L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Spirituality (79)


 
Franco Libero Manco
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19.02.2024: "C'è una architettura e c'è un artigianato del dialogo interconfessionale" ovvero i grandi temi alla base della relazione tra le religioni e la loro connessione con il vivere 

quotidiano.  

E' partendo da questo interessante spunto, nato dalla vivacità culturale del conduttore Paolo Bonini, che Sabato 17 febbraio, presso l'Auditorium della Chiesa di Scientology di Roma, si è svolto l'incontro intitolato LA DIMENSIONE DI UNIVERSALITA': UN CROCEVIA PER LA COMPRENSIONE, LA SOLIDARIETA' E LA MULTUCULTURALITA'.  

Un evento in linea con gli intenti della risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2010 che ha proclamato la Settimana Mondiale dell'Armonia Interreligiosa. 

Sul palco, sollecitati dalle domande e dalle riflessioni di Bonini, hanno interagito in dialogo: Maria Rosaria Fazio, docente di ebraico biblico; Assem Migahed, ricercatore intellettuale di spiritualità e scienza islamica; Giuseppe Cicogna, vicepresidente di Fedensieme ApS e portavoce della Chiesa di Scientology; Fabio Grementieri, creatore del parco tematico educativo di Santiago Estero (Argentina); Gustavo Guillerme', presidente del Congresso Mondiale del Dialogo Interculturale e Interreligioso e Massimo AbdAllah Cozzolino, della Confederazione Islamica Italiana. 

 

Eterogenea anche la platea composta da religiosi e non, tra cui rappresentati buddhisti Theravada, cattolici, scientologist, buddhisti Soka Gakkai, Chiesa Anglicana d'Europa, UAAR (Unione Atei Agnostici Razionalisti), Comunità Afghana e mediatori culturali. 

Gli intermezzi musicali a tema a cura di Maurizio De Simone (chitarra), Francesco Passarelli (voce) e Samuele Bonini (voce) hanno scandito il ritmo e la melodia di un crocevia culturale in cui i vertici del pensiero religioso e laico trovano armonia e costruiscono pace tangibile in loco, nonostante il contesto attuale in cui persino parlare di pace potrebbe apparire paradossale.  

Se dai vari interventi e testimonianze si potesse trarne un sunto comune forse suonerebbe così: "Le guerre hanno propaganda, mezzi e interessi materiali apparentemente infiniti e difficilmente sormontabili. Ma la pace può e deve essere coltivata e fatta crescere dentro ognuno di noi; ed è proprio grazie a momenti come quello di oggi [Sabato scorso NdR] - che avvengono continuamente in diverse forme e in diversi luoghi del mondo - che possiamo e dobbiamo proseguire a costruire un presente e un futuro migliori".

 

  

Nel mondo pre-moderno, come già nei popoli di interesse etnologico e soprattutto nelle culture orientali, le espressioni di natura artistica sono indissolubilmente legate al sentimento del Sacro, alla volontà, cioè, di instaurare o rafforzare un contatto fra la dimensione del divenire e la dimensione dell’Essere. Il trionfo travolgente della rivoluzione scientifica, della civiltà industrializzata e della visione del mondo di credo positivistico ha finito, però, in particolar modo all’interno della cultura occidentale, per operare una radicale desacralizzazione, promuovendo un approccio etico-esistenziale di impronta ateistico-materialistica (sia sul piano teoretico che su quello pratico) e mettendo, di conseguenza, brutalmente in soffitta il concetto stesso di “anima”. A tutto questo, riprendendo istanze di derivazione romantica,  si è opposta la cultura del cosiddetto Decadentismo, volta a riscoprire la dimensione celata del vivere e a dare voce alle voci sotterranee dell’io.

A tale processo culturale antipositivistico e antimaterialistico, nel corso dell’ultima parte del XIX secolo e dei primi anni del XX, offriranno un grande supporto due movimenti culturali (perlopiù ignorati dai manuali scolastici) dalle notevoli potenzialità rivoluzionarie: lo spiritismo prima e il movimento teosofico poi. Lo spiritismo, con la sua sconcertante casistica fenomenica, sarà salutato da milioni di persone come la dimostrazione oggettiva dell’esistenza dell’anima e della sua sopravvivenza, arrivando ad esercitare un’attrazione profonda sulle menti di letterati come Capuana e Conan Doyle, nonché di illustri scienziati come il chimico Crookes e l’astronomo Flammarion.

Ma sarà soprattutto l’entrata in scena di una donna straordinaria come Helena Petrovna Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica (1875) e autrice di opere monumentali dal fascino sconfinato come Iside Svelata (1877) e La Dottrina Segreta (1888), a fornire un ricchissimo potenziale di stimoli e di conoscenze a tutti coloro che desideravano opporsi al dominio sempre più inaridente dell’ideologia materialistica. Fondamentale è il fatto che la Teosofia o Religione-Saggezza diffusa dalla Blavatsky non venne da lei mai definita come qualcosa di “nuovo”, bensì come la presentazione sistematizzata di un insieme di conoscenze presenti da sempre all’interno delle varie tradizioni religiose, degli antichi sistemi filosofici e delle più genuine esperienze mistiche di ogni epoca.

Da questo serbatoio sterminato di pensiero, gli intelletti più aperti e assetati di verità autenticamente universali, non ingabbiate in involucri confessionali, si imbatterono nella serie seguente di concetti, dalle indubbie valenze esplosive soprattutto se riferiti al campo della produzione artistica:

  • Non esiste una sola realtà; quella che noi riteniamo la vera realtà è solo una delle tante possibili.
  • Il mondo che i nostri limitati strumenti percettivi ci presentano è sostanzialmente apparenza (Maya).
  • Esistono altri piani ontologici ed altre forme di vita ad essi corrispondenti.
  • Anche all’interno dell’essere umano esistono più dimensioni.
  • Nell’essere umano sono presenti immense potenzialità ignote, ancora inespresse o espresse in maniera solo parziale (testimoniate dalle vite dei grandi mistici).
  • In quanto esseri in perenne evoluzione, siamo chiamati ad imparare a favorire la coltivazione di forme conoscitive sempre più raffinate ed intuitive.
  • Il corpo fisico è soltanto la massima concretizzazione del nostro essere spirituale. Si tratta, pertanto, soltanto di un veicolo provvisorio, destinato ad essere abbandonato in vista di nuove esperienze ultraterrene e di nuove future incarnazioni.
  • Tutti noi siamo, pertanto, esseri in costruzione, anime alla ricerca delle proprie origini divine, anime bisognose di relazionarsi sempre più all’infinitezza del Cosmo e della Vita in tutte le sue molteplici manifestazioni.
  • E’ quindi dentro di noi, non all’interno delle istituzioni religiose (con i loro pontificanti ministri, i loro fossilizzanti dogmi e liturgici paludamenti), che occorrerà ricercare la Verità, il Divino, l’Assoluto.

Da questa vera e propria miniera filosofica, artisti come Gustave Moreau e Odilon Redon, in Francia, e Umberto Boccioni, Luigi Russolo e Giacomo Balla, in Italia, trassero innumerevoli sollecitazioni per dare vita ad un innovativo modo di fare arte, in cui (sia che si tratti di simbolismo o di futurismo) a dominare sarà la volontà di andare oltre la barriera ingannevole del piano sensoriale. E su questa strada, attingendo direttamente ai tesori della letteratura teosofica, altri artisti di genio quali Hilma af Klint, Wassily Kandinsky, Kazimir Malevic e Piet Mondrian (solo per citare i nomi di maggior peso) partoriranno modalità espressive sempre più sganciate dalla mera osservabilità empirica, per approdare a forme sempre più radicali di astrattismo, favorendo la nascita di innumerevoli percorsi di coraggiosa ricerca creativa, tutti accomunati dalla voglia di dilatare la percezione del reale, di costruire ponti fra micro e macrocosmo, di permettere alle insondabili energie sepolte nel nostro cuore di irrompere epifanicamente nel mondo del divenire e dell’impermanenza.

