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LA NUOVA EDIZIONE DELLA COLOSSALE BIOGRAFIA CURATA DA SYLVIA CRANSTON
Durante la sua esistenza terrena, Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891) fu molto spesso incompresa, ingiuriata, accusata di essere una semplice medium, oppure una spregiudicata imbrogliona. Soprattutto, è stata ferocemente attaccata dagli imperi culturali dell’epoca (fine Ottocento) che avvertivano in lei, più che fondatamente, un grave pericolo per le proprie dogmatiche convinzioni: lo scientismo materialista, il cristianesimo ecclesiastico, le confraternite spiritistiche.
Nel 1875, con pochi collaboratori, fondò a New York la Società Teosofica, con l’obiettivo di promuovere l’ideale e la pratica della Fratellanza Universale, lo studio comparato delle religioni e delle filosofie, la ricerca nel campo delle forze psichiche latenti nell’uomo e delle leggi occulte della Natura.
Molti uomini e molte donne di alto intelletto e di vasta cultura videro in lei e nei suoi insegnamenti una fonte di abissale Sapienza e una guida spirituale di illuminata Saggezza: da William Butler Yeats all’astronomo Camille Flammarion, da G.R.S. Mead (grande studioso di gnosticismo ed ermetismo) al chimico e fisico William Crookes, da M.K. Gandhi a Rudolf Steiner, da Maria Montessori a Vasilij Kandiskij.
Certo, Helena Petrovna Blavatsky può essere amata oppure detestata. Possiamo empatizzare con lei, sentendoci solidali con le dolorose vicissitudini della sua travagliata esistenza o possiamo, invece, ritenerla irritantemente anticonformista, e insopportabilmente bizzarra, polemica ed oscura.
Una cosa, però, è doveroso riconoscere: continuare, come finora troppo spesso è accaduto, ad ignorare la titanicità della sua figura e lo spessore dei contenuti filosofici della sua monumentale produzione letteraria renderebbe estremamente superficiale e lacunoso qualsiasi tentativo di interpretazione del clima culturale fortemente antipositivista della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX, caratterizzato dall’ esigenza di un sapere scientifico autenticamente antidogmatico, da grandi aperture verso il mondo orientale, da dilagante interesse verso il campo delle scienze occulte, dall’affermarsi di una religiosità intrisa di misticismo svincolata da qualsiasi gabbia confessionale.
Per quanti desiderano riuscire ad entrare in contatto con la personalità di questa donna dalla vita indipendente ed avventurosissima, dichiaratasi discepola e messaggera di misteriosi Maestri orientali, autrice di opere straordinariamente affascinanti, dalla sconcertante ricchezza di conoscenza e di intelligenza, costituiscono letture preziose i libri scritti dal giornalista inglese A.P. Sinnett* (Il mondo occulto e La vita straordinaria di Helena Petrovna Blavatsky**) che ebbe modo di conoscerla da vicino e di frequentarla a lungo, nonché la bella e gradevolmente coinvolgente biografia a firma di Paola Giovetti***, indiscussa autorità nel campo della cultura esoterica e del mondo del paranormale.
Da pochi giorni, però, grazie ad un encomiabile impegno delle Edizioni Teosofiche Italiane, è venuta alla luce una nuova traduzione della biografia curata da Sylvia Cranston, da tempo esaurita ****: Helena Petrovna Blavatsky. La straordinaria vita e il pensiero della fondatrice del movimento teosofico moderno. Si tratta di un lavoro colossale (circa 600 pagine) che rappresenta quanto di più efficace per poter assaporare e apprezzare la complessità psicologica e speculativa di quella che Antonio Girardi, Presidente della Società Teosofica Italiana, ha opportunamente definita (nella sua Presentazione) una “pioniera dell’umanità” in grado di aprirci “alla dimensione spirituale della vita e alle potenzialità creative dell’essere umano”.
L’impagabile lavoro della Cranston, frutto di 14 anni di ricerca e di scrittura, pur concentrandosi sulla vita burrascosa di Madame Blavatsky, così densa di viaggi in tutto il mondo, dall’Oriente al continente americano, dedica peculiare attenzione agli episodi fondamentali che hanno plasmato il suo cammino e il suo lavoro, senza trascurare affatto la sua prodigiosa produzione filosofica e gli insegnamenti in essa contenuti.
“Anche se una certa critica non è stata benevola nei confronti di H.P.B., - prosegue Girardi - il suo pensiero e la sua opera meritano ancora oggi di essere accuratamente studiati e rappresentano una fonte davvero importante per il ricercatore di Teosofia e per il Pellegrino sulle tracce delle Origini dell’Eterna Saggezza.”
Assolutamente da sottolineare, al fine di comprendere a pieno la qualità dello sforzo editoriale, che la nuova edizione presenta, per la prima volta in italiano, l’intero apparato delle note, circa 1.200, indispensabili per un corretto utilizzo del testo.
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*Alfred Percy Sinnett (1840-1921), capo redattore di diversi periodici, ospitò Madame Blavatsky ad Allahabad per sei settimane, assistendo a numerosi fenomeni paranormali da lei prodotti. Aderì in seguito alla Società Teosofica, occupandovi anche ruoli di prestigio. La sua opera più importante è rappresentata da Il Buddhismo esoterico, una pregevole esposizione dei principali insegnamenti teosofici (ETI, Vicenza 2021).
** Il mondo occulto. La conoscenza degli iniziati. H.P.Blavatsky e la Società Teosofica, Cerchio della Luna, Verona 2017; La vita straordinaria di Helena Petrovna Blavatsky, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma 1980.
***Helena Petrovna Blavatsky e la Società Teosofica, Mediterranee, Roma 2010.
****Helena Petrovna Blavatsky. La straordinaria vita e il pensiero della fondatrice del movimento teosofico moderno, Armenia, Milano 1994.
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SYLVIA CRANSTON (e Carey Williams)
LA STRAORDINARIA VITA E IL PENSIERO DI HELENA BLAVATSKY, FONDATRICE DEL MOVIMENTO TEOSOFICO MODERNO
Edizioni Teosofiche Italiane
Vicenza, giugno 2024
Il Convegno promosso dall’Associazione Internazionale per la Coscienza di Krishna (ISKCON), il primo giugno in Campidoglio, dedicato alla vita, alla missione e al messaggio di Pace del fondatore A.C.Bhaktivedanta Swami Prabhupada, oltre a risultare ben strutturato e armonicamente articolato, si è rivelato un momento di intensa riflessione e di festosa comunione. Molti sono stati gli interventi (tutti di indubbio interesse) non soltanto di esponenti storici del Movimento, ma anche di studiosi e di cariche istituzionali. Fra di essi, particolarmente apprezzata è stata la relazione di Monsignor Michael Santiago (Dicastero per il Dialogo Interreligioso della Santa Sede), ispirata ad una prospettiva di grande apertura, simpatia e vicinanza, lontanissima dai secolari pregiudizi dei tempi passati, mirante ad evidenziare il carattere autenticamente universale dei principi e dei valori spirituali dell’esperienza religiosa del Movimento Hare Krishna.
Peculiare attenzione è stata comprensibilmente dedicata alla presentazione della figura e dell’opera del fondatore Swami Prabhupada (1896-1977), personalità di indiscutibile statura morale ed intellettuale, che, sospinto da mistico spirito missionario, ha saputo svolgere una ammirevole azione educativa, prima ancora che divulgativa, nella New York degli anni Sessanta, prendendo le mosse dagli ambienti più emarginati e degradati.
All’interno del panorama culturale occidentale, finalmente sempre più pluralista, la presenza dell’ISKCON, ben al di là degli aspetti più esteriori di carattere coreografico e cerimoniale, costituisce senza dubbio una presenza preziosa e stimolante. La nostra società, infatti, tanto fortemente desacralizzata e tanto nichilisticamente risucchiata nel gorgo di un
A.C.Bhaktivedanta Swami Prabhupada |
consumismo mediaticamente pilotato, non potrà, infatti, che ritrovarsi arricchita dalla presenza di un messaggio incentrato sui valori dell’Amore e della nonviolenza, nonché dalla diffusione di uno stile di vita improntato alla tolleranza, alla semplicità, alla gentilezza, al rispetto della natura e alla gioia di vivere. Messaggio non di certo banalmente riducibile ad una delle tante esoticheggianti “stramberie” della cosiddetta new age, ma che affonda le sue radici culturali all’interno di una delle anime più genuine e rappresentative dell’Induismo tradizionale, quella devozionale (bhakti)della scuola visnuita, risalente, in particolar modo, all’insegnamento di grandi maestri come Vallabha e Caitanya (sec.XVI).
Immancabili canti rituali e un raffinato rinfresco vegetariano hanno coronato nel migliore dei modi (anche grazie alla straordinaria cornice della grande terrazza capitolina messa a disposizione dei presenti) la felice mattinata di pensiero e di interiore riflessione.
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Per saperne di più:
19.02.2024: "C'è una architettura e c'è un artigianato del dialogo interconfessionale" ovvero i grandi temi alla base della relazione tra le religioni e la loro connessione con il vivere
quotidiano.
E' partendo da questo interessante spunto, nato dalla vivacità culturale del conduttore Paolo Bonini, che Sabato 17 febbraio, presso l'Auditorium della Chiesa di Scientology di Roma, si è svolto l'incontro intitolato LA DIMENSIONE DI UNIVERSALITA': UN CROCEVIA PER LA COMPRENSIONE, LA SOLIDARIETA' E LA MULTUCULTURALITA'.
Un evento in linea con gli intenti della risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2010 che ha proclamato la Settimana Mondiale dell'Armonia Interreligiosa.
