L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.


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Kaleidoscope (1368)

Free Lance International Press

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LA COMMISSIONE MEDICA INDIPENDENTE SPIEGA PERCHE’ I BAMBINI NON DOVREBBERO ESSERE SOTTOPOSTI AI “VACCINI” ANTICOVID*

 

Mentre le forze governative, alacremente supportate da una informazione che ben poco spazio lascia al confronto civile e al democratico dibattito, spinge, ogni giorno di più, per coinvolgere adolescenza e infanzia all’interno della campagna vaccinale, la Commissione Medica Indipendente, con un prezioso comunicato, indica con chiarezza i motivi per cui i bambini non andrebbero vaccinati.

Ecco i principali:

  • Non c’è alcuna emergenza Covid tra i bambini: in caso di contagio, in genere, sono asintomatici o con sintomi lievi.

  • Non c’è alcun aumento di mortalità per Covid tra i bambini.

  • I rischi di ricovero nei bambini sono molto ridotti.

  • Anche vaccinando i bambini (e chiunque altro) non sarebbe comunque possibile raggiungere la tanto invocata “immunità di gregge”.

  • I bambini non sono causa importante di trasmissione all’interno del nucleo familiare.

  • I non vaccinati non favoriscono, rispetto ai vaccinati, la circolazione virale e la diffusione di varianti.

  • Non è eticamente accettabile di vaccinare i bambini con la finalità (presunta) di proteggere indirettamente altri.

  • Il numero di bambini nei trial sui vaccini è insufficiente per rilevare la presenza di possibili eventi avversi gravi e rari.

  • I rischi della vaccinazione pediatrica risultano superare in modo dimostrabile i benefici.

  • E’ da ritenere controproducente impedire l’infezione da Sars-CoV-2 nei bambini, in quanto ciò li esporrebbe al rischio di contrarre la malattia in età più avanzata, con maggiori possibilità di più gravi decorsi.

  • Con le dovute cautele, andrebbe favorita, in età infantile, l’immunità naturale, più robusta e duratura di quella vaccinale.

  • I conflitti di interessi rendono gli studi fino ad ora pubblicati (finanziati dal produttore) poco affidabili, in quanto volti ad esagerare in modo sistematico i benefici.

  • Anche le società professionali, cospicuamente finanziate dalle case farmaceutiche, non sono in grado di esprimere linee guida indipendenti.

  • Non sono ancora disponibili cure per i bambini danneggiati dai vaccini attualmente in uso, mentre esistono interventi profilattici e utili terapie precoci.

La Commissione Medico-Scientifica (Paolo Bellavite, ematologo; Marco Cosentino, farmacologo; Vanni Frajese, endocrinologo; Alberto Donzelli, Igiene e medicina preventiva; Patrizia Gentilini, oncologa; Eugenio Serravalle, pediatra), al fine di discutere in merito alla urgenza e alla necessità della vaccinazione pediatrica anticovid, ha fatto richiesta in modo formale di un confronto scientifico urgente con il CTS del Governo.

*Per maggiori informazioni:

http://www.assis.it/vaccinazioni-pediatriche-anticovid-19-16-motivi-per-dire-no-non-avere-fretta-di-vaccinare-tuo-figlio/

http://www.assis.it/richiesta-di-moratoria-della-vaccinazione-anti-covid-19-ai-bambini/

Lo zucchero bianco, o saccarosio, (considerato uno dei cibi killer) viene depurato con latte di calce e per eliminare la calce in eccesso viene trattato con anidride carbonica, poi con l’acido solforoso per eliminare il colore scuro; poi viene filtrato e decolorato con carbone animale e infine trattato con il blu oltremare (proveniente dal catrame e quindi cancerogeno). Rimane una sostanza bianca cristallina senza vitamine, sali minerali, enzimi e oligoelimenti che può causare stress pancreatico, fermentazioni intestinali, gas, alterazione della flora batterica, picchi glicemici, aggressività nei bambini, diabete, obesità, debolezza, problemi visivi, carie, osteoporosi, perdita di capelli, alterazione del sistema endocrino; inoltre può paralizzare i moti peristaltici intestinali, generare acidità gastrica, alterazione del sistema endocrino, sottrarre calcio alle ossa e può essere causa di cancro allo stomaco.

Il saccarosio si “caramella” sulle mucose intestinali rallentando le funzioni digestive e bloccando la funzione degli enzimi. Di conseguenza lo stomaco è obbligato a fabbricare quantità sempre maggiori di acido cloridrico e il pancreas si atrofizza nell’assorbire l’eccesso di acido prodotto ed il fegato s’incrosta perché non può eliminare questa sostanza.

Per essere assimilato il saccarosio preleva dal nostro organismo vitamine e sali minerali al fine di bilanciare il pH del sangue a causa del suo forte potere acidificante causando indebolimento delle ossa, carie, artrosi, osteoporosi, cuscinetti adiposi, cellulite, ritenzione idrica, alterazione della flora batterica, coliti, diarrea, oltre naturalmente il diabete. Inoltre, un eccessivo consumo di zucchero può causare irritabilità, depressione, candidosi, picchi glicemici che compromettono il pancreas costringendolo a produrre insulina rischiando crisi ipoglicemiche.

Lo zucchero, essendo una sostanza altamente acidificante, oltre a creare un ambiente adatto allo sviluppo di batteri, lieviti, muffe, funghi all’interno dell’organismo, è in grado di produrre acetaldeide (una tossina cancerogena) ed alcol. Più zucchero riceve l’organismo più microrganismi nocivi si sviluppano. Inoltre lo zucchero può danneggiare il nostro corredo genetico: una singola dose di zucchero può compromettere le cellule per una decina di giorni.      

Lo zucchero è un prodotto senza vita: mancando di sostanze vitali e di minerali sottrae gli uni e gli altri all’organismo, in particolare le vitamine del complesso B necessarie al corretto funzionamento delle cellule cerebrali la cui carenza può essere causa di aggressività e comportamento violento dell’uomo. Quando il cervello non è alimentato di glucosio si genera difficoltà di attenzione e minore resistenza intellettuale e fisica.

Una ricerca clinica condotta su minorenni particolarmente rissosi, reclusi in 14 istituti di pena statunitensi, ha dimostrato che eliminando lo zucchero industriale dalla loro dieta le risse diminuivano del 40%. Analogo esperimento fu condotto in Inghilterra su 50 detenuti, con risultati pressoché analoghi.

Un’altra ricerca condotta in Virginia su 276 giovani delinquenti detenuti, ha dimostrato la riduzione del 50% del comportamento violento a seguito della soppressione dello zucchero industriale: annullando l’efficacia delle vitamine del complesso B si danneggia il corretto funzionamento delle cellule cerebrali rendendo l’individuo più irritabile, più soggetto allo stress e all’aggressività.

Quando si consumano troppi farinacei raffinati o zuccheri industriali viene secreta l’insulina che alla fine causa infiammazioni e, col tempo, obesità, diabete ed alcune forme di tumore. Questo perché l’insulina essendo un ormone della crescita può portare ad una proliferazione incontrollata delle cellule tumorali. Gli obesi ed i sedentari necessitano di molta insulina, per questo sono più degli altri soggetti al cancro del pancreas.