Ed è su questa stessa lunghezza d’onda che è stata pensata e allestita, presso il laboratorio artistico COSARTE di Garbatella (Roma), la Mostra intitolata Mystical and Interior, presentata dall’organizzatrice Simona Gloriani come un “viaggio introspettivo verso la propria interiorità”, e come “sentimento di contemplazione in una dimensione che può farci vedere la ‘trascendenza’ o riportare al proprio io e alla propria anima”, con il non facile obiettivo di provare a  “mettere in evidenza l’importanza dell’introspezione” e di tentare di  “esplorare le dinamiche della natura che raggiungono le profondità della nostra mente”.

La Mostra, che raccoglie lavori pittorici e fotografici frutto di sensibilità molto differenti, in cui prevalgono nettamente orientamenti di carattere surrealistico e simbolistico,  ha ricevuto da parte dei primi visitatori un’ accoglienza  gioiosa e sinceramente interessata, segno evidente che le opere esposte, efficacemente commentate dai loro autori, sono riuscite, almeno in parte, nell’ ambizioso intento di  comunicare piccoli e grandi messaggi, piccole e grandi emozioni.

 

MYSTICAL & INTERIOR

MOSTRA COLLETTIVA DI ARTE CONTEMPORANEA

DOVE:

c/o COSARTE, via Nicolò da Pistoia, 18

Roma

QUANDO:

dal 13/10/2023 al 19/10/2023

Martedì e giovedì dalle 16.30 alle 19.00; lunedì, mercoledì, venerdì dalle 11.00 alle 13.00 e dalle 16.30 alle 18.30.

ARTISTI:

Gianluca Bellissimo, Maurizio Campitelli, Flavia Distefano, Roberto Fantini, Simona Gloriani, Mahroo Hemati, Alessio Masi, Roberto Pinetta, Stefania Spera, Gabriella Tiricanti.

 

 

  

 

 

Nella generosità e nell’aiuto degli altri sii come un fiume.

Nella compassione e nella grazia sii come il sole.”

                                                         Gialal al-Din Rumi

 

 

A due passi dalle rive di uno dei laghi più limpidi d’Italia, nel verde del Parco comunale di Trevignano Romano, si è svolto, anche quest’anno, il Festival di NaturArte, nei giorni 9 e 10 del mese corrente.

Tante le attività (parecchie di carattere laboratoriale) che hanno ravvivato le due giornate, con particolare attenzione rivolta al variegato arcipelago della ricerca e della cura del benessere psico-fisico: yoga (secondo varie modalità), Shiatsu, meditazione, Qi Gong, Tai Chi, numerose pratiche sportive, ecc.

E tanto, come era prevedibile, lo spazio destinato ad attività attinenti allo sconfinato mondo della Natura: nutrizione, olii essenziali, percorsi sensoriali, riconoscimento di piante commestibili e curative, incontro con il Centro Volo Rapaci locale, inclusi alcuni ospiti pennuti, ecc.

La manifestazione, ideata e gestita dall’Associazione giovanile Sintònia (in collaborazione con il Comune di Trevignano e con il finanziamento di Città metropolitana di Roma capitale), è scaturita dal desiderio di promuovere, attraverso una generosa gamma di possibili esperienze, una  maggiore comprensione dell’autentico significato del concetto di “sostenibilità”, e di favorire, di conseguenza, un più consapevole rapporto di sé con il pianeta, nella prospettiva di una interdipendenza pensata e vissuta a più livelli, sia sul piano soggettivo che oggettivo, sia sul piano fisico, che emozionale, mentale e spirituale.

All’interno del ricco e stimolante tourbillon di proposte esperienziali, un posto di indiscutibile primato è stato conquistato dallo spettacolo cerimoniale Frammenti di Mevlana-La danza dei Pianeti, in cui le parole ispirate del poeta persiano Gialal al-Din Rumi (1207-1273), meglio noto come Mevlana o semplicemente  Rumi, si sono alternate ad una suggestiva esibizione di Dervisci rotanti, molto più simile ad un mistico rituale che a semplice spettacolo coreografico.

Minuto dopo minuto, con un incedere lento e meditato,  i versi densamente lirici (e ben recitati) dell’immenso poeta-filosofo sufi, il roteare ritmato delle figure biancovestite, le armonie costruite dall’ottimo gruppo orchestrale, a tratti delicate a tratti potentemente travolgenti, hanno generato una intensissima dimensione di coinvolgimento emotivo, risucchiando lo spettatore all’interno di un sacralizzante percorso interiore, riuscendo, forse, a farlo uscire (almeno per qualche attimo) dal “circolo del tempo” e a farlo entrare nel “circolo dell’amore”, e a fargli comprendere che “l’unica bellezza duratura è la bellezza del cuore”.

Insomma, una straordinaria, indimenticabile sinergia emozionalmente avvolgentissima di parole, pensieri, accordi musicali e roteazioni corporali mistico-cosmiche, per farci dono dell’insegnamento del poeta-maestro Gialal al-Din Rumi:                              

 

  “C’è una fontana dentro di te. Non andare in giro con un secchio vuoto.”

 

 

 

 



 

 

 

E’ stata, lo confesso, una scoperta veramente al di là di qualsiasi aspettativa l’essermi imbattuto nel capitolo XI del Gesuita Moderno di Vincenzo Gioberti (1801-1852), intitolato Della religione e civiltà dei Buddisti *, capitolo in cui l’abate torinese aspira, prima di ogni altra cosa, a dimostrare l’infondatezza della tesi  secondo cui il Buddhismo sarebbe una religione “atea”. La mia grande quanto gradita sorpresa non è stata  soltanto per il carattere insolito della tematica, bensì soprattutto per il modo acuto e anticonformista con cui essa viene trattata, a dimostrazione dell’ampiezza degli interessi culturali del Gioberti e della sua spiccata autonomia di giudizio, che, per alcuni aspetti, potremmo definire pionieristica.

 

Egli, infatti, sul piano metodologico, si rifiuta subito di lasciare la questione in mano esclusivamente ai filologi, sostenendo che, su problemi di “dogmatica religiosa e di filosofemi”, lo “speculativo” costituisce un “miglior giudice del filologista”, e che non sia tanto il caso di cimentarsi in disquisizioni e tecnicismi per raffinati  “addetti ai lavori”, ma che si tratti, invece, di penetrare, con buon occhio filosofico, nel cuore profondo dell’essenza degli

                     Gioberti

insegnamenti dottrinali.

A tal fine, come prima cosa, all’interno del Buddhismo, viene proposta la distinzione fra la cosiddetta “parte essoterica” e quella “acroamatica”, ovvero fra  religione popolare e religione filosofica.

In merito alla prima, ritiene, senza alcuna incertezza, che si debba necessariamente parlare di “un teismo misto più o meno di politeismo”, mentre, in merito alla seconda, ritiene che si debbano adeguatamente distinguere le scuole considerate “ortodosse dalle eterodosse”, prendendo in considerazione esclusivamente le prime, perché, altrimenti, si potrebbe arrivare all’assurda conclusione di poter considerare atea qualsiasi “religione al mondo, professata da un popolo culto”. Se, infatti, ci si volesse basare sulle tesi sostenute dalle correnti eretico-scismatiche, si potrebbero ravvisare presenze “atee” anche all’interno del Brahmanesimo quanto dello stesso Cristianesimo.

