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“Dopo l’ottobre 2023, i sistemi di controllo, sfruttamento e spoliazione di lunga data si sono trasformati in infrastrutture economiche, tecnologiche e politiche mobilitate per infliggere violenza di massa e distruzione senza precedenti. Le entità che in precedenza hanno permesso e tratto profitto dall’eliminazione e dalla cancellazione dei palestinesi attraverso l’economia dell’occupazione, invece di disimpegnarsi, sono ora coinvolte nell’economia del genocidio.”
“Mentre la vita a Gaza viene cancellata e la Cisgiordania è sottoposta a un assedio crescente, questo rapporto mostra come mai il genocidio condotto da Israele va avanti: perché è redditizio per molti.”
FRANCESCA ALBANESE
Il Rapporto di Francesca Albanese, Relatrice Speciale Onu per i diritti umani sui territori occupati da Israele, Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, rappresenta una indagine rigorosamente documentata degli “ingranaggi aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano di espulsione e sostituzione dei palestinesi nel territorio occupato.” L’eccellente lavoro costituisce, in particolar modo, un lucidissimo e potentissimo j’accuse nei confronti di vaste aree del mondo economico internazionale. Ma le denunce che esso contiene, assai sfortunatamente, dopo qualche breve momento di attenzione e di discussione, sono scivolate via, senza riuscire a produrre conseguenze di un qualche rilievo. Ed è altissimo il rischio che tutto finisca come uno scroscio di pioggia nel deserto.
L’Albanese, dopo aver perentoriamente affermato che Israele, dopo la negazione del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, sta arrivando a mettere “a repentaglio l’esistenza stessa del popolo palestinese in (quel che resta della) Palestina”, focalizza la propria attenzione sul ruolo delle numerose entità aziendali (imprese commerciali, multinazionali, entità a scopo di lucro e non, private, pubbliche o di proprietà dello Stato) coinvolte nel sostegno all’occupazione illegale e nella “campagna genocida” in corso a Gaza.
L’elenco dei soggetti aziendali è lungo e non privo di sorprese e riguarda
“produttori di armi, aziende tecnologiche, società di costruzione ed edilizia, industrie estrattive e di servizi, fondi pensione, assicuratori, università e organizzazioni benefiche.”
E, in considerazione del fatto incontestabile che tali
“entità coadiuvano la violazione dell’autodeterminazione e altre violazioni strutturali nel territorio palestinese occupato, tra cui l’occupazione, l’annessione e i crimini di apartheid e genocidio, nonché una lunga lista di crimini accessori e violazioni dei diritti umani, dalla discriminazione, alla distruzione ingiustificata, allo spopolamento e al saccheggio, alle esecuzioni extragiudiziali e alla fame”,
il punto di approdo risulta quanto mai nitido e lapidario.
Per far sì che si possa mettere fine alle attività commerciali che consentono e traggono profitto dall’annientamento di vite innocenti,
Tutti atti necessari quanto doverosi che, però, ragionando in modo realistico, al momento appaiono di ben ardua realizzazione.
Per cui, a mio avviso, andrebbe presa in considerazione ed attuata con estrema determinazione (secondo il migliore stile gandhiano) una puntuale strategia nonviolenta di boicottaggio nei confronti dei vari soggetti segnalati nel Rapporto. Boicottaggio che, per poter sperare di risultare efficace, non dovrebbe essere affidato semplicemente alla buona volontà delle singole persone, ma che dovrebbe essere proclamato e pilotato da una vasta e autorevole coalizione internazionale di ONG e associazioni umanitarie e di volontariato, a cui, per effetto slavina, finirebbero per aderire numerose chiese e organizzazioni religiose, sindacati, università, società sportive, ecc.
Perché, a quel punto, una mancata adesione non potrebbe che apparire estremamente scomoda e difficilmente giustificabile.
Solo così l’operazione di boicottaggio arriverebbe a coinvolgere milioni (forse decine di milioni) di consumatori e riuscire, pertanto, a produrre, già nel giro di pochi giorni o poche settimane, effetti tangibili ed inequivocabili, di fronte a cui le entità aziendali prese di mira si troverebbero costrette a prendere chiari e radicali provvedimenti, rassicurando azionisti, investitori, soci, dipendenti, ecc.
Fra detti soggetti economico-finanziari, una volta esposti alla pubblica condanna, non potrebbe, infatti, che innescarsi un altro contagiosissimo effetto-slavina:
quello della dissociazione rispetto anche al pur minimo sospetto di connivenza-collaborazione con le operazioni in odore di genocidio, al fine di liberarsi pubblicamente da accuse ed ombre infanganti ed infamanti, nocive per la propria credibilità e per la propria stessa sopravvivenza.
Certo, la mia potrebbe apparire come una speranza troppo ingenua e fin troppo ottimistica … Un simile appello al boicottaggio, all’interno di un mondo iperconsumistico come il nostro, potrebbe infatti cadere facilmente nel vuoto, incontrando scarso interesse e grosse resistenze sul piano pratico; i meccanismi mediatici, ampiamente asserviti agli interessi economici, potrebbero svolgere una brillante azione di occultamento-banalizzazione; i soggetti aziendali presi di mira potrebbero prodigarsi nel fornire grandi rassicurazioni, limitandosi, di fatto, a qualche piccola modifica di facciata delle loro strategie, ecc.
Sì, certo … forse …
Ma il vero problema che dovremmo porci è un altro:
come riuscire a fare in modo che il prezioso (ed esplosivo) operato di Francesca Albanese non finisca come pioggia ingoiata dal deserto?
Adesso che abbiamo davanti ai nostri occhi un elenco ben preciso delle entità aziendali coinvolte, giudicate corresponsabili di quanto sta accadendo, perché - mi chiedo - continuano ancora a non essere avanzate, da parte delle innumerevoli cosiddette “forze del Bene” della società civile (di ambito umanitario, economico, religioso, culturale, ecc.), concrete proposte di fattiva ed efficace operatività?!?
E’ davvero tanto difficile creare rapporti di collaborazione, di condivisione, di sinergia, intraprendendo una campagna corale, compatta e determinata, e, soprattutto, di respiro mondiale?
E’ davvero tanto difficile, insomma, passare dalla deprecazione tanto accorata ad una coraggiosa azione coerentemente impegnata?
Ogni giorno ci lamentiamo del traffico, dei clacson, del cantiere sotto casa e delle sirene che attraversano la notte, ma raramente ci chiediamo se tutto questo rumore abbia un prezzo. Eppure ce l’ha, ed è alto. L’inquinamento acustico, definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “rumore ambientale dannoso per la salute umana”, non è solo una seccatura urbana. È un fattore di rischio per la salute pubblica, una fonte di diseguaglianza ambientale e una minaccia per molte specie animali. Tuttavia, nelle agende politiche e nel dibattito pubblico, continua a restare un tema marginale. Secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, oltre 113 milioni di cittadini europei sono esposti quotidianamente a livelli di rumore superiori ai 55 decibel, la soglia oltre la quale il rischio per la salute aumenta. Solo in Europa, si calcolano più di 12.000 morti premature all’anno attribuibili al rumore ambientale, e un milione di anni di vita sana persi. Peraltro, l’inquinamento acustico è ancora trattato come un “male necessario” ed un effetto collaterale dello sviluppo urbano. Forse perché non lo vediamo, non lo respiriamo e non lo tocchiamo, ma lo subiamo, costantemente.
Il primo fraintendimento da superare è che il rumore sia solo fastidio. In realtà, l’esposizione cronica al rumore, anche a livelli moderati, produce effetti fisiologici misurabili: aumento della pressione sanguigna, disturbi del sonno, alterazione del battito cardiaco, maggiore produzione di cortisolo ed altri ormoni dello stress. Una ricerca pubblicata su The Lancet ha collegato l’inquinamento acustico ad un aumento del rischio di infarto nelle persone che vivono in prossimità di arterie stradali o aeroporti. Nei bambini, il rumore ambientale influenza l’apprendimento, la concentrazione e lo sviluppo del linguaggio. Non è un caso che l’O.M.S. abbia inserito il rumore tra i principali fattori ambientali di rischio per la salute nei Paesi occidentali, dopo l’inquinamento atmosferico. A differenza di altri inquinanti, però, il rumore non ha soglie evidenti: non si accumula nel corpo e non dà sintomi immediati. Agisce lentamente, come un logorio.