Sul palco, sollecitati dalle domande e dalle riflessioni di Bonini, hanno interagito in dialogo: Maria Rosaria Fazio, docente di ebraico biblico; Assem Migahed, ricercatore intellettuale di spiritualità e scienza islamica; Giuseppe Cicogna, vicepresidente di Fedensieme ApS e portavoce della Chiesa di Scientology; Fabio Grementieri, creatore del parco tematico educativo di Santiago Estero (Argentina); Gustavo Guillerme', presidente del Congresso Mondiale del Dialogo Interculturale e Interreligioso e Massimo AbdAllah Cozzolino, della Confederazione Islamica Italiana.
Eterogenea anche la platea composta da religiosi e non, tra cui rappresentati buddhisti Theravada, cattolici, scientologist, buddhisti Soka Gakkai, Chiesa Anglicana d'Europa, UAAR (Unione Atei Agnostici Razionalisti), Comunità Afghana e mediatori culturali.
Gli intermezzi musicali a tema a cura di Maurizio De Simone (chitarra), Francesco Passarelli (voce) e Samuele Bonini (voce) hanno scandito il ritmo e la melodia di un crocevia culturale in cui i vertici del pensiero religioso e laico trovano armonia e costruiscono pace tangibile in loco, nonostante il contesto attuale in cui persino parlare di pace potrebbe apparire paradossale.
Se dai vari interventi e testimonianze si potesse trarne un sunto comune forse suonerebbe così: "Le guerre hanno propaganda, mezzi e interessi materiali apparentemente infiniti e difficilmente sormontabili. Ma la pace può e deve essere coltivata e fatta crescere dentro ognuno di noi; ed è proprio grazie a momenti come quello di oggi [Sabato scorso NdR] - che avvengono continuamente in diverse forme e in diversi luoghi del mondo - che possiamo e dobbiamo proseguire a costruire un presente e un futuro migliori".
Nel mondo pre-moderno, come già nei popoli di interesse etnologico e soprattutto nelle culture orientali, le espressioni di natura artistica sono indissolubilmente legate al sentimento del Sacro, alla volontà, cioè, di instaurare o rafforzare un contatto fra la dimensione del divenire e la dimensione dell’Essere. Il trionfo travolgente della rivoluzione scientifica, della civiltà industrializzata e della visione del mondo di credo positivistico ha finito, però, in particolar modo all’interno della cultura occidentale, per operare una radicale desacralizzazione, promuovendo un approccio etico-esistenziale di impronta ateistico-materialistica (sia sul piano teoretico che su quello pratico) e mettendo, di conseguenza, brutalmente in soffitta il concetto stesso di “anima”. A tutto questo, riprendendo istanze di derivazione romantica, si è opposta la cultura del cosiddetto Decadentismo, volta a riscoprire la dimensione celata del vivere e a dare voce alle voci sotterranee dell’io.
A tale processo culturale antipositivistico e antimaterialistico, nel corso dell’ultima parte del XIX secolo e dei primi anni del XX, offriranno un grande supporto due movimenti culturali (perlopiù ignorati dai manuali scolastici) dalle notevoli potenzialità rivoluzionarie: lo spiritismo prima e il movimento teosofico poi. Lo spiritismo, con la sua sconcertante casistica fenomenica, sarà salutato da milioni di persone come la dimostrazione oggettiva dell’esistenza dell’anima e della sua sopravvivenza, arrivando ad esercitare un’attrazione profonda sulle menti di letterati come Capuana e Conan Doyle, nonché di illustri scienziati come il chimico Crookes e l’astronomo Flammarion.
Ma sarà soprattutto l’entrata in scena di una donna straordinaria come Helena Petrovna Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica (1875) e autrice di opere monumentali dal fascino sconfinato come Iside Svelata (1877) e La Dottrina Segreta (1888), a fornire un ricchissimo potenziale di stimoli e di conoscenze a tutti coloro che desideravano opporsi al dominio sempre più inaridente dell’ideologia materialistica. Fondamentale è il fatto che la Teosofia o Religione-Saggezza diffusa dalla Blavatsky non venne da lei mai definita come qualcosa di “nuovo”, bensì come la presentazione sistematizzata di un insieme di conoscenze presenti da sempre all’interno delle varie tradizioni religiose, degli antichi sistemi filosofici e delle più genuine esperienze mistiche di ogni epoca.
Da questo serbatoio sterminato di pensiero, gli intelletti più aperti e assetati di verità autenticamente universali, non ingabbiate in involucri confessionali, si imbatterono nella serie seguente di concetti, dalle indubbie valenze esplosive soprattutto se riferiti al campo della produzione artistica:
Da questa vera e propria miniera filosofica, artisti come Gustave Moreau e Odilon Redon, in Francia, e Umberto Boccioni, Luigi Russolo e Giacomo Balla, in Italia, trassero innumerevoli sollecitazioni per dare vita ad un innovativo modo di fare arte, in cui (sia che si tratti di simbolismo o di futurismo) a dominare sarà la volontà di andare oltre la barriera ingannevole del piano sensoriale. E su questa strada, attingendo direttamente ai tesori della letteratura teosofica, altri artisti di genio quali Hilma af Klint, Wassily Kandinsky, Kazimir Malevic e Piet Mondrian (solo per citare i nomi di maggior peso) partoriranno modalità espressive sempre più sganciate dalla mera osservabilità empirica, per approdare a forme sempre più radicali di astrattismo, favorendo la nascita di innumerevoli percorsi di coraggiosa ricerca creativa, tutti accomunati dalla voglia di dilatare la percezione del reale, di costruire ponti fra micro e macrocosmo, di permettere alle insondabili energie sepolte nel nostro cuore di irrompere epifanicamente nel mondo del divenire e dell’impermanenza.
Ed è su questa stessa lunghezza d’onda che è stata pensata e allestita, presso il laboratorio artistico COSARTE di Garbatella (Roma), la Mostra intitolata Mystical and Interior, presentata dall’organizzatrice Simona Gloriani come un “viaggio introspettivo verso la propria interiorità”, e come “sentimento di contemplazione in una dimensione che può farci vedere la ‘trascendenza’ o riportare al proprio io e alla propria anima”, con il non facile obiettivo di provare a “mettere in evidenza l’importanza dell’introspezione” e di tentare di “esplorare le dinamiche della natura che raggiungono le profondità della nostra mente”.
La Mostra, che raccoglie lavori pittorici e fotografici frutto di sensibilità molto differenti, in cui prevalgono nettamente orientamenti di carattere surrealistico e simbolistico, ha ricevuto da parte dei primi visitatori un’ accoglienza gioiosa e sinceramente interessata, segno evidente che le opere esposte, efficacemente commentate dai loro autori, sono riuscite, almeno in parte, nell’ ambizioso intento di comunicare piccoli e grandi messaggi, piccole e grandi emozioni.
MYSTICAL & INTERIOR
MOSTRA COLLETTIVA DI ARTE CONTEMPORANEA
DOVE:
c/o COSARTE, via Nicolò da Pistoia, 18
Roma
QUANDO:
dal 13/10/2023 al 19/10/2023
Martedì e giovedì dalle 16.30 alle 19.00; lunedì, mercoledì, venerdì dalle 11.00 alle 13.00 e dalle 16.30 alle 18.30.
ARTISTI:
Gianluca Bellissimo, Maurizio Campitelli, Flavia Distefano, Roberto Fantini, Simona Gloriani, Mahroo Hemati, Alessio Masi, Roberto Pinetta, Stefania Spera, Gabriella Tiricanti.
“Nella generosità e nell’aiuto degli altri sii come un fiume.
Nella compassione e nella grazia sii come il sole.”
Gialal al-Din Rumi
A due passi dalle rive di uno dei laghi più limpidi d’Italia, nel verde del Parco comunale di Trevignano Romano, si è svolto, anche quest’anno, il Festival di NaturArte, nei giorni 9 e 10 del mese corrente.
Tante le attività (parecchie di carattere laboratoriale) che hanno ravvivato le due giornate, con particolare attenzione rivolta al variegato arcipelago della ricerca e della cura del benessere psico-fisico: yoga (secondo varie modalità), Shiatsu, meditazione, Qi Gong, Tai Chi, numerose pratiche sportive, ecc.
E tanto, come era prevedibile, lo spazio destinato ad attività attinenti allo sconfinato mondo della Natura: nutrizione, olii essenziali, percorsi sensoriali, riconoscimento di piante commestibili e curative, incontro con il Centro Volo Rapaci locale, inclusi alcuni ospiti pennuti, ecc.
La manifestazione, ideata e gestita dall’Associazione giovanile Sintònia (in collaborazione con il Comune di Trevignano e con il finanziamento di Città metropolitana di Roma capitale), è scaturita dal desiderio di promuovere, attraverso una generosa gamma di possibili esperienze, una maggiore comprensione dell’autentico significato del concetto di “sostenibilità”, e di favorire, di conseguenza, un più consapevole rapporto di sé con il pianeta, nella prospettiva di una interdipendenza pensata e vissuta a più livelli, sia sul piano soggettivo che oggettivo, sia sul piano fisico, che emozionale, mentale e spirituale.
All’interno del ricco e stimolante tourbillon di proposte esperienziali, un posto di indiscutibile primato è stato conquistato dallo spettacolo cerimoniale Frammenti di Mevlana-La danza dei Pianeti, in cui le parole ispirate del poeta persiano Gialal al-Din Rumi (1207-1273), meglio noto come Mevlana o semplicemente Rumi, si sono alternate ad una suggestiva esibizione di Dervisci rotanti, molto più simile ad un mistico rituale che a semplice spettacolo coreografico.
