L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Spirituality (82)


 
Franco Libero Manco
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Coloro che usano mangiare carne è giusto conoscano l’inferno cui condannano gli animali dalla loro nascita alla morte. Negli allevamenti intensivi gli  animali, immobilizzati fin dalla nascita, non vedono mai  a luce del sole, non mangiano mai l’erba dei campi, non conoscono la libertà, la frescura della pioggia. Incatenati o chiusi in piccoli box che non consente neppure il movimento, per tutta la loro  breve esistenza e immersi nei loro stessi escrementi, conoscono solo disperazione e pazzia. Per meglio capire la loro sofferenza immaginiamo noi stessi rinchiusi, per tutta la vita e senza possibilità di muoverci, in un ascensore affollato.

Da questi, veri e propri lager, gli animali vengono stipati all’inverosimile su vagoni blindati (dove si calpestano tra loro fino a spezzarsi gli arti o a morire asfissiati) e dove restano a volte per giorni sotto il  sole rovente o a temperature glaciali senza cibo né acqua per essere poi scaricati come pietre, o a colpi di bastone, con pungoli uncinati o scariche elettrice e consegnati nelle mani di rozzi carnefici che  rmati di potenti seghe, li squartano, spesso ancora vivi, con l’indifferenza con cui si apre una scatola di pomodoro in una mare di viscere e di sangue fatto defluire nella fogna.

I teneri e morbidi agnellini, coniglietti, vitellini, ignari come bambini, saranno scannati perché qualcuno vorrà mangiare le loro gambe, qualcun altro si delizierà il palato mangiando il loro fegato, qualcun  altro mangerà il loro cervello, qualcun altro il loro cuore e le loro ossa saranno gettate via come rifiuti o incenerite e di queste lanuginose e tenere creature non resterà più nulla: appena affacciate alla  vita hanno conosciuto solo dolore.

Ai possenti e spavaldi cavalli, alle docili mucche, ai manzi, la “bestia” umana sparerà in mezzo alla fronte un proiettile captivo (che come uno scalpello gli pacca la fronte e il cervello) e, questi  monumenti di bellezza, di forza, di mitezza stramazzano, annullati come un sacchi vuoti per poi essere fatti a pezzi e venduti nelle macellerie. 

E le creature del mare? La morte del pesce, in qualunque modo avvenga, è crudele: la contorsione dei pesci in agonia nelle reti fa capire l’intensità di dolore che provano e quanto disumana sia la pesca.  Come altrettanto crudele è la pesca con l’amo, che poi viene estratto dalla bocca del pesce che lacera anche parte della testa, è paragonabile ad un arpione conficcato nella bocca di un uomo  che viene brutalmente estratto fracassandogli le mandibole, la fronte ed il cervello. E i pesci congelati ancora vivi? E quelli spasimanti in pochi litri di acqua nei mercati perché la gentile signora, o  signore, possa deliziarsi il palato con il corpo di una creatura appena eviscerata da viva?

L’indifferenza verso il dolore altrui il vero cancro del genere umano, la causa di tutte le sventure umane. Chi avrebbe il coraggio di uccidere con le proprie mani l’animale che mangia a tavola? Come può  un essere umano essere sensibile al dolore dei suoi simili se è indifferente alla sofferenza dell’animale? Come possiamo sperare che Dio ascolti le nostre preghiere se siamo insensibili al dolore che  causiamo agli animali?

Perché infliggere prigionia, sofferenza e morte a tante creature miti, innocenti, buone, forti, nate per essere libere quando c’è abbondanza di cibo per nutrirsi? Gli animali solo nella forma fisica sono  differenti da noi umani ma come noi hanno emozioni, pensieri, angoscia, paura della morte e a differenza dell’uomo l’animale è sempre innocente. Prima di addentare una bistecca un uomo dovrebbe avere il coraggio di far visita al mattatoio.

Nessun genitore farebbe assistere i propri figli a ciò che accade in quell’inferno. Ed è questa la più palese dimostrazione che questi sono luoghi maledetti e, come diceva Voltaire, andrebbero rasi al  suolo: solo in questo modo dimostreremmo di essere umani. Eviteremmo di avere sulla coscienza tutte quelle creature passate sotto i nostri denti; eviteremmo le conseguenti malattie che ne derivano;  eviteremmo la distruzione delle foreste e delle terre fertili; abbatteremmo l’inquinamento generale e soprattutto eviteremmo di affamare ulteriormente il Terzo Mondo.

Se mangi carne è meglio che ti organizzi a vivere vicino ad un ospedale  

 
 Fabiana Esca

Nata a Napoli nel 1973, segue la scuola di Danza Classica del Teatro San Carlo di Napoli per poi dedicarsi al contemporaneo, al mimo e infine al teatro, Fabiana Esca è attrice di teatro e cinema, ma anche arteterapeuta. Incontra l’Insegnamento Dzogchen attraverso il Maestro tibetano Chögyal Namkhai Norbu, nel 2001, e dopo un’approfondita formazione ottiene l’autorizzazione del Maestro ad insegnare il primo e il secondo livello dello Yantra Yoga, contemporaneamente segue i corsi per guidare lo Yoga Kumar Kumari ideato da Norbu per i bambini. Oggi insegna principalmente a Napoli, dov’è nato nel 2007 il centro Namdeling, la sede napoletana della International Dzogchen Community, e a Merigar, in Toscana. La incontriamo durante una pausa delle sue interessanti lezioni.

D - Come mai si è dedicata alla pratica e allo studio dello Yoga?

R - Ho incontrato lo yoga da bambina, nel 1980, durante una vacanza trascorsa in famiglia al villaggio di Favignana. Uno degli operatori appena rientrato dall’India, guidò un corso di yoga classico per un gruppetto di bimbi, ne rimasi folgorata, da allora lo yoga è entrato a far parte della mia vita.

D – In cosa si differenzia lo Yantra Yoga dalle altre tipologie di yoga?