Gioberti, quindi, ritiene che anche in seno al Buddhismo, gli “atei son tenuti per eretici dagli altri, non meno che da noi i nostri”, e che, di conseguenza, le posizioni di carattere radicalmente e coerentemente atee riguarderebbero esclusivamente circoscritte minoranze ereticali.

Al fine di avvalorare la sua tesi, si concentra, a questo punto, sul concetto di Nirvana, riferendosi ad esso come concetto basilare  sia per le scuole ortodosse sia per quelle eterodosse, e da lui considerato “il cardine panteistico di tutte le meditazioni orientali” .

Constatato che “Alcuni dei pensatori eterodossi intendono per Nirvana il nulla assoluto”, ritiene che, in questi casi, sarebbe possibile applicare la definizione di atei, anche se ancora meglio risulterebbe quella di “nullisti”.

Ma siccome la maggior parte delle scuole e, in particolar modo, quelle ortodosse, conferiscono al Nirvanauna significazione positiva”, intesa come assai simile al “non ente” platonico e “all’ àpeiron o all’infinito dei Pitagorici, di Anassimandro e di quasi tutti gli antichi filosofi italo greci”, non sarebbe possibile parlare di ateismo, bensì soltanto di panteismo.

Molto bella è, a questo punto, la definizione di ateismo che viene proposta, indubbiamente lontana dai tradizionali stereotipi di carattere confessionale (del tipo: ateo è chi non crede nel dio in cui noi crediamo e/o nel modo in cui noi crediamo).

Per ateo – scrive – s’intende nel comune linguaggio chi nega la realtà eterna di un principio assoluto e sovrasensibile produttivo per creazione o emanazione o per altro modo dei fenomeni di natura.” Di conseguenza, i cosiddetti buddhisti ortodossi, che, a suo parere, ammetterebbero l’esistenza di tale principio assoluto, non potrebbero essere considerati atei.

Il pensatore torinese afferma, inoltre, che apparirebbe alquanto difficile comprendere come una religione veramente “innestata sull’ateismo”,  avrebbe potuto, oltre che venire abbracciata da milioni di seguaci, dimostrarsi “durante e fiorente almeno da ventiquattro secoli”. E ancora più incomprensibile risulterebbe, a suo giudizio, dover accettare, su un piano strettamente pratico, che un culto ateo possa essersi dimostrato “più umano, più mansueto, più civile di altre credenze fondate nel monoteismo, nel panteismo, nel politeismo”, tanto da risultare, nell’ambito delle religioni orientali, moralmente superiore, nei suoi effetti, sia all’islamismo che al brahmanesimo.

Gioberti, pur ammettendo che la componente “ipermistica” presente nel Buddhismo abbia finito, nel tempo, per allontanare i popoli che lo hanno accolto dall’agire nel mondo, attribuisce al credo buddhista una encomiabile inclinazione “favorevole alle imprese civili negli ordini della pace”, nonché  il merito di aver dato vita a meravigliose opere architettoniche e ad innumerevoli e preziosi luoghi di culto.

Questo senso incivilito - dichiara - fu infuso nel Buddismo dal dogma della salute universale, che tempera e modifica le ascetiche intemperanze dell’istinto contemplativo, ed è atto a promuovere naturalmente quei sensi benefici e pietosi, onde mossero le celebri riforme di re Asoco (= Ashoka)”.

A tale proposito, fa riferimento a quanto testimoniato dal padre gesuita Daniello Bartoli (“gran detrattore dei bonzi e perciò tanto più autorevole”), in merito alle popolazioni del “Tunchin” (regione del Tonchino, nell’Indocina francese), le quali “si occupavano a cercarein che opere di virtù acquistar nuovo merito per la vita avvenire, massimamente operando in beneficio del pubblico: come a dire, aprir novi sentieri, con che accorciar la via lunga o spianare qualche erta fatichevole a’ viandanti; voltare archi e gittar ponti sopra fosse, fiumi, torrenti perigliosi a guadare; aprire alberghi, dove gratuitamente ricogliere i pellegrini; e somiglianti, per cui mettere in effetto non mancava loro danaio tra del proprio e del contributo in limosina da’ divoti’ ”.

Sulla base di questa elogiativa descrizione, Vincenzo Gioberti approda, portando a termine le sue riflessioni, a due importantissime conclusioni:

  1. Una simile autorevole testimonianza (teologo, scienziato e letterato, autore di opere monumentali, Daniello Bartoli, definito dal Monti come il massimo conoscitore dei segreti della lingua italiana, è il principale storico della Compagnia di Gesù) può risultarci utile per comprendere cosa realmente fossero i seguaci del Buddha “dell’India nei migliori tempi”, ben al di là dei pregiudizi ampiamente diffusi nel mondo cristiano-occidentale.
  2. I Gesuiti, se, con la loro opera missionaria, invece di fare guerra ai monaci e alle monache buddhisti, “gli avessero imitati e superati”, il Cristianesimo forse sarebbe potuto fiorire “nell’ultimo Oriente”.

Questi, riassumendo, gli aspetti più significativi presenti nell’analisi giobertiana del Buddhismo:

1.Necessità di distinguere nettamente religione popolare da pensiero filosofico.

2.Necessità di distinguere, all’interno di quest’ultimo, le posizioni ortodosse e maggioritarie da quelle cosiddette eretico-scismatiche.

  1. Aver conferito al concetto di Nirvana una fondamentale centralità.
  2. Aver preso atto della presenza di concezioni nichiliste in alcuni pensatori ortodossi.
  3. Aver riconosciuto che la maggior parte delle scuole (in particolar modo quelle considerate “ortodosse”) conferisce al Nirvana una “significazione positiva”.
  4. Aver riconosciuto, in detta concezione, caratteri di affinità con il pensiero metafisico di buona parte delle filosofie presofistiche italo-greche.
  5. Aver ritenuto improprio applicare la definizione di ateismo al Buddhismo, dal momento che in esso sarebbe presente la credenza in “un principio assoluto e sovrasensibile”.
  6. Aver ritenuto impossibile, qualora si accogliesse la tesi di un buddhismo-ateo, fornire una valida spiegazione della diffusione e della durata della religione buddhista, nonché il suo livello di ammirevole eticità, superiore a quello riscontrabile nelle religioni (di vario orientamento) non atee.
  7. Aver riconosciuto al Buddhismo, nonostante la sua tendenza “ipermistica” (che indurrebbe prevalentemente alla inazione), una apprezzabile attenzione all’impegno concreto sul fronte della pacifica convivenza e su quello della costruttività civile e religiosa.
  8. Aver sottolineato come la sua concezione della salvazione universale abbia esercitato un valido freno rispetto alle tendenze ascetiche, favorendo attive forme di benevolenza compassionevole (con riferimento particolare all’opera riformatrice del re Ashoka);
  9. Aver fatto intelligente uso della testimonianza di un illustre padre gesuita (Daniello Bartoli), al fine di evidenziare la presenza di ammirevoli forme di benefica e filantropica operosità in una regione, come quella del Tonchino (Cocincina francese), intimamente imbevuta di cultura buddhista, e, proprio per questo, particolarmente rappresentativa.
  10. Aver concluso il suo scritto con una nitida bordata polemica rivolta agli iniqui quanto fallimentari metodi dell’opera missionaria della Compagnia di Gesù, mettendo in luce, con graffiante arguzia, che il Cristianesimo avrebbe forse potuto riuscire a diffondersi anche in Estremo Oriente qualora i Gesuiti, invece di “far guerra” alle monache e ai monaci  buddhisti,  si fossero “cristianamente” prodigati nell’imitarli e superarli sul piano delle realizzazioni  sociali di carattere benefico.