Lo zucchero ruba calcio e cromo per la sua digestione. Dà falsa euforia, eccitazione cui segue depressione, irritabilità, bisogno di altro zucchero. Viene velocemente assimilato nel sangue perché privo degli altri componenti nutrizionali: enzimi, minerali, vitamine, proteine, acqua. Il pancreas deve riequilibrare l’innalzamento repentino di zucchero nel sangue e questo causa stress ormonale e abbassamento delle difese immunitarie.

Lo zucchero di canna integrale biologico, il malto d’orzo o il succo di acero, sono meno dannosi dello zucchero bianco. Ma meglio ancora sarebbe non utilizzare zucchero industriale: lo zucchero di cui ha bisogno il nostro organismo è solo quello della frutta fresca ed essiccata. Il fruttosio è il vero, solo carburante della macchina umana. Quando si sente la necessità di qualcosa di dolce la cosa migliore è consumare datteri, prugne o albicocche secche, fichi secchi, uva passa… Le bevande che necessitano di essere addolcite (caffè, tè ecc.) non dovrebbero essere consumate.

          "I nostri risultati dimostrano che ciò che si mangia influenza il modo di pensare", ha detto Fernando Gomez-Pinilla, professore di neurochirurgia presso la David Geffen School of Medicine presso la UCLA e un professore di biologia integrativa e fisiologia nel Collegio UCLA di Lettere e Scienze. "Mangiare un alto contenuto di fruttosio dieta a lungo termine altera la capacità del cervello di apprendere e ricordare le informazioni. Ma l'aggiunta di omega-3 acidi grassi ai vostri pasti può aiutare a minimizzare i danni. L'insulina è importante per l'organismo per il controllo di zucchero nel sangue, ma può svolgere un ruolo diverso nel cervello, dove l'insulina sembra disturbare la memoria e l'apprendimento. Il nostro studio mostra che una dieta ad alto contenuto di fruttosio danneggia il cervello e il corpo”.

Alternative allo zucchero bianco

1)     Zucchero di canna integrale, possibilmente biologico;

2)     Melassa (deriva dallo zucchero di canna o da barbabietola);

3)     Sciroppo d’acero (liquido zuccherino);

4)     La Stevia (ha zero calorie);

5)     Lo sciroppo di mele;

6)     Il succo d’agave;

7)     Il succo d’uva;

8)     Lo sciroppo di mais;

9)     Il malto d’orzo;

10) Lo sciroppo di riso;

11) L’amasake (ottenuto dalla fermentazione del riso)

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fratel Jean-Pierre Schumacher

Se ne è andato anche Jean-Pierre, l'ultimo monaco di Tibhirine, sopravvissuto alla strage del '96. Ci aveva raccontato la convivenza con i musulmani in Algeria, la notte dell'assalto islamista, la sua vocazione.

 

 

La settimana scorsa è morto fratel Jean-Pierre Schumacher, l'ultimo sopravvissuto al massacro avvenuto nel 1996 dei trappisti del monastero di Tibhirine, in Algeria, rapiti e poi uccisi da militanti islamici: due mesi dopo - la notizia fece il giro del mondo - le loro teste furono fatte trovare a un crocevia, dei corpi non si seppe più nulla.

Quella tragica notte fratel JeanPierre scampò al sequestro perché era di servizio in portineria, in un edificio adiacente al monastero. Se n'è andato all'età di 97 anni nel monastero di Notre Dame de l'Atlas a Midelt, in Marocco, dove allora dopo la strage: l'unica presenza trappista rimasta da in Nordafrica. Dove lo incontrai. Pubblichiamo parte di quel dialogo.

I sette monaci uccisi sono stati beatificati nel 2018 a Orano, insieme ad altri dodici martiri d'Algeria.

Perché ha scelto di farsi monaco?

«Ho sentito in me una chiamata per questa vocazione. Pensavo che Dio stesso mi chiamava, per dare totalmente a lui la mia vita. Mi piaceva molto vivere in un monastero: una vita di silenzio, di lavoro, di preghiera. Una vita fraterna, di comunità. Un cammino di comunione verso il Signore. Convertirmi a una vita sempre più disponibile verso Dio, e lasciarmi trasformare da Gesù. Sono arrivato a Tibhirine il 19 settembre 1964».

Com’era la vita laggiù all’epoca?

«Ci aveva chiamati il cardinale Duval, per conservare il monastero che stava per essere chiuso. Era dopo l’indipendenza dell’Algeria, l’ambiente era totalmente musulmano, non c’era un solo cristiano nei dintorni. Eravamo in montagna, sull’Atlante, a 1000 metri di altitudine. Questo era il progetto che ci hanno proposto: fare l’esperienza di una piccola comunità povera. In passato possedeva una proprietà di 150 ettari, ma era stata ceduta quasi interamente allo Stato. Erano rimasti una dozzina di ettari, di cui solo cinque coltivabili, e con quello bisognava vivere.

Dovevamo farci accettare come monaci e come francesi in un ambiente totalmente musulmano. Potevamo ispirarci ai documenti del Concilio riguardanti le religioni non cristiane, per poter instaurare un nuovo stile di relazioni.

Non cercavamo di convertire, ma solo una convivialità con la gente per progredire così nella mutua conoscenza, nella stima reciproca, e infine aiutarsi ad andare insieme verso Dio, ognuno con la propria fede. Per essere noi dei cristiani migliori e aiutare loro a essere musulmani migliori»

Qual è la sua idea sull’islam?

«È molto difficile da dire, perché l’Islam è qualcosa di molto vario.

Quello che ci è piaciuto molto a Tibhirine è stata la vicinanza alla gente, e il rapporto con dei Sufi che abbiamo conosciuto nel 1979. Ci incontravamo due volte all’anno da noi al monastero, partecipavamo ad un gruppo di spiritualità che si chiamava “il legame”. Ci avevano chiesto di non parlare di teologia perché non si poteva progredire molto così, dato che le nostre fedi erano differenti. Ci hanno proposto fin dall’inizio di pregare insieme, in silenzio. Eravamo riuniti in una saletta, con tappeti tutt’attorno e un tavolino in mezzo. Stavamo seduti per mezz’ora in comunione con Dio,».

Li chiamavate «i nostri fratelli musulmani».

«Sì perché volevamo che tutti fossero fratelli. Padre De Foucauld voleva essere il fratello di tutti gli uomini, qualunque fosse la loro religione e la loro ideologia. Questa è una meta verso la quale tendiamo incontrandoci con gente totalmente diversa da noi. A Tibhirine si diceva “i fratelli della montagna” e “i fratelli della pianura”: i fratelli della montagna erano i combattenti, che volevano un altro governo; i fratelli della pianura erano i militari. Chiamavamo fratelli sia gli uni che gli altri perché non volevamo prendere posizione nella battaglia che combattevano. Volevamo che tutti fraternizzassero».

Ci racconta il rapimento?

«Era la notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, verso l’una. Io ero portinaio notturno, mi sono svegliato al rumore delle voci davanti al cancello e ho pensato: “Ecco sono qua, sono quelli della montagna, i combattenti. Vorranno senz’altro vedere il dottore e ricevere delle medicine, avranno qualcosa da chiederci”. Toccava a me aprire il cancello, ma erano già entrati, erano vicini.