R - Lo Yantra Yoga tibetano ha delle caratteristiche peculiari uniche. E’ una pratica basata sulla coordinazione di corpo (movimento), energia (respiro) e mente (intesa come “presenza mentale”). Aspetto fondamentale della pratica è il ritmo con cui si eseguono le sequenze dei movimenti. Questo metodo del tutto originale, aiuta proprio la mente a rimanere connessa al momento presente e raggiungere infine un completo rilassamento. Un’altra caratteristica singolare è che tutta la pratica è eseguita da uomini e donne in maniera speculare, alla base c’è una conoscenza antichissima e profonda della nostra energia.

D – Quanto sono adattabili queste dottrine ai nostri ritmi di vita?

R - Ho trovato in questa forma di Yoga un prezioso alleato, mi aiuta a rilassare le tensioni che il ritmo cittadino inevitabilmente mi porta ad accumulare e riesce a bilanciare e rinforzare la mia condizione fisica, prima sempre molto delicata, soggetta a continue malattie. Ovviamente rilassare il corpo e sentirsi bene aiuta la mente ad essere più calma e meno confusa o agitata.

D –Che ne pensa della proposta promossa al tempo del governo Gentiloni di insegnare lo Yoga dalle scuole dell’obbligo?

R - Nella nostra cultura consideriamo superflua la conoscenza di noi stessi, del nostro funzionamento psico-emotivo e del funzionamento della nostra mente e diamo tanta importanza alla conoscenza del mondo esterno, ma senza questa base la nostra comprensione della realtà sarà sempre parziale e distorta e la nostra condizione sempre insoddisfacente, soggetta a disagi psichici, insoddisfazioni, malattie. Alla base resta una distinzione tra nozione e conoscenza che non dovrebbe esistere in una visione integrata della realtà. Il sentirsi parte di un “tutto” senza nette divisioni, ci fa sentire meno soli nell’affrontare stress e difficoltà, e fa vivere meglio la nostra condizione umana.

D – Due parole sul metodo Kumar Kumari?

R - Lo Yantra Yoga Kumar Kumari è stato elaborato dal Maestro tibetano ChögyalNamkhaiNorbu, proprio per i piccoli praticanti, partendo dai principi che sono alla base della stessa pratica per gli adulti, ma seguendo il ritmo del respiro che nei bambini è più breve e sottile. Proprio per favorire un corretto uso del respiro, i movimenti sono associati all’emissione di suoni basati su particolari sillabe che ne guidano l’intensità e la durata. Si tratta di una tecnica molto utile ai bambini, li aiuta a padroneggiare traumi e stress, a concentrarsi meglio nello studio, a socializzare.

D – Secondo la sua esperienza di insegnante, quali sono le fasce d’età più interessate allo Yoga?

R - I bimbi, anche se non tutti, manifestano in genere un grande entusiasmo, ma hanno sempre meno capacità di concentrazione e di attenzione, questo ci dice che ne hanno sempre più bisogno. Gli adolescenti sono una fascia d’età che difficilmente si avvicina, mentre tra gli adulti l’età media si abbassa decisamente. Una classe in genere può comprendere persone dai venti ai sessanta anni, ma l’età più presente secondo la mia esperienza in genere va dai trenta anni in su.

D – C’è differenza in questo senso tra uomini e donne?

R - Le donne sono sempre in grande maggioranza, perciò trovo molto coraggiosi gli uomini che partecipano a queste classi, la ricerca del benessere e della conoscenza, comprende la capacità di mettere in discussione quelle che chiamiamo certezze. Purtroppo gli uomini soprattutto in occidente, ancora hanno diffidenza e timore nei confronti di questo atteggiamento.

D – Potrebbe dire che lo Yoga le ha cambiato la vita?

R – Certo potrei dirlo, ma preferisco non farlo, credo che la vita la cambiamo principalmente con il nostro desiderio di venir fuori dalla sofferenza e da una visione passiva dell’esistenza. Lo Yoga è la vita stessa e solo quando non vediamo più separazione fra interiorità e universo esterno, scopriamo di essere cambiati.

A questo proposito, sono molto soddisfatta dei risultati raggiunti nell’ultimo corso che ho condotto in questi giorni a Merigar: il centro della Comunità Dzogchen sul Monte Amiata, ad Arcidosso. Si è trattato di vere e proprie vacanze Yoga: un momento per ritrovarsi con la famiglia, per chi ne ha una, o per regalare a se stessi un momento speciale, fuori dalle dimensioni caotiche delle città o delle località marine prese di mira in estate, per immergersi nella pratica intensiva a contatto con la natura, che qui ha ancora un sapore un pò selvaggio. Mentre gli adulti possono praticare la meditazione e lo Yantra Yoga, i bambini seguono le classi di Kumar Kumari e laboratori creativi strutturati per dare continuità espressiva e creativa ai più piccoli, attraverso un percorso di condivisione con il gruppo e in rapporto diretto con la natura, una natura da rispettare che rimane sempre, per grandi e piccoli, la più grande maestra di vita.

Sicuramente il carattere di una persona è in grado di determinare il suo destino. Non v’è decisione, dalla dichiarazione di guerra alla scelta del pasto giornaliero, che non passi attraverso il carattere della persona. Gandhi diceva Sii il rinnovamento che vorresti nel mondo, ma cambiare il carattere delle persone, rinnovare se stessi, è la cosa più difficile dell’universo perché richiede una costante e forte volontà di mettere in discussione e superare i propri punti di vista.

Le nostre convinzioni, le ostinazioni sui nostri principi, la mancanza di umiltà, la volontà di doversi giustificare ad ogni costo ad ogni critica, ad ogni divergenza di vedute, sono il nostro peggior nemico. Anche la persona più importante con un carattere ostico e permaloso è destinata ad essere evitata, esclusa, o al limite sopportata. E a causa di un cattivo carattere spesso succede che per un’inezia si rovini un’amicizia, un affetto, una buona relazione, un amore.

Quando nel dialogo occorre la massima attenzione per non urtare le opinioni dell’altro significa che occorre lavorare ancora su se stessi per liberarsi dalla prigionia dei propri limiti. Vi sono persone alle quali è possibile rivolgere solo parole di apprezzamento: qualunque appunto o critica bonaria viene interpretata come on’offesa fino a far vacillare o a volte cancellare un affetto che magari dura da anni disconoscendo il 99% che di buono e di positivo c’è stato tra le parti. Ma coloro che occorre trattare con i “guanti bianchi” si accontentano della maschera e non sapranno ciò che realmente gli altri pensano di loro. L’amore vero, l’affetto vero, l’amicizia vera, se è tale si manifesta apertamente in ogni circostanza, con garbo, gentilezza e gratitudine ma senza la paura di essere malintesi.