E proprio per questo è spesso sottovalutato. Come ogni forma di inquinamento, anche quello acustico colpisce in modo diseguale. I quartieri più esposti al rumore sono spesso quelli dove vivono le classi sociali più fragili: aree vicine a infrastrutture, zone industriali o strade ad alta percorrenza. Nel centro di una grande città, chi può permettersi di vivere in una via pedonale o in una casa con doppi vetri non subirà gli stessi effetti di chi abita al quarto piano di un palazzo affacciato su una tangenziale. Anche il rumore, peraltro, è un indicatore di povertà ambientale. È una dinamica che si ripete ovunque nelle periferie urbane, nelle città portuali e nei pressi delle ferrovie. Spesso riguarda anche le scuole e gli ospedali, cioè i luoghi dove il silenzio dovrebbe essere garantito. Anche gli animali subiscono gli effetti dell’inquinamento acustico e in molti casi, in modo più drastico degli esseri umani. Infatti, gli uccelli che vivono in città cambiano i propri canti, modificandone frequenza e durata, per riuscire a comunicare sopra il rumore del traffico.
I pipistrelli, che si orientano tramite eco localizzazione, possono essere completamente disorientati dal rumore di fondo urbano. Gli animali marini, in particolare i cetacei, sono minacciati dal traffico navale e dalle esplosioni sottomarine utilizzate per l’esplorazione di idrocarburi. Il rumore altera i comportamenti migratori, la riproduzione e la predazione. E si aggiunge ad altri fattori di stress come l’inquinamento chimico, la perdita di habitat e il riscaldamento globale. L’impatto del rumore sulla biodiversità è ampiamente documentato, ma ancora scarsamente riconosciuto nelle politiche di tutela ambientale. A livello europeo, esiste una direttiva (2002/49/CE) che impone agli Stati membri di redigere mappe acustiche e piani d’azione per ridurre il rumore nelle aree urbane. In Italia, la legge quadro 447/1995 ha posto le basi per una normativa sul rumore ambientale, ma nella pratica, l’applicazione è stata lacunosa e disomogenea. Infatti, molti Comuni non hanno mai approvato un piano acustico comunale. I controlli sulle emissioni sonore affidati ad ARPA delle attività produttive e commerciali sono sporadici, e, spesso, sottofinanziate. Le sanzioni sono rare e poco dissuasive. E la percezione pubblica del problema resta bassa: protestiamo contro la spazzatura nelle strade, ma accettiamo il rumore come un sottofondo inevitabile. Il risultato è un’assenza di strategia nazionale.
Manca un coordinamento tra Enti, una visione di lungo termine e, soprattutto, una volontà politica di affrontare il problema con serietà. Le soluzioni esistono, e sono già sperimentate in molte città europee. Barriere acustiche naturali (alberi, siepi, terrazzamenti); pavimentazioni fonoassorbenti nelle strade; zonizzazione del rumore limitando gli orari per cantieri e attività commerciali; regolamentazione degli impianti audio nei locali pubblici; incentivi per mezzi di trasporto elettrici e silenziosi e progettazione urbanistica orientata alla quiet city: meno auto, più aree pedonali, spazi verdi e piste ciclabili. Non è solo una questione tecnica. Serve un cambio culturale: rieducare cittadini, amministratori, architetti e imprese al valore del silenzio. Inserire il tema del rumore nei programmi scolastici. Usare campagne pubbliche per aumentare la consapevolezza. Perché il rumore è una forma di degrado, come i graffiti vandalici o i rifiuti in strada. Solo che si sente, ma non si vede. In un’epoca in cui si parla molto di sostenibilità, è paradossale che si parli così poco di inquinamento acustico. Forse perché è difficile farlo diventare un tema di mobilitazione politica. Nessuno scende in piazza per chiedere più silenzio. Eppure, il rumore incide sulla qualità della vita quanto (se non più) di altri fattori. Chi ha vissuto in una città senza traffico lo sa: il silenzio non è un lusso, è un diritto. Recuperare il valore politico del silenzio significa cambiare modello urbano, economico e culturale. Ciò significa riconoscere che la salute mentale è tanto importante quanto l’efficienza della mobilità e che un ambiente più silenzioso è anche un ambiente più sano, equo e vivibile.
Articolo 1.
I popoli indigeni, sia come collettività sia come persone, hanno diritto al pieno godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali così come sono riconosciuti nella Carta delle Nazioni Unite, nella Dichiarazione Universale dei diritti umani e nella normativa internazionale sui diritti umani.
Articolo 2.
I popoli e gli individui indigeni sono liberi ed eguali a tutti gli altri popoli e individui e hanno diritto a non essere in alcun modo discriminati nell’esercizio dei loro diritti, in particolare per quanto riguarda la loro origine o identità indigena.
Articolo 3.
I popoli indigeni hanno diritto all’autodeterminazione. In virtù di tale diritto essi determinano liberamente il proprio statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale.
DICHIARAZIONE DELLE NAZIONI UNITE SUI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI (2007)
Dopo secoli di presuntuosi pregiudizi e inenarrabili violenze che hanno comportato stermini di massa, deportazioni, devastazioni e schiavizzazioni ai danni di popoli percepiti come estranei al proprio modello di civiltà (quello ellenico-cristiano), il mondo occidentale, in sede filosofica e scientifica, grazie soprattutto ai progressi degli studi antropologici dell’inizio del XX secolo, ha compiuto la scelta di liberarsi dal suo odioso etnocentrismo, riconoscendo l’esistenza di altri ambiti culturali non più etichettabili come “barbari”, “selvaggi” o “naturalmente inferiori”. Ciò è stato reso possibile, soprattutto, grazie al contributo di importanti scuole etnologiche, come quella boasiana e quella di Malinowski, convergenti nel riconoscere la pluralità delle culture, non più riducibili ad un unico schema di sviluppo e di interpretazione, in quanto dotate di precipua individualità e di efficaci sistemi funzionali.
E dopo oltre mezzo secolo dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, alle soglie del nuovo secolo (13/09/2007), l’Assemblea delle Nazioni Unite ha inteso produrre una nuova Dichiarazione, esclusivamente riferita ai diritti dei popoli indigeni, sottolineando come le innumerevoli ingiustizie storiche patite (in particolar modo a causa della colonizzazione e della spoliazione delle terre e delle risorse) abbiano impedito loro di esercitare il “proprio legittimo diritto allo sviluppo in accordo con i propri bisogni e interessi”, e riconoscendo “l’urgente necessità di rispettare e promuovere i diritti intrinseci dei popoli indigeni che derivano dalle loro strutture politiche, economiche e sociali e dalle loro culture, dalle loro tradizioni spirituali, storie e filosofie, e in modo particolare i loro diritti alle proprie terre, territori e risorse,” e riconoscendo, altresì, “che il rispetto dei saperi, delle culture e delle pratiche tradizionali contribuisce allo sviluppo equo e sostenibile e alla corretta gestione dell’ambiente”.
Ma i passi avanti filosofici e giuridici poco incidono, anche in questo caso, sulla voracità amorale dell’economia capitalistica. I popoli indigeni continuano ad essere oggetto, in varie aree del pianeta, di ignobili minacce, soprusi, e violenze, di una gravità tale da metterne in serio pericolo la stessa sopravvivenza.
Con l’obiettivo di attirare l’attenzione generale sulla sorte dei popoli indigeni (stimati fra i 370 e i 476 milioni in oltre 90 paesi), l’UNESCO ha celebrato, nell’appena trascorso 9 agosto, la Giornata Internazionale dei popoli Indigeni del Mondo, in ricordo della prima riunione del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite, svoltasi nel 1982 e della successiva istituzione ufficiale della ricorrenza, tramite la risoluzione 49/214 dell’ONU (1994).
Particolare rilevanza è stata attribuita alla funzione di guardiani dell’ambiente e difensori della biodiversità svolta dai popoli indigeni, intesi come vero argine vivente di fronte all’avanzata dei settori estrattivi e produttivi, fonte catastrofica di deforestazione e degrado del territorio.
Sicuramente una scelta intelligente e moralmente encomiabile quella di aver voluto conferire alle comunità dei nativi, intese perlopiù come intralcio alla trionfale avanzata del “progresso”, la nobile e nobilitante veste di custodi degli equilibri ambientali e, quindi, di curatori dei reali e concretissimi interessi dell’intero pianeta e di tutti i suoi abitanti … Ma resta assai difficile credere che ciò possa bastare a fermare la mano criminale di un sistema di dominio e di sfruttamento che nulla sa e che nulla vuol sapere di diritti inviolabili, di dignità delle persone, di diritto all’autodeterminazione, di rispetto delle diversità e di tutela ambientale.