Allora vado a vedere alla finestra, senza accendere la luce, e ne vedo uno che entra con il suo turbante e il suo fucile in spalla dalla piccola porta del muro di cinta che dava sulla strada. Normalmente non sarebbe potuto entrare, visto che il cancello lo chiudevo tutte le sere con un grosso lucchetto. Fratello Christian, il priore, era uscito e ho pensato che fosse stato lui a farli entrare. Un quarto d’ora dopo sento la piccola porta che si richiude, quindi ho pensato che se ne fossero andati. Poco dopo qualcuno venne a bussare alla mia porta a vetro: apro e vedo padre Amedée che mi ha raccontato subito quanto era successo, e cioè che i padri erano stati rapiti e che eravamo rimasti da soli. Aveva trovato tutte le luci accese, e Frère Luc era sparito. Cristian anche lui era sparito.

I cassetti erano aperti, la stanza sottosopra; c’erano carte dappertutto per terra, e i fili del telefono erano tagliati. È salito al primo piano per vedere se c’era ancora qualcuno che non fosse stato preso, ma lì vede la stessa scena: le cinque stanze vuote e i cinque frati scomparsi. Padre Amedée e io abbiamo subito capito che i rapitori erano i combattenti islamici».

Cosa sente nei confronti di queste persone?

«Non so, è difficile per me giudicare, perché non so chi è responsabile. Da anni si indaga per sapere del rapimento dei fratelli e dove sono stati portati, come sono stati uccisi, chi li ha uccisi...Ancora non si sa. Le persone che hanno portato via i padri possono essere state utilizzate da altri. È difficile dare un giudizio. Noi ci aspettavamo che da un giorno all’altro succedesse qualcosa, dal 1993 vivevamo in una situazione di pericolo. Poteva accadere qualsiasi cosa in qualsiasi momento, e c’era talmente tanta gente nelle nostre stesse condizioni in tutta l’Algeria... Sono morte migliaia di persone».

Perché siete rimasti?

«Non eravamo unanimi all’inizio. Penso che la ragione principale sia la ragione stessa della nostra vocazione. Siamo stati mandati in Algeria per stabilire un contatto con l’Islam, per vivere con la gente una vita di convivialità e progredire in uno spirito di mutua fraternità. E la nostra vocazione, la nostra missione non era terminata nonostante quella situazione di pericolo. Nostro Signore è il nostro maestro, quello che ci ha mandati qua, ed è a lui che obbediamo. Penso che per noi andarsene sarebbe stato come per un soldato al fronte disertare. C’era una sola ragione che ci poteva far partire: la gente che viveva attorno a noi. Se loro ci avessero detto: “Dovete andarvene, perché la vostra presenza rappresenta un pericolo per noi” saremmo partiti. Ma era tutto l’opposto: volevano che noi rimanessimo, la nostra presenza era una sicurezza per loro, che erano in pericolo come noi. Uno ci disse: ”Se partite che cosa ci succederà? Siamo come l’uccello sul ramo: se si taglia il ramo dove si poserà?”. È stato un impegno nei confronti dell’Algeria e della popolazione locale, una sorta di matrimonio. Non eravamo lì per essere martiri, non era il nostro obiettivo. Il nostro obiettivo era rimanere con la gente, anche se si sapeva benissimo che si poteva finire uccisi».

Carlo Carretto si chiedeva: «Perché la fede è così amara?».

«Bisogna guardare alla vita di Gesù: è lì che si trova la risposta. Gesù ha vissuto una morte molto crudele e la ragione per la quale ha dato la sua vita liberamente si vede il Giovedì santo, quando ha preso il pane e ha detto: “Questo è il mio corpo offerto per voi, questo è il mio sangue versato per voi”. Ha dato la sua vita affinché noi avessimo la vita, la vita di Dio. Non ha esitato. Sapeva che poteva andare incontro a momenti molto difficili, ma non ha indietreggiato. Aveva paura della morte e delle sofferenze che lo attendevano; ha enormemente sofferto durante l’agonia ma alla fine ha detto: “Sia fatta la Tua volontà”. Allora, perché la fede è così amara? È a causa del male che c’è nel mondo».

Cosa può dire ai giovani?

«Oggi tanti giovani sono molto generosi, ma sono attratti da ogni sorta di oggetti in fondo inutili. E rischiano di dimenticare l’essenziale. L’essenziale è far sbocciare quello che c’è di meglio in noi, come dice Guy Gilbert, un educatore degli emarginati: “C’è in ogni uomo, nel suo profondo, qualcosa di intatto, che non è mai stato rovinato”. E questa parte, che abbiamo tutti, ognuno deve cercare di svilupparla. Ma per riuscire a farla sbocciare non è solo, c’è lo Spirito Santo che parla al suo cuore, lo può incontrare nella preghiera e gli indica il cammino. Ma ci sono anche le buone compagnie, ci sono le associazioni, i movimenti di giovani. Voglio usare un’immagine che mi ha offerto un Sufi: “Quando la farfalla batte le ali – mi diceva - produce delle onde che si ripercuotono fino in capo al mondo”. Chi cerca il bene, chi cerca di far sbocciare il meglio di se stesso è come questa farfalla: produce delle onde che vanno in capo al mondo, la sua vita non è inutile, partecipa a far salire il livello del bene e dell’amore. Nessuno è inutile con il Signore, non c’è disoccupazione, sia quando si è piccoli sia quando si è anziani: il cantiere è immenso e tutti sono invitati a lavorarci».

L'amore vince su tutto?

«Qualsiasi siano le difficoltà, le sofferenze, il male che c'è nel mondo, è l'amore che avrà l'ultima parola. Questo è un atto di fede; siamo fatti per l'amore; l'amore vincerà il maschio. Non con la forza, con le armi, l'amore trionfa sul male perché è più forte. Ma non basta la persona umana: l'amore è una relazione con Colui che è la sorgente dell'amore. Gesù ha patito sofferenze indicibili sulla croce, per ore e ore, ma le ha vinte restando amore. È così che ha trionfato sul male, è rimasto amore fino alla fine»

 Il vino buono c'insegna molto su di noi. Fare vino è un privilegio, significa coltivare e produrre. E noi che ne scriviamo le gesta, accompagnando ogni riga, sapendo che ne siamo responsabili, agiamo su strati di vitalità.

Per proseguire nel lungo cammino ed esaltare le bellezze di un territorio, valorizzandone le eccellenze, c'è bisogno di interventi legislativi non solo di supporto ma di regolamentazione tra le diverse anime che compone quello che gli inglesi chiamano brand: l'offerta per un enoturismo sostenibile al passo dei tempi che viviamo, rispondente alla sempre maggiore richiesta che registriamo ogni giorno.

Di questo ne ho parlato recentemente con l'On. Mirko Bilò che oltre essere un collega è persona impegnata politicamente, facente parte della maggioranza che governa attualmente la Regione Marche .

 
 L'On Mirko Bilò

Convinto assertore che l'enoturismo sia uno dei settori chiave per la ripartenza dell'economia a livello nazionale, proprio nelle sue Marche è stato protagonista della “Deliberazione Legislativa n. 44” approvata dall'Assemblea Regionale nella seduta del 9 novembre ultimo scorso.