La nostra vera natura non è quella che si manifesta nelle circostanze di un contesto favorevole in cui c’è armonia di relazione e condivisione di idee: è nella prova, nella provocazione, nell’insulto, nell’offesa, nella critica ingiusta, nella mancanza di rispetto, magari nella derisione, nel tradimento della fiducia, nella privazione di un bene o di un diritto che si manifesta il nostro vero carattere. Ed è meglio non fare il bene se non si è disposti a sopportare l’ingratitudine.

La reale consistenza di un muro si può verificare solo nel momento in cui si cerca di abbatterlo. In ognuno di noi si nasconde un santo e un criminale, ma è la provocazione che fa emergere l’una o l’altra nostra vera natura, quello che realmente siamo.
Avere un bel carattere, disponibile al dialogo, capace di mettere in discussione la propria visione delle cose, le proprie certezze, essere aperti al dialogo e all’innovazione questo è il bene più prezioso di una persona per chi ha la fortuna di vivergli accanto; ma una persona permalosa, litigiosa, inflessibile è sicuramente motivo di tensione e discordia.

Credo che la vita ci dia ogni giorno la possibilità di migliorare noi stessi e questo è possibile solo se, attraverso un giusto e salutare esame di introspezione, siamo disposti a mettere in discussione le nostre chiusure, i nostri personalismi.

Ognuno di noi è un universo a se stante, diverso da ogni altro, più o meno in armonia con se stesso e con il contesto naturale, ma il metro di verifica è se il nostro modo di essere torna o no a beneficio di se stessi e della comunità. Quindi la domanda da porsi è: se tutti avessero il mio carattere il mondo sarebbe migliore o peggiore? Credo che in noi vegan/universalisti alberga una coscienza più vasta, un’etica più profonda, un senso di giustizia più ampio del comune sentire, per questo abbiamo l’obbligo morale di essere di esempio, in ogni circostanza.

 

Spesso il modo più efficace di aiutare gli altri, e rendere migliore il mondo, è quello di cambiare se stessi.

 

“Quando l’uomo si interessa del tutto è più attento ai problemi di una parte di esso”. (Porfirio)

 

 

Nulla di ciò che esiste resta allo stato evolutivo iniziale: è spinto dalla legge naturale verso la sua crescita, la sua completezza, la sua realizzazione, la sua maturità fisica, mentale e spirituale e che consente lo sviluppo delle qualità potenziali di ogni essere vivente. I “talenti” che ognuno di noi ha fin dalla nascita per fattori genetici, sono poi condizionati dall’ambiente, dal livello culturale, morale, spirituale della famiglia e dal contesto in cui si vive. Per mezzo della volontà e del libero arbitrio ognuno è chiamato a sviluppare e a far fruttare i “talenti” iniziali. L’inettitudine, l’inerzia, l’apatia, l’indifferenza impediscono lo sviluppo delle potenzialità dell’individuo.

Se una persona è travolta dai suoi singoli problemi, se non è libera dentro, se è succube del suo personalismo, condizionato dalle tendenze dominanti, delle sue manie, dalle sue debolezze, non può dare nulla di buono a se stesso e agli altri: come potrebbe dare ciò che non possiede se è lui ad aver bisogno di sostegno?

Solo quando una persona sviluppa una personalità armonica con se stessa è in grado di interagire armonicamente nel sociale. Solo quando un individuo si impegna a superare i propri limiti tende alla realizzazione integrale di se stesso e dà il meglio delle sue possibilità personali.

Si è credibili solo quando si è coerenti nei propri principi e nel proprio ideale di giustizia. La coerenza e l’esempio sono componenti imprescindibili per chi spera in un mondo migliore. “Essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo” diceva Gandhi. Non puoi pretendere dagli altri ciò che tu stesso non vivi. Non puoi pretendere giustizia e onestà se tu non sei giusto e onesto; non puoi sperare nel rispetto per le regole se tu le infrangi.

Occorre passare dalla coscienza individuale alla coscienza collettiva, capire che i problemi di ognuno incrementano  i problemi del contesto in cui si vive. Capire che ognuno di noi è parte inscindibile di una realtà in cui nessuno è separato e in cui nessuno può vivere senza interagire: vivere per se stessi, assorbiti dalle proprie problematiche, significa consegnare nelle mani di chi ha interesse a conservare l’attuale stato di cose. Occorre superare la tendenza a scindere la propria responsabilità personale da quella della società in cui vive.

Interessarsi della propria crescita personale significa curare lo sviluppo armonico della 4 fondamentali componenti dell’entità umana: fisica, mentale, emozionale e spirituale. La felicità personale è direttamente proporzionale al superamento dei propri limiti e allo sviluppo simultaneo, simbiotico e bilanciato del nostro benessere fisico, della nostra intelligenza, del nostro senso critico positivo, dalla sensibilità del cuore e dal riferimento oggettivo ad un ideale superiore.

I valori fondamentali dell’individuo non si improvvisano e in questo la famiglia, la scuola e lo Stato hanno una diretta responsabilità della quale non possono sottrarsi. I bambini non vengono educati all’amore, alla pace, ma al materialismo, alla competizione, all’indifferenza, all’edonismo.

Ciò che realmente occorre è rendere migliore l’uomo per migliorare i meccanismi, i sistemi, il mondo. In futuro l’Universalismo sarà la sola via da percorrere; il sincretismo delle grandi dottrine: il biocentrismo è ciò che renderà responsabile l’individuo verso la Natura e che gli consentirà si superare la visione antropocentrica della vita.

Deve nascere in ognuno di noi la consapevolezza che l’umanità è una sola famiglia, che gli animali sono diversi da noi solo nella forma fisica, che tutti respiriamo la stessa aria, beviamo la stessa acqua, ci nutre la stessa terra: un sangue rosso scorre nelle vene di tutti. Ma quando una parte del Tutto è ferita o sofferente è l’intero organismo che è in pericolo di vita. Siamo parte di un tutt’uno. O ci salviamo tutti o nessuno.

