L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Diritti Umani (76)


Roberto Fantini
This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it. 
 
 
 
 
 
 
 
 

           Diceva Norberto Bobbio, qualche decennio fa, che parlare di pena di morte oggi, in un mondo assillato da questioni di enorme spessore e della massima urgenza (corsa agli armamenti, pericolo nucleare, terrorismo, ecc.), potrebbe suscitare non poche perplessità, anzi, apparire niente più che

un ozioso passatempo dei soliti dotti che non si rendono conto di come va il mondo”.

Ma arrivava poi a concludere, al termine di una ricchissima e ben ponderata trattazione, che l’abolizione della pena di morte avrebbe dovuto essere intesa e ricercata in quanto obiettivo di importanza centrale nel capovolgimento della concezione del potere dello stato, al fine di favorire in maniera tangibile l’interruzione della tragica concatenazione che, da sempre, ha fatto sì che da violenza si sia prodotta altra violenza. (Il dibattito attuale sulla pena di morte, in L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990).

E spesso, nel tempo, in questa grande battaglia di civiltà, in mezzo a tanta indifferenza e a tanta ottusa ostilità conservatrice, si è venuta a creare una bella sinergia fra filosofia, letteratura ed arte, dando anche vita, tra l’altro, ad opere cinematografiche di grande livello, da Monsieur Verdoux di Charlie Chaplin a Porte aperte di Gianni Amelio e al Non uccidere di Krzysztof Kieslowski. Ma anche il teatro ha costituito e può ancora continuare a costituire una risorsa importante al fine di promuovere e rafforzare sempre più una chiara e ferma consapevolezza abolizionista. E’ questo il caso del dramma di Reginald Rose, La parola ai giurati, che esordì a Londra nel lontano 1964 e che, nei prossimi giorni, verrà rappresentato a Roma dalla Compagnia amatoriale “Attori per caso”, diretta da Ignazio Raso. E proprio a lui abbiamo voluto rivolgere alcune domande, al fine di meglio comprendere il senso della scelta operata.

-          Cosa ti ha spinto ad occuparti di pena di morte, e quali obiettivi speri di poter conseguire con la tua proposta teatrale?

L’esigenza di trattare questo tema nasce da un percorso intrapreso con gli allievi della mia classe di recitazione. Purtroppo, per quanto un argomento molto attuale, se ne parla sempre troppo poco e di conseguenza si offrono sempre meno spunti di riflessione riguardo all’importanza dei diritti umani. “La parola ai giurati” è un testo molto particolare, perché traduce tutta la rabbia dell’essere umano in una decisione veloce da prendere nei confronti di un ragazzo che non deve godere gli stessi diritti per il colore della sua pelle. L’approccio a questo testo nasce per poter dare al pubblico la possibilità di tornare a casa e anche solo per un momento riflettere sull’importanza di tenere sempre vivi temi che riguardano i diritti umani.

-          Non credi che, tutto sommato, la questione pena di morte possa, oramai, ritenersi quasi risolta, o, comunque, in via di definitiva risoluzione?

Credo che si sia fatto tanto, che siano stati compiuti tanti passi avanti per arrivare a risultati importanti. Ma molte volte l’essere umano è pigro nell’informarsi e nel capire profondamente problematiche reali come la pena di morte.

-          La pena di morte, pur se in via di diminuzione, costituisce una diffusissima quanto dolorosa presenza all’interno della storia dell’umanità. Come ti spieghi questo fatto?

Purtroppo il gene della sopraffazione è insito nell’essere umano e ha caratterizzato secoli di storia. L’essere umano nell’arco della storia è stato, però, progressivamente educato a rispettare “in primis” se stesso e, di conseguenza, il prossimo. 

-          Come pensi che potrebbe reagire il grosso dell’opinione pubblica del nostro paese di fronte ad una eventuale proposta di reintroduzione della pena capitale?

Innanzitutto mi auguro che tutto questo non avvenga mai e l’ulteriore augurio è quello che, se dovesse succedere, il popolo abbia la volontà di ribellarsi ad un sistema che prevederebbe la violazione massima dei diritti umani.

di Reginald Rose
regia di Ignazio Raso

sabato 12 gennaio, ore 21
domenica 13 gennaio
, ore 18 

Info e prenotazioni: 063223432 - This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

Tribunale di New York. Una giuria popolare composta da 12 membri è chiamata a decidere se condannare alla pena di morte un ragazzo accusato di patricidio. La legge richiede l'unanimità La strada per il verdetto travolge i suoi stessi attori tra prove inconfutabili, testimonianze, dubbi e pregiudizi. Colpevole o non colpevole?

Lo spettacolo è dedicato ad Amnesty International. L'incasso sarà devoluto a sostegno delle campagne promosse in difesa dei diritti umani.

*IGNAZIO RASO

La versatilità come attore, testimonial e conduttore e un talento naturale davanti alla telecamera e sulle scene accompagnano dagli esordi il cammino artistico di Ignazio Raso. Nel suo carnet spiccano ruoli importanti nei cicli di fiction di maggior successo (La squadra, Distretto di polizia, Don Matteo, Un posto al sole), in film e cortometraggi premiati dalla critica, in prove teatrali nel circuito dei palcoscenici romani più legati alla sperimentazione dei linguaggi e all’avanguardia (dal Cometa Off all’Orologio).

Il pubblico più largo lega il suo volto alla pubblicità di marchi molto noti (Tim, Whiskas, Toyota), in un caso girata al fianco di un’icona dello star-system internazionale quale Naomi Campbell, ma soprattutto a programmi cult su MTV Italia.

            

         

In seguito al mio articolo dedicato al tema dell’Utopia (Se l’utopia muore - Riflessioni su disincanto giovanile e diritti umani) ci sono pervenuti numerosi commenti di indubbio rilievo. Ho ritenuto utile, pertanto, raccogliere e proporre almeno le riflessioni critiche più stimolanti, tentando anche di rispondervi con qualche mia breve annotazione.

 

 

               “Ancora una volta sollevi un problema importantissimo e sul quale si riflette e si discute poco. Mi sono posto questi tuoi interrogativi più nei confronti del messaggio che trasmetto (ho trasmesso) ai miei figli con il mio atteggiamento quotidiano, di quello, certamente più costruttivo, che riesco a proporre nelle occasioni di incontri nelle scuole. Purtroppo anch'io mi sono risposto che intimamente sono disilluso e che l'orientamento che ho visto assumere dall'umanità nel corso della mia esistenza è divergente dai principi che mi sono stati indicati dalla mia famiglia, dai miei insegnanti e che io stesso avverto come auspicabili ma sempre, e forse sempre più, disattesi. Il trionfo dell'egoismo e dell'avidità sono i due aspetti dell'animo umano che reputo alla base dell'imbarbarimento a cui assistiamo quando, tutto sommato, i progressi tecnici e le esperienze dei conflitti del secolo scorso, avrebbero potuto consentire una presa di coscienza e una convivenza più equilibrata. Aggiungo che anche alcune dinamiche naturali come l'incontrollata crescita demografica dei paesi poveri, sembrano spingere verso nuovi attriti e nuovi conflitti.
In poche parole, la disillusione ha colto anche me ed è difficile predicare bene razzolando male.
Attualmente risolvo la questione riconoscendomi assolutamente incapace di interpretare i disegni della storia e il significato dell'esistenza ma, certamente, si tratta più di una fuga dal problema che di un tentativo di affrontarlo
.”

Claudio Rossi

(senior financial analyst e volontario di Emergency)   

 

   

                “L'articolo è molto interessante e affronta una questione su cui stavo appunto riflettendo nei giorni scorsi a partire da uno spunto di Luciano Canfora (da La schiavitù del capitale). Canfora afferma la necessità di promuovere l'"utopia della fratellanza e della solidarietà", per evitare che si affermino forze che il capitalismo ha evocato e rischia di non riuscire più a gestire.

Mi chiedevo quanto la "disillusione" generalizzata di fronte alla quale ci troviamo oggi, il catastrofico tramonto delle utopie (che in parte mi coinvolge, dopo due decenni abbondanti di militanza politica) dipendano dal fallimento di quegli ideali, di quelle utopie che noi, sia pure da posizioni politiche diverse, abbiamo finora tenuto in vita.

Personalmente, mi sono imbattuta, più che nella convinzione aprioristica della malvagità per natura del genere umano, in filosofie di vita improntate alla ricerca dell'utile personale, in particolare della ricchezza materiale. La frase che sento più spesso quando parlo delle grandi utopie del passato, in gran parte di ispirazione ottocentesca, è: "a che cosa sono servite?". E' una domanda che sento fare spesso anche sulle materie di studio, tipo: "a che cosa serve il latino?", oppure "a che cosa serve la storia?". 