L’unica via percorribile, è quella che prevede che, da parte di tutti gli Stati, venga preso in responsabile e coerente considerazione, “senza se e senza ma”, quanto indicato nell’articolo 8 della sopra menzionata Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni. Altrimenti, rischieremo, come in troppi altri casi, di continuare a naufragare in un oceano sterile quanto ipocrita di retorica delle buone intenzioni e dei generosi auspici:
“Gli Stati devono provvedere efficaci misure di prevenzione e compensazione per:
a) Qualunque atto che abbia lo scopo o l’effetto di privarli della loro integrità come popoli distinti, oppure dei loro valori culturali o delle loro identità etniche;
b) Qualunque atto che abbia lo scopo o l’effetto di espropriarli delle proprie terre, territori e risorse;
c) Qualunque forma di trasferimento forzato della popolazione che abbia lo scopo o l’effetto di violare o minare quale che sia dei loro diritti;
d) Qualunque forma di assimilazione o integrazione forzata;
e) Qualunque forma di propaganda volta a promuovere o istigare la discriminazione razziale o etnica nei loro confronti.”
L’arresto di Usāma al-Maṣrī Nağīm sul territorio italiano avrebbe potuto segnare un momento storico per la giustizia internazionale. Invece, si è trasformato in un caso diplomatico imbarazzante, una macchia sulla credibilità dell’Italia come Paese che si professa difensore dei diritti umani. Al-Masri è accusato dalla Corte Penale Internazionale (C.P.I.) di crimini gravissimi: torture sistematiche, violenze sessuali, omicidi, detenzioni arbitrarie nei campi libici dove venivano trattenuti migranti africani. Perciò, nonostante l’arresto in Italia, il “comandante” non è stato consegnato alla giustizia internazionale. È stato invece rispedito in patria con un volo di Stato, senza processo, senza estradizione, e neppure un’udienza pubblica. Secondo il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, a bloccare la procedura sarebbero stati “problemi formali”: incongruenze nei documenti, errori di traduzione, atti redatti in inglese. Una giustificazione che appare debole, se non pretestuosa, per un Paese che ha firmato lo Statuto di Roma e si è impegnato a collaborare con la Corte dell’Aja. Chi conosce il funzionamento della C.P.I. sa bene che gli eventuali difetti di forma non giustificano la mancata esecuzione del mandato d’arresto.
Il governo italiano avrebbe potuto e dovuto chiedere chiarimenti, prorogare la custodia cautelare, sollevare eccezioni legali secondo i canali previsti. Invece, ha scelto la via più rapida: quella del rientro immediato. È evidente che non siamo davanti a una semplice svista burocratica, ma a una decisione politica. Il sospetto, fondato, è che il governo italiano abbia preferito evitare attriti con le autorità libiche, in un momento in cui i rapporti bilaterali sono cruciali per la gestione dei flussi migratori. Una logica di convenienza che però mina i fondamenti del diritto internazionale. Se ogni Stato potesse ignorare i mandati della C.P.I. sulla base di tecnicismi, l’intero sistema collasserebbe. L’Italia ha scelto di non collaborare con la giustizia, e così facendo ha offerto un salvacondotto a un uomo accusato di crimini disumani. Le reazioni non si sono fatte attendere. Il Tribunale dei Ministri ha chiesto l’autorizzazione a procedere contro Nordio, Piantedosi e Mantovano per favoreggiamento e peculato. Una delle vittime sopravvissute alle torture ha denunciato lo Stato italiano.
La Corte Penale Internazionale ha aperto un dialogo formale con Roma per chiedere spiegazioni. È l’ennesima crepa nella reputazione internazionale dell’Italia. Peraltro, oltre alla responsabilità giuridica, c’è una responsabilità morale che pesa come un macigno. Che messaggio stiamo trasmettendo alle vittime dei crimini di guerra? Che il loro dolore vale meno della nostra convenienza geopolitica? Che la giustizia è negoziabile? L’Italia ama presentarsi come paladina dei diritti umani, ma in questo caso ha voltato le spalle alla giustizia internazionale. Non è sufficiente indignarsi per i crimini altrui se, quando si ha l’occasione concreta di intervenire, si sceglie il silenzio, l’omertà, il ritorno alla Realpolitik. La giustizia non si difende con i comunicati stampa, ma con il coraggio delle scelte. Se l’Italia vuole ancora essere credibile come Stato di diritto, è tempo di fare chiarezza, e non per compiacere la legalità internazionale, ma per rispetto verso noi stessi, verso la nostra Costituzione e verso tutte le vittime che attendono, e meritano giustizia.
L' adozione a distanza rappresenta un ponte che unisce due mondi e crea un futuro di opportunità ma è anche un percorso complesso che, richiede preparazione, informazione e supporto.
Nel 2024, in Italia, sono stati adottati 1.425 bambini e giovani, di cui 185 tramite adozioni singole e 1.240 tramite adozioni di gruppo, che includono anche 140 seminaristi e 150 allievi infermieri, secondo il rapporto OPAM. Per quanto riguarda le adozioni intenazionali, c'è stata una lieve ripresa nel 2024, con 691 minori stranieri accolti da famiglie italiane, un aumento del 12% rispetto al 2023. I dati relativi al 2024 e 2025 per le adozioni a distanza non sono specificati nel dettaglio, ma si registra una tendenza generale alla diminuzione delle adozioni internazionali negli ultimi anni, con un calo del 73% nel numero di coppie richiedenti nel primo semestre del 2024 rispetto al primo semestre del 2014, secondo la Commissione per le Adozioni Internazionali.
Un piccolo contributo in questo caso può fare la differenza nella vita di un bambino. L'adozione a distanza non è solo un aiuto materiale, ma rappresenta anche un legame emotivo che arricchisce la vita di chi adotta, offrendo una prospettiva più ampia sul mondo e sul valore della solidarietà. Non importa quindi la distanza, il cuore sa trovare la strada per connettersi con chi ha bisogno. E proprio per questo voglio raccontare una storia che parte dalla Svizzera e arriva a Karenge (Rwanda) con l’adozione a distanza di due bambine. Sono due sorelline, Waneza Ange di 7 anni e Ishimwe Anne Maria di 10 anni.
Un gesto di grande generosità e sensibilità dei coniugi Piero Melissano e Marina Brugnano.
Un segno di grande altruismo e impegno verso un mondo più giusto.
Piero Melissano e Marina Bugnano, dichiarano: “ Quello che ci serve
Marina Brugnano e Piero Melissano |
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davvero in questa vita è la forza della connessione umana, una presenza silenziosa, un gesto gentile, un tocco che ci ricordi che non siamo soli.
Nei momenti difficili l’amore e la solidarietà diventano inevitabilmente un'ancora che ci tiene a galla e noi, quell’ancora siamo felici di averla gettata intraprendendo l’adozione a distanza”.
Questa è una favola a lieto fine che, ci ricorda l’importanza di esserci l’uno per l’altro.
Partinico (Pa) - Parlando di uguaglianza e diversità il punto da cui partire è la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino secondo la quale gli uomini sono tutti uguali, hanno tutti gli stessi diritti. Diritti fondamentali come il diritto alla salute, alla vita, al rispetto, alla libertà di realizzarsi secondo i loro desideri, di esprimere le proprie opinioni, di scegliere la religione: si tratta di diritti imprescindibili non soggetti a differenze. In sostanza, non possono essere messi in discussione.
Se questi sono i principi di base, però, va anche detto che l’unicità dell’individuo, nella pratica quotidiana, va rispettata.
Essere uguali non significa assomigliarsi, pensare, parlare, vestirsi, comportarsi tutti nello stesso modo.
Si può dire, in un certo senso, che esercitare la propria individualità e dunque la propria unicità rispetto agli altri sia un diritto come gli altri.
La diversità spesso fa paura perché, come esseri umani, ci sentiamo più sicuri con ciò che conosciamo bene e che ci è familiare. Quando incontriamo persone che sembrano, pensano o si comportano in modo diverso da noi, a causa di una diversità, il nostro cervello può reagire con incertezza o insicurezza. Questa reazione è del tutto normale: fa parte del nostro istinto di cercare sicurezza in ciò che è prevedibile e conosciuto. La diversità può essere associata a una disabilità di tipo fisico o psichico.
Parlare di diversità apre anche un altro discorso: quello sulla discriminazione. Discriminare il diverso, soprattutto se in caso di bisogno, è frequente e in qualche modo connaturato alla natura umana, che in caso di paura reagisce negativamente rifiutando quello che percepisce come un pericolo. A chi non è mai capitato di obbedire all’istinto di fuggire, per fastidio e paura, da chi si trova in uno stato di bisogno?.