Sta nascendo una NUOVA COSCIENZA UMANA, UNA NUOVA ETICA che valorizza le possibilità dell’animo umano rendendo ognuno artefice del proprio destino e pone le basi di una umanità finalmente libera dalla violenza, dalla malattia e dal dolore.

Milano, 27 marzo 2018 - Secondo le più recenti stime di Fondazione ISMU , gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2017 che professano la religione cristiana ortodossa si confermano come l’anno precedente i più numerosi (oltre 1,6 milioni, +0,7%), seguiti dai musulmani (poco più di 1,4 milioni, -0,2%) e dai cattolici (poco più di un milione, -0,1%) [1] . Passando alle religioni di minor importanza quantitativa, i buddisti stranieri sono stimati in 188mila (+3,5% rispetto al 1° gennaio 2016), i cristiani evangelisti in 124mila (+2,3%), gli induisti in 73mila (+0,8%), i sikh in 72mila (+0,9%), i cristiani copti in 19mila (+2,1%). Considerando anche cristiani di altre confessioni non comprese tra le principali (111mila in totale al 1° gennaio 2017, +3,8% rispetto ad inizio 2016), i cristiani (compresi i cattolici) stranieri residenti in Italia risultano in tutto 2,9 milioni, in aumento dello 0,6% nell’ultimo anno. Anche se non includono gli stranieri non iscritti in anagrafe le elaborazioni di ISMU mettono in mostra che il panorama delle religioni professate dagli stranieri è variegato e sfata in particolare il pregiudizio secondo cui la maggior parte degli immigrati professa l’Islam. Per quanto riguarda le provenienze si stima che la maggior parte dei musulmani stranieri residenti in Italia provenga dal Marocco (408mila), seguito dall’ Albania (206mila), dal Bangladesh (103mila), dal Pakistan (100mila), dall’ Egitto (96mila), dalla Tunisia (93mila) e dal Senegal (87mila). Circa un terzo dei cristiani ortodossi vive in Lombardia o nel Lazio. La regione in cui la presenza di stranieri di fede cristiana ortodossa è maggiore è la Lombardia , con 268mila presenze, seguita dal Lazio con 263mila e poi più a distanza da Veneto (174mila), Piemonte (161mila), Emilia Romagna (158mila) e Toscana (117mila).
I musulmani si concentrano soprattutto in Lombardia . La regione in cui vivono più stranieri residenti di fede musulmana, minorenni inclusi, è la Lombardia: sono 360mila, pari ad oltre un quarto del totale degli islamici presenti in Italia . Al secondo posto troviamo l’Emilia Romagna con 178mila musulmani, al terzo il Veneto dove i musulmani sono 134mila, al quarto il Lazio con 120mila presenze appena davanti al Piemonte (117mila).


Gli immigrati cattolici sono presenti soprattutto in Lombardia e secondariamente nel Lazio. La regione italiana in cui vivono più immigrati cattolici è la Lombardia, con 273mila presenze, seguita dal Lazio (153mila), dall’Emilia Romagna (94mila), dalla Toscana (84mila), dal Veneto e dal Piemonte (76mila in entrambe le regioni).


La provincia di Milano è in cima alla classifica per residenti musulmani e cattolici. Quella di Roma per numero di stranieri cristiano-ortodossi. La provincia di Milano è capolista per numero di stranieri residenti sia musulmani (115mila pari all’8,1% del totale nazionale) sia cattolici (143mila pari al 13,8% del totale nazionale), in entrambi i casi leggermente davanti a quella di Roma (che conta 98mila stranieri musulmani e 134mila stranieri cattolici). La provincia di Roma invece primeggia per numero di cristiani ortodossi (211mila, pari al 13,0% del totale nazionale), seguono le provincie di Torino (99mila) e Milano (88mila).

Dopo le province di Milano e di Roma, i musulmani si concentrano soprattutto in quelle di Brescia (61mila) e Bergamo (50mila).

[1] In questi conteggi non sono compresi né gli stranieri irregolari nel soggiorno o non iscritti in anagrafe, né coloro i quali hanno acquisito la cittadinanza italiana. Sono inclusi invece i minorenni di qualsiasi età, neonati compresi, ipotizzando per loro la medesima appartenenza religiosa dei connazionali come appurate dalle più recenti indagini regionali lombarde.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Anche la pianta soffre e voi vegetariani mangiate molte piante.

 

E’ vero, ma la quantità di piante che mangia un manzo per produrre un solo kg di carne è mille volte di più. Dire che anche la pianta soffre per giustificare se stessi alla disponibilità a rinunciare alla carne   solo una patetica scappatoia. Cioè: si usa giustificare la mancanza di rispetto per gli animali perché la pianta è in grado di soffrire. E’ il solito ritornello  di chi ritiene inutile fare poco dal momento  che non è possibile fare tutto, che è come dire: è inutile sfamare un singolo indigente dal momento che non si può abolire la fame nel mondo; oppure che dal momento che la città è sporca lascio pure la  ia immondizia sul marciapiede; e ancora: siccome l’aria è inquinata allora fumo due pacchetti di sigarette al giorno.

Questa logica porta alla giustificazione di qualunque delitto. In guerra il soldato uccide perché così farebbe il suo nemico; il ladro ruba pensando che tutti sono disonesti; c’è chi rifiuta di fare l’elemosina  al barbone anteponendo i tanti problemi personali e c’è chi rinuncia a qualunque rispetto per gli animali dal momento che ci sono tanti bambini che muoiono di fame.

Tutto ciò che esiste vuole vivere, non morire. Senza la capacità di accusare dolore ogni essere vivente si lascerebbe mutilare, uccidere senza reagire.
Ma l’umanità non è pronta a considerare alla stessa stregua la vita della pianta con quella della mucca, il cavallo, la pecora il maiale ecc. che, probabilmente, a differenza dei vegetali hanno i nostri  stessi meccanismi fisici, chimici e biologici, i nostri stessi ricettori del dolore.

E’ la legge della natura in cui il più forte domina sul più debole.