 

Particolarmente degni di nota appaiono, a mio avviso, i punti 5-6-7, che denotano la presenza in Gioberti (filosofo, teologo, letterato, politico, ma non certamente orientalista, né storico delle religioni) di una indubbia profondità di analisi, accompagnata da coraggiosa originalità di giudizio. Intorno alla vera natura del pensiero buddhista, infatti, prevalevano, all’epoca, visioni fortemente etnocentriche tendenti alla svalutazione (e, sovente, alla deformazione) di ogni produzione culturale estranea all’Occidente. Assai ricorrente, in particolare, l’uso di una chiave di lettura basata sulla contrapposizione stereotipata fra civiltà cristiano-occidentale, proiettata sul piano della concretezza del fare e dell’agire, e civiltà buddhistico-orientale, immersa in una sorta di torpore ascetico, rinunciatario e antivitale.

 Intorno alla vera natura della condizione del Nirvana, in particolare, risultavano dominanti orientamenti interpretativi di carattere nichilista, volti a vedere nell’aspirazione al Nirvana la manifestazione estrema del rifiuto radicale (peculiare della spiritualità indiana) non soltanto della  mondana oggettività, bensì anche di ogni forma di esistenza soggettiva.

Lo stesso Vincenzo Gioberti, probabilmente influenzato dal Burnouf, non molti anni prima, aveva sostenuto che “Il fine ultimo che il buddhismo attribuisce a tutte le realtà esistenti coincide con il loro annientamento, il Nirvana, «a cui come scopo supremo anela il creato» nel tentativo di porre fine alla sofferenza della propria esistenza, ottenendo un riposo eterno nella beatitudine del nulla”. **

Ora, tenendo presente che ancora per tutto il XIX secolo, fino ai primi decenni del XX, numerosi orientalisti propenderanno, come ben spiega Radhakrishnan*** , nel considerare il Nirvana come “la notte del nulla, l’oscurità dove ogni luce viene estinta” ,  decisamente apprezzabile e lucida risulta la posizione giobertiana che sottolinea la presenza di  “una significazione positiva” di tale concezione all’interno della maggior parte delle scuole “ortodosse” dell’universo buddhista. Ed anche indubbiamente apprezzabile risulta l’aver inteso che, optando per la tesi di una condizione nirvanica di carattere positivo, risulterebbe impossibile non approdare, poi, all’affermazione dell’esistenza di un principio permanente, paragonabile al concetto di arché proprio delle prime speculazioni onto-cosmologiche  elleniche. Cosa questa che consente al nostro abate  di parlare di panteismo, riuscendo pertanto a sollevare il pensiero buddhista dall’accusa infamante (almeno dal suo punto di vista di filosofo cristiano) di “ateismo”.

In pratica, la prospettiva giobertiana sembrerebbe armonizzarsi con le parole attribuite al Buddha in persona, che, pur rifiutandosi di ammettere qualsiasi speculazione in merito alla condizione di colui che consegue il Nirvana, si trovò costretto ad ammettere, sul piano del rispetto rigoroso della pura logica, la realtà di “un essere al di là di ogni vita, che è incondizionato, al di sopra di tutte le categorie empiriche”****:

 

Vi è, o discepoli, un qualche cosa che non è generato, né prodotto, né creato, né composto. Se non vi fosse, o discepoli, questo qualche cosa di non generato … non vi sarebbe alcuna possibile via di uscita per ciò che è stato generato.” (Udana, VIII 3, e Itivuttaka, 43)

 

Insomma, considerando che Vincenzo Gioberti scrive circa trent’anni prima dell’ apparizione di un’opera come Iside Svelata (New York 1877), in cui Helena Petrovna Blavatsky (fondatrice della Società Teosofica) contrasterà e smaschererà in maniera magistralmente competente  le varie inesattezze insite nelle occidentali concezioni relative all’autentica filosofia buddhista, ritenendo “un fatto incontestabile” che ad essa non appartenga l’insegnamento  della finale nirvanica “annichilazione”, non possiamo che riconoscere, nel nostro abate teologo e aspirante orientalista, la presenza di due virtù autenticamente filosofiche:

 una particolare brillantezza di intuizione e una robusta capacità di pensiero anticonformista.

 

*da Il Gesuita moderno, vol. V, cap. XI, Losanna 1847, p. 76: poche paginette, in realtà, all’interno di un’opera di ben cinque volumi.

** https://www.pensierofilosofico.it/articolo/LINTERPRETAZIONE-FILOSOFICA-DI-VINCENZO-GIOBERTI-SULLE-RELIGIONI-ORIENTALI/204/, a firma di Paolo Gava.

*** S. Radhakrishnan, La filosofia indiana, Einaudi, Torino 1974, p. 455.

****ibidem.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Della presenza e/o dell’assenza di ordine, armonia e bellezza nel nostro Universo si discute da qualche migliaio di anni: dall’ àpeiron di Anassimandro al logos di Eraclito, dalle Idee platoniche al Dio “motore immobile” di Aristotele, dal Tao di Lao Tse  al rigoroso monismo vedantino,   dal dharma vedico all’impermanenza buddhista, il migliore pensiero metafisico, sia occidentale che orientale, ha elaborato innumerevoli affascinanti teorie con l’obiettivo di riuscire a darci una convincente interpretazione della  natura del Cosmo, capace di coglierne la sua vera essenza. Ciò ha finito per dare vita ad uno sterminato groviglio dialettico di visioni del mondo, in cui panteismo e panenteismo, meccanicismo e determinismo, creazionismo e panlogismo, e, soprattutto, pessimismo e ottimismo, si incontrano, si scontrano, si smascherano e si contraddicono, lasciandoci, molto spesso, solitari ed incerti, divorati dal dubbio e ammutoliti  di fronte all’insondabilità ontologica del Tutto.

Sul senso ultimo delle cose, sul significato e sul destino dell’esistenza umana e della intera Natura, si è ragionato e conversato per alcuni giorni (dal 2 al 4 giugno) all’interno dell’annuale Congresso della Società Teosofica Italiana*, svoltosi a Cervignano del Friuli. 

 Il tema proposto, La Sublime Armonia, bellezza della Vita, in un periodo storico in cui le preoccupazioni generali per il futuro dell’umanità e dell’intero pianeta hanno raggiunto livelli straordinariamente elevati, potrebbe apparire molto lontano dalla realtà, dai suoi problemi assillanti e dagli irrisolti ed inquietanti punti interrogativi.

Ma le parole di tutti i relatori, a cominciare da quelle introduttive del presidente Antonio Girardi, sono state tutte orientate a fare i conti con le criticità del vivere in sé e del momento presente, ma sempre nell’ottica di chi, nutritosi di cultura mistica, sa percepire, al di là delle apparenze fenomeniche e del flusso del divenire, la presenza onnipervadente di un principio unificatore e regolatore che strappa l’Essere dalle mani del Caso e che getta su tutto ciò che vive nelle infinite forme del Cosmo una luminosità intensa, ricca di Significato e di Bellezza.