Inoltre, sto iniziando a leggere due libri: uno è "Supernotes" di Luigi Carletti e dell'ex agente Kasper; l'altro è "Il puzzle Moro" di Giovanni Fasanella. Da entrambi emerge come le forze detentrici del potere (che siano i servizi segreti, deviati o no, o che siano le oligarchie finanziarie) siano sempre, sistematicamente, riuscite a infiltrarsi nei movimenti progressisti distruggendoli dall'interno, oltre che con la consueta arma della repressione. In base a queste considerazioni, quali utopie possono ancora trovare spazio? La speranza e il sogno di un mondo giusto ed equilibrato, in fondo, possono essere declinati in mille modi: dai socialismi ai nazifascismi. Oggi in molte scuole si fa leggere "A cercar la bella morte" di Carlo Mazzantini, a sottolineare che anche i repubblichini, e non solo i partigiani, combattevano "per un mondo migliore", anche se per mondo migliore intendevano un mondo che secondo me è persino peggiore di quello reale.

Non è forse rischioso quindi dare nuova linfa alle utopie? E se qualcuno se ne appropriasse (come finora è accaduto) per far passare svolte autoritarie in nome della creazione di una società perfetta? D'altronde, l'utopia spesso sfocia nell'anelito a una società perfetta. Poi, non è forse pericoloso suscitare false speranze? In fondo la generazione del cosiddetto "riflusso" è in buona parte il prodotto del disincanto riguardo gli ideali e i sogni dei decenni precedenti.

Compio queste riflessioni con inquietudine, da ex-idealista (in senso politico) che non riesce più ad esserlo. Nel contesto degradato della periferia in cui vivo, ad esempio, non c'è spazio per le utopie, ed è difficile trovarne se pensiamo che viviamo in una città (Roma) incancrenita dalla criminalità organizzata, ma i cui abitanti non fanno nulla neanche per smettere di finanziarla. Chi rinuncia infatti ai luoghi di divertimento per una scelta etica, pur sapendo di rischiare di finanziare le cosche criminali? Altro che Arabia Saudita, Yemen... anche qui viviamo tra meccanismi tribali (come appunto quelli mafiosi) che non abbiamo la capacità di spazzare via. E non riusciamo a farlo perché questi meccanismi generano un potere economico che è funzionale al capitalismo.

In questo contesto, trovo comprensibile che gli adolescenti abbiano in mente solo la corsa al benessere materiale. Anche perché mi sembra che sia sempre più folta la schiera di chi vede questo benessere materiale dissolversi giorno per giorno.”

Carlotta Caldonazzo

(docente e collaboratrice di flipnews.org)

 

 

           “Non è questione di utopia, ma di presa di coscienza di una realtà più alta di quella che normalmente osserviamo. Per prendere coscienza, e non sognare, bisogna lavorare molto su se stessi, guardare più il cielo che la terra, praticare tecniche (orientali o occidentali) che elevino lo sguardo, coltivare una filosofia costruttiva e soprattutto viverla, più che predicarla. Cambiando noi stessi cambiamo il mondo, come ben sai diceva Gandhi, viviamo la “compresenza” di cui parlava Capitini, e come esito di tutto questo educhiamo i giovani, e gli adulti.

I giovani, se sono così disincantati e disinteressati ai discorsi della nostra generazione, è perché la visione che quotidianamente gli proponiamo esprime, anche magari per contrapposizione, la prevalenza di una materialità arida e senza speranza. Bisogna invece fornire modelli sorridenti, appagati, solerti e sereni.”

Francesco Pistolato

(ricercatore per la Pace)

 

 

             Il mondo che ci circonda è senza dubbio, sotto molteplici angolature, terribile e spietato. I migliori pensatori dell’umanità non lo hanno mai negato, anzi, è proprio da simile constatazione che hanno preso le mosse per i loro viaggi intellettuali ed esistenziali. Vale per Gautama Buddha come per Leopardi, per Platone come per Schopenhauer, per Voltaire come per Freud … il mondo del divenire è il mondo della scissione e del conflitto, il mondo del trionfo del “principium individuationis” … E proprio per questo le religioni, le filosofie e le ideologie politiche hanno cercato di scoprire o di costruire vie d’uscita, vie di liberazione, vie di salvezza …

Certo, la cosiddetta “morte di Dio” ha spazzato via molte illusioni e anche molte speranze. E ad essa è seguita, nel secolo che abbiamo alle spalle, e nei pochi anni di questo secolo nuovo, tante e tante volte la “morte dell’Uomo” … il naufragio, cioè, di quanto pensato come massimamente sacro e inviolabile. Gli esseri umani sono stati macellati in tutti i modi, umiliati e profanati nella loro più intima essenza e le titaniche costruzioni politiche e religiose invocate e attuate col dichiarato intento di portare Giustizia hanno prodotto sfracelli ed orrori senza fine …

E gli orizzonti dell’avvenire non sembrano certo meno carichi di potenzialità distruttrici. Il disincanto, la paralisi interiore, il cercare stordimento e un qualche conforto (per quanto fugace e ingannatore) nelle tante cose senza senso che dilagano nei nostri tempi possono pure apparire come comprensibilissime forme di reazione o di autodifesa …

Ma se la mente non riesce più a ritenere degna di essere nemmeno ipotizzata una società “altra” rispetto a quella che tanto ci indigna, allora siamo veramente perduti.

Diceva Norberto Bobbio che dovremmo ben guardarci dal cadere nelle trappole dell’ottimismo che instupidisce e del pessimismo che paralizza. Cercando, invece, di muoverci sempre con ferma e ben ponderata fiducia nella ragione, al fine di poter introdurre qualche spiraglio di luce in questo triste e storto mondo …

E lo si può fare in tanti modi. Certamente, insegnare e ricordare quante cose meravigliose noi poveri e piccoli sognatori siamo riusciti a fare, ad esempio, in questi ultimi secoli (dall’abolizione della tratta degli schiavi africani, all’emancipazione femminile, dall’affermazione dei diritti dell’infanzia all’ abolizione in tanti Paesi della pena capitale, ecc.) può risultare di preziosissimo aiuto. Come anche il conoscere e il far conoscere le vite, le battaglie, le conquiste rivoluzionarie dei tanti grandi e piccoli portatori di luce del passato e del presente. Molti dei quali non necessariamente “martiri ed eroi”, ma semplicemente umili, caparbi e coerenti ricercatori di verità e costruttori di pace.

Senza dimenticarci mai che è sempre molto più saggio e salutare provare ad accendere anche una flebile fiammella, piuttosto che limitarsi a maledire l’oscurità …

 

E' partito in bicicletta da Serravalle, in provincia di Alessandria, il 12 di maggio per incontrare la Delegazione Italiana del Parlamento Europeo, a Strasburgo, e consegnarle un appello per il rispetto dei diritti umani e contro la violenza di genere, contro il femminicidio e contro il bullismo. Lui è Vittorio Barbanotti, ha 66 anni, è cardiopatico ed ha subito un intervento chirurgico per l'installazione di una valvola meccanica aortica. Eppure, nonostante ciò, ha fatto la pedalata da solo senza assistenza ne' meccanica, ne' sanitaria, della quale avrebbe potuto avere forse bisogno.

 

Ha affrontato pioggia, fatica, freddo, salite scoraggianti, vento contro, stanchezza fisica. A volte, per risparmiare, non avendo ricevuto sufficienti contributi, ha mangiato solo di sera.

Un'altra volta, in Francia, un guidatore maleducato, lo ha fatto cadere perché parlava al telefono mentre guidava. Tante volte le tappe si sono allungate anche di 20 o 30 chilometri per indicazioni sbagliate. Una volta lo ha colto una vera tempesta di acqua ed è arrivato alla fine della tappa "più bagnato dell'acqua che scendeva", come ha scritto sui social, ma non ha mai desistito perché nel cuore c'era tanta voglia di creare una vita migliore per i nostri giovani raggiungendo Strasburgo, quel luogo autorevole, molto autorevole che può accendere i riflettori sui diritti umani. Lungo il percorso molti gli hanno manifestato la loro solidarietà e a quelli lui ha fatto firmare l' Alta Bandiera dei Diritti Umani.

 

Questa bandiera è nata dal desiderio dell'alpinista Daniele Nardi di unire alle sue avventure il suo impegno umanitario; idea che è stata raccolta e realizzata con entusiasmo dall’associazione “Arte e Cultura per i Diritti Umani” onlus che, insieme a Daniele, porta avanti nelle scuole la campagna internazionale “GIOVENTU’ PER I DIRITTI UMANI“ ed è parte integrante del progetto “LA SCUOLA SULLE ALTE VETTE CON I DIRITTI UMANI“.

E' stata realizzata con il logo di “Youth for Human Rights International” e con i colori della bandiera italiana.