- Mirko, che ruolo svolge l'enoturismo in quel modello di sviluppo ecosostenibile che la Giunta Regionale della tua Regione si è dato come obiettivo da valorizzare?

L'enoturismo è uno dei settori più vivaci e dinamici. Da tempo il numero dei turisti italiani che hanno visitato e visitano tutt'oggi le Marche è in continua partecipazione ad eventi o festival a tema. Ed è ancor maggiore il numero di turisti che cercano motivazioni ed esperienze emozionali da questa tipologia di viaggi. Necessaria quindi un'attenzione maggiore da parte di chi ha la responsabilità della gestione dei territori”.

- La Regione Marche ha un settore vitivinicolo estremamente vivace ed è meta continua di “pellegrinaggi culturali” unendo alla riscoperta di luoghi incantevoli ricchi di Arte e Storia, quelli rappresentati dalle tradizioni popolari in particolare dall'enogastronomia.

“Certamente. L'enoturista cerca di capire le caratteristiche dei cibi e vini degustati. Necessaria quindi questa Legge che consentire di definire itinerari enoturistici riuscendo così a mettere in rete le eccellenze, in particolare nel segno del vino. Eccellenze che vanno dalle promozioni naturalistiche alle culturali, artigianali e industriali per la promozione di azioni di comunicazione strategica per la e conoscenza di tali realtà in Italia ma anche all'estero”.

- Il mondo vinicolo marchigiano oggi è finalmente consapevole di essere protagonista dell'offerta turistica. Lo registriamo nelle azioni continua dei vari Consorzi dei produttori. Come la Legge 44 interviene e cosa regolamentare?

È doveroso precisare che il testo finale è il frutto di un articolato percorso con le rappresentanze delle categorie condivise e fieri, rappresentanti della politica che amministra la Regione, ne andiamo soprattutto nella stesura semplice, ben chiara e comprensibile dei contenuti. I 15 articoli che la compongono oggetto di studio anche da altre Regioni italiane pronte ad intervenire in questo settore”.

Diamo sinteticamente lettura ai 15 articoli per capirne i contenuti.

Arte. 1 Individuazione dell'oggetto e finalità dell'attività di enoturismo;

Arte. 2 definizione e descrizione delle attività da considerare enoturistiche;

Arte. 3 Individuazione delle tipologie di soggetti che possono essere operatori turistici;

Art 4 requisiti e standard minimi di qualità per poter svolgere l'attività enoturistica;

Arte. 5 Promozione, formazione, riqualificazione e aggiornamenti professionali degli operatori enoturistici;

Arte. 6 Disciplina l'attività di degustazione insieme ai prodotti di qualità tipici e tradizionali;

Arte. 7 (importantissimo) Attuazione sinergica della legge da parte delle strutture competenti in materia di agricoltura, commercio e turismo;

Art 8 Individua la SCIA quale presupposto per lo svolgimento dell'attività;

Art 9 Istituzione dell'Elenco Regionale degli Operatori Enoturistici;

Arte. 10 Il Comune come Ente competente di vigilanza e controllo;

Arte. 11 Violazioni e Sanzioni;

Arte. 12 Sospensioni e cessazioni di attività;

Arte. 13 Disposizioni transitorie;

Arte. 14 Invarianza finanziaria;

Arte. 15 Rimando alla normativa nazionale per quanto non regolamentato nella presente Legge.

“Non è un punto di arrivo per noi, ma un punto di partenza per diventare uno dei settori di nicchia in una chiave per la partenza dell'economia. Politicamente questa Legge non è un fine, ma è un mezzo della strategia di questa Giunta che intende porre la Regione Marche al centro dell'interesse nazionale”.

Come ebbe a dire Borges, “Il vino è l'invenzione della gioia”. Aggiungo che questa gioia vive nella costruzione di una vita in comune. Un percorso che coinvolge tanto l'agricoltura quanto la degustazione strutture e tradizioni. Mai lasciarle crescere in anarchia.

Urano Cupisti

Intervista tratta dalla relazione presentata in aula del Consiglio Regionale Marche dall'On. Mirko Bilò il 9 novembre 2021    

 Frammenti che orbitano qua e là, individuati, carpiti; li commento e condivido con voi.

La Riflessione!

 

Ci risiamo. Mentre “rifletto”, tutti i mezzi di comunicazione sono impegnati a diffondere la nuova contaminazione dovuta alla variante Covid “sudafricana”. Nuovi lokdown (chiusure) all'orizzonte. Dalle mie parti si suol dire “che Dio ce la mandi buona e senza vento”. Orgoglioso di far parte degli “speransosi” continuo nella mia periodica pubblicazione di quanto è avvenuto e avverrà nel mondo del food&wine. Chianti Classico in fermento, il Gallo Nero è molto agitato in questi tempi. Il pollaio fiorentino-senese in forte agitazione alla ricerca di quell'unità d'intenti nella pubblicizzazione dei territori. Archi e frecce pronti in “singolar tenzone”. Speriamo che il buon senso prevalga.La viticoltura Toscana alla ricerca della promozione dell'artigianalità e autenticità del suo simbolo: il Sangiovese. Classico Berardenga, i primi risultati del progetto “Cru Terra Vocata”. La nascita di una nuova Dop: Suvereto e Val di Cornia Wine. Ed infine quello che viene definito un “Evento Raro” in Valpolicella: la vendemmia 2021.

Frammento n. 1

Chianti Classico, quello del Gallo Nero, in fermento

Dopo Castelnuovo Berardenga, Panzano, è la volta di Greve in Chianti. I viticoltori uniti nello slogan: “per un futuro sostenibile”. Per adesso 25 aziende coinvolte. La verità è che hanno sentito la necessità di unirsi per raggiungere un obiettivo comune: la tutela e la promozione del territorio di Greve. “Greve in Chianti è il nostro territorio, la nostra famiglia, il nostro lavoro ed è per questo che ci uniamo per promuovere e tutelare il suo prestigio nel mondo”, sottolineano i rappresentanti della neonata Associazione. Cito alcune aziende promotrici: Vicchiomaggio, Ambrogio e Giovanni Folonari, Castello di Verazzano, Vignamaggio ecc… E Castellina in Chianti, Gaiole, Radda, San Casciano, Barberino?

Frammento n. 2

Generazione Sangiovese 

Nasce Generazione Sangiovese: movimento delle piccole aziende vinicole toscane per promuovere l'artigianalità e l'autenticità del vitigno simbolo del vino in Toscana. Nella specificità questo movimento raggruppamento aziende vitivinicole delle colline toscane dove affondano le radici del vitigno. Coordinati da Enocofi srl, società di consulenza enologica e servizi alle aziende vitivinicole che, oltre alla consulenza agronomica ed enologica, fornisce il supporto necessario al fine di una corretta comunicazione centrale nel rispetto del passato con uno sguardo al futuro. I territori coinvolti? Monteriggioni (Si), Certaldo (Fi), Montevarchi (Ar), Terranuova Bracciolini (Ar), San Casciano Val di Pesa (Fi), Pontassieve (Fi), Bucine (Ar).