Dunque, non è utile eccedere, né nell’annullare la diversità, né nell’enfatizzarla: si tratta piuttosto di essere aderenti alla realtà e di affrontarla con serenità ma, non neghiamolo, anche con sofferenza, con piccole-grandi lotte quotidiane combattute non solo con se stessi, ma anche con il mondo, talvolta inaccessibile e staccato dai cosiddetti “normodotati”.
In questa nostra società caratterizzata dall’esaltazione dell’immagine, della velocità, della perfezione, dalla corsa al successo, il disabile (sia esso intellettivo, fisico e/o sensoriale) corre il rischio di “essere tralasciato”, di non rimanere in gara, di sentirsi isolato e solo; rischia di percepirsi come zavorra, con conseguente perdita di fiducia in sé e negli altri.
Non tutti hanno la forza ed il coraggio di continuare a battersi per ciò in cui credono, e spesso, dopo vari tentativi infruttuosi, si giunge alla resa di fronte ad una situazione mediocre ed insoddisfacente, che non contribuisce a formare né l’autonomia né l’autostima del soggetto.
Anche qualora ci fosse un solo essere umano svantaggiato, questo avrebbe il diritto di potersi integrare nel tessuto sociale, di non dover “mendicare” per avere ciò che gli spetta; il disabile
non dovrebbe sentirsi invisibile, impotente o oggetto di pregiudizi giustificabili solo dall’ignoranza, dall’insensibilità e dall’egoismo.
Una società che si definisce civile, giusta e morale deve garantire alla persona svantaggiata una vita dignitosa e libera.
La disabilità non deve essere un ostacolo alla piena realizzazione di una persona. Promuovere l’inclusione, superare i pregiudizi e concentrarsi sulle capacità sono passi fondamentali per costruire una società più giusta ed equa per tutti.
Io sono una donna nata con una disabilità , la spina bifida, che è una malformazione è uno difetto neonatale dovuto alla chiusura incompleta di una o più vertebre, risultante in una malformazione del midollo spinale. Può essere perciò considerata un disrafismo e comporta diversi problemi che si possono risolvere con intervento chirurgico, ma in modo permanente, causa insensibilità agli arti inferiori e impossibilità di poter camminare.
Nonostante una disabilità che non ho scelto di avere e che non posso eliminare, ho sempre cercato di vivere la mia vita senza farmi ostacolare dalla disabilità, ho una famiglia che ha sempre fatto rete attorno a me e amicizie che mi hanno sempre accettata e amata per la persona che sono, senza fermarsi alla disabilità e senza mai farmi sentire “diversa”.
Ho sempre fatto ciò che mi piaceva senza sentirmi “diversa”, senza permettere alle persone che ho incrociato nella mia vita e mi consideravano “diversa” di farmi sentire inferiore o “diversa”, soltanto perché loro camminano con le proprie gambe e invece io cammino, con le mie che sono una sedia a rotelle.
Sogno e spero in un mondo dove il termine “ diverso” possa sparire, per descrivere un diversamente abile…un mondo, dove un normodotato e un diversamente abile possano avere gli stessi diritti, integrazione e lo stesso rispetto da parte di una società che, ancora oggi considera inferiore e diverso il soggetto diversamente abile.
“Nel caso di Peltier si sono verificate enormi anomalie giudiziarie. Leonard Peltier è una persona piena di umanità e per questa ragione io sarò accanto a tutti coloro che lo sostengono finché non lo vedremo libero.”
Rigoberta Menchù
Dopo innumerevoli raccolte di firme, messaggi, lettere e appelli, il presidente Biden, giunto al termine del suo mandato, ha deciso di commutare la pena di Leonard Peltier*, consentendo all’anziano e malato nativo americano, difensore dei diritti umani, di uscire finalmente dal carcere e di potersi recare agli arresti domiciliari.
Di ciò hanno dato notizia i principali organi di informazione statunitensi, e l’atto di “Executive Grant of Clemency” è visionabile sul sito www.freeleonardpeltiernow.org.
Peltier, esponente di spicco del Movimento degli indiani americani, venne condannato all’ergastolo nel 1977, in relazione all’omicidio di due agenti dell’Fbi, verificatosi due anni prima, in seguito ad un processo palesemente iniquo, condizionato pesantemente da pregiudizi di ordine razzista.
Tra l’altro, dopo cinque anni, ripetuti esami balistici approdarono alla conclusione oggettiva che i proiettili che causarono la morte degli agenti non appartenevano all’arma di Leonard, e molti testimoni ammisero che le accuse avanzate nei suoi confronti erano frutto delle minacce subite da parte dell’ Fbi.
Nel 2021, lo stesso procuratore capo del processo, James H. Reynolds, si rivolse a Biden con le seguenti inequivocabili dichiarazioni:
“Scrivo oggi da una posizione inconsueta per un ex pubblico ministero, per supplicarvi di commutare la pena di un uomo che ho contribuito a mettere dietro le sbarre.
Con il tempo e col senno di poi, mi sono reso conto che il procedimento giudiziario e la lunga incarcerazione del signor Peltier erano e sono ingiusti.”
Nel corso di questo mezzo secolo di ingiusta detenzione, si sono espresse a favore della liberazione di Peltier associazioni umanitarie come Amnesty International** e il Movimento Nonviolento, istituzioni internazionali come il Parlamento Europeo e l’ONU, nonché importanti figure della cultura e del mondo religioso, da Nelson Mandela a madre Teresa di Calcutta, dal Dalai Lama a Papa Francesco, da Desmond Tutu ad Howard Zinn. In Italia, merita di essere segnalato l’assiduo ed ammirevole impegno portato avanti dal “Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera” della città di Viterbo.
Recentemente, il prestigioso quotidiano The Guardian ha dedicato a Leonard Peltier un ampio articolo, ricostruendo sinteticamente la sua vicenda, dichiarando, in particolare quanto segue:
“È ampiamente noto che il governo federale ha incastrato Peltier in prigione trattenendo e falsificando le prove, costringendo i testimoni e forzando un cambio di giurisdizione, tra gli altri atti di cattiva condotta e malizia dell'accusa. Il procuratore degli Stati Uniti James Reynolds, il cui ufficio ha gestito l'accusa e l'appello di il caso, ha rilasciato delle scuse pubbliche nel 2021, riconoscendo che il governo federale non è riuscito a "dimostrare che il signor Peltier abbia commesso personalmente alcun reato nella riserva di Pine Ridge". Da allora Reynolds ha chiesto a Biden di rilasciare Peltier.
La dichiarazione di Reynolds da sola avrebbe dovuto essere motivo per concedere a Peltier la libertà vigilata e, in ultima analisi, la clemenza. Eppure, nonostante le molteplici suppliche nel corso di molti decenni, Peltier, che ha appena compiuto 80 anni e soffre di molteplici crisi di salute, tra cui diabete, malattie renali, problemi cardiaci e quasi cecità, continua a languire in una prigione di massima sicurezza in Florida chiamata Coleman 1.” Gli arresti domiciliari non rappresentano certamente una vittoria né per Leonard né per quanti lo hanno sostenuto in tutti questi anni. Ciononostante, immensa è la gioia al pensiero che l’ultimo tratto di strada in questo mondo potrà risultargli più lieve e sicuramente più felice.
Il tempo della pace è adesso! Continua l’impegno del gruppo Educazione alla Pace e alla Nonviolenza del Movimento di Cooperazione Educativa, con un progetto per educare alla pace i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. Presentato il 6 novembre scorso durante il webinar in diretta, il progetto Facciamo la Pace a... è rivolto a docenti ed educatori e ci invita a riflettere insieme e confrontarci sul momento che stiamo vivendo, sul da farsi in quanto educatori pacifisti e nonviolenti con bambine/i e ragazzi/e. A partire da stimoli (arte, letteratura, testimonianze…) si possono promuovere momenti di mobilitazione/ partecipazione collettiva per sensibilizzare, porre problemi, riflettere assieme. Le nostre speranze di un mondo futuro più giusto e più equo, affermano gli organizzatori Lanfranco Genito e Roberto Lovattini, si realizzano nelle seguenti proposte presentate:
Educare alla pace: è il primo passo, consiste nell’imparare a riconoscere cause, conseguenze, dinamiche dei conflitti: disuguaglianze e povertà, oppressioni e sfruttamento, dissesto ambientale, diritti negati, anche all’infanzia, in molti paesi del mondo, corsa agli armamenti, guerre.
Educare in un contesto di pace: costruire una classe cooperativa e una scuola contraddistinta da una identità progettuale di pace e solidarietà fra tutti i soggetti nell’ottica della resilienza e della collaborazione, perché la pace va costruita a partire dalle relazioni interpersonali nella vita quotidiana.