Minuto dopo minuto, con un incedere lento e meditato, i versi densamente lirici (e ben recitati) dell’immenso poeta-filosofo sufi, il roteare ritmato delle figure biancovestite, le armonie costruite dall’ottimo gruppo orchestrale, a tratti delicate a tratti potentemente travolgenti, hanno generato una intensissima dimensione di coinvolgimento emotivo, risucchiando lo spettatore all’interno di un sacralizzante percorso interiore, riuscendo, forse, a farlo uscire (almeno per qualche attimo) dal “circolo del tempo” e a farlo entrare nel “circolo dell’amore”, e a fargli comprendere che “l’unica bellezza duratura è la bellezza del cuore”.
Insomma, una straordinaria, indimenticabile sinergia emozionalmente avvolgentissima di parole, pensieri, accordi musicali e roteazioni corporali mistico-cosmiche, per farci dono dell’insegnamento del poeta-maestro Gialal al-Din Rumi:
“C’è una fontana dentro di te. Non andare in giro con un secchio vuoto.”
E’ stata, lo confesso, una scoperta veramente al di là di qualsiasi aspettativa l’essermi imbattuto nel capitolo XI del Gesuita Moderno di Vincenzo Gioberti (1801-1852), intitolato Della religione e civiltà dei Buddisti *, capitolo in cui l’abate torinese aspira, prima di ogni altra cosa, a dimostrare l’infondatezza della tesi secondo cui il Buddhismo sarebbe una religione “atea”. La mia grande quanto gradita sorpresa non è stata soltanto per il carattere insolito della tematica, bensì soprattutto per il modo acuto e anticonformista con cui essa viene trattata, a dimostrazione dell’ampiezza degli interessi culturali del Gioberti e della sua spiccata autonomia di giudizio, che, per alcuni aspetti, potremmo definire pionieristica.
Egli, infatti, sul piano metodologico, si rifiuta subito di lasciare la questione in mano esclusivamente ai filologi, sostenendo che, su problemi di “dogmatica religiosa e di filosofemi”, lo “speculativo” costituisce un “miglior giudice del filologista”, e che non sia tanto il caso di cimentarsi in disquisizioni e tecnicismi per raffinati “addetti ai lavori”, ma che si tratti, invece, di penetrare, con buon occhio filosofico, nel cuore profondo dell’essenza degli
Gioberti |
insegnamenti dottrinali.
A tal fine, come prima cosa, all’interno del Buddhismo, viene proposta la distinzione fra la cosiddetta “parte essoterica” e quella “acroamatica”, ovvero fra religione popolare e religione filosofica.
In merito alla prima, ritiene, senza alcuna incertezza, che si debba necessariamente parlare di “un teismo misto più o meno di politeismo”, mentre, in merito alla seconda, ritiene che si debbano adeguatamente distinguere le scuole considerate “ortodosse dalle eterodosse”, prendendo in considerazione esclusivamente le prime, perché, altrimenti, si potrebbe arrivare all’assurda conclusione di poter considerare atea qualsiasi “religione al mondo, professata da un popolo culto”. Se, infatti, ci si volesse basare sulle tesi sostenute dalle correnti eretico-scismatiche, si potrebbero ravvisare presenze “atee” anche all’interno del Brahmanesimo quanto dello stesso Cristianesimo.
Gioberti, quindi, ritiene che anche in seno al Buddhismo, gli “atei son tenuti per eretici dagli altri, non meno che da noi i nostri”, e che, di conseguenza, le posizioni di carattere radicalmente e coerentemente atee riguarderebbero esclusivamente circoscritte minoranze ereticali.
Al fine di avvalorare la sua tesi, si concentra, a questo punto, sul concetto di Nirvana, riferendosi ad esso come concetto basilare sia per le scuole ortodosse sia per quelle eterodosse, e da lui considerato “il cardine panteistico di tutte le meditazioni orientali” .
Constatato che “Alcuni dei pensatori eterodossi intendono per Nirvana il nulla assoluto”, ritiene che, in questi casi, sarebbe possibile applicare la definizione di atei, anche se ancora meglio risulterebbe quella di “nullisti”.
Ma siccome la maggior parte delle scuole e, in particolar modo, quelle ortodosse, conferiscono al Nirvana “una significazione positiva”, intesa come assai simile al “non ente” platonico e “all’ àpeiron o all’infinito dei Pitagorici, di Anassimandro e di quasi tutti gli antichi filosofi italo greci”, non sarebbe possibile parlare di ateismo, bensì soltanto di panteismo.
Molto bella è, a questo punto, la definizione di ateismo che viene proposta, indubbiamente lontana dai tradizionali stereotipi di carattere confessionale (del tipo: ateo è chi non crede nel dio in cui noi crediamo e/o nel modo in cui noi crediamo).
“Per ateo – scrive – s’intende nel comune linguaggio chi nega la realtà eterna di un principio assoluto e sovrasensibile produttivo per creazione o emanazione o per altro modo dei fenomeni di natura.” Di conseguenza, i cosiddetti buddhisti ortodossi, che, a suo parere, ammetterebbero l’esistenza di tale principio assoluto, non potrebbero essere considerati atei.
Il pensatore torinese afferma, inoltre, che apparirebbe alquanto difficile comprendere come una religione veramente “innestata sull’ateismo”, avrebbe potuto, oltre che venire abbracciata da milioni di seguaci, dimostrarsi “durante e fiorente almeno da ventiquattro secoli”. E ancora più incomprensibile risulterebbe, a suo giudizio, dover accettare, su un piano strettamente pratico, che un culto ateo possa essersi dimostrato “più umano, più mansueto, più civile di altre credenze fondate nel monoteismo, nel panteismo, nel politeismo”, tanto da risultare, nell’ambito delle religioni orientali, moralmente superiore, nei suoi effetti, sia all’islamismo che al brahmanesimo.
Gioberti, pur ammettendo che la componente “ipermistica” presente nel Buddhismo abbia finito, nel tempo, per allontanare i popoli che lo hanno accolto dall’agire nel mondo, attribuisce al credo buddhista una encomiabile inclinazione “favorevole alle imprese civili negli ordini della pace”, nonché il merito di aver dato vita a meravigliose opere architettoniche e ad innumerevoli e preziosi luoghi di culto.
“Questo senso incivilito - dichiara - fu infuso nel Buddismo dal dogma della salute universale, che tempera e modifica le ascetiche intemperanze dell’istinto contemplativo, ed è atto a promuovere naturalmente quei sensi benefici e pietosi, onde mossero le celebri riforme di re Asoco (= Ashoka)”.
A tale proposito, fa riferimento a quanto testimoniato dal padre gesuita Daniello Bartoli (“gran detrattore dei bonzi e perciò tanto più autorevole”), in merito alle popolazioni del “Tunchin” (regione del Tonchino, nell’Indocina francese), le quali “si occupavano a cercare ‘in che opere di virtù acquistar nuovo merito per la vita avvenire, massimamente operando in beneficio del pubblico: come a dire, aprir novi sentieri, con che accorciar la via lunga o spianare qualche erta fatichevole a’ viandanti; voltare archi e gittar ponti sopra fosse, fiumi, torrenti perigliosi a guadare; aprire alberghi, dove gratuitamente ricogliere i pellegrini; e somiglianti, per cui mettere in effetto non mancava loro danaio tra del proprio e del contributo in limosina da’ divoti’ ”.
Sulla base di questa elogiativa descrizione, Vincenzo Gioberti approda, portando a termine le sue riflessioni, a due importantissime conclusioni:
Questi, riassumendo, gli aspetti più significativi presenti nell’analisi giobertiana del Buddhismo:
1.Necessità di distinguere nettamente religione popolare da pensiero filosofico.
2.Necessità di distinguere, all’interno di quest’ultimo, le posizioni ortodosse e maggioritarie da quelle cosiddette eretico-scismatiche.
Particolarmente degni di nota appaiono, a mio avviso, i punti 5-6-7, che denotano la presenza in Gioberti (filosofo, teologo, letterato, politico, ma non certamente orientalista, né storico delle religioni) di una indubbia profondità di analisi, accompagnata da coraggiosa originalità di giudizio. Intorno alla vera natura del pensiero buddhista, infatti, prevalevano, all’epoca, visioni fortemente etnocentriche tendenti alla svalutazione (e, sovente, alla deformazione) di ogni produzione culturale estranea all’Occidente. Assai ricorrente, in particolare, l’uso di una chiave di lettura basata sulla contrapposizione stereotipata fra civiltà cristiano-occidentale, proiettata sul piano della concretezza del fare e dell’agire, e civiltà buddhistico-orientale, immersa in una sorta di torpore ascetico, rinunciatario e antivitale.
Intorno alla vera natura della condizione del Nirvana, in particolare, risultavano dominanti orientamenti interpretativi di carattere nichilista, volti a vedere nell’aspirazione al Nirvana la manifestazione estrema del rifiuto radicale (peculiare della spiritualità indiana) non soltanto della mondana oggettività, bensì anche di ogni forma di esistenza soggettiva.
Lo stesso Vincenzo Gioberti, probabilmente influenzato dal Burnouf, non molti anni prima, aveva sostenuto che “Il fine ultimo che il buddhismo attribuisce a tutte le realtà esistenti coincide con il loro annientamento, il Nirvana, «a cui come scopo supremo anela il creato» nel tentativo di porre fine alla sofferenza della propria esistenza, ottenendo un riposo eterno nella beatitudine del nulla”. **
Ora, tenendo presente che ancora per tutto il XIX secolo, fino ai primi decenni del XX, numerosi orientalisti propenderanno, come ben spiega Radhakrishnan*** , nel considerare il Nirvana come “la notte del nulla, l’oscurità dove ogni luce viene estinta” , decisamente apprezzabile e lucida risulta la posizione giobertiana che sottolinea la presenza di “una significazione positiva” di tale concezione all’interno della maggior parte delle scuole “ortodosse” dell’universo buddhista. Ed anche indubbiamente apprezzabile risulta l’aver inteso che, optando per la tesi di una condizione nirvanica di carattere positivo, risulterebbe impossibile non approdare, poi, all’affermazione dell’esistenza di un principio permanente, paragonabile al concetto di arché proprio delle prime speculazioni onto-cosmologiche elleniche. Cosa questa che consente al nostro abate di parlare di panteismo, riuscendo pertanto a sollevare il pensiero buddhista dall’accusa infamante (almeno dal suo punto di vista di filosofo cristiano) di “ateismo”.
