato l’invio di una missione in Cile per indagare sulle violazioni dei diritti umani commesse nel contesto dello stato d’emergenza e del coprifuoco.
“Il mondo sta osservando quello che accade in Cile - ha dichiarato sempre la Guevara-Rosas - Esortiamo ancora una volta il presidente Sebastián Piñera a porre fine alla violenta repressione scatenata contro coloro che esercitano il legittimo diritto di manifestazione pacifica. Nonostante i suoi messaggi conciliatori e di discolpa, la presenza aggressiva di polizia ed esercito nelle strade continua a impaurire la popolazione”.
“Il governo cileno deve ascoltare in modo adeguato le richieste della popolazione e realizzare le riforme sostanziali e strutturali affinché tutte le cilene e tutti i cileni possano beneficiare dei diritti umani e vivere in condizioni di dignità“, ha proseguito Guevara-Rosas.
L’ unità regionale di crisi di Amnesty International raccoglierà testimonianze ed esaminerà informazioni che possano aiutare le vittime a pretendere e ad ottenere giustizia, verità e riparazione da parte dello stato, nonché a corroborare le denunce di violazioni dei diritti umani e di possibili crimini di diritto internazionale.
L’associazione, in questi giorni, attraverso i canali messi a disposizione della società civile cilena, sta ricevendo numerose denunce di gravi violazioni dei diritti umani (dall’uso eccessivo della forza alle irruzioni e perquisizioni illegali, dalla tortura agli arresti arbitrari), e i suoi esperti digitali stanno esaminando accuratamente le fotografie e i video sin qui ricevuti.
Con la vicenda della professoressa di Palermo sottoposta a severi provvedimenti disciplinari perché ritenuta (direttamente o indirettamente) responsabile del video realizzato da alcuni suoi alunni, in cui vengono proposti accostamenti fra dolorose pagine del nostro passato e molto discusse scelte politiche del nostro presente, ci troviamo di fronte a qualcosa di cui appare davvero arduo quantificare e qualificare la gravità.
Ciò che più appare inquietante ed estremamente allarmante del fatto che delle autorità istituzionali si siano sentite in diritto-dovere di intervenire in merito a quanto operato all’interno di una scuola in un ambito di carattere storico-culturale è l’evidente mancanza di consapevolezza messa in mostra da dette autorità rispetto a princìpi e valori di cui si parla da qualche secolo e che, dopo tanta fatica e tanto sangue, sono stati proclamati diritti inviolabili e inalienabili della persona da tutti i fondamentali documenti del diritto internazionale e da quella cosa non proprio irrilevante che chiamiamo Costituzione della Repubblica Italiana.
Ora, a mio avviso, il problema che dovremmo porci tutti, con la massima determinazione e con la massima urgenza, non è se i fanciulli palermitani dicano cose più o meno giuste, sensate o balorde, e neppure se la loro professoressa li abbia adeguatamente “sorvegliati”, bensì il seguente:
le cariche pubbliche che hanno deciso di applicare ai danni dell’insegnante la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione relativa hanno compiuto qualcosa di legittimo o qualcosa che fuoriesce dalla legalità costituzionale, calpestando libertà di pensiero, libertà di espressione, libertà di insegnamento, ecc.?
E, nel caso si riscontrasse (come a me appare del tutto evidente) che sia stato compiuto un atto totalmente arbitrario e giuridicamente insostenibile, i responsabili del provvedimento disciplinare in questione possono ancora meritare di restare ad occupare il posto che occupano, retribuiti da pubblico danaro?
Un’ultima considerazione:
in queste ultime ore si sta innescando una patetica gara tra ministri e cariche dello Stato nel manifestare solidarietà e/o volontà di incontrarsi con la professoressa umiliata e sospesa.
Possibile che non si comprenda che il potere politico, invece di limitarsi a scrivere letterine e ad esprimere desideri per future cordiali chiacchierate, dovrebbe sentirsi in assoluto dovere di adoperarsi a restituire alla docente la dignità professionale che le è stata sottratta, consentendole di riprendere immediatamente il suo posto in mezzo ai suoi alunni?
Il quadro globale relativo alla pena di morte delineato dall’ultimo rapporto di Amnesty International presenta, nello stesso tempo, dati di segno contrastante. Se, infatti, risulta certamente positivo il fatto che il Burkina Faso abbia adottato un nuovo codice penale abolizionista, che Gambia e Malaysia abbiano annunciato una moratoria ufficiale sulle esecuzioni, che negli USA la legge sulla pena di morte dello stato di Washington sia stata dichiarata incostituzionale e che, nel corso dell’Assemblea delle Nazioni Unite, ben 121 stati abbiano votato a favore di una moratoria (con la sola opposizione di 35 Stati), altri dati risultano assai meno incoraggianti. Fra questi:
l’aumento delle esecuzioni in Bielorussia, Giappone, Singapore, Sud Sudan e Usa; la prima esecuzione in Thailandia dal 2009; il quadruplicarsi delle condanne in Iraq; la crescita del 75 per cento in Egitto, a causa di condanne a morte in massa al termine di processi palesemente iniqui, imperniati su “confessioni” estorte tramite tortura.
In ogni modo, nonostante tali parziali regressi, dai dati complessivi del 2018 la pena di morte risulta stabilmente in declino, essendo il numero delle esecuzioni documentate calato del 30 per cento, raggiungendo pertanto il valore più basso registrato nel corso degli ultimi dieci anni. Inoltre, anche il numero dei paesi che hanno eseguito sentenze capitali appare ridotto.
Va sempre tenuto presente, però, il perdurare in Cina del segreto di stato relativamente all’uso della pena di morte, cosa questa che non impedisce di ritenere, in maniera sufficientemente fondata, che le condanne e le esecuzioni continuino sistematicamente nell’ordine delle migliaia.
“La drastica diminuzione delle esecuzioni dimostra che persino gli stati più riluttanti stanno iniziando a cambiare idea e a rendersi conto che la pena di morte non è la risposta”, ha dichiarato Kumi Naidoo, segretario generale di Amnesty International.
Questo bilancio cautamente ottimistico è costretto a fare i conti, però, anche con le recenti informazioni provenienti dall’ Arabia Saudita, dove si è da poco verificata l’esecuzione di ben 37 prigionieri (fra cui anche un minorenne) condannati per “terrorismo”, in seguito a processi irregolari basatisi su “confessioni” ottenute attraverso il ricorso alla tortura.
Undici prigionieri erano stati condannati per spionaggio in favore dell’Iran, mentre almeno altri quattordici per reati violenti nell’ambito di manifestazioni contro il governo che si erano svolte tra il 2011 e il 2012, nella Provincia orientale a maggioranza sciita.
Tra i prigionieri messi a morte c’era anche Abdulkareem al-Hawaj, un giovane sciita arrestato a 16 anni, sempre per reati commessi durante manifestazioni antigovernative. La sua esecuzione costituisce una evidente violazione del divieto assoluto di usare la pena di morte contro minorenni.
“Questa esecuzione di massa - ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International - mostra ancora una volta e in modo agghiacciante il profondo disprezzo delle autorità saudite per la vita umana e l’uso della pena di morte come strumento di repressione politica contro la minoranza sciita del paese“,
Finora, nel 2019, in Arabia Saudita sono state eseguite almeno 104 condanne a morte, 44 delle quali nei confronti di cittadini stranieri, per lo più per reati di droga. In tutto il 2018 le esecuzioni erano state 149.
Tra coloro che restano in attesa di esecuzione vi sono Ali al-Nimr, Dawood al-Marhoon e Abdullah al-Zaher, tre sciiti minorenni al momento del reato per cui sono stati condannati a morte.
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Spiragli di luce in Pakistan per il caso Asia Bibi, la giovane madre pakistana di religione cattolica processata, imprigionata e violentata in carcere in virtù di una discussa legge del paese che punisce la blasfemia. Dopo l'assoluzione lo scorso 31 ottobre, che ha scatenato l'ira degli islamisti che ne chiedono la condanna a morte, la Corte Suprema potrebbe emettere il pronunciamento definitivo entro la fine di gennaio. Il Tribunale, secondo una possibilità prevista dall’ordinamento giudiziario pakistano, è chiamato a esprimersi sulla «istanza di revisione del verdetto», presentata dall'accusa alla fine del processo. Senza udienza né dibattimento, la Corte dovrà riesaminare la sentenza, per rilevare eventuali vizi formali e sostanziali. Che la Corte rinneghi e capovolga un giudizio che essa stessa ha emesso due mesi fa, in un caso tanto sensibile e di alto profilo, appare decisamente improbabile. Il team dei legali di Asia Bibi «crede al 100% del rigetto di quella istanza». Sarebbe la fine del caso e renderebbe Asia, una volta per tutte, una donna realmente libera. Libera di disporre della sua vita.