Educare per la pace: sviluppare progetti e percorsi educativi come operatori di pace nella propria realtà e gradualmente su scala più ampia.
Il webinar ha visto la vivace partecipazione di numerosi insegnanti, educatori, formatori, centri educativi, associazioni, Reti, associazioni pacifiste di tutto il territorio nazionale. Tra gli intervenuti Luisa Morgantini, della Rete internazionale di Donne contro la guerra e presidente di Assopace Palestina che ha ribadito come unica l’soluzione sia il cessate il fuoco immediato.
La signora Elena Fini di Modena ci ha inviato un'articolo pubblicato sulla Gazetta di Modena del 30 ottobre c.a. Riteniamo la sua replica meritevole di essere pubblicata. Dall'articolo pubblicato riteniamo che la distinzione tra "no vax" e "pro vax" non sia in armonia con i dettami costituzionali che tutelano la dignità di ogni persona e qualsiasi opinione meriti rispetto, a patto non si leda il codice penale.
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Incontriamo l’attore e regista Ferdinando Maddaloni che vedremo nel 2025 su Rai1 nella terza stagione fiction “Mina Settembre”, al rientro dal suo viaggio a Beslan in Russia
Da quanto tempo mancava da Beslan?
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Ferdinando Maddaloni |
Da circa dieci anni a causa dei miei impegni lavorativi, pandemia, guerre in atto, anche se ho sempre mantenuto contatti via internet. Quest’anno però non potevo mancare visto che coincidevano sia il ventennale della strage di Beslan sia il decennale dell’omicidio dei miei amici Andrei Mironov e Andy Rocchelli, avvenuto a Sloviansk in Ucraina il 24 maggio 2014. Il mio desiderio era rivivere istante per istante quel mio primo viaggio a Beslan, fatto nel 2009 proprio con Andy e Andrei, ricordando momenti belli e brutti di quella indimenticabile prima esperienza.
Con il blocco dei voli da tutta l’area europea, come è riuscito a raggiungere l’Ossezia del Nord?
Una volta ottenuto il visto, ho affrontato un lungo viaggio, ma sono stato anche fortunato. Da anni mi divido tra Italia e Turchia ed ora è stato autorizzato un volo diretto Istanbul/ Vladikavkaz che in sole due ore mi ha portato in Ossezia del Nord. E proprio nell’immenso nuovo aeroporto di Istanbul la prima sorpresa: ero in fila per il check in e dietro di me ho notato la presenza di tantissimi italiani che si recavano in Ossezia per le mie stesse motivazioni ovvero il ventennale della strage di Beslan avvenuta il 3 settembre 2004. Sono partito il 28 agosto fermandomi una settimana. Prima tappa, l’abbraccio nella nuova scuola numero 1 con la mia cara amica Nadia Gurieva nella sala della memoria con le testimonianze di affetto da tutto il mondo compresa la maglietta regalata da Diego Maradona per il torneo “BeslaNapoli 2014”. In seguito poi l’incontro con quei bambini oramai adulti, che mi hanno fatto presentato le loro famiglie.
Come si è svolta quest’anno la commemorazione?
Come sempre: il lancio dei palloncini bianchi e la lettura di tutti i nomi delle 334 vittime tra cui 186 bambini (9 in età prescolare) con l’aggiunta dell’inaugurazione del nuovo Museo e due emozionanti concerti: il primo sulla prospect Mira, il corso principale di Vladikavkaz; il secondo invece, si è tenuto proprio davanti alla vecchia palestra.
Lei ha realizzato una docufiction che ripercorre proprio il suo primo viaggio a Beslan con Mironov e Rocchelli. È ancora possibile vederlo?
Si. È disponibile on line, ma dirò di più. Questa estate, in un afoso pomeriggio proprio mentre continuavo a controllare la posta sul mio telefonino in attesa del visto per la Russia, ho ricevuto la notizia che, abbiamo vinto tre festival (Londra, Parigi e Lisbona) nello stesso giorno e che si aggiungono agli altri a partire dal prestigioso Hollywood Indipendent Documentary Award. Poi, qualche giorno dopo, è arrivato anche il visto elettronico per la Russia!
Progetti futuri?
Dopo la nomina a direttore artistico della Extralife-md di Yesim Kaya ed il successo del mio primo workshop di recitazione a Istanbul, sono in fase di preproduzione del mio nuovo lavoro che girerò in Turchia dal titolo “Il lusso nella sabbia”. Sabato 19 ottobre sarò ospite del Premio Italia diritti umani 2024 organizzato dalla FLIP con un estratto da “Strip Human Right Song Tease”, un format da me ideato, adattato per l’occasione, che prevede di spogliare musicalmente alcune canzoni, rivestendole di ricordi con dedica speciale a persone scomparse fisicamente ma vive nella mia memoria. Una di queste, ça va sans dire, sarà dedicata al giornalista Antonio Russo, perché, come scritto nel grande poster affisso davanti alla vecchia palestra “Finché ti ricorderai di noi, noi saremo vivi!”
“Io so chi sono e quello che sono.
Sono un indiano, un indiano che ha osato lottare per difendere il suo popolo.
Io sono un uomo innocente che non ha mai assassinato nessuno, né inteso farlo.
E, sì, sono uno che pratica la Danza del Sole.
Anche questa e' la mia identità.
Se devo soffrire in quanto simbolo del mio popolo, allora soffro con orgoglio.
Non cederò mai.”
Leonard Peltier
Leonard Peltier, nativo della comunità Anishinaabe-Lakota, è un attivista del Movimento indiano americano, organizzazione che promuove i diritti dei nativi americani. Durante uno scontro che coinvolse membri del Movimento nella riserva indiana di Pine Ridge nel South Dakota, nell’ormai lontanissimo 26 giugno 1975, rimasero uccisi gli agenti dell’Fbi Ronald Williams e Jack Coler. Due anni dopo, giudicato colpevole, venne condannato a due ergastoli.
Leonard Peltier ha sempre negato la sua colpevolezza. Myrtle Poor Bear (nativa Lakota che viveva a Pine Ridge) è stata una presunta testimone chiave della sparatoria. Successivamente, ritrattò la sua testimonianza, e, nel 2000, dichiarò pubblicamente che la sua testimonianza originale era scaturita da mesi di minacce e molestie da parte degli agenti dell’Fbi.
Leonard Peltier è da molto tempo in precarie condizioni di salute: soffre di malattie renali, diabete di tipo 2, ipertensione, una malattia degenerativa delle articolazioni e della costante mancanza di respiro e vertigini. Nel 1986 un ictus lo ha reso praticamente cieco da un occhio. Nel gennaio 2016, i medici hanno diagnosticato che le sue condizioni di salute mettevano la sua vita in pericolo, soprattutto a causa di un aneurisma dell’aorta addominale di grandi dimensioni e potenzialmente fatale, tale da rompersi in qualsiasi momento e provocare la sua morte. A causa della mobilità limitata, attualmente utilizza un deambulatore.
Importanti personalità, come Nelson Mandela, Desmond Tutu, Rigoberta Menchù, il Dalai Lama, papa Francesco, hanno chiesto la sua liberazione, così come grandi associazioni umanitarie, come Amnesty International e il Movimento Nonviolento, nonché milioni di comuni cittadini di tutto il mondo.
Anche istituzioni rappresentative come l'Onu (che sulla vicenda di Leonard Peltier si e' pronunciata attraverso una commissione giuridica ad hoc) e come il Parlamento Europeo (fin dagli anni Novanta, ed ancora qualche anno fa con l’allora Presidente David Sassoli) hanno chiesto la sua liberazione, così pure la tribù Standing Rock Sioux e il Congresso nazionale degli indiani americani.
Il suo avvocato, nel 2021, ha chiesto la grazia al presidente Biden, il quale si è impegnato a concederla su base continuativa durante la sua amministrazione e non alla fine del suo mandato.
Tuttavia, ad oggi, non è stata presa alcuna decisione a riguardo.
Leonard Peltier e' stato condannato per un delitto che non ha commesso:
e' stato definitivamente dimostrato che le testimonianze contro di lui erano false e che le prove contro di lui erano altrettanto false.
In tutti questi anni, dal carcere, ha sostenuto con la parola e con la testimonianza, innumerevoli iniziative nonviolente in difesa dei popoli e delle persone cui venivano negati i diritti più elementari, in difesa del mondo vivente minacciato di irreversibili devastazioni.