In pratica, la prospettiva giobertiana sembrerebbe armonizzarsi con le parole attribuite al Buddha in persona, che, pur rifiutandosi di ammettere qualsiasi speculazione in merito alla condizione di colui che consegue il Nirvana, si trovò costretto ad ammettere, sul piano del rispetto rigoroso della pura logica, la realtà di “un essere al di là di ogni vita, che è incondizionato, al di sopra di tutte le categorie empiriche”****:
“Vi è, o discepoli, un qualche cosa che non è generato, né prodotto, né creato, né composto. Se non vi fosse, o discepoli, questo qualche cosa di non generato … non vi sarebbe alcuna possibile via di uscita per ciò che è stato generato.” (Udana, VIII 3, e Itivuttaka, 43)
Insomma, considerando che Vincenzo Gioberti scrive circa trent’anni prima dell’ apparizione di un’opera come Iside Svelata (New York 1877), in cui Helena Petrovna Blavatsky (fondatrice della Società Teosofica) contrasterà e smaschererà in maniera magistralmente competente le varie inesattezze insite nelle occidentali concezioni relative all’autentica filosofia buddhista, ritenendo “un fatto incontestabile” che ad essa non appartenga l’insegnamento della finale nirvanica “annichilazione”, non possiamo che riconoscere, nel nostro abate teologo e aspirante orientalista, la presenza di due virtù autenticamente filosofiche:
una particolare brillantezza di intuizione e una robusta capacità di pensiero anticonformista.
*da Il Gesuita moderno, vol. V, cap. XI, Losanna 1847, p. 76: poche paginette, in realtà, all’interno di un’opera di ben cinque volumi.
** https://www.pensierofilosofico.it/articolo/LINTERPRETAZIONE-FILOSOFICA-DI-VINCENZO-GIOBERTI-SULLE-RELIGIONI-ORIENTALI/204/, a firma di Paolo Gava.
*** S. Radhakrishnan, La filosofia indiana, Einaudi, Torino 1974, p. 455.
****ibidem.
Della presenza e/o dell’assenza di ordine, armonia e bellezza nel nostro Universo si discute da qualche migliaio di anni: dall’ àpeiron di Anassimandro al logos di Eraclito, dalle Idee platoniche al Dio “motore immobile” di Aristotele, dal Tao di Lao Tse al rigoroso monismo vedantino, dal dharma vedico all’impermanenza buddhista, il migliore pensiero metafisico, sia occidentale che orientale, ha elaborato innumerevoli affascinanti teorie con l’obiettivo di riuscire a darci una convincente interpretazione della natura del Cosmo, capace di coglierne la sua vera essenza. Ciò ha finito per dare vita ad uno sterminato groviglio dialettico di visioni del mondo, in cui panteismo e panenteismo, meccanicismo e determinismo, creazionismo e panlogismo, e, soprattutto, pessimismo e ottimismo, si incontrano, si scontrano, si smascherano e si contraddicono, lasciandoci, molto spesso, solitari ed incerti, divorati dal dubbio e ammutoliti di fronte all’insondabilità ontologica del Tutto.
Sul senso ultimo delle cose, sul significato e sul destino dell’esistenza umana e della intera Natura, si è ragionato e conversato per alcuni giorni (dal 2 al 4 giugno) all’interno dell’annuale Congresso della Società Teosofica Italiana*, svoltosi a Cervignano del Friuli.
Il tema proposto, La Sublime Armonia, bellezza della Vita, in un periodo storico in cui le preoccupazioni generali per il futuro dell’umanità e dell’intero pianeta hanno raggiunto livelli straordinariamente elevati, potrebbe apparire molto lontano dalla realtà, dai suoi problemi assillanti e dagli irrisolti ed inquietanti punti interrogativi.
Ma le parole di tutti i relatori, a cominciare da quelle introduttive del presidente Antonio Girardi, sono state tutte orientate a fare i conti con le criticità del vivere in sé e del momento presente, ma sempre nell’ottica di chi, nutritosi di cultura mistica, sa percepire, al di là delle apparenze fenomeniche e del flusso del divenire, la presenza onnipervadente di un principio unificatore e regolatore che strappa l’Essere dalle mani del Caso e che getta su tutto ciò che vive nelle infinite forme del Cosmo una luminosità intensa, ricca di Significato e di Bellezza.
Dalle varie relazioni, quindi, non sono tanto scaturiti fiumi di estatici elogi per l’armonia immanente alle “meccaniche celesti”, bensì hanno prevalso inviti a farci noi “creatori di un universo perfetto”, ad educare i giovani al desiderio di Bellezza, alla ricerca inesausta della Felicità attraverso la coltivazione di una mente “religiosa” sintonizzata con l’eternità, di una mente autenticamente compassionevole aperta ai bisogni altrui, capace di liberarsi dall’eresia della separatezza e di immergersi in una coscienza planetaria nella empatica prospettiva di una comprensione che si traduce in costruttiva cooperazione.
Insomma, in un mondo come l’attuale, caratterizzato dal trionfo delle più ignobili menzogne, dalla mistificazione imperante che disabitua all’esercizio del pensiero indipendente, dalla crescente incapacità di ascolto e di silenzio interiore, dalla ipocrisia della Forza più brutale che si erige sempre più prepotentemente e sistematicamente a Diritto, il pensiero teosofico dimostra di essere ancora attualissimo ed in grado di credere nelle potenzialità evolutive della natura umana, esortandoci a mantenere viva la fiamma interiore dei valori dello Spirito e a continuare a sperare in un mondo liberato dalle discriminazioni e dalle ingiustizie e finalmente benedetto dall’avvento della Fratellanza Universale.
* La Società Teosofica fu fondata a New York, il 17 novembre 1875, da Helena Petrovna Blavatsky e da alcuni suoi collaboratori, fra cui H. S. Olcott e W. Q. Judge.
Questi i suoi Scopi dichiarati:
1. Promuovere il sentimento di mutua tolleranza tra i popoli delle diverse razze e religioni.
2. Incoraggiare lo studio delle filosofie e delle scienze degli antichi popoli.
3. Incoraggiare le ricerche scientifiche sulla natura delle facoltà superiori dell’uomo.
Questa formulazione iniziale delle finalità della Società Teosofica fu perfezionata successivamente nella forma attuale:
1. Formare un nucleo della fratellanza universale senza distinzioni di razza, religione, sesso, casta e colore.
2. Incoraggiare lo studio comparato delle religioni, filosofie e scienze.
3. Investigare le leggi inesplicate della Natura e le facoltà latenti nell’uomo.
La Sezione italiana della Società Teosofica fu fondata nel febbraio del 1902.
https://www.teosofica.org/it/
Buongiorno Gloria, tu hai curato un progetto fotografico dal titolo -Vite di seconda scelta - La storia dei Celestini di Prato-.
D- Vuoi dirci e spiegarci chi erano i Celestini?.
R- I Celestini erano i piccoli ospiti del rifugio -Maria Vergine Assunta in Cielo-, un istituto con sede in Prato, zona Castellina, che si occupava di ricevere i bambini cosiddetti -problematici-. Mi spiego meglio: si trattava figli di famiglie numerose o di genitori che dovessero lasciare la città per lavoro piuttosto che bambini non desiderati, orfani, etc. Il nome deriva dal fatto che indossassero un grembiulino celeste, il colore scelto in onore alla purezza della Madonna , al culto della quale tutto l'operato di Padre Leonardo (il reggente della struttura) era dedicato.
D- Come era venuta a Padre Leonardo l'idea di fondare questo istituto?
R- Padre Leonardo era un frate cappuccino, l'unica figura appartenente ad un vero e proprio ordine religioso. L'idea di fondare l'istituto gli venne durante uno dei suoi viaggi -missionari- in Puglia: entrato dentro una chiesa ebbe una visione di un angelo con in mano la scritta -Lasciate che i pargoli vengono a me-. Tornato a Prato, nel 1934, decise di mettere su un rifugio dove potesse accogliere -soltanto chi non essendo fornito di mezzi economici neppure modesti fosse a se stesso abbandonato-. E' un istituto di natura privata, che si auto-sostenta grazie alle numerose e generose donazioni di benefattori più o meno noti. La gestione è affidata a due società: l'immobiliare civile pratese e la MA.VE.
D- Sappiamo che la storia giudiziaria alla quale è andata incontro a questo Istituto è stata lunga e difficile. Vuoi parlare?
