L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.


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Kaleidoscope (1283)

Free Lance International Press

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    Tenuta Adamo - Lucca

Nel mio peregrinare per vigne e parlando con anziani viticoltori delle Colline Lucchesi mi è capitato spesso di chiacchierare intorno ad un vitigno “strano”, poco conosciuto e dall’origine ancora non ben chiara: il Moscato d’Amburgo.

Qualche riferimento con la città tedesca certamente ce l’ha. Pare che, dall’incrocio del Moscato d’Alessandria con la Schiava grossa, avvenuta nei dintorni di Amburgo sia da cercare la primogenitura. Chiamato anche Muskat Trollinger e/o Schwarzer Muskat (Moscato Nero).

Come il Moscato d’Alessandria sia finito così a Nord, oltre il 50^ parallelo, resta un mistero.

Tutti sappiamo che il Moscato ha origini che risalgono al bacino medio-orientale del Mediterraneo e furono i greci a portarlo in Italia.

Mi vien da pensare: “e se fossero stati i Romani nel periodo di massima espansione dell’Impero ad averlo portato fin nelle terre teutoniche sotto forma di semi e/o tralci?”

Una cosa è certa: dal matrimonio tra il bianco Moscato d’Alessandria, l’antico vino greco “muscum” e la rossa Schiava di origine austro-tedesca ha avuto origine il Moscato d’Amburgo. Magari in serra senza sfidare le basse temperature invernali!

La Storia che viene raccontata con insistenza lo rende originario dell’Inghilterra (dove è chiamato Black of Alessandria), diffusosi poi in Francia e più tardi nel resto d’Europa, in particolare nella zona nord della Grecia (Tessaglia) dove lo troviamo anche “fortificato”, dopo l’appassimento. Lo troviamo anche in California come vitigno pregiato.

Non solo: gli inglesi rivendicano la primogenitura e non fanno alcun riferimento alla città di Amburgo. Solo secoli dopo, in Francia e successivamente in Italia, questo vitigno è stato identificato con il nome originario: Moscato d’Amburgo.

Come sia finito nelle vigne delle Colline Lucchesi è tutt’ora un enigma.

   grappolo

Spesso è stato collegato ai pellegrini che percorrevano la via Francigena ma le date non coincidono. Si è vociferato che qualche produttore l’abbia scambiato per altro vitigno e piantato per caso.

   Barbatella di Moscato d'Amburgo

Una cosa è certa: nei vigneti lucchesi c’è la sua presenza a volte significativa che, tutto sommato, non dispiace. Perché?

  • Acini grossi dalla buccia di colore piuttosto scarico;
  • Grappolo spargolo, grosso, piramidale;
  • Vinificato in purezza e usato poi negli assemblaggi, possiede caratteristiche organolettiche ben precise: fruttato, aromatico, per niente amaro, tannico;
  • Resistente agli attacchi della peronospora in misura superiore alle altre specie.

Germogliamento: II° decade di aprile, Fioritura: I° decade di giugno, Maturazione: I° decade di settembre.

Dimenticavo: ottimo come uva da tavola. Chapeau!

 

 

 

 

 

Buongiorno Francesco, sono molti anni che sentiamo il tuo nome come regista, come attore di teatro, di televisione ecc. Anni nei quali hai sempre messo avanti gli altri, i colleghi, i lavori di squadra e chiunque ti stia accanto.

Questa intervista vuole conoscere meglio te, sapere dei tuoi esordi per esempio. D-Vuoi parlarmene?

R- Io sono cresciuto in una piccola città e sono cresciuto lontano da idee di fare l'attore, facevo sport, andavo a scuola poi a 15 anni ho affrontato come molti ragazzi; una profonda crisi e casualmente mi sono avvicinato ad una compagnia che faceva teatro gestita da uno straordinario personaggio il dottor Fabrizio Rafanelli che piano piano mi ha avvicinato alla passione per il teatro e poi gradualmente sono arrivato al desiderio di farlo come professione; successivamente sono arrivate le scuole da frequentare, lo studio e poi la professione. Sono stato sin da subito molto fortunato a poter lavorare con grandi maestri come Marcel Marceau, Gabriele Ferzetti, Pino Micol, Bruno Ganz, Senta Berger. Sia come attore che come regista ho avuto molta fortuna. All'inizio ho fatto molta televisione; il teatro è diventato preponderante dopo i 30 anni dove ho iniziato ad interpretare e dirigere i miei spettacoli spesso affiancato da grandi star del grande e del piccolo schermo. 