Dalle varie relazioni, quindi, non sono tanto scaturiti fiumi di estatici elogi per l’armonia immanente alle “meccaniche celesti”, bensì hanno prevalso inviti a farci noi “creatori di un universo perfetto”, ad educare i giovani al desiderio di Bellezza, alla ricerca inesausta della Felicità attraverso la coltivazione di una mente “religiosa” sintonizzata con l’eternità, di una mente autenticamente compassionevole aperta ai bisogni altrui, capace di liberarsi dall’eresia della separatezza e di immergersi in una coscienza planetaria nella empatica prospettiva di una comprensione che si traduce in costruttiva cooperazione.

Insomma, in un mondo come l’attuale, caratterizzato dal trionfo delle più ignobili menzogne, dalla mistificazione imperante che disabitua all’esercizio del pensiero indipendente, dalla crescente incapacità di ascolto e di silenzio interiore, dalla ipocrisia  della Forza più brutale che si erige sempre più prepotentemente e sistematicamente a Diritto, il pensiero teosofico dimostra di essere ancora attualissimo ed in grado di credere nelle potenzialità evolutive della natura umana, esortandoci a mantenere viva la fiamma interiore dei valori dello Spirito e a continuare a sperare in un mondo liberato  dalle discriminazioni e dalle ingiustizie e finalmente benedetto dall’avvento della Fratellanza Universale.

 

 

* La Società Teosofica fu fondata a New York, il 17 novembre 1875, da Helena Petrovna Blavatsky e da alcuni suoi collaboratori, fra cui H. S. Olcott e W. Q. Judge.

Questi i suoi Scopi dichiarati:
1. Promuovere il sentimento di mutua tolleranza tra i popoli delle diverse razze e religioni.
2. Incoraggiare lo studio delle filosofie e delle scienze degli antichi popoli.
3. Incoraggiare le ricerche scientifiche sulla natura delle facoltà superiori dell’uomo.

Questa formulazione iniziale delle finalità della Società Teosofica fu perfezionata successivamente nella forma attuale:
1. Formare un nucleo della fratellanza universale senza distinzioni di razza, religione, sesso, casta e colore.
2. Incoraggiare lo studio comparato delle religioni, filosofie e scienze.
3. Investigare le leggi inesplicate della Natura e le facoltà latenti nell’uomo.

La Sezione italiana della Società Teosofica fu fondata nel febbraio del 1902.

https://www.teosofica.org/it/

 

Buongiorno Gloria, tu hai curato un progetto fotografico dal titolo -Vite di seconda scelta - La storia dei Celestini di Prato-.

D- Vuoi dirci e spiegarci chi erano i Celestini?.

R- I Celestini erano i piccoli ospiti del rifugio -Maria Vergine Assunta in Cielo-, un istituto con sede in Prato, zona Castellina, che si occupava di ricevere i bambini cosiddetti -problematici-. Mi spiego meglio: si trattava figli di famiglie numerose o di genitori che dovessero lasciare la città per lavoro piuttosto che bambini non desiderati, orfani, etc. Il nome deriva dal fatto che indossassero un grembiulino celeste, il colore scelto in onore alla purezza della Madonna , al culto della quale tutto l'operato di Padre Leonardo (il reggente della struttura) era dedicato.

D- Come era venuta a Padre Leonardo l'idea di fondare questo istituto?

R- Padre Leonardo era un frate cappuccino, l'unica figura appartenente ad un vero e proprio ordine religioso. L'idea di fondare l'istituto gli venne durante uno dei suoi viaggi -missionari- in Puglia: entrato dentro una chiesa ebbe una visione di un angelo con in mano la scritta -Lasciate che i pargoli vengono a me-. Tornato a Prato, nel 1934, decise di mettere su un rifugio dove potesse accogliere -soltanto chi non essendo fornito di mezzi economici neppure modesti fosse a se stesso abbandonato-. E' un istituto di natura privata, che si auto-sostenta grazie alle numerose e generose donazioni di benefattori più o meno noti. La gestione è affidata a due società: l'immobiliare civile pratese e la MA.VE. 

D- Sappiamo che la storia giudiziaria alla quale è andata incontro a questo Istituto è stata lunga e difficile. Vuoi parlare?

R- Partiamo dall'inizio. La vicenda ci mette un bel po' di anni per venire alla luce: le prime denunce da parte degli insegnanti (esterni alla struttura) sono di circa dieci anni prima della chiusura dell'istituto, ma rimangono lì, inascoltate, chiuse in un cassetto. Tutto esplode quando si cominciano a registrare delle fughe di bambini che fanno notizia sui giornali locali ma non vengono denunciate alle autorità e quando, a causa di un'appendicite non curata se non, secondo alcuni, con impacchi di santini e con olio santo, un ragazzino muore tra atroci sofferenze. Parliamo di Santino Boccia, era il 30/03/1965. I pratesi, da frequentatori della domenica, cominciano a farsi domande. Questo genera un dibattito che ha ampio spazio sui quotidiani e che fa arrivare il caso fino all'amministrazione comunale, all'interno della quale viene poi nominata una commissione di inchiesta con il compito di far luce, per quanto possibile, sulle vicende che ormai sono sulla bocca di tutta la città. Dopo qualche settimana di indagini, i capigruppo consiliari redigono un rapporto piuttosto dettagliato su quella che era la situazione dell'istituto, alla conclusione del quale si scrive -…La commissione concludendo i suoi lavori ha riscontrato l'inadeguatezza dei locali e delle norme igienico- sanitarie, l'insufficienza della dieta alimentare, la non qualificazione del personale addetto sia a funzioni direttive che esecutive e infine l'inidoneità dei metodi educativi. Inizia una sorta di -riqualificazione- dell'istituto ma il Ministro della sanità Mariotti decide per la chiusura definitiva. Contestualmente vengono denunciati cinque dei sorveglianti (Vincenza Perrotta, Lucia Napolitano, Alighiero Banci, Luciano Pacini, De Lucia Angela) la dott.ssa Fernanda Oliva e Padre Leonardo. Le accuse sono rispettivamente: abuso di mezzi di correzione, abbandono di incapace, omicidio colposo. Una giovane avvocatessa (Bianca Guidetti Serra) ha registrato qualche bambino e le relative famiglie e li fa costituire parte civile al processo penale, denunciando anche come sia stata omessa la responsabilità di tutta quella parte di istituzioni che dovevano vigilare ma non lo hanno fatto (ONMI e prefetto di Firenze in modo particolare).

Nel dicembre 1968 furono condannati quattro sorveglianti su cinque e Fernanda Oliva; Padre Leonardo invece fu assolto per insufficienza di prove. Furono concessi a tutti due anni di condono e nel 1971 ottennero tutti un altro sconto di pena, a parte la dottoressa. 

D- Hai mai avuto contatti diretti con ex celestini? senza farne ovviamente i nomi, puoi dirci cosa ti hanno detto di quel loro infernale periodo?