La Corte Suprema del Pakistan, proprio per dare al paese un segnale di tutela dello Stato di Diritto contro ogni connivenza politica, ha da poco emesso una sentenza “suo motu” imponendo ai governi federali e provinciali di risarcire i cittadini che hanno subito danni di beni e proprietà durante i tre giorni di proteste organizzate dai partiti islamisti all'indomani dell'assoluzione di Asia Bibi. E restano in carcere gli oltre 300 militanti e i leader del gruppo Tehreek-e-Labbaik Pakistan (TLP) come Khadim Hussain Rizvi, organizzatori di quelle manifestazioni violente contro Asia Bibi.
Non possiamo che auspicare l'esito positivo del caso di Asia, perché sia l'inizio di una nuova stagione politica in Pakistan di rispetto dei Diritti umani. Auspichiamo inoltre che il caso di Asia possa scuotere le coscienze. In Pakistan, dove rimane in vigore la legge per la quale Asia ha rischiato la condanna a morte e che i gruppi islamisti utilizzano per discriminare la minoranza cristiana e negare il diritto alla libertà religiosa. E nel resto del mondo, nel quale le persecuzioni contro i cristiani e le discriminazioni a sfondo etnico-religioso sono aumentate in modo esponenziale di anno in anno nell'indifferenza dei media e dei governi.
Benedetto Delle Site
Responsabile Gruppo di lavoro Diritti civili - Disagio giovanile - Città Internazionale
Vittorio Barbanotti (al centro) |
Anche la ripresa di questa terza “” Pedalata Longa per i Diritti Umani “”come quella effettuata nel Settembre 2015 dal 15 al 28 e quella che dal 12 Maggio 2018 mi vide partire per arrivare a Strasburgo dove incontrai la Diplomazia Italiana al Consiglio d'Europa il 6 Giugno ( su GOOGLE , digitare : pedalata longa per i diritti umani ) , nasce per sensibilizzare ed informare l’opinione pubblica sulle tematiche dei Diritti Umani. Lo scopo che si prefigge è quello di far conoscere, soprattutto ai giovani, l’importanza della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, documento che ha sancito i diritti fondamentali di ogni individuo, forse il documento più importante mai scritto dalla società moderna. L’intento è di sollecitare le amministrazioni comunali, provinciali e a livello nazionale, a reintrodurre nelle scuole un momento di incontro per la discussione e la conoscenza di questa importante Dichiarazione che si avvia ormai al compimento del suo 70anniversario e la cui applicazione , urge , oggi più che più di ieri .
Sicuramente non farebbe altro che arricchire il bagaglio umano delle nuove generazioni e sarebbe un mezzo in più per combattere quelle realtà difficili che ormai quotidianamente irrompono nella nostra vita, come il bullismo giovanile sia maschile che femminile, l’omofobia, la segregazione e la ghettizzazione degli immigrati, e tutti quei fenomeni anche come la Mafia , che nascono dall’ignoranza e dalla mancata consapevolezza del rispetto dell’individuo, come sancito nell’articolo 1 della Costituzione Italiana : le tappe saranno così suddivise : Partenza ( tra le ore 10,30 e le 11 ) il 13 ( Sabato ) Aprile da Milano ed il giorno medesimo arriverò a Pavia , dopo di che al mattino sucessivo ( il 14 Domenica ) , ripartirò per Tortona , poi il 15 ( Lunedi ) sarò a Serravalle Scrivia dove farò il primo giorno di riposo ( ogni 3 giorni di pedalata il quarto sarà sempre di riposo ) il 17 Mercoledi ) ripartirò per Genova e così via , il 18 ( Giovedi ) a Rapallo , il 19 ( Venerdi ) a La Spezia ( secondo riposo ) , il 21 ( Domenica ) a Viareggio , il 22 ( Lunedi ) a Livorno , il 23 ( Martedi ) California-Bibbona , provincia di Livorno ( terzo giorno di riposo ) , il 25 (Giovedi ) a Follonica , il 26 ( Venerdi ) a Grosseto , il 27 ( Sabato ) a Montalto di Castro ( quarto giorno di riposo ) , il 29 ( Lunedi ) a Cerveteri , il 30 ( Martedi ) a Roma ( dove farò un riposo suplementare per alcune iniziative già in essere per il mio passaggio ) e poi il 2 Maggio ( Giovedi ) a Fiumicino , il 3 Maggio ( Venerdi ) a Latina , il 4 ( Sabato ) a Formia ( sesto giorno di riposo ), il 6 ( Lunedi ) a Napoli , il 7 (Martedi ) a Battipaglia , l'8 (Mercoledi ) ad Agropoli ( settimo giorno di ripooso ) , il 10 ( Venerdi ) a Scalea , l'11 (Sabato ) a Cosenza , il 12 ( Domenica ) a Nicastro ( ottavo giorno di riposo ) , il 14 (Martedi ) a Bagnara Calabra e poi il giorno dopo attraversamento dello stretto , dove da Messina , il 16 ( Giovedi ) ripartirò per Milazzo , il 17 (Venerdi ) a Santo Stefano di Camastra , il 18 ( Sabato ) a Cinisi , dove andrò a rendere omaggio alla memoria di Peppino Impastato ed il 19 ( Domenica ) a Palermo dove l'arrivo e la fine della Pedalata Longa per i Diritti Umani si concluderàò dinanzi all'albero dedicato alla Memoria di Falcone e Borsellino e delle loro scorte , dove inoltre . spero che potrò incontrare , associazioni ed Istituzioni del posto !!!
Dichiarazione Universali dei Diritti Umani
Art. 1
“Tutti gli essere umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscenza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito e fratellanza”.
L’iniziativa si svolgerà con una pedalata individuale in solitario di Vittorio Barbanotti ( fresco di nomina , come Ambasciatore dei Diritti Umani ) e con qualsiasi condizione atmosferica , a meno che non avvengano bufere o Grandinate durante l'intero tragitto e tali eventi atmosferici , potrebbero arrecare ritardi nelle ripartenze e negli arrivi .
Tale percorso sarà suddiviso in 29 Tappe che andranno a toccare 29 città , quali , dove spero di incontrare più autorità possibili quali Sindaci , Assessori , Consiglieri Comunali che per dare la loro
massima Solidarietà a tale iniziativa , firmeranno l'Appello che nel frattempo sarà inviato precedente al mio arrivo e alla loro attenzione.
NB: Ogni 3 tappe ( ovvero tra l'arrivo della terza e la partenza della quarta ) , l'autore della Pedalata Longa , farà riposo il giorno sucessivo e perciò si augura che possa essere ospitato e dove possa anche rifocillarsi !!!
Auspichiamo che le varie amministrazioni comunali, oltre al patrocinio di questa iniziativa vorranno aprire un tavolo di discussione, magari in consiglio comunale, per poi sottoscrivere all’unanimità l’appello (allegato).
L’iniziativa è organizzata dal Comitato Diritti Umani di Milano e dal Coordinamento Nazionale per la Promozione e Protezione dei Diritti Umani di cui il referente Nazionale è Maurizio Gressi ( 3382478680 ) e dall'Associazione "" Arte e Cultura per i Diritti Umani Onlus ""e verrà portata a compimento dal responsabile del Comitato Sig. Vittorio Barbanotti , fresco di nomina come "" Ambasciatore dei Diritti Umani "".
Alla fine della “” Pedalata Longa per i Diritti Umani “” e una volta tornato a casa , l'autore delle Pedalata Longa , si recherà a Roma per consegnare nelle mani di un rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione, con l’intento di chiedere che in tutte le Istituzioni Scolastiche possa rientrare od entrare EX NOVO l’insegnamento della tematica dei Diritti Umani , firmato e sottoscritto da tutte le città attraversate dalla Pedalata Longa.