R- Partiamo dall'inizio. La vicenda ci mette un bel po' di anni per venire alla luce: le prime denunce da parte degli insegnanti (esterni alla struttura) sono di circa dieci anni prima della chiusura dell'istituto, ma rimangono lì, inascoltate, chiuse in un cassetto. Tutto esplode quando si cominciano a registrare delle fughe di bambini che fanno notizia sui giornali locali ma non vengono denunciate alle autorità e quando, a causa di un'appendicite non curata se non, secondo alcuni, con impacchi di santini e con olio santo, un ragazzino muore tra atroci sofferenze. Parliamo di Santino Boccia, era il 30/03/1965. I pratesi, da frequentatori della domenica, cominciano a farsi domande. Questo genera un dibattito che ha ampio spazio sui quotidiani e che fa arrivare il caso fino all'amministrazione comunale, all'interno della quale viene poi nominata una commissione di inchiesta con il compito di far luce, per quanto possibile, sulle vicende che ormai sono sulla bocca di tutta la città. Dopo qualche settimana di indagini, i capigruppo consiliari redigono un rapporto piuttosto dettagliato su quella che era la situazione dell'istituto, alla conclusione del quale si scrive -…La commissione concludendo i suoi lavori ha riscontrato l'inadeguatezza dei locali e delle norme igienico- sanitarie, l'insufficienza della dieta alimentare, la non qualificazione del personale addetto sia a funzioni direttive che esecutive e infine l'inidoneità dei metodi educativi. Inizia una sorta di -riqualificazione- dell'istituto ma il Ministro della sanità Mariotti decide per la chiusura definitiva. Contestualmente vengono denunciati cinque dei sorveglianti (Vincenza Perrotta, Lucia Napolitano, Alighiero Banci, Luciano Pacini, De Lucia Angela) la dott.ssa Fernanda Oliva e Padre Leonardo. Le accuse sono rispettivamente: abuso di mezzi di correzione, abbandono di incapace, omicidio colposo. Una giovane avvocatessa (Bianca Guidetti Serra) ha registrato qualche bambino e le relative famiglie e li fa costituire parte civile al processo penale, denunciando anche come sia stata omessa la responsabilità di tutta quella parte di istituzioni che dovevano vigilare ma non lo hanno fatto (ONMI e prefetto di Firenze in modo particolare).
Nel dicembre 1968 furono condannati quattro sorveglianti su cinque e Fernanda Oliva; Padre Leonardo invece fu assolto per insufficienza di prove. Furono concessi a tutti due anni di condono e nel 1971 ottennero tutti un altro sconto di pena, a parte la dottoressa.
D- Hai mai avuto contatti diretti con ex celestini? senza farne ovviamente i nomi, puoi dirci cosa ti hanno detto di quel loro infernale periodo?
R- Beh si. Alcuni di loro li ho incontrati di persona, con qualcuno ho parlato per telefono. Contrariamente a quanto mi aspettassi, conservano ancora abbastanza nitidi i ricordi di ciò che hanno dovuto subire, episodi da far rabbrividire e che chiaramente lasciano e hanno lasciato tracce nei comportamenti di queste persone sia nell'immediato che a distanza di molti anni. Uno di essi, MT (uso solo le iniziali per questioni di privacy), mi ha raccontato che, uscito dall'istituto perché portato via dal padre, aveva perso completamente l'uso della parola. Gli ci è voluto un annetto per tornare a parlare, abbastanza forte era stato lo shock di questo suo vissuto. Oltretutto anche in età adulta ha continuato ad avere degli incubi riconducibili a quel periodo della sua vita. Ricorda in maniera molto chiara il sasso enorme all'interno del bosco retrostante l'istituto, dove andava a piangere disperatamente. Un altro, LM, mi ha raccontato che ogni bambino aveva dei lavori da svolgere; a lui ad esempio toccava svuotare il -bottino-. LB invece è stato punito perché si era rifiutato di picchiare il fratello con la sistola dopo che era stato legato al letto dai -fratelli- e -sorelle- (colpevole di aver fatto la pipì a letto). Nei racconti dei testimoni che ho ascoltato è una costante inquietante quella delle botte e delle punizioni: tutti mi hanno detto che non passava un giorno senza buscarne, e che, quando ti picchiavano, lo facevano con qualsiasi cosa si trovassero per le mani. Le punizioni più gettonate invece erano le croci in terra con la lingua, oppure il leccare la pipì in terra, le docce gelate, le secchiate di acqua fredda se non ti svegliavi la mattina. Un altro aspetto rilevante era la vita che questi bambini conducevano: una vita totalmente religiosa, scandita dalle preghiere e dai rosari. All'interno dell'istituto non c'erano distrazioni per i piccoli ospiti, non un giornalino, un pallone, un film alla tv. Queste erano considerate deviazioni dalla retta vita religiosa. Gli unici svaghi erano la -barauffa-, cioè quando Padre Leonardo, dopo la messa della domenica, si ritirava nella sua stanza e dalla finestra lanciava una manciata di caramelle (solo il quantitativo che entrava in una mano) ai bambini che aspettavano sotto e si azzuffavano per acchiappare qualcosa, ei gomitoli di spago annodato: ad ogni giaculatoria recitata si faceva un nodo allo spago: chi faceva il gomitolo più grosso vinceva.
D- Tu, dal momento in cui hai saputo di questo Istituto situato a Prato, ti sei veramente impegnato per la ricerca di tutto quanto è affine all'argomento. Puoi dirci fino a che punto hai scavato per informare chi ancora non conosceva tale delirio?
Ho iniziato nel più classico dei modi: cercando su Google notizie inerenti all’argomento. Poi ho scoperto dell’esistenza del gruppo Facebook che riunisce ex celestini e da lì sono passata ai contatti diretti con alcuni di essi. Sono stata in biblioteca (Lazzerini, a Prato), ho contattato la Nazione, un fotografo (Ranfagni) che ha scattato alcune foto all’epoca dell’esistenza dell’istituto. Ho cercato negli archivi online dei quotidiani locali, trovando molti articoli in merito alla vicenda. E’ stato interessante leggere come l’opinione pubblica e le varie figure in gioco si scambiassero battute tramite articoli di giornale. Al momento sto cercando di approfondire un po’ di più la parte inerente alla vicenda giudiziaria, ma è una strada in salita, essendo un fatto accaduto molti anni fa è difficile risalire alle carte. Io ci provo però.
D- Vuoi parlarci liberamente di quanto tu sia rimasta sconvolta e cosa ti ha dato maggiormente fastidio?
R- A mio parere la parte più fastidiosa di tutta questa vicenda è la cattiveria, la violenza riversata su creature innocenti, colpevoli solo di non essere state abbastanza agiate o fortunate nella vita. Cito testualmente dalla prefazione a -Il paese dei celestini - Istituti di assistenza sotto processo- (a cura di Bianca Guidetti Serra (che poi è la giovane avvocatessa che fece sì che i bimbi e le loro famiglie potessero costituirsi parte civile al processo) e di Francesco Santanera:
-Purtroppo i -celestini-, e diamo a questo termine un significato simbolico, nasceranno sempre nelle classi povere o poverissime, dove l’insufficienza di cibo si manifesta spesso in termini di fame; dove i più elementari interventi igienico-sanitari sono insufficienti se non assenti; dove l’istruzione, anche quella dell’obbligo, è ancora privilegio... Lo -scandalo- primo e vero sta nel fatto che i -celestini- esistano e se ne creino di continuo-.-
Questo è un pensiero che condivido e che purtroppo è sempre attuale. Viviamo in un mondo che viaggia a più velocità e dove chi sta dietro non avrà quasi mai la possibilità di passare avanti perché non può permettersi gli strumenti per farlo.
Altrettanto fastidioso è per me il fatto che i veri responsabili siano stati in qualche modo salvati dal processo. La giurisprudenza non è il mio campo, ma insomma, credo che non solo i sorveglianti dovessero essere indagati, processati e poi puniti, ma anche coloro che il proprio mestiere non hanno saputo farlo, non avendo vigilato.
D- Pensi che ancora ci sia qualcosa e qualcuno da identificare per dare una forma di giustizia a chi ha sofferto in quel periodo doloroso per molti bambini?
R- Ormai i responsabili della vicenda sono tutti morti, essendo passati molti anni. Credo però che la massima forma di giustizia sia riportare alla luce questa vicenda, farla conoscere, nella speranza che ciò che è accaduto in passato non si ripeta. In fin dei conti è una storia che appartiene al substrato culturale della mia città, trovo giusto che almeno i pratesi la conoscano.
D- Hai progetti futuri per quanto riguarda l'informazione legata a questi fatti ormai storici?
R- Mi piacerebbe che questo mio lavoro fotografico e di indagine arrivasse a più persone possibili. Il sogno sarebbe di farlo diventare un libro, all’interno del quale vorrei raccogliere testimonianze, immagini, articoli, documenti. Insomma, tutto ciò che sono riuscita a trovare, a ricostruire, a fotografare.
D- Pubblicizza il tuo progetto per chi vorrà approfondire visibilmente l'argomento.
R- Sto lavorando al mio sito web, spero a breve possa essere online.
Li potrete approfondire un po' l'argomento. www.gloriamarras.it
Vorrei approfittare di questo spazio per lanciare un appello: se siete ex celestini o se siete a conoscenza di un ex celestino, vorrei intervistarlo e fotografarlo. Il mio progetto è ancora in corso… ed ogni testimonianza è preziosa!
Grazie della tua preziosa testimonianza
Grazie a te, Marzia!
Come il piccolo così il grande.
Se, come dice la fisica, nulla si crea e nulla si distrugge, si può supporre che le cose esistano da sempre, anche se mutano nel tempo e nello spazio. E su questa logica la materia, come noi la conosciamo, muta e nel suo mutare passa da dimensione in dimensione, a seconda della sua composizione energetica, e le forme/vita si manifestano a seconda dei regni e della specie; ma alla fine del ciclo vitale nulla si dissolve nel nulla perché il Nulla si presume che non esista. Per questo si può pensare che la materia (le cose, i viventi, il cosmo, l'universo) sia infinita ed eterna.
Probabilmente un centro primigenio ha dato vita ad un meccanismo chimico che nel tempo a formato alla materia come noi la conosciamo e alla molteplicità delle cose. ma la domanda è: o l'universo ha generato se stesso all'interno del Nulla (ma il Nulla non può contenere qualcosa) o vi è un principio esterno alla materia di natura diversa che ha generato la materia. Ma un principio esterno/eterno/infinito può generare cose transitorie? Le cose eterne non hanno né principio né fine.