D- Quale lavoro di scena o di televisione ha lasciato un segno indelebile? perché? 

R- Nel cinema sicuramente "Cronache del terzo millennio" con la regia di Francesco Maselli che andò al festival di Venezia e suscitò molto scalpore ed il motivo è indubbiamente la sua indiscussa grande capacità; un regista che ha saputo tirare fuori da me, davvero il meglio; in teatro senz'altro, le mie regie e gli allestimenti in cui ho lavorato con Barbara De Rossi e quindi Medea, il Bacio, Un grande Grido d'amore ed il motivo è sicuramente ancora una volta la grandezza e la generosità della mia partner, unica per verità, dedizione e soprattutto umiltà. Una donna straordinaria oltre che a un'attrice straordinaria. 

D- Hai trovato ostacoli nel tuo mondo lavorativo? se si, quali? 

R- Ma sai gli ostacoli ci sono e si affrontano come è normale che sia, la vera difficoltà è quella di non aver avuto la fortuna di trovare, a parte la mia compagna meravigliosa Isabella Giannone, nessun altro compagno di viaggio, questa nel teatro è stata per me e Isabella un'avventura solitaria e quando si viaggia in solitaria gli ostacoli sono più duri da affrontare a volte più paurosi, ci vuole più forza, bisogna diventare tosti per affrontare tanti ostacoli da soli. Sì la solitudine del nostro viaggio è il vero ostacolo che noi abbiamo sempre affrontato insieme nonostante le difficoltà e che tutt'ora affrontiamo.

D- I tuoi successi negli anni sono la riprova della tua tenacia e della tua professionalità, ma a quale costo? quali sacrifici? 

R- Ma vedi, i sacrifici sono sempre stati tantissimi a partire dal fare un lavoro dal quale non si stacca mai e che uno porta sempre con sé a casa la sera. I reali  sacrifici però che hanno pesato davvero sono stati quelli dei quali non ne valeva davvero la pena mentre i sacrifici realizzati per ciò che ci ha dato soddisfazione li abbiamo fatti senza quasi accorgercene e li rifarei domani senza battere ciglio; è quando non portano ai risultati sperati che è veramente dura, quando gli interlocutori sono delle nullità, quando il livello artistico è inesistente e devi fare miracoli per arrivare a compiere uno spettacolo decoroso e rispettoso del pubblico.  I sacrifici  per qualcosa che vale non ti pesano, scorrono via in un lampo e non te ne accorgi nemmeno. Il problema reale è che è sempre più raro trovare interlocutori artisti e attori per cui valga davvero la pena darsi fino in fondo. 

D- Da fuori, noi semplici spettatori vediamo il teatro, la televisione e il cinema come un mondo fantastico, nella realtà delle cose chi come te ne è al dentro, cosa può raccontarci? E' tutto rose e fiori? Fra compagnie, colleghi, c'è sempre armonia? 

R- L'armonia c'è si, ma è un'armonia costruita, falsa, creata da ognuno ad hoc per lavorare insieme; raramente è spontanea, sincera; è un'armonia che nasce dagli interessi di tutti... non è bella tranne che in rarissimi casi in cui si crea la magia e allora è bellissimo, purtroppo sono casi diventati sempre più rari e sono sempre legati a personalità fuori dall'ordinario, a personalità fuori dal comune. Ahimè! 

D-Accanto a te hai da molti anni accanto la tua compagna di vita e di lavoro che è Isabella Giannone. Quanto è stata importante la sua presenza? Come vivete insieme l'esperienza lavorativa? 

R- Lei è tutto il mio mondo, i miei spettacoli sono quasi tutti ispirati dalla sua personalità, quasi tutte le mie idee nascono dalle mie conversazioni con lei. Stiamo insieme fin da quando eravamo ragazzini e il teatro è sempre stato lì tra noi due; ne abbiamo sempre parlato, il teatro per me è lei: i teatri sono ricordi di lei, gli spettacoli sono ricordi di lei; lei è la mia forza, la mia ispirazione, senza di lei non avrei assolutamente avuto la forza di affrontare tutti i problemi, le difficoltà e i sacrifici che ci sono voluti per arrivare fino a qua. 

D- Hai un tuo mentore in particolare? 

R- Non amo avere punti di riferimento ma non posso negare di avere i miei maestri in testa quando dirigo uno spettacolo o quando lo interpreto.