Nel Progetto di questa “” Pedalata Longa per i Diritti Umani “” è chiaramente evidente che le Province e i Comuni che vorranno aderire, contemporaneamente alla sottoscrizione dell’appello nelle Giunte o nei Consigli Comunali, devono comunicare ai riferimenti sotto riportati la persona alla quale fare riferimento per le necessarie comunicazioni organizzative.
Auspichiamo inoltre che ad ogni tappa, ci siano Gruppi Sportivi od Associazioni che desiderino accompagnare Vittorio per alcuni kilometri o per una intera tappa, soprattutto negli ultimi kilometri per dare una maggiore rilevanza all’iniziativa .
NB ; A TUTTE LE PERSONE ED ANCHE ISTITUZIONI CHE INCONTRERO' , CHIEDERO' , DI APPORRE LA PROPRIA FIRMA ANCHE SULLA BANDIERA PER I DIRITTI UMANI CHE MI PORTERO' A DIETRO IN QUESTA PEDALATA LONGA !!!
Vittorio Barbanotti ( Ambasciatore dei Diritti Umani )
Presidente Comitato Diritti Umani Milano
Anni 66 ( compirà i 67 il 2 Giugno 2019 ) , cardiopatico con velleita sportive , che si descriverebbe in una sola citazione.
“un diritto non e altro che l’aspetto di un dovere”
Dopo anni di battaglie , e mille altre campagne sulla solidarieta, è stato anche premiato con la medaglia d’oro dalla provincia di Milano (23 Dicembre 1997), per il suo coinvolgimento diretto nella battaglia sui diritti civili.
Volendo impegnarsi in modo piu concreto per divulgare ed informare le nuovo generazioni, sull’importanza ed il rispetto dell’individuo. E preso atto che umanamente si puo sempre dare di più, ha deciso di organizzare un evento che unendo sport ed informazione civica porterà in alcune provincie italiane , Svizzere e Francesi ,la sua testimonianza, promuovendo un iniziativa tanto semplice quanto impegnativa,
A far si che possa nascere una sensibilizzazione ed un interessamento intorno alla tematica di una cultura sui e per i Diritti Umani e lo stimolo a riportare in tutti gli Istituti scolastici , fino a partire da quelli Elementari , momenti di incontro , discussione , dibattito e conoscenza della tematica sui Diritti , con più e svariati modi .
Come detto nella prima riga di questa presentazione della persona , Vittorio Barbanotti ha ( quasi ) 67 li compirà il 2 Giugno del 2019 e nel Giugno del 2008 ha subito un intervento chirurgico per l’installazione di una valvola meccanica Aortica .
Porterà a compimento questa sorta di impresa , attraversando 38 città Italiane , Svizzere e Francesi , nelle quali si augura di incontrare le varie amministrazioni comunali e far si che esse condividano l’appello da presentare al Ministero della Pubblica Istruzione , le quali spera che al momento del suo arrivo nelle città , organizzino a loro volta momenti di incontro e discussione sul tema e così si facciano anche loro promotori e promotrici a favore dei Diritti Umani , inoltre che diano conseguentemente il loro Patrocinio /Contributo.
Vittorio Barbanotti, ha sempre creduto che lo Sport , se vissuto soprattutto con amore e passione , possa essere un mezzo straordinario per trasmettere e far conoscere quei valori che sono fondamentali non solo per il nostro presente e futuro ma anche per una analisi di quello che è stato il passato di ognuno di noi , come i valori del rispetto di ognuno di noi e per questo desidera impegnarsi per una conoscenza e diffusione dei Diritti Umani.
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APPELLO
PER L’INTRODUZIONE DELL’INSEGNAMENTO DEI DIRITTI UMANI NELLE SCUOLE
I Diritti Umani sono universali, indivisibili e interdipendenti. Come affermava Norberto Bobbio, i diritti civili e politici senza i diritti economici, sociali e culturali sono vuoti. Ciò significa che non vi è gerarchia tra di essi, in quanto sono tutti ugualmente necessari per la libertà e la dignità di ogni essere umano. Ottenere i diritti per tutti significa anche e soprattutto promuoverli e proteggerli attraverso una pratica quotidiana, che richiama la nostra responsabilità individuale e collettiva.
Il mondo in cui viviamo è attraversato da enormi contraddizioni e da crescenti disuguaglianze sociali. Fame, miseria e guerre costringono milioni di esseri umani a cercare fortuna e speranza di vita lontano dai propri paesi d'origine, spesso in viaggi lunghi e pericolosi, in troppe occasioni nelle mani di trafficanti e a costo della vita stessa.
Ma non possiamo e non dobbiamo rimanere inerti di fronte a questi drammi che si consumano all'estero e in casa nostra, in occidente e in Italia. Sabino Cassese, chiude il suo libro «Il sogno dei diritti umani» con un messaggio di speranza: «Malgrado la crescente diffusione della cultura dei diritti umani, la violenza ci assedia sempre di più, ogni giorno, e le prevaricazioni, gli arbitri e gli abusi della nostra vita e della nostra mente sono sempre più frequenti. Bisogna disperare? Credo di no, soprattutto se guardiamo ai diritti umani nella loro dimensione storica e cerchiamo di vedere le differenze con il passato».
E' altrettanto indubitabile che il percorso di affermazione dei diritti umani nel mondo sia un tragitto tutt'altro che lineare, dove a piccoli passi avanti, fatti non solo di convenzioni e trattati internazionali ma anche di una cultura del rispetto della dignità delle persone che sempre più si afferma nelle nostre società, si contrappongono numerosi passi indietro. Quando parlo di passi indietro penso non solo alle guerre e alle grandi crisi internazionali ma anche a realtà vicine alla nostra esistenza quotidiana, nei confronti delle quali non dobbiamo voltare la testa. La crisi economica che stiamo vivendo e di cui non si vede ancora la fine ha allargato il divario sociale e creato nuove povertà. Alla mancanza di lavoro e alla disoccupazione giovanile, che ha raggiunto ormai livelli allarmanti si aggiunge un'emergenza abitativa assai grave nel nostro Paese, dove la bolla della speculazione edilizia regredisce a livelli non sufficienti per garantire il diritto alla casa. Assistiamo ad un degrado sociale materiale e culturale progressivo. Basti, pensare, ad esempio alla situazioni dei molti campi Rom che sorgono ai margini delle nostre città, dove le condizioni di vita sono inaccettabili per una società democratica. Alla condizioni di molti migranti, sia regolari che irregolari o, semplicemente, rifugiati non accolti e abbandonati al loro destino. O, ancora, alla condizione delle nostre carceri, dove vige una situazione di illegalità strutturale; agli episodi di tortura, che ancora si verificano nel nostro paese, alla violenza sulle donne e al femminicidio, ai crescenti fenomeni come l'omofobia e il bullismo nelle scuole, il linguaggio violento in politica e sui social network.
I passi in avanti da compiere sono ancora moltissimi per trasformare l'affermazione dei diritti umani in quanto valore a pratica quotidiana delle istituzioni e delle singole persone. E' indispensabile che una formazione sui diritti umani avvenga fin dalla scuola, dai bambini e dai ragazzi che vivono nel nostro paese: per abituarli fin dai primi anni di vita al rispetto dell'altro, al dialogo, al confronto culturale, alla tolleranza, alle differenze. E dall'altro è ormai imprescindibile che il nostro paese si doti di alcuni strumenti normativi per trasformare la tutela e la difesa dei diritti umani da impegno ideale a prassi istituzionale. Prima, tra tutte, l'istituzione in Italia di un'autorità indipendente per la promozione e protezione dei diritti umani, conforme ai principi di Parigi, cui le Nazioni Unite da tempo ci chiamano. Così come la legge contro la tortura che il nostro paese ancora non ha: nonostante il Parlamento abbia approvato l'Opcat (il protocollo opzionale della Convenzione contro la tortura), ancora non si riesce ad introdurre tale reato nel nostro codice penale.
Promuovere la cultura dei diritti umani nelle scuole, allinearci alle convezioni internazionali e realizzare strumenti a protezione di essi, rappresenterebbe un concreto passo in avanti per trasformare i diritti umani in realtà.