Frammento n. 3

Classico Berardenga: i primi risultati del Progetto

Alla Certosa di Pontignano (Siena) all'interno dell'evento TERRA VOCATA, la presentazione dei primi risultati del progetto dei CRU di Terra Vocata dopo i tre anni di studi specifici. Partito dalla considerare che ci sono, nel mondo, più pubblicazioni sulla Luna di quante ce ne siano sulla conoscenza dei terreni, i risultati hanno raccontato, con una fotografia della viticoltura del territorio comunale di Castelnuovo Berardenga, le diversità tra sabbia, macigno e galestro. Mappa dei suoli, banca geologica della zona, altitudini, esposizione dei vigneti selezionati, dati meteo e satellitari. Oggi queste sono le partenze per programmare e comunicare VINO.

 

Frammento n. 4

Una nuova DOP: Vino Suvereto e Val di Cornia.

Mi vien da dire: ”poveri sommelier,un'altra Dop da ricordare”. Il 27 ottobre 2021 è nato il Consorzio di tutela Dop Suvereto e Val di Cornia Wine. Era nell'aria data la mancanza di promozione di quel territorio specifico della provincia di Livorno. Adesso è necessario delineare bene i disciplinari di produzione e iniziare la promozione in Italia e all'estero. 360 ettari vitati dei quali il 75% solo nell'aerale di Suvereto. Ne fanno parte 27 Aziende Agricole alcune delle quali, come Tua Rita, Petra, Bulichella, Rigoli, fino ad adesso hanno dovuto sobbarcarsi l'onere di insieme l'intero territorio.

 

Frammento n. 5

 
 Daniele Accordini

Millesimo 2021, un unicum per l'Amarone.

Daniele Accordini, enologo storico della Cantina Negrar, ne è convinto: la vendemmia 2021 è un evento raro che ricorderemo nel tempo. Sanità, uve, zuccheri, acidità e colore il poker d'assi vincente e bisogna risalire al 1990 per ritrovarne una uguale. “L'effetto straordinario di quest'annata è stato ottenuto durante la maturazione, soprattutto nei mesi di giugno, luglio ed agosto”. Comprare l'Amarone 2021 e dimenticarselo in cantina per poter degustare “la perfetta sintesi tra un terroir molto espressivo e un clima in equilibrio con le esigenze della vite”.

 

 

Una segnalazione per tutti gli amici. 

Ricordo che è uscito, in questi giorni, un interessante pubblicazione dal titolo VITIGNI, VINI RARI e ANTICHI nella collana Interferenze, editore Cinquesensi. L'unicità dell'Italia enoica.

Ivano Asperti, l'autore del testo, ci propone in questa opera ponderosa l'esito di un lungo lavoro di ricerca, studio, selezione e assaggi. “Vitigni, vini rari e antichi” è costruito con la pazienza di un ricercatore attento e con l'entusiastica determinazione di chi è mosso, prima di tutto, dalla passione. Un ' Importante opera, anzi Necessaria Che va a IntegRARsi alla gia nutrita biblioteca relativa alla viticoltura e alla Civiltà del vino. Da non perdere.

Osservo, scruto, assaggio e…penso. (urano cupisti)


Vivendo ancora nei rei retaggi primordiali di natura predatoria l’essere umano rivela la sua insensibilità non solo verso chi soffre per cause a lui estranee ma quando egli stesso è causa di ciò che non vorrebbe mai succedesse a se stesso. Nessuna ingiustizia, nessun furto, rapina, stupro, violenza, guerra, dittatura; nessun popolo in fuga dalla miseria  sarebbe possibile per un’umanità la cui coscienza di tutti fosse sensibile e partecipe della condizione dell’altro.
L’inerzia e la non curanza verso gli effetti prodotti delle nostre azioni, delle nostre scelte quotidiane questo è il vero dramma del genere umano.  L’indifferenza (figlia legittima dell’egoismo) è ciò che rende l’uomo capace di qualsiasi delitto, ma quando si manifesta da parte di coloro che detengono il potere economico, politico o tecnologico, allora gli effetti possono essere devastanti perché in grado di condizionare e manovrare le scelte politiche, culturali, scientifiche, religiose di ogni paese.
Le grandi lobby attraverso i media riescono a creare esigenze e tendenze  i cui profitti economici vanno solo a loro vantaggio ma spesso a danno dei sistemi, della salute umana e dell’economia familiare. Anche nella scienza e nella ricerca la verità viene distorta con il veto sui risultati quando questi sono in antitesi con le aspettative di chi ha pagato la l’indagine. 
La politica delle multinazionali improntata sul profitto e sul fatturato passa come un rullo compressore sulla vita di tutti. Se il potere economico condiziona l’evoluzione della cultura libera e democratica il compito di chi ha l’obbligo di tutelare il bene della popolazione dovrebbe essere di   impedire la concentrazione di grandi capitali nelle mani di pochi e fare in modo che parte di questi siano utilizzati a creare lavoro per la popolazione.
Ma le multinazionali sono fatte di uomini è se questi sono tendenzialmente avidi  e di natura predatoria è su questi che bisogna intervenire affinché  il loro operato non sia a danno della comunità ma a beneficio di tutti. Questo è un problema antico come l’uomo. L’animo umano, aperto e sensibile alle necessità del prossimo, alla sofferenza dei deboli, degli indigenti, non si improvvisa. E’ la cultura antropocentrica dominante che ha depauperato negli esseri umani l’etica, la morale, la spiritualità abituandoli alla logica del dominio, del forte sul debole, del fine che giustifica i mezzi.
Per umanizzare i meccanismi, i sistemi, occorre umanizzare gli uomini perché tutto dipende, da sempre, dalla coscienza umana che a sua volta condiziona il modo di pensare e quindi i sistemi economici, politici, culturali, scientifici, tecnologici ecc.. Ma come umanizzare gli uomini? Come renderli più giusti, responsabili e sensibili? La capacità di immedesimarsi nelle esigenze degli altri deve essere la legge morale che governa la vita dei popoli. Questo può avvenire solo attraverso una politica ed un sistema educativo da parte dello Stato, della scuola e della famiglia in modo da mettere al primo posto i valori fondamentali della vita, di giustizia, lealtà, onestà, trasparenza. E anche se questo è un progetto a lunga scadenza (ma non utopia), se mai si inizia un percorso mai si arriva alla meta.

Visita nella Montagna di Reims.

 
 Maison Gardet

Maison Gardet

La Maison CHAMPAGNE GARDET fu fondata a Epernay nel 1895 da Charles Gardet e successivamente trasferita negli anni '30 dal figlio Georges a Chigny les Roses , un villaggio Premier Cru della Montagne de Reims. La Maison propone vini dalla qualità irreprensibile, ponendone alla base l'utilizzo di uve di altissima qualità. La famiglia Prieux , attuale proprietaria, pone al centro delle attenzioni di produzione il rispetto delle tradizioni tramandate nel tempo come le cuvée dai «premiers jus» della spremitura.

Grande attenzione viene prestata all'elaborazione dei vini, lasciati invecchiare sulle fecce il più a lungo possibile, anche ben oltre i limiti minimi imposti dalla AOC Champagne.

 
 Maison Lepreux-Penet Cave di gesso

Champagne Gardet resta una delle ultime Maisons ad invecchiare alcuni dei suoi vini di riserva in botti di quercia. Tutto il «savoir faire» della Maison risiede nel prezioso equilibrio tra tradizione e modernità che rende evidente tutte le peculiarità dello stile Gardet.