R- Beh si. Alcuni di loro li ho incontrati di persona, con qualcuno ho parlato per telefono. Contrariamente a quanto mi aspettassi, conservano ancora abbastanza nitidi i ricordi di ciò che hanno dovuto subire, episodi da far rabbrividire e che chiaramente lasciano e hanno lasciato tracce nei comportamenti di queste persone sia nell'immediato che a distanza di molti anni. Uno di essi, MT (uso solo le iniziali per questioni di privacy), mi ha raccontato che, uscito dall'istituto perché portato via dal padre, aveva perso completamente l'uso della parola. Gli ci è voluto un annetto per tornare a parlare, abbastanza forte era stato lo shock di questo suo vissuto. Oltretutto anche in età adulta ha continuato ad avere degli incubi riconducibili a quel periodo della sua vita. Ricorda in maniera molto chiara il sasso enorme all'interno del bosco retrostante l'istituto, dove andava a piangere disperatamente. Un altro, LM, mi ha raccontato che ogni bambino aveva dei lavori da svolgere; a lui ad esempio toccava svuotare il -bottino-. LB invece è stato punito perché si era rifiutato di picchiare il fratello con la sistola dopo che era stato legato al letto dai -fratelli- e -sorelle- (colpevole di aver fatto la pipì a letto). Nei racconti dei testimoni che ho ascoltato è una costante inquietante quella delle botte e delle punizioni: tutti mi hanno detto che non passava un giorno senza buscarne, e che, quando ti picchiavano, lo facevano con qualsiasi cosa si trovassero per le mani. Le punizioni più gettonate invece erano le croci in terra con la lingua, oppure il leccare la pipì in terra, le docce gelate, le secchiate di acqua fredda se non ti svegliavi la mattina. Un altro aspetto rilevante era la vita che questi bambini conducevano: una vita totalmente religiosa, scandita dalle preghiere e dai rosari. All'interno dell'istituto non c'erano distrazioni per i piccoli ospiti, non un giornalino, un pallone, un film alla tv. Queste erano considerate deviazioni dalla retta vita religiosa. Gli unici svaghi erano la -barauffa-, cioè quando Padre Leonardo, dopo la messa della domenica, si ritirava nella sua stanza e dalla finestra lanciava una manciata di caramelle (solo il quantitativo che entrava in una mano) ai bambini che aspettavano sotto e si azzuffavano per acchiappare qualcosa, ei gomitoli di spago annodato: ad ogni giaculatoria recitata si faceva un nodo allo spago: chi faceva il gomitolo più grosso vinceva. 

D- Tu, dal momento in cui hai saputo di questo Istituto situato a Prato, ti sei veramente impegnato per la ricerca di tutto quanto è affine all'argomento. Puoi dirci fino a che punto hai scavato per informare chi ancora non conosceva tale delirio?

Ho iniziato nel più classico dei modi: cercando su Google notizie inerenti all’argomento. Poi ho scoperto dell’esistenza del gruppo Facebook che riunisce ex celestini e da lì sono passata ai contatti diretti con alcuni di essi. Sono stata in biblioteca (Lazzerini, a Prato), ho contattato la Nazione, un fotografo (Ranfagni) che ha scattato alcune foto all’epoca dell’esistenza dell’istituto. Ho cercato negli archivi online dei quotidiani locali, trovando molti articoli in merito alla vicenda. E’ stato interessante leggere come l’opinione pubblica e le varie figure in gioco si scambiassero battute tramite articoli di giornale. Al momento sto cercando di approfondire un po’ di più la parte inerente alla vicenda giudiziaria, ma è una strada in salita, essendo un fatto accaduto molti anni fa è difficile risalire alle carte. Io ci provo però. 

D- Vuoi parlarci liberamente di quanto tu sia rimasta sconvolta e cosa ti ha dato maggiormente fastidio?

R- A mio parere la parte più fastidiosa di tutta questa vicenda è la cattiveria, la violenza riversata su creature innocenti, colpevoli solo di non essere state abbastanza agiate o fortunate nella vita. Cito testualmente dalla prefazione a -Il paese dei celestini - Istituti di assistenza sotto processo- (a cura di Bianca Guidetti Serra (che poi è la giovane avvocatessa che fece sì che i bimbi e le loro famiglie potessero costituirsi parte civile al processo) e di Francesco Santanera: 

-Purtroppo i -celestini-, e diamo a questo termine un significato simbolico, nasceranno sempre nelle classi povere o poverissime, dove l’insufficienza di cibo si manifesta spesso in termini di fame; dove i più elementari interventi igienico-sanitari sono insufficienti se non assenti; dove l’istruzione, anche quella dell’obbligo, è ancora privilegio... Lo -scandalo- primo e vero sta nel fatto che i -celestini- esistano e se ne creino di continuo-.-

Questo è un pensiero che condivido e che purtroppo è sempre attuale. Viviamo in un mondo che viaggia a più velocità e dove chi sta dietro non avrà quasi mai la possibilità di passare avanti perché non può permettersi gli strumenti per farlo.

Altrettanto fastidioso è per me il fatto che i veri responsabili siano stati in qualche modo salvati dal processo. La giurisprudenza non è il mio campo, ma insomma, credo che non solo i sorveglianti dovessero essere indagati, processati e poi puniti, ma anche coloro che il proprio mestiere non hanno saputo farlo, non avendo vigilato.

D- Pensi che ancora ci sia qualcosa e qualcuno da identificare per dare una forma di giustizia a chi ha sofferto in quel periodo doloroso per molti bambini?

R- Ormai i responsabili della vicenda sono tutti morti, essendo passati molti anni. Credo però che la massima forma di giustizia sia riportare alla luce questa vicenda, farla conoscere, nella speranza che ciò che è accaduto in passato non si ripeta. In fin dei conti è una storia che appartiene al substrato culturale della mia città, trovo giusto che almeno i pratesi la conoscano.

D- Hai progetti futuri per quanto riguarda l'informazione legata a questi fatti ormai storici?

R- Mi piacerebbe che questo mio lavoro fotografico e di indagine arrivasse a più persone possibili. Il sogno sarebbe di farlo diventare un libro, all’interno del quale vorrei raccogliere testimonianze, immagini, articoli, documenti. Insomma, tutto ciò che sono riuscita a trovare, a ricostruire, a fotografare.

D- Pubblicizza il tuo progetto per chi vorrà approfondire visibilmente l'argomento.

R- Sto lavorando al mio sito web, spero a breve possa essere online.

Li potrete approfondire un po' l'argomento. www.gloriamarras.it

Vorrei approfittare di questo spazio per lanciare un appello: se siete ex celestini o se siete a conoscenza di un ex celestino, vorrei intervistarlo e fotografarlo. Il mio progetto è ancora in corso… ed ogni testimonianza è preziosa!

Grazie della tua preziosa testimonianza

Grazie a te, Marzia!

Come il piccolo così il grande.

          Se, come dice la fisica, nulla si crea e nulla si distrugge, si può supporre che le cose esistano da sempre, anche se mutano nel tempo e nello spazio. E su questa logica la materia, come noi la conosciamo, muta e nel suo mutare passa da dimensione in dimensione, a seconda della sua composizione energetica, e le forme/vita si manifestano a seconda dei regni e della specie; ma alla fine del ciclo vitale nulla si dissolve nel nulla perché il Nulla si presume che non esista. Per questo si può pensare che la materia (le cose, i viventi, il cosmo, l'universo) sia infinita ed eterna.

          Probabilmente un centro primigenio ha dato vita ad un meccanismo chimico che nel tempo a formato alla materia come noi la conosciamo e alla molteplicità delle cose. ma la domanda è: o l'universo ha generato se stesso all'interno del Nulla (ma il Nulla non può contenere qualcosa) o vi è un principio esterno alla materia di natura diversa che ha generato la materia. Ma un principio esterno/eterno/infinito può generare cose transitorie? Le cose eterne non hanno né principio né fine.