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Per informazioni : This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it. Barbanotti Vittorio ( Ambasciatore dei Diritti Umani ) : cell: +393450577882
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Diceva Norberto Bobbio, qualche decennio fa, che parlare di pena di morte oggi, in un mondo assillato da questioni di enorme spessore e della massima urgenza (corsa agli armamenti, pericolo nucleare, terrorismo, ecc.), potrebbe suscitare non poche perplessità, anzi, apparire niente più che
“un ozioso passatempo dei soliti dotti che non si rendono conto di come va il mondo”.
Ma arrivava poi a concludere, al termine di una ricchissima e ben ponderata trattazione, che l’abolizione della pena di morte avrebbe dovuto essere intesa e ricercata in quanto obiettivo di importanza centrale nel capovolgimento della concezione del potere dello stato, al fine di favorire in maniera tangibile l’interruzione della tragica concatenazione che, da sempre, ha fatto sì che da violenza si sia prodotta altra violenza. (Il dibattito attuale sulla pena di morte, in L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990).
E spesso, nel tempo, in questa grande battaglia di civiltà, in mezzo a tanta indifferenza e a tanta ottusa ostilità conservatrice, si è venuta a creare una bella sinergia fra filosofia, letteratura ed arte, dando anche vita, tra l’altro, ad opere cinematografiche di grande livello, da Monsieur Verdoux di Charlie Chaplin a Porte aperte di Gianni Amelio e al Non uccidere di Krzysztof Kieslowski. Ma anche il teatro ha costituito e può ancora continuare a costituire una risorsa importante al fine di promuovere e rafforzare sempre più una chiara e ferma consapevolezza abolizionista. E’ questo il caso del dramma di Reginald Rose, La parola ai giurati, che esordì a Londra nel lontano 1964 e che, nei prossimi giorni, verrà rappresentato a Roma dalla Compagnia amatoriale “Attori per caso”, diretta da Ignazio Raso. E proprio a lui abbiamo voluto rivolgere alcune domande, al fine di meglio comprendere il senso della scelta operata.
- Cosa ti ha spinto ad occuparti di pena di morte, e quali obiettivi speri di poter conseguire con la tua proposta teatrale?
L’esigenza di trattare questo tema nasce da un percorso intrapreso con gli allievi della mia classe di recitazione. Purtroppo, per quanto un argomento molto attuale, se ne parla sempre troppo poco e di conseguenza si offrono sempre meno spunti di riflessione riguardo all’importanza dei diritti umani. “La parola ai giurati” è un testo molto particolare, perché traduce tutta la rabbia dell’essere umano in una decisione veloce da prendere nei confronti di un ragazzo che non deve godere gli stessi diritti per il colore della sua pelle. L’approccio a questo testo nasce per poter dare al pubblico la possibilità di tornare a casa e anche solo per un momento riflettere sull’importanza di tenere sempre vivi temi che riguardano i diritti umani.
- Non credi che, tutto sommato, la questione pena di morte possa, oramai, ritenersi quasi risolta, o, comunque, in via di definitiva risoluzione?
Credo che si sia fatto tanto, che siano stati compiuti tanti passi avanti per arrivare a risultati importanti. Ma molte volte l’essere umano è pigro nell’informarsi e nel capire profondamente problematiche reali come la pena di morte.
- La pena di morte, pur se in via di diminuzione, costituisce una diffusissima quanto dolorosa presenza all’interno della storia dell’umanità. Come ti spieghi questo fatto?
Purtroppo il gene della sopraffazione è insito nell’essere umano e ha caratterizzato secoli di storia. L’essere umano nell’arco della storia è stato, però, progressivamente educato a rispettare “in primis” se stesso e, di conseguenza, il prossimo.
- Come pensi che potrebbe reagire il grosso dell’opinione pubblica del nostro paese di fronte ad una eventuale proposta di reintroduzione della pena capitale?
Innanzitutto mi auguro che tutto questo non avvenga mai e l’ulteriore augurio è quello che, se dovesse succedere, il popolo abbia la volontà di ribellarsi ad un sistema che prevederebbe la violazione massima dei diritti umani.
di Reginald Rose
regia di Ignazio Raso
sabato 12 gennaio, ore 21
domenica 13 gennaio, ore 18
Info e prenotazioni: 063223432 - This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Tribunale di New York. Una giuria popolare composta da 12 membri è chiamata a decidere se condannare alla pena di morte un ragazzo accusato di patricidio. La legge richiede l'unanimità La strada per il verdetto travolge i suoi stessi attori tra prove inconfutabili, testimonianze, dubbi e pregiudizi. Colpevole o non colpevole?
Lo spettacolo è dedicato ad Amnesty International. L'incasso sarà devoluto a sostegno delle campagne promosse in difesa dei diritti umani.
*IGNAZIO RASO
La versatilità come attore, testimonial e conduttore e un talento naturale davanti alla telecamera e sulle scene accompagnano dagli esordi il cammino artistico di Ignazio Raso. Nel suo carnet spiccano ruoli importanti nei cicli di fiction di maggior successo (La squadra, Distretto di polizia, Don Matteo, Un posto al sole), in film e cortometraggi premiati dalla critica, in prove teatrali nel circuito dei palcoscenici romani più legati alla sperimentazione dei linguaggi e all’avanguardia (dal Cometa Off all’Orologio).
Il pubblico più largo lega il suo volto alla pubblicità di marchi molto noti (Tim, Whiskas, Toyota), in un caso girata al fianco di un’icona dello star-system internazionale quale Naomi Campbell, ma soprattutto a programmi cult su MTV Italia.
In seguito al mio articolo dedicato al tema dell’Utopia (Se l’utopia muore - Riflessioni su disincanto giovanile e diritti umani) ci sono pervenuti numerosi commenti di indubbio rilievo. Ho ritenuto utile, pertanto, raccogliere e proporre almeno le riflessioni critiche più stimolanti, tentando anche di rispondervi con qualche mia breve annotazione.
“Ancora una volta sollevi un problema importantissimo e sul quale si riflette e si discute poco. Mi sono posto questi tuoi interrogativi più nei confronti del messaggio che trasmetto (ho trasmesso) ai miei figli con il mio atteggiamento quotidiano, di quello, certamente più costruttivo, che riesco a proporre nelle occasioni di incontri nelle scuole. Purtroppo anch'io mi sono risposto che intimamente sono disilluso e che l'orientamento che ho visto assumere dall'umanità nel corso della mia esistenza è divergente dai principi che mi sono stati indicati dalla mia famiglia, dai miei insegnanti e che io stesso avverto come auspicabili ma sempre, e forse sempre più, disattesi. Il trionfo dell'egoismo e dell'avidità sono i due aspetti dell'animo umano che reputo alla base dell'imbarbarimento a cui assistiamo quando, tutto sommato, i progressi tecnici e le esperienze dei conflitti del secolo scorso, avrebbero potuto consentire una presa di coscienza e una convivenza più equilibrata. Aggiungo che anche alcune dinamiche naturali come l'incontrollata crescita demografica dei paesi poveri, sembrano spingere verso nuovi attriti e nuovi conflitti.
In poche parole, la disillusione ha colto anche me ed è difficile predicare bene razzolando male.
Attualmente risolvo la questione riconoscendomi assolutamente incapace di interpretare i disegni della storia e il significato dell'esistenza ma, certamente, si tratta più di una fuga dal problema che di un tentativo di affrontarlo.”
Claudio Rossi
(senior financial analyst e volontario di Emergency)
“L'articolo è molto interessante e affronta una questione su cui stavo appunto riflettendo nei giorni scorsi a partire da uno spunto di Luciano Canfora (da La schiavitù del capitale). Canfora afferma la necessità di promuovere l'"utopia della fratellanza e della solidarietà", per evitare che si affermino forze che il capitalismo ha evocato e rischia di non riuscire più a gestire.
Mi chiedevo quanto la "disillusione" generalizzata di fronte alla quale ci troviamo oggi, il catastrofico tramonto delle utopie (che in parte mi coinvolge, dopo due decenni abbondanti di militanza politica) dipendano dal fallimento di quegli ideali, di quelle utopie che noi, sia pure da posizioni politiche diverse, abbiamo finora tenuto in vita.