I primi a firmarla sono stati i 20.000 studenti incontrati nelle scuole del Lazio che si sono impegnati a realizzare prima di tutto nella propria vita gli articoli della Dichiarazione Universale dei diritti umani dell'ONU. Dopo di loro personaggi dello sport, della cultura e della politica si sono impegnati a loro volta firmandola.

Daniele ce l'ha sempre nello zaino quando scala le più alte vette del mondo così come Vittorio ce l'aveva nello zaino durante la sua Pedalata Longa per i Diritti Umani.

 

Lui si definisce uno che parla poco e che cerca di attivarsi sempre di più e, senz'altro, a questa impresa ne seguiranno altre. Durante il suo percorso in Italia ha incontrato anche sindaci e politici che ha cercato di sensibilizzare. A Ginevra si è fermato nella sede dell' Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ed è stato ricevuto dal Primo Consigliere della Rappresentanza Italiana con delega ai Diritti Umani.

 
 Vittorio Barbanotti

Il 6 di giugno , con ben 13 giorni di anticipo, è arrivato finalmente a Strasburgo e lì ha avuto la grande sorpresa di esser ricevuto non dai rappresentanti italiani ma da un organismo superiore che è il Consiglio Europeo. Lì ha potuto finalmente consegnare l'appello per l'introduzione dell'insegnamento dei Diritti Umani nelle scuole e, soprattutto, fare vedere le tante, tantissime firme sulla bandiera.

 

L'orgoglio ed il rispetto verso il messaggio della pedalata sono stati più forti di qualunque fatica sopportata e questo è segno di grande integrità personale. Era commosso Vittorio quando ha concluso la sua impresa e ha fatto commuovere anche chi ha letto della sua impresa. Grazie Vittorio.. E' grazie a persone come te se i diritti umani diventeranno una realtà e se i nostri ragazzi avranno una vita migliore.

      

Chiunque abbia avuto occasione di colloquiare con i giovani di questo nostro complicato tempo, intorno a questioni di attualità e, soprattutto, in merito alle prospettive per il futuro (loro e del mondo), si sarà sicuramente imbattuto in atteggiamenti molto diffusi caratterizzati da quello che potremmo definire rifiuto dell’utopia.

Di fronte a problemi come la violenza in tutte le sue più efferate declinazioni, i conflitti sempre presenti, l’inquinamento ambientale, le innumerevoli forme di ingiustizia socio-economica, ecc., assai frequentemente, infatti, i giovani (ancor più dei meno giovani) si trovano ad esprimere ferme convinzioni a sostegno del cosiddetto carattere “naturale” (e, dunque, incorreggibile e ineliminabile) della malvagità umana e della consequenziale impossibilità di cambiare il corso della storia, presentandoci pertanto, in maniera più o meno amara e rassegnata, una sorta di “filosofia di vita” in cui il mondo risulterebbe dominato dal “Male”, a causa della natura malvagia, egoista e violenta dell’uomo, cosa questa che renderebbe irrealizzabile qualsiasi sogno di trasformazione radicale della nostra storia. E’ evidente che, qualora non si riuscisse a mettere in crisi questo tipo di visione del mondo (aprendovi almeno qualche breccia), evidenziandone i punti deboli, le contraddizioni, gli apriorismi poco razionali e molto dogmatici, se non si riuscisse a immettere nella coscienza giovanile i necessari anticorpi psicologici, etici e conoscitivi, sarebbe impresa assai ardua, se non proibitiva, riuscire a portare avanti qualsiasi discorso ed iniziativa incentrati sul valore universale e costruttivo dei Diritti Umani e sulla concreta possibilità di liberare veramente il mondo dal “flagello della guerra”.

Di fronte a un simile disincanto, credo che tutti noi adulti, insegnanti, educatori, professionisti dell’informazione, politici, ecc., non dovremmo limitarci ad esprimere amarezza e delusione, bensì sentirci chiamati a mobilitarci per far sì che non venga a spegnersi del tutto la capacità di sognare un “mondo più umano”. Ma, prima di ogni altra cosa, non dovremmo, però, mai eludere i seguenti interrogativi:

-          Questi giovani così poveri di speranza in che rapporto stanno con la società adulta? Ne sono l’insolita negazione o la coerente oggettivazione? E noi tutti cosa abbiamo fatto per riempire il loro vuoto, cosa stiamo facendo e cosa, soprattutto, non abbiamo fatto e dovremmo invece cominciare a fare?

Chi ha operato la non semplice scelta di lavorare per un futuro in cui sia sempre più solido e rispettato il valore della dignità umana, sa bene che le dolenti rampogne e i mea culpa di rito dovrebbero lasciare il campo ad un impegno senza sosta, in ogni ambito, volto a favorire un effettivo rinnovamento delle coordinate teorico-pratiche del comune pensare e sentire, e che, per fare questo, non potrà certo bastare ricorrere enfaticamente alle tanto a lungo (e invano) sbandierate “magnifiche sorti e progressive”.

Ma, soprattutto, la domanda che non possiamo assolutamente pretendere di non porci è quella relativa al come siamo diventati noi, a quanto veramente possiamo dichiararci non soggiogati anche noi stessi da una visione cupa e disillusa della vita. Perché, per poterci ritenere “buoni maestri” è indispensabile che il nostro pensiero e il nostro cuore continuino a credere, in maniera quanto più possibilmente razionale, equilibrata e critica, nell’uomo e nei suoi diritti, nonché nelle sue infinite possibilità di crescita. Altrimenti, non potremmo essere credibili, non potremmo essere di alcuno aiuto nel cercare di tener in vita (o di far rinascere) la speranza. Se anche la nostra anima fosse invasa dalle macerie dei nostri ideali, e se noi stessi non sapessimo più sognare un mondo rigenerato, se fossimo diventati incapaci di progettare un mondo bonificato dai muri e dai fili spinati, dalle urla dei torturati, dalla disperazione dei ragazzi di strada, dalle fosse comuni, dai patiboli e dagli arsenali, ecc., come potremmo efficacemente spingere i nostri giovani verso una scelta socialmente e autenticamente impegnata?

Chiediamoci e richiediamoci se, per caso, la resistenza dei nostri ragazzi ad aprirsi ad una visione della realtà fondata sulla fiducia non dipenda in buona dose dal fatto che siamo stati tutti noi i primi a lasciarla fuori dal recinto delle mura in cui ci siamo barricati … Perché abbiamo finito, troppe volte, per sentirci scavalcati e sconfitti dalle ipocrisie di tutti i poteri, dalla brutalità ammaliante dell’”avere”, dalla vacuità dei chiacchiericci politichesi, dall’insaziabile capacità corruttiva del denaro, ecc … Perché abbiamo finito per non sentirci più in grado di poter contare e di poter fare granché, abbiamo finito per credere che il grande compito di costruzione di giustizia e di pace indicatoci dai grandi documenti ONU, UNESCO, UNICEF fossero diventati nobili feticci da riporre in bacheca o, ancor peggio, in soffitta …

Diceva perentoriamente Adolphe Ferrière che non è possibile che ci sia vera educazione in assenza di gioia, e che, di conseguenza, coloro che si venissero a scoprire privi di “gioia nel cuore” dovrebbero immediatamente smettere di fare gli educatori (o di far finta di esserlo). E che gioia mai potrebbe davvero esserci nei nostri cuori senza più la capacità di immaginare/ di desiderare/ di volere un mondo incommensurabilmente lontano dal nostro?

Soltanto se riusciremo a meditare a lungo e con il massimo senso di responsabilità sui pericoli insiti nella morte dell’utopia (ma anche nel suo letargo), la nostra presenza in mezzo ai giovani potrà risultare in grado di aprire squarci preziosi in cieli spesso tanto grigi e desolati.

Altrimenti, se   “le oasi dell’utopia” arrivassero a seccarsi, rischieremmo tutti di ritrovarci smarriti in “un deserto di banalità e confusione” (Habermas).

       L’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani indica esplicitamente le coordinate entro le quali sviluppare una efficace opera educativa indirizzata a costruire un mondo liberato dal cosiddetto “flagello della guerra”:

“ (…) Essa (l’istruzione) deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi …”

Nell’articolo 5, 3 della Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali (Unesco, 1978) ritroviamo una analoga enunciazione delle stesse finalità anche a proposito dei mezzi di comunicazione:

“ I grandi mezzi di informazione e coloro che li controllano o li gestiscono (…) sono chiamati - tenendo nel dovuto conto i principi formulati nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e specialmente il principio della libertà di espressione - a promuovere la comprensione, la tolleranza e l’amicizia tra gli individui ed i gruppi umani, ecc.”

E nella successiva Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (1989), a proposito degli obiettivi fondamentali dell’educazione, inserita in un contesto più ampio e circostanziato, l’articolo 29, 1, afferma:

“ (…) l’educazione del fanciullo deve avere come finalità: (…) d) di preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, ecc.”