Anche in condizioni di particolare durezza, infatti, Leonard Peltier è riuscito a svolgere un'intensa attività di sensibilizzazione e di militanza; un'attività non solo di riflessione e d'impegno morale, sociale e politico, ma anche artistica e letteraria. Nel corso degli anni, è diventato sempre più un punto di riferimento in tutto il mondo, come accadde per Nelson Mandela, negli anni di prigionia nelle carceri del regime dell'apartheid.
La richiesta di un nuovo pronunciamento giudiziario è stata sempre respinta, così come gli sono state negate le altre guarentigie riconosciute a tutti i detenuti.
Nel 1983 e poi, in seconda edizione nel 1991, venne pubblicato il libro di Peter Matthiessen che fa piena luce sulla persecuzione subita da Leonard Peltier, mentre nel 1999, venne pubblicata l'autobiografia di Leonard Peltier (presto tradotta anche in francese, italiano, spagnolo e tedesco).
Amnesty International, in particolare, sostiene la richiesta di grazia per Leonard Peltier
Nella sua autobiografia ha scritto:
"Tutti facciamo parte dell'unica famiglia dell'umanità.
Noi condividiamo la responsabilità per la nostra Madre Terra e per tutti quelli che ci vivono e respirano.
Credo che il nostro compito non sarà terminato fin quando anche un solo essere umano sarà affamato o maltrattato,
una sola persona sarà costretta a morire in guerra,
un solo innocente languirà in prigione
e un solo individuo sarà perseguitato per le sue opinioni.
Credo nel bene dell'umanità.
Credo che il bene possa prevalere,
ma soltanto se vi sarà un grande impegno.
Impegno da parte nostra, di ognuno di noi, tuo e mio".
Come ha efficacemente scritto Peppe Sini:
“Leonard Peltier rappresenta l'intera umanità oppressa in lotta per la comune liberazione e per la difesa dell'intero mondo vivente minacciato di distruzione dai poteri dominanti.
La solidarietà con Leonard Peltier e' la solidarietà con la Resistenza degli indiani d'America vittime di un genocidio, di un etnocidio e di un ecocidio che tuttora continuano e che occorre contrastare.
La solidarietà con Leonard Peltier e' la solidarietà con la lotta di tutti i popoli e di tutti gli esseri umani oppressi e denegati dalla violenza dei poteri dominanti.
La solidarietà con Leonard Peltier e' la solidarietà con la lotta dell'umanità cosciente in difesa del mondo vivente dalla minaccia di distruzione da parte di un sistema di potere, di un modo di produzione e di un modello di sviluppo che schiavizzano, divorano e distruggono gli esseri umani, gli altri animali, l'intero mondo vivente.
La lotta di Leonard Peltier e la lotta per la sua liberazione sono quindi parte di un impegno in difesa della vita, della dignità e dei diritti di tutti gli esseri umani, di un impegno per la salvezza dell'intero mondo vivente.”
Il 12 settembre, Leonard compirà 80 anni.
Il nostro augurio affettuoso è che, dopo 50 anni di prigionia, prima di abbandonare questo mondo di ingiustizia, possa essere nuovamente illuminato dalla luce del sole ed abbracciato dalla luce delle stelle.
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Cenni biografici**
Leonard Peltier nasce a Grand Forks, nel North Dakota, il 12 settembre 1944.
Nell'infanzia, nell'adolescenza e nella prima giovinezza subisce pressoché tutte le vessazioni, tutte le umiliazioni, tutti i traumi e l'emarginazione che il potere razzista bianco infligge ai nativi americani. Nella sua autobiografia questo processo di brutale alienazione ed inferiorizzazione e' descritto in pagine profonde e commoventi.
Nei primi anni Settanta, incontra l'American Indian Movement (Aim), fondato nel 1968 proprio per difendere i diritti e restituire coscienza della propria dignità ai nativi americani; e, con l'impegno nell'Aim, riscopre l'orgoglio di essere indiano - la propria identità, il valore della propria cultura, e quindi la lotta per la riconquista dei diritti del proprio popolo e di tutti i popoli oppressi.
Partecipa, nel 1972, al "Sentiero dei trattati infranti", la carovana di migliaia di indiani che attraversa gli Stati Uniti e si conclude a Washington, con la presentazione delle rivendicazioni contenute nel documento detto dei "Venti punti" che il governo Nixon non degna di considerazione, e con l'occupazione del Bureau of Indian Affairs.
Dopo l'occupazione nel 1973 da parte dell'Aim di Wounded Knee (il luogo del massacro del 1890 assurto a simbolo della memoria del genocidio delle popolazioni native commesso dal potere razzista e colonialista bianco), nella riserva di Pine Ridge - in cui Wounded Knee si trova - si scatena la repressione: i nativi tradizionalisti ed i militanti dell'Aim unitisi a loro nel rivendicare l'identità, la dignità e i diritti degli indiani, vengono perseguitati e massacrati dagli squadroni della morte del corrotto presidente del consiglio tribale Dick Wilson: uno stillicidio di assassinii in cui i sicari della polizia privata di Wilson (i famigerati "Goons") sono favoreggiati dall'Fbi che ha deciso di perseguitare l'Aim ed eliminarne i militanti con qualunque mezzo.
Nel 1975, per difendersi dalle continue aggressioni dei Goons di Wilson, alcuni residenti tradizionalisti chiedono l'aiuto dell'Aim, un cui gruppo di militanti viene ospitato nel ranch della famiglia Jumping Bull in cui organizza un campo di spiritualita'.
Proprio in quel lasso di tempo, Dick Wilson sta anche trattando in segreto la cessione di una consistente parte del territorio della riserva alle compagnie minerarie.
Il 26 giugno 1975, avviene l'"incidente a Oglala", ovvero la sparatoria scatenata dall'Fbi che si conclude con la morte di due agenti dell'Fbi, Jack Coler e Ronald Williams, e di un giovane militante dell'Aim, Joe Stuntz, e la successiva fuga dei militanti dell'Aim superstiti guidati da Leonard Peltier che riescono ad eludere l'accerchiamento da parte dell'Fbi e degli squadroni della morte di Wilson.
Mentre nessuna inchiesta viene aperta sulla morte della giovane vittima indiana della sparatoria, così come nessuna adeguata inchiesta era stata aperta sulle morti degli altri nativi assassinati nei mesi e negli anni precedenti da parte dei Goons, l'Fbi scatena una vasta e accanita caccia all'uomo per vendicare la morte dei suoi due agenti: in un primo momento vengono imputati dell'uccisione dei due agenti quattro persone: Jimmy Eagle, Dino Butler, Leonard Peltier e Bob Robideau.
Dino Butler e Bob Robideau vengono arrestati non molto tempo dopo, processati a Rapid City ed assolti perché viene loro riconosciuta la legittima difesa.
A quel punto, l'Fbi decide di rinunciare a perseguire Jimmy Eagle e di concentrare le accuse su Leonard Peltier, che nel frattempo e' riuscito a riparare in Canada; lì viene arrestato ed estradato negli Usa sulla base di una "testimone" che successivamente rivelerà di essere stata costretta dall'Fbi a dichiarare e sottoscrivere quelle flagranti falsità.
Peltier viene processato non a Rapid City, come i suoi compagni già assolti per legittima difesa, ma a Fargo, da una giuria di soli bianchi, in un contesto razzista fomentato dall'Fbi.
Viene condannato a due ergastoli nonostante sia ormai evidente che le testimonianze contro di lui fossero false, estorte ai testimoni dall'Fbi con gravi minacce, e nonostante che le cosiddette prove contro di lui fossero altrettanto false.
La solidarieta' in Italia
Anche in Italia si e' sviluppato un movimento di solidarieta' con Leonard Peltier, che nel corso dei decenni ha avuto diverse fasi legate a circostanze particolari.
Con l'elezione di Biden alla Casa Bianca nel 2021 vi e' stata una significativa ripresa delle iniziative.
Una nuova campagna - con una peculiare impostazione nonviolenta - e' stata promossa dal giugno 2021 dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo (This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.)