Personalmente, mi sono imbattuta, più che nella convinzione aprioristica della malvagità per natura del genere umano, in filosofie di vita improntate alla ricerca dell'utile personale, in particolare della ricchezza materiale. La frase che sento più spesso quando parlo delle grandi utopie del passato, in gran parte di ispirazione ottocentesca, è: "a che cosa sono servite?". E' una domanda che sento fare spesso anche sulle materie di studio, tipo: "a che cosa serve il latino?", oppure "a che cosa serve la storia?".
Inoltre, sto iniziando a leggere due libri: uno è "Supernotes" di Luigi Carletti e dell'ex agente Kasper; l'altro è "Il puzzle Moro" di Giovanni Fasanella. Da entrambi emerge come le forze detentrici del potere (che siano i servizi segreti, deviati o no, o che siano le oligarchie finanziarie) siano sempre, sistematicamente, riuscite a infiltrarsi nei movimenti progressisti distruggendoli dall'interno, oltre che con la consueta arma della repressione. In base a queste considerazioni, quali utopie possono ancora trovare spazio? La speranza e il sogno di un mondo giusto ed equilibrato, in fondo, possono essere declinati in mille modi: dai socialismi ai nazifascismi. Oggi in molte scuole si fa leggere "A cercar la bella morte" di Carlo Mazzantini, a sottolineare che anche i repubblichini, e non solo i partigiani, combattevano "per un mondo migliore", anche se per mondo migliore intendevano un mondo che secondo me è persino peggiore di quello reale.
Non è forse rischioso quindi dare nuova linfa alle utopie? E se qualcuno se ne appropriasse (come finora è accaduto) per far passare svolte autoritarie in nome della creazione di una società perfetta? D'altronde, l'utopia spesso sfocia nell'anelito a una società perfetta. Poi, non è forse pericoloso suscitare false speranze? In fondo la generazione del cosiddetto "riflusso" è in buona parte il prodotto del disincanto riguardo gli ideali e i sogni dei decenni precedenti.
Compio queste riflessioni con inquietudine, da ex-idealista (in senso politico) che non riesce più ad esserlo. Nel contesto degradato della periferia in cui vivo, ad esempio, non c'è spazio per le utopie, ed è difficile trovarne se pensiamo che viviamo in una città (Roma) incancrenita dalla criminalità organizzata, ma i cui abitanti non fanno nulla neanche per smettere di finanziarla. Chi rinuncia infatti ai luoghi di divertimento per una scelta etica, pur sapendo di rischiare di finanziare le cosche criminali? Altro che Arabia Saudita, Yemen... anche qui viviamo tra meccanismi tribali (come appunto quelli mafiosi) che non abbiamo la capacità di spazzare via. E non riusciamo a farlo perché questi meccanismi generano un potere economico che è funzionale al capitalismo.
In questo contesto, trovo comprensibile che gli adolescenti abbiano in mente solo la corsa al benessere materiale. Anche perché mi sembra che sia sempre più folta la schiera di chi vede questo benessere materiale dissolversi giorno per giorno.”
Carlotta Caldonazzo
(docente e collaboratrice di flipnews.org)
“Non è questione di utopia, ma di presa di coscienza di una realtà più alta di quella che normalmente osserviamo. Per prendere coscienza, e non sognare, bisogna lavorare molto su se stessi, guardare più il cielo che la terra, praticare tecniche (orientali o occidentali) che elevino lo sguardo, coltivare una filosofia costruttiva e soprattutto viverla, più che predicarla. Cambiando noi stessi cambiamo il mondo, come ben sai diceva Gandhi, viviamo la “compresenza” di cui parlava Capitini, e come esito di tutto questo educhiamo i giovani, e gli adulti.
I giovani, se sono così disincantati e disinteressati ai discorsi della nostra generazione, è perché la visione che quotidianamente gli proponiamo esprime, anche magari per contrapposizione, la prevalenza di una materialità arida e senza speranza. Bisogna invece fornire modelli sorridenti, appagati, solerti e sereni.”
Francesco Pistolato
(ricercatore per la Pace)
Il mondo che ci circonda è senza dubbio, sotto molteplici angolature, terribile e spietato. I migliori pensatori dell’umanità non lo hanno mai negato, anzi, è proprio da simile constatazione che hanno preso le mosse per i loro viaggi intellettuali ed esistenziali. Vale per Gautama Buddha come per Leopardi, per Platone come per Schopenhauer, per Voltaire come per Freud … il mondo del divenire è il mondo della scissione e del conflitto, il mondo del trionfo del “principium individuationis” … E proprio per questo le religioni, le filosofie e le ideologie politiche hanno cercato di scoprire o di costruire vie d’uscita, vie di liberazione, vie di salvezza …
Certo, la cosiddetta “morte di Dio” ha spazzato via molte illusioni e anche molte speranze. E ad essa è seguita, nel secolo che abbiamo alle spalle, e nei pochi anni di questo secolo nuovo, tante e tante volte la “morte dell’Uomo” … il naufragio, cioè, di quanto pensato come massimamente sacro e inviolabile. Gli esseri umani sono stati macellati in tutti i modi, umiliati e profanati nella loro più intima essenza e le titaniche costruzioni politiche e religiose invocate e attuate col dichiarato intento di portare Giustizia hanno prodotto sfracelli ed orrori senza fine …
E gli orizzonti dell’avvenire non sembrano certo meno carichi di potenzialità distruttrici. Il disincanto, la paralisi interiore, il cercare stordimento e un qualche conforto (per quanto fugace e ingannatore) nelle tante cose senza senso che dilagano nei nostri tempi possono pure apparire come comprensibilissime forme di reazione o di autodifesa …
Ma se la mente non riesce più a ritenere degna di essere nemmeno ipotizzata una società “altra” rispetto a quella che tanto ci indigna, allora siamo veramente perduti.
Diceva Norberto Bobbio che dovremmo ben guardarci dal cadere nelle trappole dell’ottimismo che instupidisce e del pessimismo che paralizza. Cercando, invece, di muoverci sempre con ferma e ben ponderata fiducia nella ragione, al fine di poter introdurre qualche spiraglio di luce in questo triste e storto mondo …
E lo si può fare in tanti modi. Certamente, insegnare e ricordare quante cose meravigliose noi poveri e piccoli sognatori siamo riusciti a fare, ad esempio, in questi ultimi secoli (dall’abolizione della tratta degli schiavi africani, all’emancipazione femminile, dall’affermazione dei diritti dell’infanzia all’ abolizione in tanti Paesi della pena capitale, ecc.) può risultare di preziosissimo aiuto. Come anche il conoscere e il far conoscere le vite, le battaglie, le conquiste rivoluzionarie dei tanti grandi e piccoli portatori di luce del passato e del presente. Molti dei quali non necessariamente “martiri ed eroi”, ma semplicemente umili, caparbi e coerenti ricercatori di verità e costruttori di pace.
Senza dimenticarci mai che è sempre molto più saggio e salutare provare ad accendere anche una flebile fiammella, piuttosto che limitarsi a maledire l’oscurità …
E' partito in bicicletta da Serravalle, in provincia di Alessandria, il 12 di maggio per incontrare la Delegazione Italiana del Parlamento Europeo, a Strasburgo, e consegnarle un appello per il rispetto dei diritti umani e contro la violenza di genere, contro il femminicidio e contro il bullismo. Lui è Vittorio Barbanotti, ha 66 anni, è cardiopatico ed ha subito un intervento chirurgico per l'installazione di una valvola meccanica aortica. Eppure, nonostante ciò, ha fatto la pedalata da solo senza assistenza ne' meccanica, ne' sanitaria, della quale avrebbe potuto avere forse bisogno.
Ha affrontato pioggia, fatica, freddo, salite scoraggianti, vento contro, stanchezza fisica. A volte, per risparmiare, non avendo ricevuto sufficienti contributi, ha mangiato solo di sera.
Un'altra volta, in Francia, un guidatore maleducato, lo ha fatto cadere perché parlava al telefono mentre guidava. Tante volte le tappe si sono allungate anche di 20 o 30 chilometri per indicazioni sbagliate. Una volta lo ha colto una vera tempesta di acqua ed è arrivato alla fine della tappa "più bagnato dell'acqua che scendeva", come ha scritto sui social, ma non ha mai desistito perché nel cuore c'era tanta voglia di creare una vita migliore per i nostri giovani raggiungendo Strasburgo, quel luogo autorevole, molto autorevole che può accendere i riflettori sui diritti umani. Lungo il percorso molti gli hanno manifestato la loro solidarietà e a quelli lui ha fatto firmare l' Alta Bandiera dei Diritti Umani.