Se l'universo è infinito non può essere all'interno di qualcosa di finito e quindi di transitorio. Se fosse transitorio sarebbe all'interno di qualcosa di transitorio, cioè di materiale che lo contiene, e questo, a sua volta, di qualcos'altro di transitorio; quindi è probabile che l'universo materiale sia all'interno di qualcosa di eterno ed infinito e che le cose esistono da sempre e sempre esisteranno anche se, in forme e dimensioni diverse.
Ogni cosa materiale è energia concentrata. La materia è composta di atomi. L'atomo di particelle sub atomiche (elettroni, protoni, neutrini, quark). Se più atomi fanno una cellula, più cellule formano i tessuti, più tessuti un organo e più organi un apparato e, più apparati un corpo, più corpi formano le galassie, più galassie l'universo: l'indagine non può fermarsi all'universo : più universi che si formano? Il Cosmo? E più cosmi che formano?
Ogni pensiero individuale è parte del pensiero collettivo. Ogni coscienza individuale è parte della coscienza collettiva e questa della Coscienza Cosmica. Se un corpo è dotato di coscienza e intelligenza non possono esserne prive le singole parti che lo compongono.
“Chi se ne frega” è la logica che governa il comportamento della stragrande maggioranza degli umani, di quelli non proprio avvezzi a comportamenti rispettosi delle norme, o al limite ritengono che le regole devono essere gli altri a rispettarle. Di solito l’essere umano si comporta incurante degli effetti che producono le sue azioni e così succede che i potenti fanno la guerra distruggendo uomini e cose perché se ne fregano degli effetti devastanti che producono; se ne fregano se nel mondo un miliardo di persone soffre la fame; se ne fregano se le classi meno abbienti hanno salari da fame, o se manca il lavoro; il ladro se ne frega del danno che procura; lo stupratore se ne frega del dramma che causa alla sua vittima; lo spacciatore se ne frega se induce allo sbandamento e anche al suicidio il tossico dipendente; il mafioso se ne frega; l’assassino se ne frega; l’usuraio se ne frega; lo scafista se ne frega se prosciuga le ultime gocce di sangue ai migranti; se ne frega chi usa mangiare le carne, il pesce, i formaggi, le uova se quelle creature vivono in un inferno per poi essere crudelmente uccise. La stessa logica che muove il vivisettore, il cacciatore, il pescatore è sempre la medesima: “Chi se ne frega”.
Questo modo di pensare, di sentire questa mentalità egoistica, insensibile, indifferente accompagna il genere umano fin da dai primordi ed è la causa di ogni violenza, di ogni ingiustizia, di ogni prevaricazione, di ogni guerra: è la logica di chi considera propri interessi, i propri vantaggi, i propri piaceri prevalenti sulle sofferenze e sulla vita degli altri. Con una mentalità ed una coscienza comune improntata sul “Chi se ne frega” come si può sperare che l’umanità migliori.
Ma se qualcuno ti chiede aiuto e tu te ne freghi probabilmente quando sarai tu ad aver bisogno d’aiuto saranno gli altri e fregarsene. Perché nella vita prima o poi si raccoglie quello che si semina. Non fare ad altri ciò che non vorresti per te stesso, questa è la regola aurea valida sotto ogni cielo che noi universalisti/vegan estendiamo dall’uomo ad ogni essere senziente.
“Chi se ne frega” sono modi di essere e di agire agli antipodi della nostra visione in cui l’empatia, la capacità di condividere le esigenze degli altri, in senso lato, è alla base dei nostri principi, del nostro vivere quotidiano. Se, come diceva B. Pascal “Nulla è più plasmabile dell’animo umano”, quello che manca è la volontà di intervenire sull’indole umana, rimasta eticamente, mentalmente e moralmente allo stato dell’uomo delle caverne. Ma l’evoluzione etica, mentale e spirituale è inevitabile e l’essere umano arriverà a capire che la soluzione di tutti i suoi problemi non sta nei sistemi politici o economici; non sta nell’essere efficienti nell’arginare gli effetti prodotti dagli errori ed orrori umani, ma nella volontà di intervenire sull’uomo attraverso programmi di informazione e formazione del pensiero e della coscienza umana.
Gli organismi viventi (prescindendo dai minerali) si dividono in 5 regni: batteri, protisti, piante, animali e funghi. Non è possibile stabilire una demarcazione netta tra il regno animale, vegetale e minerale. Nella scienza non esiste il concetto di organismi più evoluti e meno evoluti, o meno dotati. Se l'uomo ha maggiore intelligenza e linguaggio più articolato i pipistrelli hanno gli ultrasuoni e i serpenti a sonagli possono vedere i raggi infrarossi ecc. Ma è difficile stabilire se sia più “evoluta” la formica o l’albero di fico. Vi sono anche organismi vegetali che hanno caratteri acquisiti per derivazione, come il fiore, il frutto, il seme ecc., mentre gli animali ne hanno altri, come il sistema nervoso, ecc..
La vita è ciò che, attraverso le funzioni biochimiche, consente ad ogni organismo di svilupparsi e di progredire nel piano dell’evoluzione. L’uomo considera erroneamente il valore della vita della sua specie sostanzialmente superiore alla vita degli altri esseri viventi. In realtà non c’è la vita dell’uomo, la vita dell’animale e la vita della pianta, ma la Vita come realtà univoca che tutto pervade e tutto vivifica, con un unico gene di partenza. “Chi non rispetta la vita non la merita”. Così diceva Leonardo da Vinci.
La Vita è paragonabile all’acqua che riempie e si adatta a recipienti di ogni tipo e forma: in ogni recipiente vi è la stessa sostanza il cui valore non è in funzione né della forma occupata né del quantitativo contenuto. Da questo si può dedurre che qualunque uccisione che pone fine all’esistenza di un essere danneggia non solo la vittima ma la Vita: è come se la Vita fosse una moltitudine immensa di candele accese nell’universo: ogni candela che si spegne oscura un pò l’universo. Vi può essere una differenza di grado non di sostanza, come diceva Giordano Bruno e non solo; il recipiente può contenere a seconda delle sue capacità; l’intelligenza come il sentire può essere più o meno sviluppato a seconda della specie ma la sostanza è identica.
Allo stesso modo l’intelligenza dell’uomo non è diversa dell’intelligenza dell’animale o anche della pianta (ammesso che si possa parlare di intelligenza della pianta). L’intelligenza, o capacità di ragionare, è espressione unica in qualunque essere si manifesti; allo stesso modo il sentimento umano non è diverso dal sentimento animale (o della pianta): è l’identica sostanza che si manifesta in tutti gli esseri viventi. Credo che la natura (o Dio) non ha creato l’intelligenza dell’uomo, quella dell’animale o quella della pianta, come non ha creato una sfera emozionale per l’uomo diversa dalla sfera emozionale dell’animale o della pianta. Credo che ogni specie abbia le sue peculiarità e che queste siano più o meno manifeste a seconda delle esigenze vitali di ogni specie e della loro specifica esigenza di progredire.
Corpo, Mente, Intelligenza, Sentimento e Vita siano realtà tra loro INSEPARABILI e comuni ad ogni organismo vivente, anche se è difficile pensare che la pianta abbia necessità della componente emozionale, dal momento che l’indagine umana riesce appena (per ora) ad individuarla nel mondo animale. Ma io ritengo che se manca una sola di queste componenti non è possibile che si manifesti la Vita.
Da alcuni mesi, il monaco buddhista vietnamita Thich Nhat Hanh ha concluso la sua avventura terrena. E ci ha lasciato davvero molte cose preziose.
A tanti, ha tanto insegnato. Fra i grandi suoi insegnamenti, spicca, sopra ogni altro, quello relativo al modo in cui dovremmo rapportarci alla vita, assumendo una prospettiva di massima consapevolezza relativa alla bellezza di quanto riceviamo attimo per attimo, ed alle infinite opportunità che essa generosamente ci regala.
Thich Nhat Hanh è stato, forse, il maestro che più di ogni altro ci ha aiutato, con ferma quanto acuta delicatezza, ad aprire gli occhi e la mente per comprendere quanto le nostre esistenze siano ricche di incalcolabili tesori che troppo spesso, noi, schiacciati dal peso del passato e assillati dai pensieri timorosi e desiderosi sul futuro, finiamo per ignorare, per dimenticare, per sperperare.