Per contattare l'"International Leonard Peltier Defense Committee": sito: wwww.whoisleonardpeltier.info, e-mail: contact at whoisleonardpeltier.info
Alcuni siti utili: Centro studi americanistici "Circolo Amerindiano": www.amerindiano.org ; Il Cerchio, coordinamento di sostegno ai/dai nativi americani: www.associazioneilcerchio.it ; Soconas Incomindios, comitato di solidarieta' con i nativi americani: https://it-it.facebook.com/soconasincomindios/
* Stati Uniti: chiediamo la grazia per Leonard Peltier! - Appelli - Amnesty International Italia
** https://lists.peacelink.it/nonviolenza/2022/03/msg00001.html
Da come si evince dal susseguirsi delle notizie, la escalation militare nei confronti della Federazione Russa e nei confronti dei Paesi NATO, continua. La manifestazione organizzata sabato 20 luglio scorso a Udine, in Piazza I Maggio, che ha visto gli interventi di Luca Scantamburlo e Flavio Massera non è stato quello di prendere una posizione politica, bensì di sensibilizzare l’opinione pubblica italiana ed europea sui rischi e i pericoli che tutti noi Europei corriamo, soprattutto di confronto nucleare non solo convenzionale.
I nostri hanno fatto anche alcune piccole proposte su come agire nel ruolo di cittadinanza vigile e attenta affinché, civilmente, l’opinione pubblica possa portare il proprio contributo concreto e dire no alla escalation militare, no alla risoluzione delle controversie con le armi, no al coinvolgimento della NATO nel conflitto Ucraino-Russo, e dire invece sì alla negoziazione, al dialogo, alla tregua e a una de-escalation globale.
La maggior parte dei nostri politici occidentali ed europei sulla questione della guerra in Ucraina si mostrano irresponsabili e invece di sostenere una pacificazione e un dialogo diplomatico, fanno di tutto per provocare la Federazione Russa sia verbalmente sia politicamente e militarmente, e sostenere il riarmo del Governo di Kiev senza se e senza ma, a prescindere da ogni negoziato.
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Uno dei primi disegni inviati da un bambino italiano agli Ambasciatori di Roma Su gentile concessione dei genitori e del bambino di 10 anni di età. |
Si vuole una vittoria sul campo di battaglia imprescindibile, senza tenere conto delle ragioni del conflitto, e della forza militare e non solo dell’avversario, e delle conseguenze per tutti noi di un allargamento del conflitto. Siamo in sudditanza psicologica nei confronti di un blocco atlantista guerrafondaio.
Si può essere alleati senza essere sudditi e su questo punto la manifestazione ha ribadito la necessità di una presa di consapevolezza individuale e collettiva, perché l’ indifferenza non diventi la nostra condanna a decenni di tribolazioni. Si chiede un futuro di pace e serenità per i nostri figli, e non un domani di sangue, fame e sacrifici.
LETTERA AGLI AMBASCIATORI DI UNGHERIA, SERBIA E COLOMBIA IN FAVORE DELLA PACIFICAZIONE E DE-ESCALATION FRA RUSSIA E UCRAINA
E’ stata presentata pubblicamente in occasione della manifestazione anche una lettera da inviare AGLI AMBASCIATORI DI UNGHERIA, SERBIA E COLOMBIA IN FAVORE DELLA PACIFICAZIONE E DE-ESCALATION FRA RUSSIA E UCRAINA
La lettera può essere scaricata al seguente link:
Quest’ultima ha lo scopo, non solo di sensibilizzare i vertici istituzionali nazionali e internazionali, ma di permettere che si agisca in prima persona (in modo totalmente libero ma consapevole) affinché cittadini, genitori e persino i propri figli in età di discernimento, possano portare un contributo personale per scongiurare l'allargamento del conflitto Ucraina-Russia e un coinvolgimento della NATO e degli Stati Uniti d'America e di altri Paesi dell'area asiatica e del Medio Oriente dotati di armamenti nucleari.
Quali gli OBIETTIVI
Ci si augura di stimolare l'apertura di un tavolo di negoziato credibile per una tregua e pacificazione fra Ucraina e Federazione Russa in guerra sin dal febbraio 2022, che parta da un nucleo di Paesi individuati da noi liberi cittadini nei seguenti Stati: Repubblica di Ungheria, Repubblica di Serbia Repubblica di Colombia. Questo gruppo di Stati – qualora si confrontino nei loro rapporti bilaterali sul tema oggetto di questa lettera-appello – potrebbero insieme dare vita a una collaborazione internazionale volta a promuovere la tregua e un cessate il fuoco. A tal fine, questa triade di Paesi potrebbe ingrandirsi coinvolgendo altri Stati capaci di intercettare contenuti e modalità di mediazione, trattativa e accordi, fino a portare eventualmente le istanze di pacificazione e mediazione fra i due contendenti in armi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il fine ultimo è portare a una conseguente e successiva distensione e de-escalation militare globale, evitando il rischio di un conflitto militare allargato non solo di tipo convenzionale, ma nucleare.
Si potrebbe promuovere questa iniziativa organizzando un tavolo di negoziato e di accordi in una città come Vienna (l’Austria non è membro della NATO) che ha già una ricca tradizione storica di accordi diplomatici, oppure nella città di Belgrado, o in alternativa nella capitale della Colombia, Bogotà. Proprio tre massime cariche di questi Stati – Viktor Orbán, capo di Governo in Ungheria, Aleksandar Vučić nel suo ruolo di Presidente della Repubblica di Serbia, e il Presidente di Colombia Gustavo Francisco Petro Urrego – hanno rilasciato negli ultimi mesi dichiarazioni pubbliche contraddistinte da una grande preoccupazione politica e morale, soprattutto personale, per la situazione attuale nel conflitto fra Ucraina e Federazione Russa, anche nel contesto delle relazioni internazionali e nei rapporti sempre più tesi e difficili fra Occidente (NATO, UE e Stati Uniti d’America) da una parte e Russia dall’altra.
COME SPEDIRE LA LETTERA
Consigliamo la posta cartacea prioritaria tracciata (il costo è poco superiore a Euro 3 stampando la lettera fronte-retro, e allegando 1 disegno formato A4); sconsigliamo la posta elettronica perché le caselle istituzionali delle Ambasciate devono restare libere da posta indesiderata e ridondante, e perché un plico postale cartaceo non intasa un servizio, è tangibile e concreto dal punto di vista materiale e consente proprio di toccare con mano una testimonianza umana e artistica di tanti bambini e adolescenti d'Italia e del mondo, che non devono pagare a causa degli errori e delle imprudenze degli adulti. Gli indirizzi delle Ambasciate in Roma sono già indicati nella intestazione della lettera-appello.
DESTINATARI DELLA LETTERA
L'Ambasciatore di Ungheria, di Serbia e Colombia in Roma
Un antico adagio particolarmente caro ad Erasmo* afferma, in maniera limpidamente perentoria, che: “Chi ama la guerra non l’ha vista in faccia.”
Una cosa, quindi, accomunerebbe tutti coloro che incitano all’uso delle armi, che si affannano a giustificarlo sul piano filosofico, religioso, politico, ecc., o che, comunque, lo condividono in silenzio o, semplicemente, lo tollerano, per conformismo, viltà o accidiosa disattenzione: la mancanza di una nitida e fondata consapevolezza in merito a cosa sia realmente la guerra (ogni guerra) e alle incalcolabili sofferenze e distruzioni materiali e spirituali che essa arrechi all’umanità e all’intero pianeta.
Camille Flammarion (1842-1925), famoso astronomo e pionieristico indagatore degli aspetti ignoti della psiche umana e della natura, oltre a parlarci di comete e di galassie, di telepatia e di fenomeni di preveggenza, dedicandosi con grande passione allo studio dei fenomeni medianici e a quello delle grandi opere teosofiche, è stato anche un intellettuale che ha saputo parlarci della tragedia della guerra con lucida quanto categorica chiarezza, individuando nel nazionalismo e nel militarismo le sue cause principali.
“Questa povera umanità - scrive - è ancor lungi dall’essere affrancata dall’antico e barbaro errore delle nazionalità; essa non ha ancora guadagnato quasi nulla in reale libertà, poiché tutte le sue risorse sono consacrate a trattenere entro certi gruppi racchiusi, come gli animali, tra confini artificiali e variabili, sentimenti di rivalità, d’animosità e di odi che la indeboliscono e la rendono sterile.
L’intelligenza è ancora così bruta, che i popoli onorano i diplomatici che, a mezzo della menzogna e della frode, hanno saputo scatenare le guerre più rovinose per coprirsi di gloria e di onori.”
Il militarismo è, per lui, “un’onta, una follia stupida e idiota”. L’umanità gli appare “divisa in greggi in balìa di capi”, di tanto in tanto scagliate le une contro le altre, al fine di mietere vittime “come spighe mature sui campi insanguinati”, conservando e consolidando, in tal modo, la suddivisione del nostro piccolo globo in tanti separati ed aggressivi “formicai”.