Ritenendo evidente il fatto di trovarci di fronte a scelte lessicali di natura non fortuita, al fine di meglio comprendere la filosofia politica di cui sono coerente espressione, sarà utile porsi i seguenti quesiti:

  1. L’ordine dei tre termini ricorrenti (comprensione- tolleranza-amicizia) quale concatenazione teorica sottintende?
  2. Perché, prima ancora della tolleranza e dell’amicizia, viene evidenziata la necessità della comprensione?
  3. Quale/i significato/i dovremmo attribuire a tale termine?

Credo che si sia voluto conferire un’importanza basilare e propedeutica al concetto di comprensione al fine di asserire che ogni discorso in merito a tolleranza e ad amicizia tra i popoli che non presupponesse una adeguata formazione conoscitiva, potrebbe risultare del tutto vano, se non addirittura retorico o ingannevole. Ciò secondo un procedimento logico-argomentativo analogo a quello rintracciabile già nello stesso incipit del Preambolo della Dichiarazione del 1948, relativamente alla inscindibile concatenazione

DIRITTI UMANI - LIBERTA’- GIUSTIZIA - PACE:

Considerato che il riconoscimento della dignità umana inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo …”

Un avvertimento, quindi, un’ esortazione miranti a mettere in luce come, volendo prescindere dalla comprensione, risulterebbe del tutto fallimentare parlare poi di tolleranza e di amicizia.

Perché? Perché altrimenti si potrebbe rischiare di propagandare, troppo semplicisticamente, una sorta di “strategia dei buoni sentimenti” o delle “buone intenzioni”, senza andare minimamente ad intaccare e ad attaccare, sul piano conoscitivo (ma anche psicologico), quelle che sono le barriere, le resistenze, le diffidenze che tanto spesso ci impediscono di relazionarci all’altro con serenità e rispetto, in un’ottica di sincero spirito di uguaglianza.

Si potrebbe affermare, anche, che dietro il rifiuto dell’altro ci sia sempre un deficit di carattere conoscitivo. Guardiamo con perplessità - sospetto - timore ciò che non comprendiamo e il timore è, molto probabilmente, la causa principale di ogni intolleranza. Perché se ci sentiamo in pericolo, se guardiamo con timore colui che non comprendiamo, saremo facilmente indotti ad assumere atteggiamenti ostili, con tutto quello che ne potrebbe conseguire. E se ci troviamo in una condizione di ostilità - rifiuto, ogni appello alla tolleranza, all’accoglienza e all’amicizia è tristemente destinato o ad essere ignorato o ad essere recepito in maniera epidermica se non addirittura infastidita.

In un prezioso lavoro di Paola Tabet (La pelle giusta, Einaudi) di qualche anno fa, ma ancora attualissimo, fra le tante reazioni e risposte fornite da bambine/i di scuola elementare e media inferiore al quesito “Se i miei genitori fossero neri”, possiamo imbatterci in terribili parole come le seguenti:

Ma ogni mattina a vedere due neri in casa passerei paura e a mezzogiorno mangerei vermi anche a cena e ciò farebbe venire il vomito” (Tamara, Ferrara, III elementare);

Se i miei genitori fossero neri io li manderei di casa anche se fossero buoni. Perché io ho paura dei neri perché uccidono i bambini e fanno del male” (Montedoro, Caltanissetta, IV elementare);

I negri rubano per vivere, certi negri invece, per guadagnare molti soldi vendono anche la droga …” (Roma, V elementare).

Di fronte all’altro (in questo caso le persone di pelle scura, ma il discorso potrebbe riproporsi per rom, musulmani, sikh, testimoni di Geova, disabili, ecc…) questi bambini dimostrano di trovarsi culturalmente e psicologicamente impreparati , sprovvisti, cioè, di chiavi di lettura che possano loro consentire di entrare in relazione con esso, avvertito come realtà impenetrabile - indecifrabile. E quindi come realtà irraggiungibile in quanto priva di ogni indispensabile aspetto di affinità con il proprio sé e i propri orizzonti di riferimento.

Nello stesso tempo, però, ecco che a tale mancanza vengono a supplire gli schemi interpretativi socialmente acquisiti e sedimentati nella propria coscienza, i quali riescono a cancellare ogni possibilità alternativa (“… anche se fossero buoni …”). In quanto risultato di un processo di iper-generalizzazione, essi hanno, infatti, la capacità di annullare ogni distinzione, ogni sfumatura, ogni peculiarità individuale, hanno la capacità, cioè, di mettere a tacere la voce dell’esperienza prima ancora che possa esprimersi e prima ancora, quindi, che possa produrre conoscenza. In tal modo, l’altro, che non si è in grado di comprendere, finisce per essere risucchiato nel “noto”, inglobato, cioè, all’interno di ben determinati e collaudati stereotipi (nero=selvaggio=soggetto subumano “naturalmente” capace di ogni “bestialità”), grazie ai quali ogni singolo spezzone di realtà viene ad inserirsi in un tutto dove regnano ordine e chiarezza e dove nulla appare imprevedibile.

Stereotipi dalle radici antiche: antiche, potremmo dire, quanto le paure degli uomini e il loro bisogno di ordine e di sicurezza, filtrate e plasmate, però, sulla base delle disumanizzanti esperienze coloniali. Sarà un caso, mi chiedo, che i neri immaginati dalla nostra bambina ferrarese mangino vermi come i “selvaggi” descritti da certi osservatori europei di qualche secolo fa, approdati sul continente americano?!

Di fronte a ciò, appellarsi semplicemente al dovere di “essere generosi, solidali e antirazzisti”, può ottenere soprattutto (e forse soltanto) il risultato di stendere una patina ottundente sopra un coacervo assai intrigato e stratificato di pregiudizi, ostilità, diffidenze, timori, ecc. Riuscendo, nel migliore dei casi, a creare soltanto qualche fragile argine inibitorio e finendo, molto spesso, nel favorire atteggiamenti ipocriti e contraddittori, sorgenti inesauribili di sventure.

Ma una strategia fondata sulla comprensione cosa dovrebbe comportare?

Innanzitutto, direi che dovrebbe promuovere, in ogni ambito e a tutti i livelli, un atteggiamento di accentuata intonazione socratica, ovvero di umile riconoscimento del proprio “non sapere” e non poter comprendere, del proprio non essere in grado di comprendere fino in fondo l’insondabile misteriosità dell’altro. Se sono consapevole di questo, infatti, se ho il coraggio di non mascherare od occultare la mia condizione di ignoranza, allora qualcosa di importante in me potrebbe davvero accadere. Ma passaggio obbligato sarà quello di prendere le distanze dalle tante risposte già date, dalle tante immagini codificate, nonché dalle innumerevoli e ingombranti etichette pre-confezionate …

Sarà indispensabile, cioè, imparare a guardare dal di fuori gli schemi interpretativi a cui meccanicamente facciamo ricorso, imparare a liberarci delle lenti colorate che ci sono state (e che ci siamo) affibbiate e che noi abbiamo finito per credere parte integrante del nostro io.

Operazione non facile, certo, perché, come ci ha ben spiegato Primo Levi :

“Sradicare un pregiudizio è doloroso come estrarre un nervo”.

Ma operazione irrinunciabile e irrimandabile se vogliamo veramente costruire un mondo in cui regnino il dialogo e la pacifica collaborazione. Come ci insegna il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh, le nostre vite non sarebbero al sicuro dalla violenza e dalla paura neppure se trasportassimo tutte le bombe sulla luna, “perché le radici della guerra e delle bombe sarebbero ancora nella nostra coscienza collettiva”.

Soltanto grazie ad un responsabile e accurato lavoro sul piano del cogito, sul piano, cioè, delle nostre gerarchie valoriali e delle nostre chiavi di lettura della realtà, sarà possibile poter sperare in una liberazione della nostra coscienza personale e collettiva da tutte le tossine (generatrici di bombe) dell’ignoranza camuffata da verità.

qui nel video raccontera' una breve storia della battaglia che sta conducendo contro questa malattia...Il video e' una richiesta di aiuto per raccogliere soldi per avere una vita ''normale''...(VIDEO)

 

 

 Non pochi pregiudizi, da sempre, ruotano intorno al concetto di nonviolenza. E sempre i suoi grandi alfieri ed annunciatori hanno avvertito l’urgente necessità di fugare equivoci e di combattere ed abbattere fuorvianti e svilenti fraintendimenti.

Il primo errore (diffusissimo) da evitare è il ritenere che la nonviolenza sia qualcosa di semplicemente “negativo”, ovvero una prassi che si limiterebbe a voler evitare l’esercizio della violenza. Nonviolenza non è soltanto astensione dalla violenza. Nonviolenza è, come dice Aldo Capitini (che non a caso ha sempre preferito parlare di nonviolenza invece che di non violenza), “scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani.”