          Se l'universo è infinito non può essere all'interno di qualcosa di finito e quindi di transitorio. Se fosse transitorio sarebbe all'interno di qualcosa di transitorio, cioè di materiale che lo contiene, e questo, a sua volta, di qualcos'altro di transitorio; quindi è probabile che l'universo materiale sia all'interno di qualcosa di eterno ed infinito e che le cose esistono da sempre e sempre esisteranno anche se, in forme e dimensioni diverse.

          Ogni cosa materiale è energia concentrata. La materia è composta di atomi. L'atomo di particelle sub atomiche (elettroni, protoni, neutrini, quark). Se più atomi fanno una cellula, più cellule formano i tessuti, più tessuti un organo e più organi un apparato e, più apparati un corpo, più corpi formano le galassie, più galassie l'universo: l'indagine non può fermarsi all'universo : più universi che si formano? Il Cosmo? E più cosmi che formano?

          Ogni pensiero individuale è parte del pensiero collettivo. Ogni coscienza individuale è parte della coscienza collettiva e questa della Coscienza Cosmica. Se un corpo è dotato di coscienza e intelligenza non possono esserne prive le singole parti che lo compongono.

   “Chi se ne frega” è la logica che governa il comportamento della stragrande maggioranza degli umani, di quelli non proprio avvezzi a comportamenti rispettosi delle norme, o al limite ritengono che le regole devono essere gli altri a rispettarle. Di solito l’essere umano si comporta incurante degli effetti che producono le sue azioni e così succede che i potenti fanno la guerra distruggendo uomini e cose perché se ne fregano degli effetti devastanti che producono; se ne fregano se nel mondo un miliardo di persone soffre la fame;  se ne fregano se le classi meno abbienti hanno salari da fame, o se manca il lavoro; il ladro se ne frega del danno che procura; lo stupratore se ne frega del dramma che causa alla sua vittima; lo spacciatore se ne frega se induce allo sbandamento e anche al suicidio il tossico dipendente; il mafioso se ne frega; l’assassino se ne frega;  l’usuraio se ne frega; lo scafista se ne frega se prosciuga le ultime gocce di sangue ai migranti; se ne frega chi usa mangiare le carne, il pesce, i formaggi, le uova se quelle creature vivono in un inferno per poi essere crudelmente uccise.  La stessa logica che muove il vivisettore, il cacciatore, il pescatore è sempre la medesima: “Chi se ne frega”. 

Questo modo di pensare, di sentire questa mentalità egoistica, insensibile, indifferente accompagna il genere umano fin da dai primordi ed è la causa di ogni violenza, di ogni ingiustizia, di ogni prevaricazione, di ogni guerra: è la logica di chi considera propri interessi, i propri vantaggi, i propri piaceri prevalenti sulle sofferenze e sulla vita degli altri. Con una mentalità ed una coscienza comune improntata sul “Chi se ne frega” come si può sperare che l’umanità migliori. 

Ma se qualcuno ti chiede aiuto e tu te ne freghi probabilmente quando sarai tu ad aver bisogno d’aiuto saranno gli altri e fregarsene.  Perché nella vita prima o poi si raccoglie quello che si semina. Non fare ad altri ciò che non vorresti per te stesso, questa è la regola aurea valida sotto ogni cielo che noi universalisti/vegan estendiamo dall’uomo ad ogni essere senziente. 

“Chi se ne frega” sono modi di essere e di agire agli antipodi della nostra visione in cui l’empatia, la capacità di condividere le esigenze degli altri, in senso lato, è alla base dei nostri principi, del nostro vivere quotidiano. Se, come diceva B. Pascal  “Nulla è più plasmabile dell’animo umano”, quello che manca è la volontà di intervenire sull’indole umana, rimasta eticamente, mentalmente e moralmente allo stato dell’uomo delle caverne. Ma l’evoluzione etica, mentale e spirituale è inevitabile e l’essere umano arriverà a capire che la soluzione di tutti i suoi problemi non sta nei sistemi politici o economici; non sta nell’essere efficienti nell’arginare gli effetti prodotti dagli errori ed orrori umani, ma nella volontà di intervenire sull’uomo attraverso programmi di informazione e formazione del pensiero e della coscienza umana.

          Gli organismi viventi (prescindendo dai minerali) si dividono in 5 regni: batteri, protisti, piante, animali e funghi. Non è possibile stabilire una demarcazione netta tra il regno animale, vegetale e minerale. Nella scienza non esiste il concetto di organismi più evoluti e meno evoluti, o meno dotati. Se l'uomo ha maggiore intelligenza e linguaggio più articolato i pipistrelli hanno gli ultrasuoni e i serpenti a sonagli possono vedere i raggi infrarossi ecc. Ma è difficile stabilire se sia più “evoluta” la formica o l’albero di fico. Vi sono anche organismi vegetali che hanno caratteri acquisiti per derivazione, come il fiore, il frutto, il seme ecc., mentre gli animali ne hanno altri, come il sistema nervoso, ecc..   

          La vita è ciò che, attraverso le funzioni biochimiche, consente ad ogni organismo di svilupparsi e di progredire nel piano dell’evoluzione. L’uomo considera erroneamente il valore della vita della sua specie sostanzialmente superiore alla vita degli altri esseri viventi. In realtà non c’è la vita dell’uomo, la vita dell’animale e la vita della pianta, ma la Vita come realtà univoca che tutto pervade e tutto vivifica, con un unico gene di partenza. “Chi non rispetta la vita non la merita”. Così diceva Leonardo da Vinci.

          La Vita è paragonabile all’acqua che riempie e si adatta a recipienti di ogni  tipo e forma: in ogni recipiente vi è la stessa sostanza il cui valore non è in funzione né della forma occupata né del quantitativo contenuto. Da questo si può dedurre che qualunque uccisione che pone fine all’esistenza di un essere danneggia non solo la vittima ma la Vita: è come se la Vita fosse una moltitudine immensa di candele accese nell’universo: ogni candela che si spegne oscura un pò l’universo. Vi può essere una differenza di grado non di sostanza, come diceva Giordano Bruno e non solo; il recipiente può contenere a seconda delle sue capacità; l’intelligenza come il sentire può essere più o meno sviluppato a seconda della specie ma la sostanza è identica.

          Allo stesso modo l’intelligenza dell’uomo non è diversa dell’intelligenza dell’animale o anche della pianta (ammesso che si possa parlare di intelligenza della pianta). L’intelligenza, o  capacità di ragionare, è espressione unica in qualunque essere si manifesti; allo stesso modo il sentimento umano non è diverso dal sentimento animale (o della pianta): è l’identica sostanza che si manifesta in tutti gli esseri viventi. Credo che la natura (o Dio) non ha creato l’intelligenza dell’uomo, quella dell’animale o quella della pianta, come non ha creato una sfera emozionale per l’uomo diversa dalla sfera emozionale dell’animale o della pianta. Credo che ogni specie abbia le sue peculiarità e che queste siano più o meno manifeste a seconda delle esigenze vitali di ogni specie e della loro specifica esigenza di progredire.

          Corpo, Mente, Intelligenza, Sentimento e Vita siano realtà tra loro INSEPARABILI e comuni ad ogni organismo vivente, anche se è difficile pensare che la pianta abbia necessità della componente emozionale, dal momento che l’indagine umana riesce appena (per ora) ad individuarla nel mondo animale. Ma io ritengo che se manca una sola di queste componenti non è possibile che si manifesti la Vita.

 Da alcuni mesi, il monaco buddhista vietnamita Thich Nhat Hanh ha concluso la sua avventura terrena. E ci ha lasciato davvero molte cose preziose.