La “spada di Marte” è sempre lì, abilissima e instancabile, nel trarre “il sangue dalle vene dell’umanità”, generando orrori incomparabilmente più gravi di quelli prodotti dalla cosiddetta “natura cieca” che, rispetto a noi, volenterosissimi umani carnefici, non può che risultare assai meno “cieca”.
“ E per garantirsi contro il brigantaggio organizzato da un centinaio di malfattori sfruttanti la bestialità umana, l’Europa intera - scrive - mantiene armate permanenti, strappa i suoi uomini al loro lavoro utile e fecondo e getta tutte le sue forze, tutte le sue risorse in un precipizio senza fondo.”
Il nostro scienziato arriverà ad accusare i governi criminali dell’ Europa di fine secolo XIX e di inizio XX secolo di essere colpevoli di uccidere, ogni singolo mese, più uomini di quante stelle nel cielo si possano scorgere a occhio nudo nel corso di una bella notte, constatando con rabbiosa amarezza che, anche soltanto con una parte degli abnormi capitali investiti nella sfrenata corsa agli armamenti, sarebbe stato possibile creare condizioni di vita molto più felici per tutti i popoli:
“ avremmo potuto allevare e istruire tutti i nostri figli, avremmo potuto costruire tutte le linee ferroviarie necessarie (…); avremmo potuto sopprimere le dogane, i dazi e gli altri impacci alla libertà dei transiti commerciali; avremmo potuto guarire tutte le miserie che non sono dovute all’indolenza o alle malattie; avremmo fors’anco - arriverà anche dire, da sostenitore della pluralità dei mondi abitati nell’universo - aver relazione con gli abitanti degli altri mondi!”
La sua speranza è che, in un tempo non troppo lontano, scompariranno le varie religioni, lasciando libero campo alla sola voce delle coscienze, così come scompariranno le patrie nazionali (con tutte le loro rilucenti armate) di fronte al sentimento travolgente della Fratellanza universale.
E la sua convinzione è che tale traguardo sarà reso possibile non da vacue e retoriche esortazioni, ma dall’estendersi e dal diffondersi dei risultati delle esplorazioni scientifiche nel campo dell’infinitamente grande come nel campo dell’infinitamente piccolo, attraverso, cioè, lo sviluppo progressivo delle conoscenze fisico-astronomiche e di quelle di ordine psichico-spirituale. Poiché da entrambi questi campi di indagine (gli studi psichici sono, per lui, “il complemento naturale dell’astronomia”) emergono insegnamenti ben precisi, molto simili a quelli rintracciabili nelle maggiori filosofie dell’antichità:
l’Universo intero (benché inconoscibile nella sua intima essenza) non è altro che un unico infinito organismo dinamico ed intelligente (“Stelle e atomi sono uno”); la materia, così come ci appare, ha un carattere semplicemente illusorio ed è interiormente pervasa e governata da una Forza di ordine spirituale (come diceva Virgilio: “Mens agitat molem”); un’unica “legge universale” abbraccia ogni cosa nella vita eterna.
Insomma, di fronte alla “contemplazione dell’immensità dei cieli sconfinati” e dinanzi all’ “infinito sempre aperto al volo delle nostre anime”; di fronte alla contemplazione “di un pensiero eterno nelle leggi matematiche, nelle forze organizzatrici, nell’ordine intelligente, nella bellezza dell’universo”; di fronte alla Vita che si sviluppa senza fine nello spazio e nel tempo; e di fronte, infine, alla consapevolezza di vivere noi stessi nell’infinito e nell’eternità, messi in soffitta tutti gli “dei degli eserciti”, dovrebbe affermarsi, nella coscienza dell’intera umanità, il pensiero illuminante della Fratellanza universale come intima legge della stessa Vita cosmica e, quindi, come nostro unico e ineluttabile destino.
La speranza del nostro scienziato mistico e poeta, quindi, è che la via per approdare ad una vera e concreta Fratellanza passi attraverso la consapevolezza di essere figli dell’Infinito e cittadini dell’Eternità, consapevolezza nutrita dalla teosofica sinergia fra conoscenze astronomiche e conoscenze metapsichico-parapsicologiche.
A queste ricerche, con rara coerenza, Camille Flammarion ha dedicato la sua intera esistenza.
Per sconfiggere tutte le guerre.
Per favorire la nascita, in un tempo ancora (troppo) lontano, di un mondo di Pace.
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08 Dicembre 2023
N.B. Le citazioni di Camille Flammarion sono state ricavate dalla bella antologia curata da G.V.Callegari (Scienza e Vita di Camillo Flammarion, Enrico Voghera, Roma 1919) e da C. Flammarion, Per la Scienza dell’Anima. I Misteri della vita e della morte, Società Editrice Partenopea, Napoli 1933.
L’isola indiana di Gran Nicobar* potrebbe presto diventare una sorta di “Hong Kong dell’India”, con un enorme porto, un aeroporto internazionale, una base militare ed una vasta zona industriale. Un simile “mega-progetto” di sviluppo, dall’entità di nove miliardi di dollari, comporterebbe la distruzione di ampie distese di foresta pluviale (attualmente il 95% del territorio) e verrebbe a mettere in serissimo pericolo la sopravvivenza di alcune centinaia di indigeni Shompen, uno dei popoli più isolati del pianeta.
Il “Great Nicobar Development Plan” dovrebbe arrivare ad occupare almeno un terzo dell’isola (di cui metà all’interno della riserva indigena) e comportare l’insediamento pianificato di ben 650.000 coloni.
Verrebbero ad essere devastati, in tal modo, i territori meridionali di caccia e raccolta, quattro insediamenti Shompen e, soprattutto, verrebbe irreparabilmente rovinato l’intero sistema fluviale.
Il progetto, inoltre, andrebbe ad aumentare vertiginosamente il rischio di esposizione a tutta una serie di malattie verso cui gli indigeni sono del tutto privi di difese immunitarie. Come tutti i popoli “incontattati”, infatti, gli Shompen risultano estremamente vulnerabili nei confronti di agenti patogeni che potrebbero condurli rapidamente allo sterminio.
“Se il progetto andasse avanti, anche in forma più ridotta - hanno affermato esperti provenienti da istituzioni accademiche di ben tredici paesi - crediamo sarebbe una condanna a morte per gli Shompen, equivalente al crimine internazionale di genocidio”.
E trentanove studiosi internazionali di genocidio si sono rivolti al governo indiano per denunciare gli aspetti allarmanti insiti nel progetto.
Survival International ha intrapreso una campagna che mira all’archiviazione del progetto e al riconoscimento agli Shompen dei pieni diritti di proprietà territoriale sulle terre su cui vivono da millenni.
Per saperne di più e/o per sostenere la causa dei diritti umani delle popolazioni indigene:
https://www.survival.it/cosafacciamo
NOTE
*”Un'isola come nessun'altra
Per secoli, gran parte degli Shompen ha rifiutato ogni tipo di contatto con gli esterni e questo li ha protetti dalle tragiche conseguenze del contatto, subite invece dalla maggior parte degli altri popoli delle isole Andamane e Nicobare.
Per migliaia di anni gli Shompen hanno vissuto, protetto e alimentato le straordinarie foreste di Gran Nicobar, nella parte orientale dell’Oceano Indiano. Gli Shompen sono cacciatori-raccoglitori nomadi e vivono in piccoli gruppi, in territori delimitati dai fiumi che attraversano la foresta pluviale. Costruiscono generalmente accampamenti temporanei nella foresta, in cui vivono per qualche settimana o qualche mese prima di spostarsi di nuovo.
Raccolgono una grande varietà di piante, ma il loro alimento principale è il frutto del pandano, che chiamano larop. Come altri cacciatori-raccoglitori, gli Shompen hanno una profonda conoscenza della loro foresta e utilizzano la flora dell’isola in moltissimi modi. Dal Canarium strictum bianco, per esempio, ricavano incensi, un repellente per gli insetti e persino gomme da masticare.
Gli Shompen cacciano tutto l’anno e scimmie, maiali, lucertole e coccodrilli costituiscono una parte importante della loro dieta. Hanno anche piccoli orti in cui coltivano, tra le altre cose, tapioca, limoni, peperoncini e betel (Piper betle).
L’isola di Gran Nicobar, loro dimora sacra, è piccola ma ricca di biodiversità endemica. La foresta pluviale copre circa il 95% dell’isola, in cui vivono 11 specie di mammiferi, 32 specie di uccelli, 7 specie di rettili e 4 di anfibi che si trovano solo lì. Un luogo unico in cui varani e coccodrilli condividono la foresta con macachi e toporagni, e dove le tartarughe giganti condividono le coste con dugonghi e delfini.”
Fonte: www.survival.it
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