E’ la legge che noi siamo portati ad attuare quando le vittime sono gli altri. Se fossimo noi le vittime sicuramente considereremmo ingiusta questa legge. Se fossimo invasi da extraterrestri e ci  trattassero nel modo in cui noi trattiamo gli animali; se allevassero noi e i nostri figli per divorarci; se costringessero le nostre donne a partorire, perché avidi del loro latte e per mangiare la tenere carni  dei nostri bambini; se ci torturassero, per sperimentare su di noi le loro armi e le loro medicine; se ci costringessero a ucciderci a vicenda nelle arene per loro divertimento, allora non saremmo tanto  propensi a giustificare la legge del più forte. Allora non bisognerebbe uccidere neppure le zanzare. Il diritto alla vita di un animale non dipende dalla sua dimensione fisica, altrimenti un elefante avrebbe  più diritto di un uomo ad essere rispettato: è la vita che dà valore ad ogni essere vivente. Nell’universo c’è posto per tutti. E’ meglio evitare di essere molestati che dover uccidere un qualunque animale.  a anche se è impossibile vivere senza nuocere ai più minuti esseri viventi, l’importante è cercare di fare male possibile. Esiste una scala di valori che la nostra coscienza ci impone di rispettare;  la capacità di condivisione dipende dal livello spirituale di ognuno. C’è chi percepisce solo la propria condizione, chi anche quella dei suoi famigliari, parenti e amici e chi oltre a questi condivide anche la  condizione dell’universo non umano.

La nostra filosofia di vita, la nostra etica vegan, ci porta gradualmente ad escludere anche la pianta nella nostra nutrizione e nutrirci dei frutti della stessa, e questo non è affatto difficile farlo: oltre  tutti i frutti succosi e commestibili degli alberi, noi vegan cerchiamo di consumare pomodori, melanzane, zucchine, peperoni, carciofi ecc., tutti i semi, tutti i cereali e tutte le leguminose. Ma c’è chi ci  accusa che anche mangiare i frutti si causa violenza alla pianta, che è come volere paragonare il taglio di capelli all’uccisione di un uomo, o le bombe alle parolacce.

Chi vuole migliorare il mondo deve iniziare da se stesso “Ogni filo d’erba ha il suo angelo chino su di lui che sussurra:”Cresci, cresci” (Talmud)

“Nessuno ha fatto un errore più grande di chi non ha fatto nulla  perché non poteva fare tutto”. John Stuart Mill (filosofo ed economista britannico)

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Dal momento che il mondo cristiano trae le sue motivazioni per mangiare l’agnello, per coerenza dovrebbe osservare le stesse prescrizioni.  (Esodo 12, 3-14)  Il Signore disse a Mosè e ad Aronne: Parlate a tutta la comunità di Israele  e dite “Il dieci di questo mese ognuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per consumare un agnello, si assocerà al suo vicino, al più prossimo della casa, secondo il numero delle  persone calcolerete come dovrà essere l’agnello, secondo quanto ciascuno può mangiare. Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno e lo serberete fino al 14 di questo mese: allora tutta  ’assemblea della comunità di Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po’ del suo sangue lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case in cui lo dovranno mangiare. In quella notte ne  mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Non lo mangerete crudo, né bollito nell’acqua, ma solo arrostito al fuoco con la testa, le gambe e le viscere. Non ne  dovete far avanzare fino al mattino: quello che al mattino sarà avanzato lo brucerete nel fuoco. Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in   retta. E la pasqua del Signore. In quella notte io passerò per l paese d’Egitto e colpirò ogni primogenito, uomo o bestia. Il sangue sulle vostre case sarà il segno che voi siete dentro: io vedrò il  sangue e passerò oltre, non vi sarà per voi flagello di sterminio quando io colpirò il paese d’Egitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore; di generazione in  generazione lo celebrerete come un rito perenne.”  

Fabio Risolo si è laureato in Lettere e Filosofia all’Università Federico II di Napoli, ha insegnato a livello universitario ed è attualmente Dirigente scolastico. Autore di saggi di critica letteraria e poeta, dopo aver incontrato nel 1999 il Maestro e filosofo tibetano buddhista Chögyal Namkhai Norbu, su autorizzazione del Maestro, insegna l’esperienza della meditazione per la comunità di Merigar.

D – Agli inizi del suo approccio con il mondo della meditazione e della filosofia tibetana, cosa l’ha convinto che fosse la giusta via, e catturato al punto da volerne diventare insegnante?

R - Ciò che mi ha maggiormente colpito è che nell’Insegnamento Buddhista l’aspetto più importante è che il cammino spirituale non è separato dalla vita quotidiana. La cosa più importante è scoprire la propria natura essenziale e poi, grazie alla meditazione,mantenerne la presenza nella vita di tutti i giorni. Chi segue questo insegnamento cambia molto concretamente. E questo perché il Buddhismo non dà niente per scontato (esistenza di Dio, dell’anima, etc.), ciò che conta è farne esperienza concretamente dentro di noi. Ciò è più importante della fede astratta. Questi sono gli aspetti che mi hanno subito colpito molto.

Per quanto riguarda il desiderio di divenire Insegnante, questo è stato dovuto all’intenzione di aiutare, in base alle mie capacità, la Comunità Dzogchen di ChogyalNamkhaiNorbu di Merigar in Toscana, di cui sono discepolo da circa 20 anni. Ho pensato che se grazie a questo Insegnamento sono molto cambiato e ho una visione più ampia e completa della vita, potevo aiutare gli altri a fare altrettanto.

D – La vita e i ritmi di un uomo occidentale sono diversi e a volte opposti a quelli orientali, naturalmente non facciamo riferimento alle megalopoli e alla globalizzazione. Ci sono maggiori difficoltà ad accettare un approccio come quello proposto da questa filosofia, da parte degli occidentali?

R-L’insegnamento del Buddhismo comprende diverse vie. In generale possiamo dire che vi è la via del monaco e quella del laico. Ovviamente è un po’ difficile condurre una vita ascetica nel contesto delle grandi città in cui viviamo.Ma nell’insegnamento tantrico e in particolare nello Dzogchen non si chiede alla persona di rinunciare alla propria vita. Non è necessario divenire monaco e nemmeno vivere in un luogo appartato. Secondo lo Dzogchen possiamo scoprire la nostra natura essenziale in qualsiasi circostanza di vita esteriore; i punti di forza sono la presenza e la consapevolezza. Questo Insegnamento sembra proprio fatto apposta per gli occidentali…

D – Quali sono le fasce di età che nel corso della sua esperienza di docente, ha trovato più ricettive?