A tanti, ha tanto insegnato. Fra i grandi suoi insegnamenti, spicca, sopra ogni altro, quello relativo al modo in cui dovremmo rapportarci alla vita, assumendo una prospettiva di massima consapevolezza relativa alla bellezza di quanto riceviamo attimo per attimo, ed alle infinite opportunità che essa generosamente ci regala.

Thich Nhat Hanh è stato, forse, il maestro che più di ogni altro ci ha aiutato, con ferma quanto acuta delicatezza, ad aprire gli occhi e la mente per comprendere quanto le nostre esistenze siano ricche di incalcolabili tesori che troppo spesso, noi, schiacciati dal peso del passato e assillati dai pensieri timorosi e desiderosi sul futuro,  finiamo per ignorare, per dimenticare, per sperperare.

La nostra vera casa – ha scritto – è il momento presente. Vivere nel momento presente è un miracolo. Miracolo non è camminare sull’acqua. Miracolo è camminare sul nostro verde pianeta nel momento presente, per poter apprezzare la pace e la bellezza che ci si offrono proprio ora. La pace è ovunque intorno a noi, nel mondo e nella natura, e dentro di noi, nei nostri corpi e nelle nostre anime. Se solo impariamo a entrare in contatto con questa pace, a toccarla, saremo guariti e trasformati.” (Toccare la pace, Ubaldini Editore, Roma 1994, p. 7)

In definitiva, il messaggio più grande e più bello che ci ha affidato credo sia quello relativo al sentimento di costante gratitudine che dovremmo imparare a nutrire lungo il percorso del nostro cammino quotidiano. Messaggio tutt’altro che facile, scaturito da una esistenza colma di grandi sofferenze e di dolorose tragedie:

Siamo passati – scrive – attraverso sofferenze interminabili, un tunnel infinito di dolore e oscurità” (ivi, p. 105)

Un messaggio che, evidentemente, di tutto ciò proprio si è saputo nutrire, per riuscire a parlare ai nostri cuori, con una forza straordinaria intrisa di lirismo, di Amore e di Gioia … Nonostante tutto …

La pratica della consapevolezza è, infatti, un “importante agente di trasformazione e di guarigione”, che può consentirci di smettere di essere vittime della distrazione,  interrompendo di cercare “la felicità in qualche altro posto, ignorando e distruggendo i preziosi elementi di felicità che sono già presenti dentro di noi e intorno a noi.” La consapevolezza ci permette di cessare di innaffiare i “semi di infelicità” presenti in noi, spingendoci ad  innaffiare, invece, con premurosa cura, “i semi della pace, della gioia e della felicità ”. (ivi, p. 27 )

Ciò al fine di scoprire (o riscoprire) che

 “Tutti noi, i bambini come gli adulti, siamo dei bei fiori”,

e che, per conservare la giusta freschezza, è necessario apprendere a saper fermare, per il nostro bene e per il bene di chi ci vive accanto, “le preoccupazioni, le ansie, l’agitazione e la tristezza, così da poter trovare pace e felicità e sorridere ancora.” (ivi, p. 15)

Un insegnamento che può essere forse racchiuso efficacemente nell’invito che ci ha voluto rivolgere a renderci capaci di dire “grazie” con sincerità e con vigore per la miracolosa bellezza della Vita. Perché

 “Non c’è bisogno di morire per entrare nel Regno dei Cieli. Anzi, dobbiamo essere completamente vivi.” (ivi, p. 13)

Se la ragione, infatti,  ci obbliga ad essere severi nei confronti della realtà in cui viviamo, sia per quel che concerne l’operato umano, sia per il vivere stesso nella sua dimensione più naturale, il cuore di chi ha imparato ad osservare non può non esercitare una continua, sentita “pratica del ringraziamento”.

Come un canto di gioia, come una preghiera commossa, come una poesia …

 Ringraziamento per mille e mille cose che si verificano o che non si verificano, per tante e tante cose che si sperimentano, che si ricevono in dono …

Quante sono? Quanti di noi se ne accorgono davvero? O almeno un po’? Impossibile accorgersi di tutto quello che meriterebbe un “grazie”, ma dovremmo sforzarci di capire, di percepire …

Insopportabile chi considera tutto “ovvio”, come se tutto fosse “normale” o, addirittura, “dovuto”.

In realtà, se osservassimo attentamente  questa strana e terribile nostra esistenza, dovremmo accorgerci facilmente che nulla è dato per certo, davvero nulla. Da qui, la meraviglia di cui parlava Aristotele e da cui, sempre, bisognerebbe partire per dire qualcosa di sensato sul vivere.

Non è ovvio il fatto che i nostri polmoni funzionino, si allarghino, si riempiano di aria, la spingano fuori, senza fatica, senza dolore, senza rumore, senza comando, che facciano tutto da soli, anche se noi pensiamo ad altro.

Non è ovvio che il sangue ci circoli nelle vene, vada su e giù, irrorando tutto il nostro organismo …

E non è certo ovvio il fatto che  siamo in grado di sperimentare tutto ciò, di comprenderlo anche in parte, di riflettere sul perché, sul come, sul significato, ecc …

E’ tutto immensamente meraviglioso.

E’ tutto immensamente incomprensibile, inspiegabile, incomprensibilmente immenso.

Che tutto questo sia (invece che non essere) dovrebbe farci meditare per una intera vita. Ogni ora ha le sue innumerevoli cose per cui rallegrarsi, per le quali fare un passo di danza, lanciare un inno alto nei cieli …

Bisognerebbe iniziare la giornata ringraziando.

Bisognerebbe coricarsi cantando lodi di ringraziamento.

Non a qualcuno. Alla vita generosa che ci ha donato il respiro e innumerevoli attimi in cui avremmo potuto fare cose importanti e belle. E conta poco se non le abbiamo compiute: la vita ci aveva messo nella condizione di poterle fare …

Assumere l’atteggiamento del ringraziamento addolcisce l’animo, ci rende più attenti, più capaci di comprendere il valore delle cose. Ci aiuta ad assumere un’attenzione quasi religiosa nei confronti della nostra sorte quotidiana, a farci diventare parsimoniosi nell’uso del tempo, a toglierci dalla mente i rimpianti e le lagnanze di ogni tipo.

Ma ringraziare non significa accogliere la vita totalmente e incondizionatamente per quello che è. Non significa accettazione acritica e immobile. Significa cercare di comprendere la natura e il giusto significato degli incommensurabili “talenti” che ogni attimo contiene. E saperli apprezzare al meglio. E saperli ben impiegare, facendoli fruttare in tutto il loro  straordinario insondabile e imprevedibile potenziale.

 

Nel periodo presente, durissimo e tristissimo, pieno di incognite sommamente inquietanti e angoscianti, riconsiderare con grande attenzione il  messaggio di questo grande mistico vietnamita potrà rappresentare, credo, una fonte preziosa di luce aurorale e di fiduciosa visione del domani.

 

“ “Il miracolo è camminare sulla Terra”. Questa frase è stata pronunciata dal maestro zen Lin Ci. Miracolo non è camminare sull’acqua, o nell’aria, ma camminare sulla Terra. La Terra è talmente bella. E anche noi siamo belli. Possiamo concederci di camminare in consapevolezza, toccando la Terra, la nostra madre meravigliosa, a ogni passo. Non c’è bisogno di augurare agli amici: “La pace sia con te”. La pace è già con loro. L’unica cosa che dobbiamo fare è aiutarli a coltivare l’abitudine di toccare la pace in ogni momento.” (ivi, p. 13)

 

 

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