“La nostra vera casa – ha scritto – è il momento presente. Vivere nel momento presente è un miracolo. Miracolo non è camminare sull’acqua. Miracolo è camminare sul nostro verde pianeta nel momento presente, per poter apprezzare la pace e la bellezza che ci si offrono proprio ora. La pace è ovunque intorno a noi, nel mondo e nella natura, e dentro di noi, nei nostri corpi e nelle nostre anime. Se solo impariamo a entrare in contatto con questa pace, a toccarla, saremo guariti e trasformati.” (Toccare la pace, Ubaldini Editore, Roma 1994, p. 7)
In definitiva, il messaggio più grande e più bello che ci ha affidato credo sia quello relativo al sentimento di costante gratitudine che dovremmo imparare a nutrire lungo il percorso del nostro cammino quotidiano. Messaggio tutt’altro che facile, scaturito da una esistenza colma di grandi sofferenze e di dolorose tragedie:
“Siamo passati – scrive – attraverso sofferenze interminabili, un tunnel infinito di dolore e oscurità” (ivi, p. 105)
Un messaggio che, evidentemente, di tutto ciò proprio si è saputo nutrire, per riuscire a parlare ai nostri cuori, con una forza straordinaria intrisa di lirismo, di Amore e di Gioia … Nonostante tutto …
La pratica della consapevolezza è, infatti, un “importante agente di trasformazione e di guarigione”, che può consentirci di smettere di essere vittime della distrazione, interrompendo di cercare “la felicità in qualche altro posto, ignorando e distruggendo i preziosi elementi di felicità che sono già presenti dentro di noi e intorno a noi.” La consapevolezza ci permette di cessare di innaffiare i “semi di infelicità” presenti in noi, spingendoci ad innaffiare, invece, con premurosa cura, “i semi della pace, della gioia e della felicità ”. (ivi, p. 27 )
Ciò al fine di scoprire (o riscoprire) che
“Tutti noi, i bambini come gli adulti, siamo dei bei fiori”,
e che, per conservare la giusta freschezza, è necessario apprendere a saper fermare, per il nostro bene e per il bene di chi ci vive accanto, “le preoccupazioni, le ansie, l’agitazione e la tristezza, così da poter trovare pace e felicità e sorridere ancora.” (ivi, p. 15)
Un insegnamento che può essere forse racchiuso efficacemente nell’invito che ci ha voluto rivolgere a renderci capaci di dire “grazie” con sincerità e con vigore per la miracolosa bellezza della Vita. Perché
“Non c’è bisogno di morire per entrare nel Regno dei Cieli. Anzi, dobbiamo essere completamente vivi.” (ivi, p. 13)
Se la ragione, infatti, ci obbliga ad essere severi nei confronti della realtà in cui viviamo, sia per quel che concerne l’operato umano, sia per il vivere stesso nella sua dimensione più naturale, il cuore di chi ha imparato ad osservare non può non esercitare una continua, sentita “pratica del ringraziamento”.
Come un canto di gioia, come una preghiera commossa, come una poesia …
Ringraziamento per mille e mille cose che si verificano o che non si verificano, per tante e tante cose che si sperimentano, che si ricevono in dono …
Quante sono? Quanti di noi se ne accorgono davvero? O almeno un po’? Impossibile accorgersi di tutto quello che meriterebbe un “grazie”, ma dovremmo sforzarci di capire, di percepire …
Insopportabile chi considera tutto “ovvio”, come se tutto fosse “normale” o, addirittura, “dovuto”.
In realtà, se osservassimo attentamente questa strana e terribile nostra esistenza, dovremmo accorgerci facilmente che nulla è dato per certo, davvero nulla. Da qui, la meraviglia di cui parlava Aristotele e da cui, sempre, bisognerebbe partire per dire qualcosa di sensato sul vivere.
Non è ovvio il fatto che i nostri polmoni funzionino, si allarghino, si riempiano di aria, la spingano fuori, senza fatica, senza dolore, senza rumore, senza comando, che facciano tutto da soli, anche se noi pensiamo ad altro.
Non è ovvio che il sangue ci circoli nelle vene, vada su e giù, irrorando tutto il nostro organismo …
E non è certo ovvio il fatto che siamo in grado di sperimentare tutto ciò, di comprenderlo anche in parte, di riflettere sul perché, sul come, sul significato, ecc …
E’ tutto immensamente meraviglioso.
E’ tutto immensamente incomprensibile, inspiegabile, incomprensibilmente immenso.
Che tutto questo sia (invece che non essere) dovrebbe farci meditare per una intera vita. Ogni ora ha le sue innumerevoli cose per cui rallegrarsi, per le quali fare un passo di danza, lanciare un inno alto nei cieli …
Bisognerebbe iniziare la giornata ringraziando.
Bisognerebbe coricarsi cantando lodi di ringraziamento.
Non a qualcuno. Alla vita generosa che ci ha donato il respiro e innumerevoli attimi in cui avremmo potuto fare cose importanti e belle. E conta poco se non le abbiamo compiute: la vita ci aveva messo nella condizione di poterle fare …
Assumere l’atteggiamento del ringraziamento addolcisce l’animo, ci rende più attenti, più capaci di comprendere il valore delle cose. Ci aiuta ad assumere un’attenzione quasi religiosa nei confronti della nostra sorte quotidiana, a farci diventare parsimoniosi nell’uso del tempo, a toglierci dalla mente i rimpianti e le lagnanze di ogni tipo.
Ma ringraziare non significa accogliere la vita totalmente e incondizionatamente per quello che è. Non significa accettazione acritica e immobile. Significa cercare di comprendere la natura e il giusto significato degli incommensurabili “talenti” che ogni attimo contiene. E saperli apprezzare al meglio. E saperli ben impiegare, facendoli fruttare in tutto il loro straordinario insondabile e imprevedibile potenziale.
Nel periodo presente, durissimo e tristissimo, pieno di incognite sommamente inquietanti e angoscianti, riconsiderare con grande attenzione il messaggio di questo grande mistico vietnamita potrà rappresentare, credo, una fonte preziosa di luce aurorale e di fiduciosa visione del domani.
“ “Il miracolo è camminare sulla Terra”. Questa frase è stata pronunciata dal maestro zen Lin Ci. Miracolo non è camminare sull’acqua, o nell’aria, ma camminare sulla Terra. La Terra è talmente bella. E anche noi siamo belli. Possiamo concederci di camminare in consapevolezza, toccando la Terra, la nostra madre meravigliosa, a ogni passo. Non c’è bisogno di augurare agli amici: “La pace sia con te”. La pace è già con loro. L’unica cosa che dobbiamo fare è aiutarli a coltivare l’abitudine di toccare la pace in ogni momento.” (ivi, p. 13)
fratel Jean-Pierre Schumacher |
Se ne è andato anche Jean-Pierre, l'ultimo monaco di Tibhirine, sopravvissuto alla strage del '96. Ci aveva raccontato la convivenza con i musulmani in Algeria, la notte dell'assalto islamista, la sua vocazione.
La settimana scorsa è morto fratel Jean-Pierre Schumacher, l'ultimo sopravvissuto al massacro avvenuto nel 1996 dei trappisti del monastero di Tibhirine, in Algeria, rapiti e poi uccisi da militanti islamici: due mesi dopo - la notizia fece il giro del mondo - le loro teste furono fatte trovare a un crocevia, dei corpi non si seppe più nulla.
Quella tragica notte fratel JeanPierre scampò al sequestro perché era di servizio in portineria, in un edificio adiacente al monastero. Se n'è andato all'età di 97 anni nel monastero di Notre Dame de l'Atlas a Midelt, in Marocco, dove allora dopo la strage: l'unica presenza trappista rimasta da in Nordafrica. Dove lo incontrai. Pubblichiamo parte di quel dialogo.
I sette monaci uccisi sono stati beatificati nel 2018 a Orano, insieme ad altri dodici martiri d'Algeria.
Perché ha scelto di farsi monaco?
«Ho sentito in me una chiamata per questa vocazione. Pensavo che Dio stesso mi chiamava, per dare totalmente a lui la mia vita. Mi piaceva molto vivere in un monastero: una vita di silenzio, di lavoro, di preghiera. Una vita fraterna, di comunità. Un cammino di comunione verso il Signore. Convertirmi a una vita sempre più disponibile verso Dio, e lasciarmi trasformare da Gesù. Sono arrivato a Tibhirine il 19 settembre 1964».
Com’era la vita laggiù all’epoca?
«Ci aveva chiamati il cardinale Duval, per conservare il monastero che stava per essere chiuso. Era dopo l’indipendenza dell’Algeria, l’ambiente era totalmente musulmano, non c’era un solo cristiano nei dintorni. Eravamo in montagna, sull’Atlante, a 1000 metri di altitudine. Questo era il progetto che ci hanno proposto: fare l’esperienza di una piccola comunità povera. In passato possedeva una proprietà di 150 ettari, ma era stata ceduta quasi interamente allo Stato. Erano rimasti una dozzina di ettari, di cui solo cinque coltivabili, e con quello bisognava vivere.
Dovevamo farci accettare come monaci e come francesi in un ambiente totalmente musulmano. Potevamo ispirarci ai documenti del Concilio riguardanti le religioni non cristiane, per poter instaurare un nuovo stile di relazioni.
Non cercavamo di convertire, ma solo una convivialità con la gente per progredire così nella mutua conoscenza, nella stima reciproca, e infine aiutarsi ad andare insieme verso Dio, ognuno con la propria fede. Per essere noi dei cristiani migliori e aiutare loro a essere musulmani migliori»
Qual è la sua idea sull’islam?
«È molto difficile da dire, perché l’Islam è qualcosa di molto vario.
Quello che ci è piaciuto molto a Tibhirine è stata la vicinanza alla gente, e il rapporto con dei Sufi che abbiamo conosciuto nel 1979. Ci incontravamo due volte all’anno da noi al monastero, partecipavamo ad un gruppo di spiritualità che si chiamava “il legame”. Ci avevano chiesto di non parlare di teologia perché non si poteva progredire molto così, dato che le nostre fedi erano differenti. Ci hanno proposto fin dall’inizio di pregare insieme, in silenzio. Eravamo riuniti in una saletta, con tappeti tutt’attorno e un tavolino in mezzo. Stavamo seduti per mezz’ora in comunione con Dio,».
Li chiamavate «i nostri fratelli musulmani».
«Sì perché volevamo che tutti fossero fratelli. Padre De Foucauld voleva essere il fratello di tutti gli uomini, qualunque fosse la loro religione e la loro ideologia. Questa è una meta verso la quale tendiamo incontrandoci con gente totalmente diversa da noi. A Tibhirine si diceva “i fratelli della montagna” e “i fratelli della pianura”: i fratelli della montagna erano i combattenti, che volevano un altro governo; i fratelli della pianura erano i militari. Chiamavamo fratelli sia gli uni che gli altri perché non volevamo prendere posizione nella battaglia che combattevano. Volevamo che tutti fraternizzassero».