R - I giovani occidentali sono molto interessati e apprezzano dell’insegnamento buddhista la visione concreta e pragmatica, che può permettere di cambiare la propria vita nella direzione della presenza e della attitudine alla compassione.

D - E i Paesi in cui ha riscontrato più interesse?

R - In tutti i paesi europei ho riscontrato un notevole interesse.

D – Quali sono le tecniche meditative di base, e come si svolge in pratica una seduta di meditazione collettiva?

Le tecniche meditative di base che utilizziamo sono in realtà molteplici, ma il punto che le accomuna tutte è porre l’attenzione sulla propria mente, in modo da acquisire un’ attitudine di presenza e non distrazione. La cosa più importante è imparare ad osservare la mente, scoprendo le sensazioni, i pensieri, le emozioni che produciamo in ogni momento. Solo se acquisiamo questa capacità possiamo iniziare a “lavorare su noi stessi” nella direzione del rilassamento o del superamento di specifici problemi che possono di volta in volta manifestarsi.

D – C’è spazio per la musica durante le sedute, o si privilegia il silenzio?

R - Generalmente non facciamo uso di musiche. La meditazione può essere praticata in silenzio o pronunciando dei mantra.

D – In che modo queste tecniche possono veramente migliorare l’uomo, sia per quello che riguarda il benessere personale che l’approccio con “l’altro da sé” e con la natura?

R - Nella visione buddhista l’evoluzione spirituale dell’individuo porta naturalmente nella direzione della compassione e dell’amore verso “l’altro da sé e la natura”. Se si fa un’ autentica esperienza della propria natura essenziale diminuiscono le nevrosi e i conflitti col mondo esterno, e attraverso il rilassamento si scopre l’armonia.

D – Un consiglio e un augurio per i lettori?

R - Auguro ai lettori di avere il desiderio profondo di guardare dentro se stessi, scoprendo il seme della propria natura essenziale e di trovare la forza e il coraggio di intraprendere un cammino nella direzione della presenza e della consapevolezza, fondamentali per migliorare la nostra vita materiale e spirituale.

“Non possiamo avere due cuori, uno per gli animali e un altro per l’uomo; tra la crudeltà verso l’uno o l’altro non c’è nessuna differenza, tranneper la vittima”

(Lamartine, poeta e uomo politico francese,1790-1869)

Quando l’amore è vero non è mai selettivo, esclusivo, mai limitato, mai unidirezionale: si manifesta senza limiti e senza distinzione di specie, di razza, di genere. Solo ciò che è universale è autentico. E’  in errore chi dice di amare gli umani, di nutrire premure, rispetto, attenzioni ma non è capace di estendere tale sentimento agli animali, soprattutto se a causa delle sue scelte alimentari o per altri  deprecabili scopi li condanna a sofferenze e a morte. Anche la vera compassione non è mai di parte, mai circoscritta: si manifesta sfericamente, ed è questo ciò che caratterizza l’etica universale della  cultura vegan. Allo stesso modo il senso di giustizia: se è autentico non si manifesta solo in alcuni casi.

Se un uomo rifiuta di causare violenza agli animali non può causarla ai suoi simili. Se condivide la sofferenza di un animale sarà sensibile alla sofferenza delle persone. E se da valore alla vita dell’animale  darà sicuramente valore alla vita degli uomini.

Tutte le grandi tragedie umane nascono dalla tendenza a separare se stessi  dagli altri, dal vedere il “diverso” un possibile nemico, dall’essere indifferenti verso gli effetti prodotti dalle nostre azioni. Ma  un uomo buono, giusto e compassionevole non è mai capace di azioni delittuose. Avere un animo buono è come possedere una buona vita che consente di percepire con uguale nitidezza tutte le cose;  ma il miope, presbite o ipermetrope percepisce con chiarezza solo una parte della realtà vivente.

Quando vi sarà la volontà politica, sociale, morale e religiosa di favorire lo sviluppo nell’animo umano i valori fondamentali della vita allora e solo allora vi sarà un mondo migliore.

tempio della grande contemplazione 1 
 Merigar, il tempio della Grande Contemplazione

Luigi Vitiello è medico e psicoterapeuta. Allievo di Choegyal Namkhai Norbu dal 1977, si è formato sotto la sua guida come insegnante di Yantra Yoga e meditazione. Tiene corsi e seminari sulla medicina tibetana in varie parti d’Italia ed è autore di vari articoli su questi temi.

D – Cosa l’ha attratta della filosofia tibetana e di conseguenza dello Yantra Yoga?

R. - Credo che il Tibet e la sua religione, o filosofia secondo i punti di vista, abbiano sempre avuto un fascino particolare su chi ne è venuto in contatto.

Leggendo fin da ragazzo le storie di chi aveva viaggiato in quelle terre, coglievo sempre una particolare attrazione e un profondo rispetto per quella cultura così lontana dalla nostra, eppure capace di suscitare ammirazione per la profondità delle sue conoscenze.

Così quando ebbi l’opportunità di incontrare Choegyal Namkhai Norbu, un Lama tibetano che allora era professore associato all’Istituto Universitario Orientale di Napoli, la città dove vivo, e insegnava questo particolare yoga, decisi di seguirlo.

D – Quali sono le differenze con altre tipologie di Yoga praticate oggi anche in Occidente?

R. – Lo Yantra è uno yoga particolarmente dinamico: lavora principalmente sincronizzando movimento e respirazione. In questo modo, armonizzando l’aspetto somatico e quello energetico, ottiene rapidamente effetti anche sul livello mentale e questo si può percepire fin dalle prime lezioni.

D – In qualità di insegnante ha verificato eventuali resistenze/difficoltà negli allievi occidentali a praticare correttamente e accettare la disciplina che comporta un corretto apprendimento?