Questo significa che non si tratta soltanto di un mero divieto morale, ovvero di un semplice non dover fare qualcosa , bensì di una vera e propria filosofia di vita, di una vera e propria visione del mondo che pretende di essere radicalmente alternativa a quella imperante, condivisa e rispettata in maniera schiacciante nel mondo di oggi, come nel mondo di ieri.

La nonviolenza - dice sempre Capitini - “non è cosa negativa, come parrebbe dal nome, ma è attenzione e affetto per ogni singolo essere proprio nel suo essere lui e non un altro, per la sua esistenza, libertà, sviluppo.” 1)

La nonviolenza non andrebbe mai confusa con aprioristico rifiuto di ogni genere di conflitto. La nonviolenza è rivolta, è ribellione contro un presente che divinizza la forza, che esalta “lo schiaffo e il pugno”, che assolutizza il dominio incondizionato degli arroganti, degli spregiudicati, dei prevaricatori. E’ tensione continua, sempre imperfetta e sempre insoddisfatta, sempre assetata di trasformazione e attraversata da una perenne e operosa impazienza.

Chi sceglie la nonviolenza parla col suo atto a tutti: segnala una via per tutti, e rompe l’indifferenza o l’incantamento mentre si prepara un’altra guerra.”2)

La nonviolenza non è cosa - dice Gandhi - con cui ammantarsi e nobilitarsi, senza aver spazzato via da se stessi tutto ciò che sa di meschinità e di egoismo.

La prima grande operazione necessaria non è, quindi, tanto deporre la spada impugnata dalla nostra mano, bensì di gettare via quella che insanguina il nostro cuore. Cioè liberare la nostra anima da ogni sudditanza nei confronti di ogni ideologia e di ogni prassi che prevedano, tollerino o addirittura auspichino o magnifichino forme di oppressione e di distruzione dell’Altro, inteso come sostanzialmente diverso da me, come tale inconciliabile con i miei valori, con il mio “stile di vita”, inteso, cioè, come pericolo, come fonte di contaminazione, di disordine morale, come sottrazione di sicurezza, di benessere, ecc …

La nonviolenza si fonda sull’affratellante apertura verso i membri della “famiglia umana”, al di là delle innumerevoli e più o meno fantasiose etichette che giustapponiamo ad essi in base alle differenze etniche, linguistiche, religiose, sessuali, ecc …

La nonviolenza, pertanto, non andrebbe mai vista come una scelta comoda, come un tirarsi indietro, un fuggire la mischia, una sorta di “lathe biosas (λάθε βιώσας) ”, mosso da opportunismo, pigrizia o, ancor peggio, da viltà. Non ha nulla a che fare col “lasciarsi vivere”. Il suo primo bersaglio, anzi, è, semmai, proprio l’indifferenza. Perché l’indifferenza - come ci spiega Elie Wiesel -“è più pericolosa della rabbia e dell’odio”. Perché la rabbia e l’odio possono anche risultare stimolanti e produttivi. Mai, invece, l’indifferenza. Perché l’indifferenza non è e non potrà mai essere un inizio, ma sempre soltanto una fine, la fine di qualsiasi possibilità di cambiamento e di miglioramento. L’indifferenza “è sempre amica del nemico, perché giova all’aggressore”. Consente all’aguzzino, al torturatore di lavorare indisturbati. 3)

L’indifferenza è la grande tentatrice, la grande maga che ci affascina e ci seduce, che ci paralizza e che ci fa sentire lontane le sofferenze altrui, che ci fa sentire irraggiungibilmente e irreparabilmente lontane tutte le vittime di tutte le ingiustizie che ogni giorno massacrano il nostro mondo.

La nonviolenza nulla ha a che vedere, quindi, con rassegnazione, mediocre tatticismo e fuga dalla realtà verso astratti mondi di sogni chimerici e consolatori. “Non accetta - dice sempre Capitini - nemmeno le violenze passate, e perciò non approva l’umanità, la società, la realtà, come sono ora.” 4)

E’ sempre schierata dalla parte delle vittime, sempre pronta a difendere i deboli, gli emarginati. E’ “dramma tormentoso”, è lotta vivificata dalla convinzione che “non può mettersi nel mondo com’è, e lasciarlo tale e quale” 5), ma che sia doveroso battersi con forza travolgente per affermare e difendere l’insostituibilità di ogni singolo essere.

La nonviolenza è impegno “a parlare apertamente su ciò che è male, costi quel che costi, non cedendo mai su questa libertà, e rivendicandola per tutti”. 6)

Il “nonviolento è portato ad avere simpatia particolare con le vittime della realtà attuale, i colpiti dalle ingiustizie, dalle malattie, dalla morte, gli umiliati, gli offesi, gli storpiati, i miti e i silenziosi, e perciò tende a compensare queste persone ed esseri (anche il gatto malato e sfuggito) con maggiore attenzione e affetto, contro la falsa armonia del mondo ottenuta buttando via le vittime.” 7)

La nonviolenza è nemica severa e scomodissima sia della prepotenza dei tiranni, sia dell’indifferenza degli ignavi, sia di quello che Martin Luther King ebbe efficacemente a chiamare “lo spaventoso silenzio dei buoni”. 8)

La nonviolenza è insistente e inesausta operazione di sgretolamento di falsità e menzogne, di censure pianificate e subite, di omissioni meschine e di rimozioni vigliacche, di miti consolatori e di timori paralizzanti. Aspira continuamente a portare allo scoperto le piaghe che avvelenano il nostro mondo, convinta che soltanto quando l’ingiustizia sarà esposta in tutta la sua brutale ripugnanza “alla luce della coscienza umana e all’aria dell’opinione pubblica” potrà essere compresa, combattuta e curata nelle sue radici più profonde. 9)

In questo nostro mondo e in questo nostro tempo, in cui a dominare sono sempre i fabbricanti e i mercanti di morte, chiediamoci, allora, con estrema umiltà ed onestà:

siamo sempre nel mondo iperuranico delle meravigliose utopie create dai grandi sognatori per asciugare le lacrime roventi sul volto delle anime fragili e belle?

Siamo sempre sul piano delle cose buone e auspicabili, ma troppo lontane e troppo difficili?

Delle cose tanto sperabili proprio perché tanto irrealizzabili?

 

NOTE

1) A. Capitini, Religione aperta, p.106
2) ivi, p.108
3) E. Wiesel, The Perils of Indifference, discorso alla Casa Bianca del 12 aprile 1999, in A. Cassese, Voci contro la barbarie, Feltrinelli, Milano 2008, p.363
4) ivi, p.109
5) ivi, p.110
6) A. Capitini, Azione nonviolenta, in Le ragioni della nonviolenza, Ed. ETS, Pisa, 2004, p.179
7) ib
8) M.L.King, Lettera dal carcere di Birmingham, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona, 1993, p. 10
9) Ib

 

Gaza, 7 aprile 2018 - In questo momento, ora locale 2 del pomeriggio, si stanno svolgendo i funerali dell’ultima mattanza israeliana, regolarmente e impunemente annunciata, in risposta alla marcia pacifica del popolo di Gaza che chiede il rispetto delle Risoluzioni Onu. Ma l’Onu, al di là della ridondanza del nome e dei palazzi che occupa, è un’organizzazione timida, e di fronte a Israele si limita, quando lo fa, ad esprimere qualche rimprovero, e generalmente a posteriori!

Chiunque conosca anche soltanto l’alfabeto del Diritto, sa che senza sanzioni non c’è efficacia della norma. Anche all’Onu lo sanno bene e infatti in molti casi le sanzioni scattano anche per una sola Risoluzione violata. Ma Israele no, Israele ne ha violate molte decine, praticamente tutte quelle che lo riguardano e questa continua violazione senza sanzioni è in parte la causa del discredito ormai evidente che ha reso l’Organizzazione delle Nazioni Unite simile a un orso addestrato, capace di mostrare la sua imponente figura, ma muovendo i passi decisi dal suo addestratore.

Questo è il regalo che Israele ha fatto al mondo, mentre sua intenzione era soltanto quella di liberarsi dei palestinesi scomodi.

Ieri, secondo venerdì della “grande marcia del ritorno” l’esercito israeliano ha ferito ancora un migliaio di manifestanti pacifici e ne ha uccisi almeno sette. Il numero potrebbe crescere anche mentre noi scriviamo, perché pare che alcuni dei proiettili usati siano del tipo butterfly, vietati. Ma questo non è un problema per chi ha usato il fosforo bianco per bruciare vivi un bel numero di bambini nell’ultima aggressione militare. Pare che anche Yaser Muntaja, il giovane giornalista palestinese ucciso ieri mentre filmava la marcia a Khuza’a, nei pressi di Khan Younis, sia stato colpito all’addome da un proiettile butterfly. Così ci dicono dall’European Gaza Hospital in cui hanno provato a salvarlo, ma senza successo.