Questa bandiera è nata dal desiderio dell'alpinista Daniele Nardi di unire alle sue avventure il suo impegno umanitario; idea che è stata raccolta e realizzata con entusiasmo dall’associazione “Arte e Cultura per i Diritti Umani” onlus che, insieme a Daniele, porta avanti nelle scuole la campagna internazionale “GIOVENTU’ PER I DIRITTI UMANI“ ed è parte integrante del progetto “LA SCUOLA SULLE ALTE VETTE CON I DIRITTI UMANI“.
E' stata realizzata con il logo di “Youth for Human Rights International” e con i colori della bandiera italiana.
I primi a firmarla sono stati i 20.000 studenti incontrati nelle scuole del Lazio che si sono impegnati a realizzare prima di tutto nella propria vita gli articoli della Dichiarazione Universale dei diritti umani dell'ONU. Dopo di loro personaggi dello sport, della cultura e della politica si sono impegnati a loro volta firmandola.
Daniele ce l'ha sempre nello zaino quando scala le più alte vette del mondo così come Vittorio ce l'aveva nello zaino durante la sua Pedalata Longa per i Diritti Umani.
Lui si definisce uno che parla poco e che cerca di attivarsi sempre di più e, senz'altro, a questa impresa ne seguiranno altre. Durante il suo percorso in Italia ha incontrato anche sindaci e politici che ha cercato di sensibilizzare. A Ginevra si è fermato nella sede dell' Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ed è stato ricevuto dal Primo Consigliere della Rappresentanza Italiana con delega ai Diritti Umani.
Vittorio Barbanotti |
Il 6 di giugno , con ben 13 giorni di anticipo, è arrivato finalmente a Strasburgo e lì ha avuto la grande sorpresa di esser ricevuto non dai rappresentanti italiani ma da un organismo superiore che è il Consiglio Europeo. Lì ha potuto finalmente consegnare l'appello per l'introduzione dell'insegnamento dei Diritti Umani nelle scuole e, soprattutto, fare vedere le tante, tantissime firme sulla bandiera.
L'orgoglio ed il rispetto verso il messaggio della pedalata sono stati più forti di qualunque fatica sopportata e questo è segno di grande integrità personale. Era commosso Vittorio quando ha concluso la sua impresa e ha fatto commuovere anche chi ha letto della sua impresa. Grazie Vittorio.. E' grazie a persone come te se i diritti umani diventeranno una realtà e se i nostri ragazzi avranno una vita migliore.
Chiunque abbia avuto occasione di colloquiare con i giovani di questo nostro complicato tempo, intorno a questioni di attualità e, soprattutto, in merito alle prospettive per il futuro (loro e del mondo), si sarà sicuramente imbattuto in atteggiamenti molto diffusi caratterizzati da quello che potremmo definire rifiuto dell’utopia.
Di fronte a problemi come la violenza in tutte le sue più efferate declinazioni, i conflitti sempre presenti, l’inquinamento ambientale, le innumerevoli forme di ingiustizia socio-economica, ecc., assai frequentemente, infatti, i giovani (ancor più dei meno giovani) si trovano ad esprimere ferme convinzioni a sostegno del cosiddetto carattere “naturale” (e, dunque, incorreggibile e ineliminabile) della malvagità umana e della consequenziale impossibilità di cambiare il corso della storia, presentandoci pertanto, in maniera più o meno amara e rassegnata, una sorta di “filosofia di vita” in cui il mondo risulterebbe dominato dal “Male”, a causa della natura malvagia, egoista e violenta dell’uomo, cosa questa che renderebbe irrealizzabile qualsiasi sogno di trasformazione radicale della nostra storia. E’ evidente che, qualora non si riuscisse a mettere in crisi questo tipo di visione del mondo (aprendovi almeno qualche breccia), evidenziandone i punti deboli, le contraddizioni, gli apriorismi poco razionali e molto dogmatici, se non si riuscisse a immettere nella coscienza giovanile i necessari anticorpi psicologici, etici e conoscitivi, sarebbe impresa assai ardua, se non proibitiva, riuscire a portare avanti qualsiasi discorso ed iniziativa incentrati sul valore universale e costruttivo dei Diritti Umani e sulla concreta possibilità di liberare veramente il mondo dal “flagello della guerra”.
Di fronte a un simile disincanto, credo che tutti noi adulti, insegnanti, educatori, professionisti dell’informazione, politici, ecc., non dovremmo limitarci ad esprimere amarezza e delusione, bensì sentirci chiamati a mobilitarci per far sì che non venga a spegnersi del tutto la capacità di sognare un “mondo più umano”. Ma, prima di ogni altra cosa, non dovremmo, però, mai eludere i seguenti interrogativi:
- Questi giovani così poveri di speranza in che rapporto stanno con la società adulta? Ne sono l’insolita negazione o la coerente oggettivazione? E noi tutti cosa abbiamo fatto per riempire il loro vuoto, cosa stiamo facendo e cosa, soprattutto, non abbiamo fatto e dovremmo invece cominciare a fare?
Chi ha operato la non semplice scelta di lavorare per un futuro in cui sia sempre più solido e rispettato il valore della dignità umana, sa bene che le dolenti rampogne e i mea culpa di rito dovrebbero lasciare il campo ad un impegno senza sosta, in ogni ambito, volto a favorire un effettivo rinnovamento delle coordinate teorico-pratiche del comune pensare e sentire, e che, per fare questo, non potrà certo bastare ricorrere enfaticamente alle tanto a lungo (e invano) sbandierate “magnifiche sorti e progressive”.
Ma, soprattutto, la domanda che non possiamo assolutamente pretendere di non porci è quella relativa al come siamo diventati noi, a quanto veramente possiamo dichiararci non soggiogati anche noi stessi da una visione cupa e disillusa della vita. Perché, per poterci ritenere “buoni maestri” è indispensabile che il nostro pensiero e il nostro cuore continuino a credere, in maniera quanto più possibilmente razionale, equilibrata e critica, nell’uomo e nei suoi diritti, nonché nelle sue infinite possibilità di crescita. Altrimenti, non potremmo essere credibili, non potremmo essere di alcuno aiuto nel cercare di tener in vita (o di far rinascere) la speranza. Se anche la nostra anima fosse invasa dalle macerie dei nostri ideali, e se noi stessi non sapessimo più sognare un mondo rigenerato, se fossimo diventati incapaci di progettare un mondo bonificato dai muri e dai fili spinati, dalle urla dei torturati, dalla disperazione dei ragazzi di strada, dalle fosse comuni, dai patiboli e dagli arsenali, ecc., come potremmo efficacemente spingere i nostri giovani verso una scelta socialmente e autenticamente impegnata?
Chiediamoci e richiediamoci se, per caso, la resistenza dei nostri ragazzi ad aprirsi ad una visione della realtà fondata sulla fiducia non dipenda in buona dose dal fatto che siamo stati tutti noi i primi a lasciarla fuori dal recinto delle mura in cui ci siamo barricati … Perché abbiamo finito, troppe volte, per sentirci scavalcati e sconfitti dalle ipocrisie di tutti i poteri, dalla brutalità ammaliante dell’”avere”, dalla vacuità dei chiacchiericci politichesi, dall’insaziabile capacità corruttiva del denaro, ecc … Perché abbiamo finito per non sentirci più in grado di poter contare e di poter fare granché, abbiamo finito per credere che il grande compito di costruzione di giustizia e di pace indicatoci dai grandi documenti ONU, UNESCO, UNICEF fossero diventati nobili feticci da riporre in bacheca o, ancor peggio, in soffitta …
Diceva perentoriamente Adolphe Ferrière che non è possibile che ci sia vera educazione in assenza di gioia, e che, di conseguenza, coloro che si venissero a scoprire privi di “gioia nel cuore” dovrebbero immediatamente smettere di fare gli educatori (o di far finta di esserlo). E che gioia mai potrebbe davvero esserci nei nostri cuori senza più la capacità di immaginare/ di desiderare/ di volere un mondo incommensurabilmente lontano dal nostro?