R. – Non direi. Credo anzi che proprio le sue caratteristiche lo rendano particolarmente adatto a noi occidentali, abituati a una vita piuttosto dinamica.

Certo ci sono vari livelli e occorre progredire senza fretta, ma il Maestro ha organizzato i corsi di formazione in modo molto rigoroso perché gli insegnanti possano essere in grado di seguire adeguatamente gli allievi interessati.

D – Quanto conta l’ambiente in cui si riceve l’insegnamento, sia per il docente che per l’allievo?

R. – Certamente il luogo dove si pratica ha una sua importanza. Così come una seduta di psicoterapia non si può tenere in modo efficace stando seduti al tavolino di un bar affollato, così entrare in una pratica yogica riesce meglio in un contesto dove ci sia silenzio, aria pulita, ecc.

D – Con quali modalità è stata scelta la località di Merigar per realizzare il centro Dzogchen in Toscana, il più grande d’Italia?teaching at Merigar Gonpa 4

R. – Quando il Maestro cominciò a dare i primi insegnamenti, eravamo in pochi a seguirlo e Lui ci chiese di non dare nessuna pubblicità a questi incontri: funzionava solo il passa parola.

In poco tempo comunque si raccolsero troppe persone per poterci riunire in una struttura pubblica, così il Maestro pensò che fosse opportuno trovare un nostro spazio e che sarebbe stato meglio se fosse nell’Italia centrale, per essere raggiunto facilmente sia da sud che dal nord.

Così in molti ci mettemmo a cercare un terreno adatto per creare il nostro centro e quando venne indicato il podere su cui poi è sorta Merigar, il Maestro, dopo averlo visto, lo riconobbe come il posto giusto. Scoprimmo poi che la zona del Monte Amiata in alcune guide era chiamata “il piccolo Tibet”...

D – Può lo Yantra Yoga essere insegnato anche ai bambini, e che ne pensa della proposta di Gentiloni di inserire l’insegnamento yoga, come per la ginnastica, a partire dalle scuole dell’obbligo?

R. – Non sapevo di questa proposta, e mi sembra ottima. Ma lo Yoga non è, nè penso che debba diventare, solo una forma di ginnastica. Credo si possa definire come il più antico “manuale d’uso” per noi esseri umani. Infatti, partendo dal corpo, ci rende consapevoli del respiro, dei movimenti e dei pensieri; ci educa a una padronanza rilassata e non competitiva di noi stessi e più presto si comincia a praticarlo, migliori e più profondi sono i suoi effetti.

Lo Yantra Yoga poi ha una forma specifica dedicata ai bambini, chiamata Kunar Kumari, studiata da Choegyal Namkhai Norbu proprio per loro, in modo da coinvolgerli divertendoli, come un gioco. A Napoli abbiamo già esperienze molto interessanti di questo Yoga praticato in una scuola per l’infanzia.

D – Quali attività si organizzano nel corso dell’anno a Merigar?

R. - Oltre ai seminari intensivi che si svolgono periodicamente sia per principianti che per allievi esperti, credo sia importante ricordare la settimana di “Vacanze Yoga per adulti e bambini” che da anni Merigar organizza in estate.

E’ un’occasione rivolta a chi vuole avvicinarsi a queste discipline per trascorrere una vacanza sana e non stressante, anche in compagnia dei bambini, a cui vengono dedicati spazi di animazione mirati secondo l’età.

In quei giorni, oltre la pratica dello Yantra Yoga e della meditazione, viene particolarmente curata anche l’alimentazione. E’ una formula che si è perfezionata negli anni e sta ottenendo un crescente interesse.

              gfkk Quando Aldo Capitini parla della religione come “servizio dell’impossibile, rifiuto di accettare i modi di realizzarsi della vita e del mondo come se fossero assoluti e gli unici possibili” 1), ci troviamo indubbiamente di fronte ad una delle più belle definizioni che, del concetto di religione, siano mai state formulate.

La religione di cui parla il “Gandhi italiano”, padre della Marcia Perugia-Assisi, è “educazione e promovimento dell’apertura di unità amore”, è “educazione e promovimento di apertura alla realtà liberata”. E’ qualcosa che nulla ha a che vedere con quello che lui chiama il “sacro di esclusione”, caratterizzato dall’esigenza del chiudere e del chiudersi, dalla brama del gerarchizzare e contrapporre. Qualcosa che nulla ha a che vedere con quelle che gli illuministi chiamavano “religioni positive”, realtà istituzionalizzate avide di potere, dogmatizzanti e intrinsecamente intolleranti e violente, quelle, cioè, che presumono “di venire dall’alto con autorità e con assolutismo”, che pretendono di pontificare su “ciò che è bene e ciò che è male (anche il votare per certe liste politiche!)” che rifiutano la ricerca e lo sviluppo nella fondazione dei valori, imponendo il proprio credo, che vogliono “la parrocchia totalitaria, con tutti uniti nello stesso credo, negli stessi sacramenti, nella stessa sudditanza al

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Papa Francesco
sacerdote, il quale mette paura con la visione dell’inferno, e getta fuori del chiuso castello, protetto dagli arcangeli, i peccatori nelle mani dei diavoli.” 2)

La religione sognata (e, per quanto fu possibile, promossa) da Capitini è un’esperienza che può scaturire soltanto dalla libera ricerca, sempre rispettosa delle opinioni individuali, dalla “voce della ragione nella coscienza”, che rigetta radicalmente ogni apparato ecclesiastico, che vuole creare liberamente amore nell’animo di tutti verso tutti, rifiutando ciò che allontana, divide e contrappone, alimentando un intimo sentimento di unione con tutto ciò che vive, anche con gli animali, anche con gli stessi morti, sentiti vicini “nel bene che facciamo” 3), parte inscindibile di una “compresenza crescente” 4), che ci rende impossibile accettare che “la morte chiuda l’essere” e risucchi veramente tutto nel nulla.