Yaser portava il giubbetto con la scritta PRESS e quindi era ben riconoscibile. Qui a Gaza molti avanzano l’ipotesi che proprio quella scritta l’abbia reso target per i cecchini. Non sappiamo se ciò sia vero, ma sappiamo quanto Israele tema il resoconto reale dei fatti, capace di interrompere la vulgata offerta dagli opinion makers internazionali tra cui, triste a dirsi, quelli italiani brillano.

L’Italia delle testate mediatiche importanti non ha nessun inviato nella Striscia di Gaza per cui le notizie fornite non sono testimonianze ma solo opinioni, opinioni acquisite sotto dettatura e contrastanti con quella realtà che Yaser Muntaja spandeva per il mondo attraverso i social. Con lui sono stati feriti altri giornalisti palestinesi col giubbetto ben in vista e questo rinforza l’ipotesi che quella scritta sia stata un target piuttosto che una protezione, visibile nonostante il fumo nero di migliaia di pneumatici bruciati come tattica difensiva dai manifestanti. Proprio due giorni fa testimoniavamo la determinazione a resistere verificata di persona a Khuza’a e osservata durante una delle normali serate del “popolo degli accampamenti” che partecipa alla grande marcia. E proprio a Khuza’a, cittadina massacrata oltre ogni dire durante l’aggressione del 2014, è stata spenta la voce di un testimone mediatico tanto bravo quanto scomodo. Questo venerdì la nostra testimonianza riguarda il concentramento di Al Breji, Nusseirat, nella zona centrale della Striscia, dove l’esercito occupante ha fatto 5 martiri la scorsa settimana e 2 ieri oltre a 118 feriti.

Quel che abbiamo potuto osservare, e che è testimoniato da migliaia di foto che girano nei social oltre alle nostre, è stata la tattica difensiva usata dai gazawi per limitare gli effetti micidiali dei tiratori scelti: un nutrito gruppo di giovani uomini e donne, facendosi scudo col fumo dei copertoni, si è avvicinato il più possibile al border, restando più o meno a cento metri, sempre all’interno della linea d’assedio, e lì ha dato fuoco a centinaia di pneumatici. Dietro di loro e per una distanza di diverse centinaia di metri, si svolgeva il pacifico e quasi festaiolo concentramento di qualche migliaio di manifestanti. I lacrimogeni superavano comunque la cortina di fumo e arrivavano all’interno della pacifica manifestazione colpendo anche chi stava semplicemente osservando. I nuovi gas usati da Israele sono micidiali e se inalati senza protezione provocano delle strane convulsioni che i medici dello Shifa Hospital stanno cercando di curare. Le maschere artigianali fatte indossare ai bambini hanno una loro efficacia ma solo se l’uso dei gas non è massiccio.

Tra fumo nero dei copertoni, fumo bianco dei lacrimogeni, diversi colpi di fucile sparati dai cecchini, sirene delle ambulanze che raccoglievano i feriti, tende con i nomi dei villaggi distrutti e solenne e commossa commemorazione dei 5 martiri dello scorso venerdì, la manifestazione ha seguitato a svolgersi incredibilmente come una grande festa. Bancarelle con i falafel, i lupini e le nocciole, bancarelle e carretti con frutta fresca, musica, caffè e perfino un clown che mostrava ai bambini come indossare la maschera quasi-anti-gas e, infine, una cosa che forse in occidente sembrerà incredibile: il barbiere mobile. Sì, alla grande marcia per il diritto al ritorno ci si può anche sedere e far tagliare i capelli. Dietro la sedia, il cartello col prezzo e il nome del barbiere. Questa scena ci ha regalato un sorriso, anche se poco prima un candelotto israeliano ci aveva spaccato il parabrezza nonostante fossimo a notevole distanza dalla linea di fuoco. Mi sono chiesta come ci si possa illudere di sconfiggere un popolo così! Passi per le bancarelle, l’offerta del caffè e pure il clown, ma il barbiere da manifestazione è il massimo. O li ammazzano tutti o non ce la potranno mai fare!

Dopo il tramonto, quando ormai si spera che l’esercito si ritiri, si va all’ospedale Al Aqsa, dove le ambulanze della zona centrale portano i feriti. Da un’ambulanza è caduta una scarpa. E’ insanguinata. Quando si muore il piede si rattrappisce e si perdono le scarpe. E’ la scarpa di uno dei due martiri che non ce l’hanno fatta. Vengono portati via correndo su una barella coperta da un telo diventato rosso di sangue. Corrono tutti,sia fuori che dentro l’ospedale. Molti sono volontari. Molti lo sono pur essendo dipendenti dell’ospedale, perché non prendono più lo stipendio in seguito ai tagli dell’UNRWA e alla politica punitiva di Ramallah che l’attentato-farsa del mese scorso ha ottusamente rilanciato.

Non prendono salario né alcuni infermieri né alcuni medici ma non fa niente, sono lì e cercano di ridurre il danno su corpi centrati dai cecchini israeliani. Centrati in modo che sembra scientifico: il bacino, con conseguente asportazione o riduzione della funzionalità dell’apparato genitale, e le gambe nei punti giusti per restare invalidi, come la rotula. Stentiamo a credere che sia voluto e quindi ci limitiamo a riferire quanto ci viene detto dal personale sanitario. Non obiettiamo. Ci troviamo di fronte a situazioni troppo tristi per farlo, come l’uomo cui hanno dovuto amputare entrambe le gambe, il giovane in coma farmaceutico operato al bacino e alla gamba e a rischio di sopravvivenza, l’uomo operato alla gamba che sa di restare invalido e ha 6 bambini, quello operato al fegato per un proiettile che gli ha attraversato il corpo lasciandolo vivo, e anche il ragazzo che non sa come uscirà dall’ospedale né quando né se, ma che riesce a fare un sorriso e a dire shukran, cioè grazie per il supporto dell’Italia.

Per pura umana comprensione non precisiamo che il nostro governo è complice di Israele, ma diciamo soltanto che il popolo italiano che conosce la situazione è con loro. Anche i medici ci ringraziano, e chi scrive non ha il cuore di dirgli che non è l’Italia intesa come Stato né tanto meno come governo a mandare il suo saluto, ma solo quel pezzetto d’Italia che esce dalla narrazione israeliana ed è solidale con la loro lotta. Non possiamo dirglielo in questo momento.

Le parole giuste da dire alle famiglie non ci sono, o almeno chi scrive non le trova, ma l’interprete è bravissima e riesce a trasmettere in arabo quello che in inglese suona solo come frase di circostanza. Usciamo e sappiamo che se la rete ce lo consentirà passeremo la notte a scaricare video e foto per testimoniare di un’altra giornata che poteva essere di festa se la legalità internazionale avesse vinto sulla legge del più forte.

Uscendo i nostri occhi cadono ancora su quella scarpa sporca di sangue. E’ una scarpa da ginnastica, è quasi nuova. Forse portava i passi di un altro sognatore oggi diventato martire. Come Yasser, il giornalista ucciso a Khuza’a, o come Mohammed, lo scultore ucciso lo scorso venerdì. O come tutti gli altri martiri di questa marcia che avendo vinto la paura seguitano ad andare a mani nude di fronte a un nemico armato e micidiale per chiedere al mondo di svegliarsi.

 

*Articolo pubblicato su Pressenza e riproposto su gentile concessione dell'Autrice

Presentato in Senato il Rapporto Annuale di Associazione 21 luglio. Sono 26 mila i rom in emergenza abitativa in Italia, il monito: «Ancora inadeguate le politiche volte al superamento dei campi, mancano orientamento strategico e coordinamento nazionale delle politiche disgregative ».

Roma – 6 aprile 2018. Il giudizio degli Enti internazionali ed europei di monitoraggio sui diritti umani* appare chiaro: anche nel 2017 l’Italia ha continuato ad essere il “Paese dei campi”, perseverando nell’utilizzo di politiche discriminatorie e segreganti nei confronti delle popolazioni rom e sinte presenti sul territorio nazionale oltre che nelle persistenti operazioni di sgombero forzato.

È stato presentato oggi in Senato, alla presenza del neo direttore UNAR Luigi Manconi, il Rapporto Annuale 2017 di Associazione 21 luglio che come ogni anno - in vista della Giornata Internazionale dei Rom e Sinti celebrata l’8 aprile - fa il punto sullo stato dei diritti delle popolazioni rom e sinte in condizioni di emergenza abitativa e residenti all’interno di baraccopoli formali e informali italiane.