Ci racconta il rapimento?
«Era la notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, verso l’una. Io ero portinaio notturno, mi sono svegliato al rumore delle voci davanti al cancello e ho pensato: “Ecco sono qua, sono quelli della montagna, i combattenti. Vorranno senz’altro vedere il dottore e ricevere delle medicine, avranno qualcosa da chiederci”. Toccava a me aprire il cancello, ma erano già entrati, erano vicini.
Allora vado a vedere alla finestra, senza accendere la luce, e ne vedo uno che entra con il suo turbante e il suo fucile in spalla dalla piccola porta del muro di cinta che dava sulla strada. Normalmente non sarebbe potuto entrare, visto che il cancello lo chiudevo tutte le sere con un grosso lucchetto. Fratello Christian, il priore, era uscito e ho pensato che fosse stato lui a farli entrare. Un quarto d’ora dopo sento la piccola porta che si richiude, quindi ho pensato che se ne fossero andati. Poco dopo qualcuno venne a bussare alla mia porta a vetro: apro e vedo padre Amedée che mi ha raccontato subito quanto era successo, e cioè che i padri erano stati rapiti e che eravamo rimasti da soli. Aveva trovato tutte le luci accese, e Frère Luc era sparito. Cristian anche lui era sparito.
I cassetti erano aperti, la stanza sottosopra; c’erano carte dappertutto per terra, e i fili del telefono erano tagliati. È salito al primo piano per vedere se c’era ancora qualcuno che non fosse stato preso, ma lì vede la stessa scena: le cinque stanze vuote e i cinque frati scomparsi. Padre Amedée e io abbiamo subito capito che i rapitori erano i combattenti islamici».
Cosa sente nei confronti di queste persone?
«Non so, è difficile per me giudicare, perché non so chi è responsabile. Da anni si indaga per sapere del rapimento dei fratelli e dove sono stati portati, come sono stati uccisi, chi li ha uccisi...Ancora non si sa. Le persone che hanno portato via i padri possono essere state utilizzate da altri. È difficile dare un giudizio. Noi ci aspettavamo che da un giorno all’altro succedesse qualcosa, dal 1993 vivevamo in una situazione di pericolo. Poteva accadere qualsiasi cosa in qualsiasi momento, e c’era talmente tanta gente nelle nostre stesse condizioni in tutta l’Algeria... Sono morte migliaia di persone».
Perché siete rimasti?
«Non eravamo unanimi all’inizio. Penso che la ragione principale sia la ragione stessa della nostra vocazione. Siamo stati mandati in Algeria per stabilire un contatto con l’Islam, per vivere con la gente una vita di convivialità e progredire in uno spirito di mutua fraternità. E la nostra vocazione, la nostra missione non era terminata nonostante quella situazione di pericolo. Nostro Signore è il nostro maestro, quello che ci ha mandati qua, ed è a lui che obbediamo. Penso che per noi andarsene sarebbe stato come per un soldato al fronte disertare. C’era una sola ragione che ci poteva far partire: la gente che viveva attorno a noi. Se loro ci avessero detto: “Dovete andarvene, perché la vostra presenza rappresenta un pericolo per noi” saremmo partiti. Ma era tutto l’opposto: volevano che noi rimanessimo, la nostra presenza era una sicurezza per loro, che erano in pericolo come noi. Uno ci disse: ”Se partite che cosa ci succederà? Siamo come l’uccello sul ramo: se si taglia il ramo dove si poserà?”. È stato un impegno nei confronti dell’Algeria e della popolazione locale, una sorta di matrimonio. Non eravamo lì per essere martiri, non era il nostro obiettivo. Il nostro obiettivo era rimanere con la gente, anche se si sapeva benissimo che si poteva finire uccisi».
Carlo Carretto si chiedeva: «Perché la fede è così amara?».
«Bisogna guardare alla vita di Gesù: è lì che si trova la risposta. Gesù ha vissuto una morte molto crudele e la ragione per la quale ha dato la sua vita liberamente si vede il Giovedì santo, quando ha preso il pane e ha detto: “Questo è il mio corpo offerto per voi, questo è il mio sangue versato per voi”. Ha dato la sua vita affinché noi avessimo la vita, la vita di Dio. Non ha esitato. Sapeva che poteva andare incontro a momenti molto difficili, ma non ha indietreggiato. Aveva paura della morte e delle sofferenze che lo attendevano; ha enormemente sofferto durante l’agonia ma alla fine ha detto: “Sia fatta la Tua volontà”. Allora, perché la fede è così amara? È a causa del male che c’è nel mondo».
Cosa può dire ai giovani?
«Oggi tanti giovani sono molto generosi, ma sono attratti da ogni sorta di oggetti in fondo inutili. E rischiano di dimenticare l’essenziale. L’essenziale è far sbocciare quello che c’è di meglio in noi, come dice Guy Gilbert, un educatore degli emarginati: “C’è in ogni uomo, nel suo profondo, qualcosa di intatto, che non è mai stato rovinato”. E questa parte, che abbiamo tutti, ognuno deve cercare di svilupparla. Ma per riuscire a farla sbocciare non è solo, c’è lo Spirito Santo che parla al suo cuore, lo può incontrare nella preghiera e gli indica il cammino. Ma ci sono anche le buone compagnie, ci sono le associazioni, i movimenti di giovani. Voglio usare un’immagine che mi ha offerto un Sufi: “Quando la farfalla batte le ali – mi diceva - produce delle onde che si ripercuotono fino in capo al mondo”. Chi cerca il bene, chi cerca di far sbocciare il meglio di se stesso è come questa farfalla: produce delle onde che vanno in capo al mondo, la sua vita non è inutile, partecipa a far salire il livello del bene e dell’amore. Nessuno è inutile con il Signore, non c’è disoccupazione, sia quando si è piccoli sia quando si è anziani: il cantiere è immenso e tutti sono invitati a lavorarci».
L'amore vince su tutto?
«Qualsiasi siano le difficoltà, le sofferenze, il male che c'è nel mondo, è l'amore che avrà l'ultima parola. Questo è un atto di fede; siamo fatti per l'amore; l'amore vincerà il maschio. Non con la forza, con le armi, l'amore trionfa sul male perché è più forte. Ma non basta la persona umana: l'amore è una relazione con Colui che è la sorgente dell'amore. Gesù ha patito sofferenze indicibili sulla croce, per ore e ore, ma le ha vinte restando amore. È così che ha trionfato sul male, è rimasto amore fino alla fine»
Vivendo ancora nei rei retaggi primordiali di natura predatoria l’essere umano rivela la sua insensibilità non solo verso chi soffre per cause a lui estranee ma quando egli stesso è causa di ciò che non vorrebbe mai succedesse a se stesso. Nessuna ingiustizia, nessun furto, rapina, stupro, violenza, guerra, dittatura; nessun popolo in fuga dalla miseria sarebbe possibile per un’umanità la cui coscienza di tutti fosse sensibile e partecipe della condizione dell’altro.
L’inerzia e la non curanza verso gli effetti prodotti delle nostre azioni, delle nostre scelte quotidiane questo è il vero dramma del genere umano. L’indifferenza (figlia legittima dell’egoismo) è ciò che rende l’uomo capace di qualsiasi delitto, ma quando si manifesta da parte di coloro che detengono il potere economico, politico o tecnologico, allora gli effetti possono essere devastanti perché in grado di condizionare e manovrare le scelte politiche, culturali, scientifiche, religiose di ogni paese.
Le grandi lobby attraverso i media riescono a creare esigenze e tendenze i cui profitti economici vanno solo a loro vantaggio ma spesso a danno dei sistemi, della salute umana e dell’economia familiare. Anche nella scienza e nella ricerca la verità viene distorta con il veto sui risultati quando questi sono in antitesi con le aspettative di chi ha pagato la l’indagine.
La politica delle multinazionali improntata sul profitto e sul fatturato passa come un rullo compressore sulla vita di tutti. Se il potere economico condiziona l’evoluzione della cultura libera e democratica il compito di chi ha l’obbligo di tutelare il bene della popolazione dovrebbe essere di impedire la concentrazione di grandi capitali nelle mani di pochi e fare in modo che parte di questi siano utilizzati a creare lavoro per la popolazione.
Ma le multinazionali sono fatte di uomini è se questi sono tendenzialmente avidi e di natura predatoria è su questi che bisogna intervenire affinché il loro operato non sia a danno della comunità ma a beneficio di tutti. Questo è un problema antico come l’uomo. L’animo umano, aperto e sensibile alle necessità del prossimo, alla sofferenza dei deboli, degli indigenti, non si improvvisa. E’ la cultura antropocentrica dominante che ha depauperato negli esseri umani l’etica, la morale, la spiritualità abituandoli alla logica del dominio, del forte sul debole, del fine che giustifica i mezzi.
Per umanizzare i meccanismi, i sistemi, occorre umanizzare gli uomini perché tutto dipende, da sempre, dalla coscienza umana che a sua volta condiziona il modo di pensare e quindi i sistemi economici, politici, culturali, scientifici, tecnologici ecc.. Ma come umanizzare gli uomini? Come renderli più giusti, responsabili e sensibili? La capacità di immedesimarsi nelle esigenze degli altri deve essere la legge morale che governa la vita dei popoli. Questo può avvenire solo attraverso una politica ed un sistema educativo da parte dello Stato, della scuola e della famiglia in modo da mettere al primo posto i valori fondamentali della vita, di giustizia, lealtà, onestà, trasparenza. E anche se questo è un progetto a lunga scadenza (ma non utopia), se mai si inizia un percorso mai si arriva alla meta.