Una religione che aspira alla “liberazione di tutti” dal “peccato”, dal “dolore”, dalla “morte”, combattendo tutte le chiusure che si nutrono di odio e indifferenza e che ragionano nell’ottica dell’ ”io mi salverò e tu no”. 5)

Una religione aperta che non dovrebbe mai essere semplice “adattarsi, più o meno volentieri, al fatto che vi siano altri che pensino e agiscano differentemente”, una vera e propria “gioia per la presenza degli altri” sorretta dal sentimento sincero della compartecipazione di tutti ad “un’unità e un destino comune”. 6)

     Per Capitini tutto ciò che rifiuta rapporti e che tende ad accartocciarsi su di sé è destinato ad autoannullarsi. La vita ci richiede continue e necessarie aperture: a vari livelli, in innumerevoli diverse modalità, tutto è chiamato ad aprirsi, a correlarsi, ad interagire in maniera scambievolmente costruttiva. “Apertura - dice il filosofo perugino - è vita, è maggiore vita, è migliore vita” 7). E la vita non dovrebbe essere percepita negli angusti confini di quello che Schopenhauer chiama “principium individuationis”, ma come una tensione bergsonianamente intesa verso un “oltre” che trascenda perennemente i limiti della realtà attuale.

     La cosa più bella della concezione capitiniana di religione aperta è la sua commossa e commovente convinzione che un mondo come quello in cui siamo gettati, sia per quanto riguarda le cosiddette leggi della natura (selezione del più forte, “pesce grosso mangia pesce piccolo”, ecc.), sia per quanto riguarda il vivere dell’uomo insieme agli altri (con tutte le incalcolabili violenze ed ingiustizie), non meriti di continuare ad esistere, non potendo degnamente ambire alla eternizzazione di sé. L’animo autenticamente religioso non può non vedere la realtà presente come qualcosa di provvisorio, come qualcosa, cioè, di destinato ad essere trasformato, ad essere trasceso. Religione aperta è, quindi, prima di ogni altra cosa, desiderio, volontà, capacità di rifiutare quanto attacca l’unità del Tutto e cerca di sottrarsi alla unificante potenza cosmica dell’Amore. E’ ribellione al male e a tutto ciò che semina dolore. E’ schierarsi sempre dalla parte degli sconfitti, dei sofferenti, degli esclusi, in vista di altri mondi possibili. E’ cercare di costruire “una società senza classi, fondandone religiosamente sia le motivazioni sia il metodo di avvicinamento, nonviolento, amorevole anche verso i ricchi, anche verso gli oppressori, ma non in quanto ricchi e oppressori, bensì in quanto esseri umani, peccatori, da amare non accettando però il loro peccato, e con la fermissima apertura che essi stessi, prima o poi, si avvedranno del loro peccato, aiutati in ciò da una lotta che usa un metodo puro, amorevole, di sacrificio, facente appello alla comune e intima realtà di tutti, e alla speranza di una realtà liberata di cui siamo partecipi tutti, quale che sia stato il passato di ciascuno.” 8)

   Quando Capitini elaborava e generosamente divulgava le sue tesi, la Chiesa di allora (anni ’50 dello scorso secolo) lo trattava - assai comprensibilmente - come un pericoloso nemico, meritevole delle più severe rampogne e deprecazioni. Il suo Religione aperta (1955), senza alcun dubbio una delle opere più interessanti dell’ intero panorama filosofico novecentesco, venne messo prontamente all’Indice da Pio XII, e il decreto - come lo stesso filosofo tenne a ricordare con amara ironia - uscì “proprio nel giorno anniversario 1956 della Conciliazione tra il Vaticano e il Governo fascista” 9).

     Ma i tempi, si sa, cambiano. A volte, fortunatamente e alquanto inaspettatamente, anche in meglio. E il papa venuto da molto lontano, che, non certo per caso, ha scelto di chiamarsi Francesco, ora ci parla di una Chiesa “chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre”, di una Chiesa che “non è una dogana” bensì “la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa” 10), e dichiara di considerare anche coloro che non si riconoscono in alcuna tradizione religiosa, ma che sinceramente ricercano verità, bontà e bellezza, “come preziosi alleati nell’impegno per la difesa della dignità umana, nella costruzione di una convivenza pacifica tra i popoli e nella custodia del creato”. 11)

     Piace pensare che un papa così, che, oltre a ravvivare e sviluppare la svolta epocale di Giovanni XXIII 12), sembra voler far risorgere il sogno tragicamente naufragato di Celestino V, che non perde occasione per insegnare che la misericordia è, nella Sacra Scrittura, la parola-chiave per indicare l’agire di Dio verso di noi” 13), che l”’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia” 14), che tale virtù è “il più stupendo attributo del Creatore e del Redentore” 15) e che la misericordia del Padre “non ha confini” 16) e “dura in eterno” 17), se avesse la ventura di imbattersi negli scritti capitiniani (nel caso non gli fossero già di occulta ispirazione), potrebbe anche, senza troppe esitazioni (e scandalizzando non pochi alti prelati), citarli nei suoi appassionati discorsi e nelle sue splendide encicliche.

     E piace anche molto immaginare che il mite e pugnace filosofo della nonviolenza, di fronte a tante affermazioni di papa Francesco, in merito alla “pienezza del perdono di Dio” (a cui nessuno potrà mai porre un limite) e alla sua misericordia che “sarà sempre più grande di ogni peccato” 18), si sarebbe trovato festosamente in sintonia, e che, magari, gli sarebbe corso incontro, offrendogli in dono un irenico affratellante abbraccio …

NOTE                                                                                               

  1. Aldo Capitini, Religione aperta, Editori Laterza, Bari 2011, p, 11.
  2. Ibidem, p. 19.
  3. Ib. p. 21.
  4. Ib. p. 10.
  5. Ib. p. 16.
  6. Ivi.
  7. Ib. p. 8
  8. Ib. pp. 44-5
  9. Aldo Capitini, Discuto la religione di Pio XII, edizioni dell’asino, Roma 2013, pp. 19-20.
  10. Evangelii gaudium, 47.
  11. Ivi.
  12. In apertura di Concilio, papa Giovanni XXIII volle contrapporre nuova a vecchia strategia della Chiesa: “la medicina della misericordia” alle “armi del rigore”.
  13. 13)Misericordiae vultus,
  14. 14)Ibidem, 10.
  15. 15)Ib, 11.
  16. 16)Ib, 26.
  17. 17)Ib, 32.
  18. 18)Ib, 3.

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