Rom e Sinti in emergenza abitativa in Italia

Secondo i dati raccolti sul campo da Associazione 21 luglio, a fronte di un totale stimato compreso tra 120 e 180 mila presenze di cittadini di origine rom e sinta, sono circa 26 mila quelli in emergenza abitativa che vivono in baraccopoli formali e informali o nei centri di raccolta monoetnici, numero pari allo 0,04% della popolazione italiana. Rispetto all’anno precedente si registra quindi una leggera flessione di presenze (nel 2016 erano 28 mila unità) dettata non da una graduale risoluzione della questione ma piuttosto dalle drammatiche condizioni di vita all’interno di questi insediamenti che hanno spinto alcuni degli abitanti – prevalentemente comunitari – a spostarsi in altri Paesi o a tornare nelle città di origine.

I numeri

In Italia sono 148 le baraccopoli formali, distribuite in 87 comuni di 16 regioni da Nord a Sud, per un totale di circa 16.400 abitanti, mentre 9.600 è il numero di presenze stimato all’interno di insediamenti informali. A fine 2017 in Italia risultavano ancora attivi 2 centri di accoglienza monoetnici riservati alle comunità rom per un totale di 130 residenti, uno nella città di Napoli e uno a Guastalla, in provincia di Reggio Emilia. Dei rom e sinti residenti nelle baraccopoli formali si stima che il 43% abbia la cittadinanza italiana; mentre sono 9.600 i rom originari dell’ex Jugoslavia di cui circa il 30% - pari a 3.000 unità – è a rischio apolidia. Nelle baraccopoli informali e nei micro insediamenti, infine, vivono nell’86% dei casi cittadini di origine rumena.

La condizione dei minori e gli sgomberi forzati

A vivere sulla propria pelle le tragiche conseguenze della segregazione abitativa sono molti minori, il 55% secondo le stime di Associazione 21 luglio, con gravi ripercussioni sulla salute psico-fisica e sul loro percorso educativo e scolastico. A incidere sui livelli di scolarizzazione contribuiscono infatti in modo significativo sia le condizioni abitative sia la forte catena di vulnerabilità perpetrata dalle operazioni di sgombero forzato attuate in assenza delle garanzie procedurali previste dai diversi Comitati delle Nazioni Unite.

Nella sua costante attività di monitoraggio, Associazione 21 luglio ha registrato in tutto il 2017 un totale di 230 operazioni: 96 nel Nord Italia, 91 al Centro (di cui 33 nella città di Roma) e 43 nel Sud.

Antiziganismo e discorsi d’odio

L’antigitanismo rimane uno degli elementi che continua a caratterizzare la nostra società. Nel 2017 l’Osservatorio 21 luglio ha registrato un totale di 182 episodi di discorsi d’odio nei confronti di rom e sinti, di cui 51 (il 28,1% del totale) sono stati classificati di una certa gravità. È da segnalare quindi un incremento del 4% rispetto al 2016, anno in cui l’Osservatorio aveva rilevato un totale di 172 episodi.

La situazione a Roma

La città di Roma detiene il triste primato del maggior numero di insediamenti presenti, 17 in totale di cui 6 formali e 11 cosiddetti “tollerati”. Nella Capitale, nonostante le aspettative create a fine 2016 con la Memoria di Giunta e il “Progetto di Inclusione Rom” presentato il 31 maggio dalla sindaca Raggi che aveva come obiettivo il graduale superamento dei “campi” presenti all’interno della città – piano di cui Associazione 21 luglio aveva fin da subito evidenziato le fragilità (http://www.21luglio.org/21luglio/associazione-21-luglio-svela-critica-piano-rom-della-giunta-raggi/) – nel 2017 non è stato di fatto avviato alcun processo di inclusione. Caso esemplare quello dell’insediamento di Camping River, per il cui superamento la Giunta ha promosso una serie di azioni che si sono dimostrate fallimentari e non hanno fatto altro che “declassare” l’insediamento da formale a informale.

Le dichiarazioni

«Non è più il momento di tergiversare, non è più il momento di risposte nostalgiche che guardano alle soluzioni del passato - ha dichiarato Tommaso Vitale dell’Università Sciences Po, intervenuto oggi nel corso della presentazione del Rapporto - Questo è il momento del diritto anti-discriminatorio. In Europa le città stanno procedendo verso politiche di opportunità e integrazione, il tempo delle misure speciali, segreganti e discriminanti è definitivamente scaduto».

«Ancora una volta ci troviamo a dover constatare il fallimento delle politiche di inclusione rivolte a rom e sinti in emergenza abitativa – ha dichiarato Carlo Stasolla, presidente di Associazione 21 luglio – non ci sono progressi nell’implementazione della Strategia e le politiche non hanno prodotto alcun processo di inclusione. Sono necessari un chiaro orientamento strategico e un coordinamento a livello nazionale rispetto alle politiche di desegregazione abitativa».

________________________________________________________

*European Union Agency for Fundamental Rights (FRA); Human Rights Council (HRC); Committee on the Elimination of Discrimination against Women (CEDAW) e European Parliament Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs (LIBE).

SCARICA IL RAPPORTO ANNUALE 2017 (http://www.21luglio.org/21luglio/wp-content/uploads/2018/04/Rapporto_Annuale-2017_web.pdf)

 Dalla nascita dei primi movimenti pacifisti del XIX secolo, il cammino del pacifismo si è arricchito di molteplici forme di pensiero e di straordinarie esperienze di lotta nonviolenta.

Tante, tantissime cose sono cambiate. I pacifisti, per lo più, oggi, sono trattati con moderato rispetto, non più sbeffeggiati in quanto “anime belle” malate di “panciafichismo”, ma, al contempo, senza mai essere presi veramente sul serio, né in ambito mediatico né tantomeno in ambito politico.

Le vicende balcaniche di fine secolo e l’imperante “guerra al terrorismo” del dopo 11 settembre hanno tragicamente relegato il pensiero pacifista nelle estreme periferie dell’attenzione collettiva, in una sorta di nicchia platonico-epicurea, quasi una dimensione teoretica astrattissima e metastorica. Detto in altre parole, prevale spesso la sensazione che, nel mondo brutale e spietato in cui siamo costretti a vivere, non ci sia più alcuno spazio per chi pretenda di continuare a sognare (e a costruire!) un mondo senza eserciti, con arsenali svuotati e granai riempiti.

Ma la cultura della pace e della nonviolenza è tutt’altro che estinta e tutt’altro che rassegnata a scivolare nella dimenticanza generale. E numerose sono le iniziative che testimoniano la volontà di continuare a difendere e a diffondere i valori del dialogo, dell’amicizia fra i popoli, del rifiuto della violenza in tutte le sue forme, prime fra tutte quelle istituzionalizzate.

In merito al pacifismo di ieri e a quello di oggi, nonché in merito alle reali possibilità di continuare a sperare in un mondo liberato da quello che è stato opportunamente definito “il flagello della guerra”, è nata la conversazione con Francesco Pistolato, antico e prezioso compagno di strada, fondatore del Centro Interdipartimentale “Irene” di Ricerca sulla Pace, all’Università di Udine.*

 

  • Nei testi di scuola in circolazione, dei pacifisti non si parla quasi mai. La scena del cammino storico viene occupata quasi per intero da chi la guerra l'ha voluta e l'ha fatta. Molto poco da chi l'ha subita. Quasi per nulla da chi ha cercato di impedirla. Non ti sembra che bisognerebbe ripensare in maniera sostanziale il modo di concepire, descrivere e tramandare il nostro passato?

Non si tratta solo di un discorso che riguarda il passato.

Per cecità e scarsa consapevolezza delle conseguenze che ciò comporta, noi roviniamo anche il nostro presente sommergendolo in notizie e considerazioni su ciò che di peggio avviene a livello macro, meso e micro.

È come se ci interessasse solo il negativo, come se tutta la bellezza che ancora esiste sul nostro pianeta, e al di là di esso nella meraviglia di un cosmo, che se non altro per la sua immensa vastità dovrebbe incantarci, tutto l’amore che pure è presente nel mondo – pensiamo solo all’amore di ogni madre – non solamente umana – per i suoi figli, ai legami affettivi al di là della propria famiglia, alla solidarietà che per molti non è una parola vana, ai capolavori dell’arte, al fatto di avere un corpo, di respirare, di poter comunicare con la voce, e non solo, i nostri sentimenti e pensieri e tante altre cose che il semplice fatto di essere in vita ci permette di fare, come se insomma la vita per noi non fosse di per sé un’occasione meravigliosa di apprendere e di amare, in onore a un programma propostoci e ripropostoci dagli spiriti più elevati, i quali sì che dovrebbero accompagnare sempre i nostri pensieri, anziché occuparci noi di affari meschini, di dare importanza a gente che non ha nulla da dire, di lamentarci per questo e per quello, di prendere per buone le balle che ci raccontano i media sull’economia, sulla necessità della crescita, sui nuovi despoti ai quali bisogna fare la guerra.

Insomma: se non siamo capaci di immaginare per noi stessi una vita davvero bella, se nutriamo i nostri animi di immondizia, è normale che ci raccontino la storia così, allo stesso modo in cui i telegiornali e i giornali ci inondano di schifezze.