Maison Lepreux-Penet

Risale al periodo della Rivoluzione francese l'avventura della famiglia Penet a Verzy, Comune Grand Cru, vendendo il proprio raccolto a “negotian” muniti di pressoir, impianto di pressatura.

 
 Vetrata di Chagall a Reims

Bisogna attendere il 1929, con la gestione di Louis-Gilbert Penet, che si decide di acquistare una propria pressa e di aggrapparsi allo statuto dei Récoltant Manipulant. Gli succede suo figlio Jean-Marie che fece uscire sul mercato l'etichetta Champagne Jean-Marie Penet. Anni più tardi sua figlia Florence sposò Jean-Paul Lepreux e, con la loro unione, nacque la Maison attuale.

Storie di questo tipo ce ne sono a iosa nella Champagne. Intrecci di famiglie tutte dedite alla produzione del nettare degli dei.

Attualmente l'azienda è gestita dalla Virginie e dal genero François che dopo 8 generazioni insieme tutti i processi tramandati come la manualità che definirei ancestrale, conservando i metodi tipici di produzione. Le uve e dalle vigne situano a Verzy Verzenay , e si fregiano della classificazione Grand Cru. Tutti i vini maturano in modo ottimale nei crayères del XIX secolo conservate preziosamente a Verzy.

Poteva, all'interno del tour, mancare una visita a Reims?

Reims, città gruviera per i suoi chilometri di gallerie pieni di zeppi di champagne.

La sua cattedrale, il ricordo storico di Giovanna d'Arco, il porto fluviale sul fiume Aine, le sedi delle Imperiali Maison, il dinamico center ville. A Reims tutto quanto ruota intorno allo champagne accompagnandolo nella Storia.

 
 Maison Diogène Tissier, il remuage

Terzo giorno dedicato alla Côte des Blancs

Maison Diogène Tissier

Non c'è stato viaggio nella Champagne senza una visita alla Maison Tissier dopo averla conosciuta, diversi anni fa, durante Vinoexpo a Bordeaux. Si è creato negli anni un'amicizia che va oltre ai contatti professionali. Ci troviamo in quella parte della Côte che passa sotto il nome di Côte-sud d'Épernay. Diversa territorialmente dalla restante Côte des Blancs. Come terreni, idroclima, microclima.

Chavot-Courcourt è il piccolissimo paesino (appena 365 anime) posto sulla parte pedocollinare con la sua Église Saint-Martin immerso nei vigneti che viene spesso fotografata come simbolo della Champagne.

Maison fondata nel 1931 da Diogene Tissier. Oggi, Vincent (3a generazione), nipote di Diogene, e sua moglie Nathalie recupera la storia della famiglia.

 
 Maison Sebastien Bression a Etoges

Vincent e Nathalie offrono champagne nella pura tradizione dello Champagne. Non più diserbanti chimici in vigna. Ciò consente vini con sapori più minerali e floreali. Si stanno muovendo sempre più verso una gestione ragionata per ogni appezzamento al fine di sfruttare al meglio tutto ciò che la natura offre.

La pressa utilizzata è ancora la tradizionale Coquard da 4.000 chili. Gli champagne vengono prodotti in una tinaia in acciaio, installata nel 2011. Alcune annate sono prodotte in botti di rovere. Il remuage manuel è riservato ai formati più grandi e ad alcune cuvée speciali. Una produzione di circa 120.000 bottiglie all'anno che pone questa Maison tra i “Négociant manipulant”.

 
 Vicolo dei gatti a Troyes

Maison Bression Sébastien

Ci troviamo ad Étoges, ad ovest della Côte des Blancs. Discendente da diverse generazioni di viticoltori, Sébastien coltiva il vigneto con passione e rispetto per l'ambiente. Orgogliosamente mostra la sua appartenenza all'Associazione dei “Vigneron Independent” ( paragonabili alla nostra Fivi). Una vinificazione molto rigorosa in piccoli volumi inox e barriques da 300 litri, danno vita a champagne rotondi e generosi. Per ottenere uve di ottima qualità, Sébastien pratica una coltivazione sostenibile e ragionata.La pressatura avviene rapidamente possibile dopo la raccolta con stampa pneumatica Dopo la seconda fermentazione gli champagne rimangono sui lieviti per un minimo di 2 anni fino a 5. Solo alla loro maturazione ottimale si procede alla sboccatura e ai successivi.

Infine Troyes

È il tramonto quando Troyes (esatta pronuncia “truà”), l'antica capitale della Francia, ci accoglie. La città situata sulla Senna, nel bel mezzo della regione Champagne, nel dipartimento dell'Aube , seduce chiunque la visiti. Il suo passato ricco di storia ed il patrimonio architettonico e urbano ben conservato affascina come non mai. Le case a graticcio che si possono saltare al periodo medievale, le strette vie del centro con “la ruelle des Chats”, la via dei gatti, saltare che i mici possono saltare da un tetto all'altro le magnifiche vetrate. Il cuore della città ha la forma esatta di un “tappo di champagne”, particolarità curiosa e sicuramente unica al mondo!

 

Maison Charles Collin

Ultimo giorno, rientro in Italia con sorpresa.

Lasciata Épernay di buon ora e presa l'autostrada diretti a sud verso Digione-Lione per poi proseguire verso il traforo del Monte Bianco, ultima visita aziendale nel dipartimento dell'Aube e specificando nella parte ovest, Bar-sur-Seine .

Charles Collins

Radicata nel territorio della Côte des Bars dal 1952 (60 anni di vita), oltre 140 viticoltori i cui vigneti ricoprono quasi 330 ettari di terra. Gli allevamenti composti il ​​92% di Pinot Nero e 8% di Chardonnay.

La ricerca della perfezione richiede un'esigenza che si impone a tutti nella Maison Charles Collin. Il segreto per rispondere a questa ricerca: realizzare la totalità dell'invecchiamento del vino dalla vendemmia a mano fino alla partenza delle bottiglie dall'azienda. Modernità in tutte le fasi della produzione con strumenti di ultima generazione.

La Cooperativa Charles Collin possiede una riserva di 2,5 milioni di bottiglie chiamate “sur lattes” (ovvero già imbottigliate, in fase di invecchiamento) per una produzione annua intorno al milione.

Le Cuvées vengono tradizionali invecchiate 3 anni nella cantina, 5 anni per le Cuvées Charles e Belle Gabrielle.

Una grande sorpresa e allo stesso tempo un'avventura la visita da Charles Collin. Del resto, una risposta ai milioni e milioni di bottiglie di champagne che vengono prodotte ogni anno, dovevamo darla.