Soltanto se riusciremo a meditare a lungo e con il massimo senso di responsabilità sui pericoli insiti nella morte dell’utopia (ma anche nel suo letargo), la nostra presenza in mezzo ai giovani potrà risultare in grado di aprire squarci preziosi in cieli spesso tanto grigi e desolati.
Altrimenti, se “le oasi dell’utopia” arrivassero a seccarsi, rischieremmo tutti di ritrovarci smarriti in “un deserto di banalità e confusione” (Habermas).
L’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani indica esplicitamente le coordinate entro le quali sviluppare una efficace opera educativa indirizzata a costruire un mondo liberato dal cosiddetto “flagello della guerra”:
“ (…) Essa (l’istruzione) deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi …”
Nell’articolo 5, 3 della Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali (Unesco, 1978) ritroviamo una analoga enunciazione delle stesse finalità anche a proposito dei mezzi di comunicazione:
“ I grandi mezzi di informazione e coloro che li controllano o li gestiscono (…) sono chiamati - tenendo nel dovuto conto i principi formulati nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e specialmente il principio della libertà di espressione - a promuovere la comprensione, la tolleranza e l’amicizia tra gli individui ed i gruppi umani, ecc.”
E nella successiva Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (1989), a proposito degli obiettivi fondamentali dell’educazione, inserita in un contesto più ampio e circostanziato, l’articolo 29, 1, afferma:
“ (…) l’educazione del fanciullo deve avere come finalità: (…) d) di preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, ecc.”
Ritenendo evidente il fatto di trovarci di fronte a scelte lessicali di natura non fortuita, al fine di meglio comprendere la filosofia politica di cui sono coerente espressione, sarà utile porsi i seguenti quesiti:
Credo che si sia voluto conferire un’importanza basilare e propedeutica al concetto di comprensione al fine di asserire che ogni discorso in merito a tolleranza e ad amicizia tra i popoli che non presupponesse una adeguata formazione conoscitiva, potrebbe risultare del tutto vano, se non addirittura retorico o ingannevole. Ciò secondo un procedimento logico-argomentativo analogo a quello rintracciabile già nello stesso incipit del Preambolo della Dichiarazione del 1948, relativamente alla inscindibile concatenazione
DIRITTI UMANI - LIBERTA’- GIUSTIZIA - PACE:
“Considerato che il riconoscimento della dignità umana inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo …”
Un avvertimento, quindi, un’ esortazione miranti a mettere in luce come, volendo prescindere dalla comprensione, risulterebbe del tutto fallimentare parlare poi di tolleranza e di amicizia.
Perché? Perché altrimenti si potrebbe rischiare di propagandare, troppo semplicisticamente, una sorta di “strategia dei buoni sentimenti” o delle “buone intenzioni”, senza andare minimamente ad intaccare e ad attaccare, sul piano conoscitivo (ma anche psicologico), quelle che sono le barriere, le resistenze, le diffidenze che tanto spesso ci impediscono di relazionarci all’altro con serenità e rispetto, in un’ottica di sincero spirito di uguaglianza.
Si potrebbe affermare, anche, che dietro il rifiuto dell’altro ci sia sempre un deficit di carattere conoscitivo. Guardiamo con perplessità - sospetto - timore ciò che non comprendiamo e il timore è, molto probabilmente, la causa principale di ogni intolleranza. Perché se ci sentiamo in pericolo, se guardiamo con timore colui che non comprendiamo, saremo facilmente indotti ad assumere atteggiamenti ostili, con tutto quello che ne potrebbe conseguire. E se ci troviamo in una condizione di ostilità - rifiuto, ogni appello alla tolleranza, all’accoglienza e all’amicizia è tristemente destinato o ad essere ignorato o ad essere recepito in maniera epidermica se non addirittura infastidita.
In un prezioso lavoro di Paola Tabet (La pelle giusta, Einaudi) di qualche anno fa, ma ancora attualissimo, fra le tante reazioni e risposte fornite da bambine/i di scuola elementare e media inferiore al quesito “Se i miei genitori fossero neri”, possiamo imbatterci in terribili parole come le seguenti:
“Ma ogni mattina a vedere due neri in casa passerei paura e a mezzogiorno mangerei vermi anche a cena e ciò farebbe venire il vomito” (Tamara, Ferrara, III elementare);
“Se i miei genitori fossero neri io li manderei di casa anche se fossero buoni. Perché io ho paura dei neri perché uccidono i bambini e fanno del male” (Montedoro, Caltanissetta, IV elementare);
“I negri rubano per vivere, certi negri invece, per guadagnare molti soldi vendono anche la droga …” (Roma, V elementare).
Di fronte all’altro (in questo caso le persone di pelle scura, ma il discorso potrebbe riproporsi per rom, musulmani, sikh, testimoni di Geova, disabili, ecc…) questi bambini dimostrano di trovarsi culturalmente e psicologicamente impreparati , sprovvisti, cioè, di chiavi di lettura che possano loro consentire di entrare in relazione con esso, avvertito come realtà impenetrabile - indecifrabile. E quindi come realtà irraggiungibile in quanto priva di ogni indispensabile aspetto di affinità con il proprio sé e i propri orizzonti di riferimento.
Nello stesso tempo, però, ecco che a tale mancanza vengono a supplire gli schemi interpretativi socialmente acquisiti e sedimentati nella propria coscienza, i quali riescono a cancellare ogni possibilità alternativa (“… anche se fossero buoni …”). In quanto risultato di un processo di iper-generalizzazione, essi hanno, infatti, la capacità di annullare ogni distinzione, ogni sfumatura, ogni peculiarità individuale, hanno la capacità, cioè, di mettere a tacere la voce dell’esperienza prima ancora che possa esprimersi e prima ancora, quindi, che possa produrre conoscenza. In tal modo, l’altro, che non si è in grado di comprendere, finisce per essere risucchiato nel “noto”, inglobato, cioè, all’interno di ben determinati e collaudati stereotipi (nero=selvaggio=soggetto subumano “naturalmente” capace di ogni “bestialità”), grazie ai quali ogni singolo spezzone di realtà viene ad inserirsi in un tutto dove regnano ordine e chiarezza e dove nulla appare imprevedibile.
Stereotipi dalle radici antiche: antiche, potremmo dire, quanto le paure degli uomini e il loro bisogno di ordine e di sicurezza, filtrate e plasmate, però, sulla base delle disumanizzanti esperienze coloniali. Sarà un caso, mi chiedo, che i neri immaginati dalla nostra bambina ferrarese mangino vermi come i “selvaggi” descritti da certi osservatori europei di qualche secolo fa, approdati sul continente americano?!
Di fronte a ciò, appellarsi semplicemente al dovere di “essere generosi, solidali e antirazzisti”, può ottenere soprattutto (e forse soltanto) il risultato di stendere una patina ottundente sopra un coacervo assai intrigato e stratificato di pregiudizi, ostilità, diffidenze, timori, ecc. Riuscendo, nel migliore dei casi, a creare soltanto qualche fragile argine inibitorio e finendo, molto spesso, nel favorire atteggiamenti ipocriti e contraddittori, sorgenti inesauribili di sventure.
Ma una strategia fondata sulla comprensione cosa dovrebbe comportare?
Innanzitutto, direi che dovrebbe promuovere, in ogni ambito e a tutti i livelli, un atteggiamento di accentuata intonazione socratica, ovvero di umile riconoscimento del proprio “non sapere” e non poter comprendere, del proprio non essere in grado di comprendere fino in fondo l’insondabile misteriosità dell’altro. Se sono consapevole di questo, infatti, se ho il coraggio di non mascherare od occultare la mia condizione di ignoranza, allora qualcosa di importante in me potrebbe davvero accadere. Ma passaggio obbligato sarà quello di prendere le distanze dalle tante risposte già date, dalle tante immagini codificate, nonché dalle innumerevoli e ingombranti etichette pre-confezionate …
Sarà indispensabile, cioè, imparare a guardare dal di fuori gli schemi interpretativi a cui meccanicamente facciamo ricorso, imparare a liberarci delle lenti colorate che ci sono state (e che ci siamo) affibbiate e che noi abbiamo finito per credere parte integrante del nostro io.
Operazione non facile, certo, perché, come ci ha ben spiegato Primo Levi :
“Sradicare un pregiudizio è doloroso come estrarre un nervo”.