 

  • Ma molti ci dicono che la realtà è questa, solo questa, e che sarebbe infantile cercare di baloccarsi nel sogno ingannevole di altri mondi impossibili …

Perché si racconti la storia in modo diverso, bisogna concepire la vita in modo diverso.

La diversa concezione della vita cui alludo – tra l’altro – non contempla l’opzione della guerra, se non come interruzione del processo vitale della società da parte di pochi – interruzione destinata a divenire sempre più marginale.

Mi rendo perfettamente conto che questo mio discorso può apparire uno sfogo utopistico di qualcuno che vive fuori dal mondo. Eppure l’uomo può scegliere il proprio destino, lo si insegna a scuola, l’esistenza del libero arbitrio appare essere un concetto condiviso a livello di mainstream. Possiamo anche decidere di fare un uso migliore della nostra libertà di scegliere, perché disponiamo appunto di libertà.

Chi vede sempre tutto nero, alimenta ciò che considera negativo e crea un alibi per il proprio e altrui disimpegno.

 

  • Purtroppo, però, la storia dei movimenti pacifisti  appare come una storia dolorosa, ricchissima di luce intellettuale e morale, ma costellata da continui fallimenti e sconfitte. Pensi che la situazione attuale del fronte pacifista consenta qualche ragionevole speranza o ritieni che ci sia ben poco di cui rallegrarsi ?

Le cose, per cambiare, richiedono un cambiamento del livello di coscienza generale, per il quale i pacifisti lavorano. Se i tempi sono lunghi, non credo che la cosa si possa imputare loro. Smettere di lavorare per la pace è come chiudere gli ospedali perché la gente continua a morire.

D’altra parte, fallimenti e sconfitte sono interpretazioni. Ogni serio impegno a favore della convivenza è di per sé un successo - considerate le forze che alacremente lavorano per la guerra - e porta a risultati a volte macroscopici, ma minimizzati dai professionisti dei media e dagli storici di professione. Pensiamo alla caduta del muro di Berlino, frutto di un lavoro nonviolento pluridecennale e non solo dell’implosione dell’Unione Sovietica e della RDT. Pensiamo alla stessa Unione Europea, che nel 2012 ha ricevuto il Nobel per la Pace: l’Unione è stata concepita da alcune personalità in epoche in cui le guerre imperversavano – erano anche loro pacifisti, e il loro progetto si è realizzato.

 

  •  Il pacifista austriaco  Alfred Hermann Fried, nel suo "Diario di guerra" (1914-19),** di cui hai recentemente curato la traduzione e la pubblicazione, scrive che ogni qualvolta gli capitava di sentir parlare le persone piene di odio nei confronti delle altre nazioni,  in lui si faceva strada prepotentemente  il pensiero che fosse "assolutamente necessario penetrare maggiormente nella psicologia dell'odio tra le nazioni", nella convinzione che la presenza e la forza dell'odio fossero in stretta correlazione con l'assenza di vere idee e con la latitanza della ragione.

Quanto ti sembrano travasabili nel tempo contemporaneo queste sue riflessioni?

L'attualità c'è naturalmente tutta, e i meccanismi dell'odio irrazionale sono stati studiati sufficientemente nel corso del Novecento. Per il secolo in corso e per quelli a venire proporrei una ripresa del programma mai realizzato di duemila anni fa: scoprire la presenza dell'amore nella vita umana e nella natura. Dove una luce si accende, il buio scompare. Giornali e telegiornali ci parlano delle tenebre, cioè di dove la ragione latita. Così facendo latitano anche loro nel buio e invitano noi a restarci, a rimanere nella disperazione per un mondo sempre più folle. Una ragione illuminata ci parlerebbe piuttosto del buono e del bello e così ne aiuterebbe la manifestazione in questo mondo: le persone comincerebbero a parlare di fatti piacevoli di cui hanno sentito o hanno letto, i bambini crescerebbero meno disincantati.

Vorrei ribadire questo concetto e poi venire al pratico, per non essere preso per un sognatore al limite della demenza. 

Evitare di dipingere e proporre solo il peggio di quello che succede, come fanno i media costantemente, e soffermarsi invece sul tanto di buono che c'è - e già sento, come Socrate nel Gorgia quando proponeva i re filosofi, i tanti che sghignazzano e dicono: "ma questo è un idiota, di che cosa ci sta parlando?" - è possibile, perché mai non dovrebbe esserlo? Chi obbliga i giornalisti a rovesciare addosso alla gente solo l'immondizia? Non sarebbe ragionevole e un gran sollievo per tutti parlare anche e soprattutto d'altro? Proprio non riesco a vedere perché non si possa fare a meno di propinarci tante schifezze. O meglio, so perché questo accade, e vengo al punto successivo, alla proposta pratica. 

 

  • Ma se questo oggi è il mondo dell’informazione, non sembrerebbero esserci molte possibilità per valide alternative. Forse dovremmo recuperare, dal mondo classico e dalla civiltà illuministica, un po’ della straordinaria fiducia nutrita nella autonomia della nostra ragione, nella sua illimitata potenzialità critica …

La ragione, questa facoltà splendida che ci permette di godere di tanti frutti in termini di civiltà, cultura e scienza, da sola non basta. Da sola, usata in modo unilaterale, la ragione produce esiti perversi. Esempi ne abbiamo dappertutto: in economia, ove razionalizzazione significa aumento dei profitti a scapito della forza lavoro; nella scienza, ove di fronte alla possibilità tecnica di realizzazione di un quid, magari nefasto - l'esempio della bomba atomica vale per tutti - lo scienziato non ritiene di doversi tirare indietro. Per questo nelle scienze per la pace viene introdotto l'elemento etico e negata la cosiddetta neutralità della ricerca, che è una neutralità finta, in quanto a priori c'è sempre una scelta sul da farsi e questa scelta a qualcosa si ispira, cioè non è affatto neutra. Il discorso sull'etica tuttavia è vastissimo e molto soggettivo, oltre che culturalmente determinato. 

Viviamo però in un'epoca fantastica, ove menti più avanzate, che non si nutrono dell'immondizia propinataci giornalmente, ma guardano oltre, stanno cominciando a scoprire che l'uomo è molto di più di quello che comunemente si crede e che, strutturalmente, siamo perfettamente attrezzati per elevare le nostre esistenze. Mi riferisco in particolare alle ricerche dell'HeartMath Institute - Home - HeartMath Institute e in italiano Coerenza Cardiaca - HeartMath® in Italia! Controllo dello stress, miglioramento dello stato di salute e della performance umana , laddove si vede, e si può apprendere, dato che viene spiegato a chi voglia conoscere, come il nostro cuore abbia la capacità di metterci in armonia con l'ambiente sociale in cui viviamo. Un lavoro di questo genere è realmente trasformativo e costituisce una metodologia pratica di diffusione della pace, partendo da noi stessi.

Il buon Fried, dal quale siamo partiti, viveva in un'epoca in cui tutte queste cose non erano ancora a portata di mano. Oggi lo sono, e con esse si potrebbero riempire TG e giornali.

In attesa che ciò avvenga, chi è veramente interessato alla pace, parta da queste indicazioni e inizi un percorso serio e proficuo.

------------------------------------------------------------------------------------------

NOTE

*Francesco Pistolato, romano di nascita, insegna tedesco alle scuole medie superiori. Laureato in Giurisprudenza e in Lingue Straniere presso l’Università di Roma, ha conseguito un PhD in Sociologia presso l’Università di Granada. Nella sua vita di studioso ha privilegiato un approccio multidisciplinare, approfondendo tematiche nell’ambito della psicologia, della politica, della filosofia occidentale e orientale, della religione, della storia. Alla cultura di pace ha dedicato gran parte dei suoi sforzi negli ultimi anni.

Selezione bibliografica degli studi per la pace di Francesco Pistolato

(Ed.) Per un’idea di pace, Padova, CLEUP 2006

(Ed.)  catalogo della mostra Die verborgene Tugend / La virtù nascosta Treviso, Europrint Edizioni, 2007

Traduttore di: E. Krippendorff, Lo Stato e la guerra (Staat und Krieg, Frankfurt, Suhrkamp 1985), Pisa, Gandhi Edizioni 2008

(Ed.): Le rose fioriscono in autunno, Pisa, Gandhi Edizioni 2009

(Ed. e traduttore): A.H. Fried, La guerra è follia, Pisa, Gandhi Edizioni 2015

Nel web:

Ekkehart Krippendorff, La paz como cultura étca y libertad: http://digibug.ugr.es/handle/10481/40806

**Alfred Hermann Fried, La guerra è follia. Diario di un pacifista austriaco dal 1914 al 1919, traduttore e curatore Francesco Pistolato, Centro Gandhi Edizioni, Pisa 2015

Page 4 of 6
© 2022 FlipNews All Rights Reserved