“Lo champagne non si beve, si usa per brindare” (Gustave Flaubert)

Urano Cupisti

 

Fra i tanti piccoli e grandi tesori della letteratura filosofico-religiosa di ogni tempo, credo che un posto di particolarissimo rilievo dovrebbe essere riservato al testo del Dharmapada (in lingua sanscrita) o Dhammapada (in lingua pali), presente all’interno di quell’ immenso contenitore che è il Canone Buddhista. Un testo che, nonostante le innumerevoli differenziazioni di correnti e di scuole prodottesi col fluire degli anni (già nel secondo secolo dopo la morte del Buddha si registravano ben 18 varietà dottrinali!), è pressoché universalmente ritenuto una sorta di vero e proprio distillato del pensiero filosofico e del messaggio etico-soteriologico buddhisti. E ciò, nonostante risulti oggettivamente impossibile ricostruire in maniera perfettamente fedele l’autentico pensiero di Gautama: nulla egli scrisse di suo pugno e, prima della stesura scritta delle sue parole, ebbero a trascorrere interi secoli di intensa tradizione orale.

All’interno delle numerose tematiche affrontate nel testo, mi limiterò a soffermarmi soltanto su alcune di esse, dall’ indubbia rilevanza:

  • la centralità del piano mentale non soltanto nell’interpretare e valutare la realtà, ma nella stessa costruzione di questa;
  • la rigorosa correlazione sussistente fra tutto ciò che in noi nasce e si riversa al di fuori di noi e quello che è il fluire della nostra coscienza e della nostra esistenza;
  • il primato di un’ etica “autonoma” (indipendente, cioè, da intercessioni salvifiche, “grazie” e miracoli soprannaturali, mediazioni sacerdotali, ecc.), fondata sulla conoscenza di sé e sulla razionale consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti di tutto ciò che vive.

Già in apertura del testo, ci imbattiamo in alcuni versetti che contengono sinteticamente tutti questi concetti:

1. Gli elementi della realtà hanno la mente come principio, hanno la mente come elemento essenziale e sono costituiti di mente.

Chi parli oppure operi con mente corrotta, lui segue la sventura come la ruota segue il piede (dell’animale che traina il veicolo).

Chi parli oppure operi con mente serena, lui segue la felicità come l’ombra che non si diparte.

(Capitolo primo, Yamaka vagga, Canone Buddhista, a cura di Pio Filippani Ronconi, UTET, Torino 1976)

La mente umana, secondo questa prospettiva, non è destinata ad essere mera spettatrice e osservatrice passiva di un mondo che sussiste in maniera del tutto svincolata rispetto ad essa, ma è chiamata (come ci diranno anche Protagora e Kant), a porsi come centro gravitazionale di una realtà che si modella perennemente in rapporto alle nostre scelte, al nostro essere e al nostro voler essere, e che, proprio da tali scelte, acquisisce senso e valore.

E, al contempo, neppure la realtà è qualcosa di statico. Non è, cioè, oggetto passivo del nostro conoscere e del nostro agire, ma, modellandosi sulla base del nostro pensiero, si relaziona a noi in maniera consequenzialmente coerente, presentandosi a noi certamente come nostra creatura, ma anche come severa forza creatrice dialetticamente incombente sul nostro cammino.

Sta a noi, quindi, decidere in che tipo di mondo vivere.

In un mondo, cioè, dove i nostri pensieri e le nostre azioni colmeranno, goccia dopo goccia, la giara della nostra coscienza e del nostro cammino con marasmi egocentrici impregnati di rivalità, ostilità, odio, desiderio di potenza e di vendetta, oppure in un mondo in cui regnino sovrane le virtù della maitri (amorevole benevolenza), della karuna (compassione), e della mudita (gioiosa letizia).

E a ciascuno di noi spetta la scelta di intraprendere o meno un sentiero di purificazione della propria mente, di progressivo distacco dalla dimensione desiderativa, di apertura del proprio cuore verso tutto ciò che soffre.

A ciascuno di noi spetta di scegliere come modellare il proprio destino: continuare a scivolare sul mondo, come l’uomo “che coglie i fiori” e che viene portato via dal flusso del divenire come un fiume straripante travolge un villaggio addormentato, o rapportarsi alla realtà come l’ape che sa raccogliere il succo dei fiori senza arrecare alcun danno. Come chi vive nella distrazione e nella ricerca mai appagata dei piaceri, o come chi, messi da parte ogni aspro giudizio e ogni risentimento nei confronti dei torti altrui, tutto si concentra sul significato e sulle conseguenze del proprio agire, simile a un fiore magnificamente colorato che diffonde il profumo delle sue virtù anche controvento (Capitolo IV, 47-54).

Come chi, volendo la propria felicità, non si fa scrupolo di colpire esseri che bramano anch’essi la felicità, e che, vivendo come in una bolla d’acqua, si immerge nella sola dimensione dell’avere, oppure come chi, rallegrandosi per la virtù del donare, riesce ad alzarsi in volo come uccello sfuggito alla rete (Capitolo XIII, 170-177).

Dalla lettura del testo (accessibile anche a coloro che non godono di particolare familiarità col mondo culturale dell’antica India), emerge in maniera evidente come l’intento della predicazione del Buddha sia stato, prima di tutto (come ha ben colto il Radhakrishnan), quello di conferire all’impegno etico e al problema della salvezza un posto di assoluta centralità, liberando il territorio della riflessione e della ricerca dalle “pedanti distinzioni delle astruse metafisiche”, “dall’ abitudine del questionare senza posa” e dal “raffinarsi della ragione nelle sottili dispute delle sette” (La filosofia indiana, Einaudi, Torino 1974, p. 360). Facendo in modo che la caoticità dominante in sede di dibattito teoretico non finisse più per adombrare ed inquinare l’ambito della coscienza etica. E ciò affidandosi non certamente al principio di autorità, bensì esortando sempre ad una personalissima assunzione di responsabilità e attingendo forza e sostanza non da formule sacerdotali e magici rituali, ma dall’esame lucido della realtà, dal rigore della logica e dalla acutezza delle conoscenze di natura psicologica.

Il cammino della salvezza, infatti, liberato da superstizioni e scetticismi, è qualcosa che riguarda unicamente il singolo individuo.

La dottrina proposta non si dovrà mai basare su dogmatismi inverificabili: il Buddha a tutti dice di “venire a vedere con i propri occhi”, ponendosi egli non come un Salvatore-Liberatore, ma come chi desidera insegnare il modo per potersi liberare con le proprie forze.

Quando Ananda, il discepolo più vicino al Buddha, gli domandò come comportarsi, in futuro, nell’organizzazione e nella gestione della comunità monastica, ricevette la seguente risposta, che, assai emblematicamente, racchiude lo spirito autentico della saggezza buddhista, efficacemente espressa in tutto il testo del Dharmapada:

“Siate voi stessi la luce che v’illumina;

siate voi stessi il vostro rifugio;

non ricorrete ad alcun rifugio esterno; attenetevi fermamente alla verità come a un rifugio;

non cercate rifugio in nessuno, all’infuori di voi stessi.” (ivi, p. 431)

 

Hautveillers, l'Abbazia dove c'è la tomba di Dom Perignon

 

“Lo champagne (vino) è la cultura della distinzione”. Così fu detto da uno che di perlage se ne intende. Tal Roland de Calonne, ex direttore generale di Ruinart. Una di quelle frasi entrata a far parte di diritto nell’enciclopedia delle frasi storiche che questo vino è riuscito ad attrarre su se stesso a partire dal secolo XVII (Dom Pérignon docet).