Ma operazione irrinunciabile e irrimandabile se vogliamo veramente costruire un mondo in cui regnino il dialogo e la pacifica collaborazione. Come ci insegna il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh, le nostre vite non sarebbero al sicuro dalla violenza e dalla paura neppure se trasportassimo tutte le bombe sulla luna, “perché le radici della guerra e delle bombe sarebbero ancora nella nostra coscienza collettiva”.
Soltanto grazie ad un responsabile e accurato lavoro sul piano del cogito, sul piano, cioè, delle nostre gerarchie valoriali e delle nostre chiavi di lettura della realtà, sarà possibile poter sperare in una liberazione della nostra coscienza personale e collettiva da tutte le tossine (generatrici di bombe) dell’ignoranza camuffata da verità.
Non pochi pregiudizi, da sempre, ruotano intorno al concetto di nonviolenza. E sempre i suoi grandi alfieri ed annunciatori hanno avvertito l’urgente necessità di fugare equivoci e di combattere ed abbattere fuorvianti e svilenti fraintendimenti.
Il primo errore (diffusissimo) da evitare è il ritenere che la nonviolenza sia qualcosa di semplicemente “negativo”, ovvero una prassi che si limiterebbe a voler evitare l’esercizio della violenza. Nonviolenza non è soltanto astensione dalla violenza. Nonviolenza è, come dice Aldo Capitini (che non a caso ha sempre preferito parlare di nonviolenza invece che di non violenza), “scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani.”
Questo significa che non si tratta soltanto di un mero divieto morale, ovvero di un semplice non dover fare qualcosa , bensì di una vera e propria filosofia di vita, di una vera e propria visione del mondo che pretende di essere radicalmente alternativa a quella imperante, condivisa e rispettata in maniera schiacciante nel mondo di oggi, come nel mondo di ieri.
La nonviolenza - dice sempre Capitini - “non è cosa negativa, come parrebbe dal nome, ma è attenzione e affetto per ogni singolo essere proprio nel suo essere lui e non un altro, per la sua esistenza, libertà, sviluppo.” 1)
La nonviolenza non andrebbe mai confusa con aprioristico rifiuto di ogni genere di conflitto. La nonviolenza è rivolta, è ribellione contro un presente che divinizza la forza, che esalta “lo schiaffo e il pugno”, che assolutizza il dominio incondizionato degli arroganti, degli spregiudicati, dei prevaricatori. E’ tensione continua, sempre imperfetta e sempre insoddisfatta, sempre assetata di trasformazione e attraversata da una perenne e operosa impazienza.
“Chi sceglie la nonviolenza parla col suo atto a tutti: segnala una via per tutti, e rompe l’indifferenza o l’incantamento mentre si prepara un’altra guerra.”2)
La nonviolenza non è cosa - dice Gandhi - con cui ammantarsi e nobilitarsi, senza aver spazzato via da se stessi tutto ciò che sa di meschinità e di egoismo.
La prima grande operazione necessaria non è, quindi, tanto deporre la spada impugnata dalla nostra mano, bensì di gettare via quella che insanguina il nostro cuore. Cioè liberare la nostra anima da ogni sudditanza nei confronti di ogni ideologia e di ogni prassi che prevedano, tollerino o addirittura auspichino o magnifichino forme di oppressione e di distruzione dell’Altro, inteso come sostanzialmente diverso da me, come tale inconciliabile con i miei valori, con il mio “stile di vita”, inteso, cioè, come pericolo, come fonte di contaminazione, di disordine morale, come sottrazione di sicurezza, di benessere, ecc …
La nonviolenza si fonda sull’affratellante apertura verso i membri della “famiglia umana”, al di là delle innumerevoli e più o meno fantasiose etichette che giustapponiamo ad essi in base alle differenze etniche, linguistiche, religiose, sessuali, ecc …
La nonviolenza, pertanto, non andrebbe mai vista come una scelta comoda, come un tirarsi indietro, un fuggire la mischia, una sorta di “lathe biosas (λάθε βιώσας) ”, mosso da opportunismo, pigrizia o, ancor peggio, da viltà. Non ha nulla a che fare col “lasciarsi vivere”. Il suo primo bersaglio, anzi, è, semmai, proprio l’indifferenza. Perché l’indifferenza - come ci spiega Elie Wiesel -“è più pericolosa della rabbia e dell’odio”. Perché la rabbia e l’odio possono anche risultare stimolanti e produttivi. Mai, invece, l’indifferenza. Perché l’indifferenza non è e non potrà mai essere un inizio, ma sempre soltanto una fine, la fine di qualsiasi possibilità di cambiamento e di miglioramento. L’indifferenza “è sempre amica del nemico, perché giova all’aggressore”. Consente all’aguzzino, al torturatore di lavorare indisturbati. 3)
L’indifferenza è la grande tentatrice, la grande maga che ci affascina e ci seduce, che ci paralizza e che ci fa sentire lontane le sofferenze altrui, che ci fa sentire irraggiungibilmente e irreparabilmente lontane tutte le vittime di tutte le ingiustizie che ogni giorno massacrano il nostro mondo.
La nonviolenza nulla ha a che vedere, quindi, con rassegnazione, mediocre tatticismo e fuga dalla realtà verso astratti mondi di sogni chimerici e consolatori. “Non accetta - dice sempre Capitini - nemmeno le violenze passate, e perciò non approva l’umanità, la società, la realtà, come sono ora.” 4)
E’ sempre schierata dalla parte delle vittime, sempre pronta a difendere i deboli, gli emarginati. E’ “dramma tormentoso”, è lotta vivificata dalla convinzione che “non può mettersi nel mondo com’è, e lasciarlo tale e quale” 5), ma che sia doveroso battersi con forza travolgente per affermare e difendere l’insostituibilità di ogni singolo essere.
La nonviolenza è impegno “a parlare apertamente su ciò che è male, costi quel che costi, non cedendo mai su questa libertà, e rivendicandola per tutti”. 6)
Il “nonviolento è portato ad avere simpatia particolare con le vittime della realtà attuale, i colpiti dalle ingiustizie, dalle malattie, dalla morte, gli umiliati, gli offesi, gli storpiati, i miti e i silenziosi, e perciò tende a compensare queste persone ed esseri (anche il gatto malato e sfuggito) con maggiore attenzione e affetto, contro la falsa armonia del mondo ottenuta buttando via le vittime.” 7)
La nonviolenza è nemica severa e scomodissima sia della prepotenza dei tiranni, sia dell’indifferenza degli ignavi, sia di quello che Martin Luther King ebbe efficacemente a chiamare “lo spaventoso silenzio dei buoni”. 8)
La nonviolenza è insistente e inesausta operazione di sgretolamento di falsità e menzogne, di censure pianificate e subite, di omissioni meschine e di rimozioni vigliacche, di miti consolatori e di timori paralizzanti. Aspira continuamente a portare allo scoperto le piaghe che avvelenano il nostro mondo, convinta che soltanto quando l’ingiustizia sarà esposta in tutta la sua brutale ripugnanza “alla luce della coscienza umana e all’aria dell’opinione pubblica” potrà essere compresa, combattuta e curata nelle sue radici più profonde. 9)
In questo nostro mondo e in questo nostro tempo, in cui a dominare sono sempre i fabbricanti e i mercanti di morte, chiediamoci, allora, con estrema umiltà ed onestà:
siamo sempre nel mondo iperuranico delle meravigliose utopie create dai grandi sognatori per asciugare le lacrime roventi sul volto delle anime fragili e belle?
Siamo sempre sul piano delle cose buone e auspicabili, ma troppo lontane e troppo difficili?
Delle cose tanto sperabili proprio perché tanto irrealizzabili?
NOTE
1) A. Capitini, Religione aperta, p.106
2) ivi, p.108
3) E. Wiesel, The Perils of Indifference, discorso alla Casa Bianca del 12 aprile 1999, in A. Cassese, Voci contro la barbarie, Feltrinelli, Milano 2008, p.363
4) ivi, p.109
5) ivi, p.110
6) A. Capitini, Azione nonviolenta, in Le ragioni della nonviolenza, Ed. ETS, Pisa, 2004, p.179
7) ib
8) M.L.King, Lettera dal carcere di Birmingham, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona, 1993, p. 10
9) Ib