“La distinzione è il riflesso della bellezza dell’anima su tutto ciò che la circonda. Non si acquisisce, né si può cedere; non appartiene alla nascita, né al ceto, né al patrimonio” (F.G-M., Manuel de politesse à l’usage de la jeunesse, Maison A.Mame &Fils, 1919).

Anfratti sotterranei della Maison Pannier

Anche nel viaggio compiuto in questo mese di ottobre 2021 la cultura della distinzione e il sogno fragile sono state fonti di ispirazione e scelte determinanti nelle visite, vuoi alle aree, micro-aree, vuoi alle piccole e grandi Maison scelte.

“Ricordo le banalità del conduttore di un importante Tg della sera, lo scorso Natale, che raccomandava ai milioni di telespettatori di brindare con “champagne italiano. Il nostro Paese ha bisogno di cultura, di conoscenza dell’arte del bere giusto e, soprattutto, di presa d’atto che il vino è cultura e come tale è cittadino del mondo”. (Franco M. Ricci nell’introduzione della pubblicazione a firma Roberto Bellini “Champagne e Champagnes, Bibenda Editore 2009).

E con questo mi vien da ricordare quanto sancito dalla giurisprudenza francese nel lontano luglio 1824: Il n’est champagne que de la champagne”.

Fossile risalente a milioni d'anni fa
L’Inizio: Épernay

Domenica 3 ottobre, a bordo di un minivan con amici amanti del perlage, alla volta di Épernay scelta come base logistica per i nostri spostamenti.

Épernay, affascinante cittadina di circa 25.000 abitanti, è considerata da tutti come la vera capitale della regione Champagne. Posta sulle rive del fiume La Marne, adagiata sopra chilometri di gallerie scavate in profondità nel craie del cretaceo. Quel sottosuolo gessoso , mix di più elementi, vitale energia che nasce come roccia per poi sciogliersi in polvere alla superficie. Nelle giornate dove la Bise ,il vento gelido dell’Est, soffia con forza, la polvere gessosa segue le folate che scuotono i vigneti.

Galleria nel gesso Maison Monet

Avenue de Champagne

Epernay ci ha dato il suo benvenuto al calar del sole. Percorrere l’Avenue de Champagne, il percorso più prestigioso della città, è uno dei riti “obbligatori” al quale ogni visitatore “deve” sottoporsi. Percorrerlo a piedi nella notte profonda è immergersi nell’autentica seduzione, in momenti di meditazione e riflessione. Questa strada rettilinea di oltre un chilometro, fiancheggiata da edifici di un'architettura marcata della fine del XIX secolo, mostra dimore private e grandi Maison insieme, allineate una di fronte all’altra, punteggiate da alte porte massicce e ornate. Benvenuti nella Champagne.

Dom Pierre Pérignon

Altro rito “obbligatorio” è la visita alla tomba di Don Pierre Pérignon, nell’Abbazia di Hautvillers, poco distante da Épernay. Raggiunta subito il mattino seguente prima di iniziare il nostro tour. Preghierina, lumino acceso; il tutto come richiesta per un buon viatico nel sogno fragile.

Maison Mondet

Le bercau magique, la culla magica dell’anfiteatro di Romery (inizio della vallée de la Marne), si è presentata a noi appena scollettato a nord-ovest il fianco della Montagne de Reims. Un mare di vigneti a perdita d’occhio. Con il nostro minivan ci siamo tuffati tra le vigne per raggiungere il villaggio di Cormoyeux. Ad attenderci Line e Laurent BEAUPUITS della Maison Mondet.

La Creazione della Maison de Champagne MONDET comincia nel 1926 con Jules MONDET che inizia la vinificazione su piccoli appezzamenti di vigneti. Il loro SAVOIR FAIRE?

Dopo la prima fermentazione in vasche d'acciaio, vengono degustati i “vins clair” per determinare gli assemblaggi tra i diversi vitigni e diversi anni di raccolta. Si procede poi alla seconda fermentazione in bottiglia. Terminata la presa di spuma quello che ormai possiamo definire champagne invecchia (permanenza sui lieviti) da 3 a 7 anni nelle cantine della Maison. Già, le cantine della Maison.

200 metri di cantine naturali di gesso a 30 metri sottoterra che permettono una conservazione e un invecchiamento ottimale delle bottiglie ad una temperatura costante di 10-12 ºC.

La prima parte della cantina risale al 1886, è stata estesa negli anni '70, poi si è aggiunta una seconda galleria parallela. Oggi, i fossili incastonati nella volta in tufo da 95 milioni di anni, vegliano sul riposo delle bottiglie di champagne.

Due parole sui vigneti.

il viaggio
La Maison utilizza i 3 vitigni tipici della Champagne; lo Chardonnay che apporta finezza ed eleganza; il Pinot Noir che da struttura, robustezza e fruttato; il Pinot Meunier che infonde rotondità equilibrio ed ancora fruttato.

I vigneti sono situato sui terreni di Cormoyeux e Romery, con una superficie totale coltivata di 11 ettari, di cui una piccola parte a Passy Grigny. Il terreno è caratterizzato da un sottosuolo gessato che funge da vero e proprio regolatore termico, cattura l'umidità e la restituisce quando la vite ne ha più bisogno. L'età media dei vigneti è di 30 anni, e alcuni appezzamenti selezionati per le migliori cuvée sono di 60 anni.

Maison Pannier

Lasciato il paese fleury di Cormoyeux abbiamo raggiunto l’estremità ovest della Vallé de La Marne: Château-Thierry, sede della Maison Pannier.

La Maison ospita magnifiche cantine medievali di oltre due chilometri, scavate a partire dal XII secolo. Nella penombra e nella freschezza di questo labirinto sotterraneo, le cuvée acquisiscono lentamente la loro piena maturità. La scoperta di questo eccezionale patrimonio e la degustazione che ne è seguita ha reso la visita indimenticabile.

Maison Delouvin-Nowak

Nel 1999 fu scoperta un'incisione del XIV secolo raffigurante un arciere medievale. Da quel momento ne è divenuto emblema dello champagne PANNIER. Qualità, equilibrio e maestria, valori forti della Maison sono perfettamente rappresentati da questa figura che veglia sull'invecchiamento dei vini. Il motto coniato del tiro con l’arco? « Tendre à la perfection ».

Nel rientrare ad Épernay, una scoperta per caso non prevista nel panel delle visite. Un ricordo di una degustazione di alcuni mesi fa e, visto che il paesino di Vandières era sulla nostra strada, perché non fermarsi?

Delouvin-Nowak

Incontriamo Geoffrey Delouvin, un vigneron giovane molto accogliente che dedica il suo ottimo lavoro quasi esclusivamente al Pinot Meunier. Del resto nella Vallée de La Marne questo vitigno ne è il Re assoluto.

I Delouvin iniziarono a commercializzare champagne dal 1949; oggi Geoffrey coltiva i 6 ettari di proprietà (5 vitati a Meunier e 1 a chardonnay per la cuvée millesimata Extra Sélection) in modo rigoroso, effettuando personalmente tutte le operazioni di vinificazione e di analisi, per garantire la specificità dei suoi champagne ed il risultato? Champagne piacevolissimi che incontrano il favore di molti degustatori grazie alla particolarità del puro Pinot Meunier vinificato in modo semplice, senza eccessi.

Urano Cupisti

(fine prima parte)

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