D- Tornassi indietro, cosa cambieresti di te stesso? cosa vorresti fare che non hai ancora fatto? 

R- Se tornassi indietro farei più o meno quello che ho fatto ma cercherei di farlo meglio, cercherei di essere ancora più generoso, ancora più coraggioso, forse rischierei ancora di più; non mi pento del mio percorso, forse dedicherei un pochino più di attenzione alla televisione come attore che ho sempre messo in secondo piano e ne farei un pochettino di più . 

D- Ti senti di ringraziare in particolare qualcuno? se si chi? 

R- Beh ringraziare tutte le persone che hanno avuto fiducia in me e colgo l'occasione per farlo qui adesso a partire da Isabella Giannone, mia madre, Barbara De Rossi, Gabriele Ferzetti, Giuseppe Cangialosi, Lorenzo Costa, Salvatore Buccafusca, Francesco Maselli, Raffaella Mutani e Ilaria Patamia, Clara Surro, Alessandro Lorenzini, Riccardo Reim...

E qui credo che l'elenco,salvo mie dimenticanze, sia già finito. 

D- Hai spettacoli da portare in scena nel 2024? Quali? 

R- In questa stagione porterò in scena il diario di "Adamo ed Eva" e %Le relazioni pericolose" dopo il successo che hanno avuto nella scorsa stagione, accanto a me una meravigliosa Corinne Cléry, Isabella Giannone e altri magnifici attori; poi andranno in scena anche "Cose di ogni giorno" e a fine stagione una vera e propria sorpresa di spettacolo. 

D- Ultimamente stai organizzando diversi workshop online sull'attività teatrale? di cosa si tratta? 

R- Ho insegnato in tantissime scuole soprattutto regia e recitazione ma ho sempre avvertito la necessità per i ragazzi, per chi inizia, di dare loro la possibilità di conoscere il teatro un po' più in generale anche dal punto di vista organizzativo e produttivo nonché distributivo per cui faccio queste lezioni online molto particolari dove sostanzialmente descrivo come funziona il teatro da un punto di vista tecnico e burocratico; non sono lezioni con un contenuto artistico ma solo di tipo pratico e credo però che siano estremamente importanti per i giovani che si approcciano a questa professione.

D- Definisci TEATRO, definisci Francesco Branchetti, definisci gioie e dolori della tua lunga carriera 

R- Ma il teatro per me inizia quando qualcuno inizia a preoccuparsi dei problemi di qualcun altro e allora inizia il teatro quello bello, quello che piace a me; Francesco Branchetti è un uomo che vive come un ragazzo accanto a una donna che vive come una ragazza con un sentimento molto forte di avventura e di romanticismo  e che nel 2023 trova ben poche entità con cui dialogare; le belle gioie sono gli spettacoli riusciti che hanno avuto successo, le gioie sono i viaggi con Isabella, gli allestimenti, le prove, anche i sacrifici rappresentano alle volte delle strane forme di gioia, le gioie sono state le amicizie che tuttora resistono con i direttori dei teatri, soprattutto i piccoli teatri della provincia italiana che hanno direttori meravigliosi molto più competenti alle volte dei direttori dei grandi teatri magari dal grande blasone; i dolori ti ripeto si riassumono in uno solo ed è di  aver fatto questo viaggio con Isabella senza nessun altro compagno di viaggio al nostro fianco, è stato un percorso in solitaria bellissimo ma comunque  in solitaria...

D- Francesco, lasciaci qui qualche riga di te, togliendoti magari quel sassolino nella scarpa che spesso fa male e teniamo comunque, vuoi per timore, per educazione, per evitare noie... 

R- Ma sai .. un sassolino nella scarpa fino ad un certo punto... a volte mi amareggia il fatto che tutti in teatro, sappiamo quali sono i migliori attori in circolazione ma molto spesso, arrivano al successo vent'anni più tardi rispetto ad altri attori che tutti in teatro, sanno che sono attori di una mediocrità imbarazzante ...

Credo in realtà di dire una banalità di cui ormai tutti, ma proprio tutti, compreso il pubblico che segue,  si siano accorti ampiamente.

September 03, 2023

September 02, 2023

 

Sì, avete letto bene, il 14 e il 15 settembre andrà in scena il mio monologo, interpretato da Marco Zordan, che concorrerà al Comic Off.

È una strana sensazione essere “dall’altra parte”, anche se non sarò certo io sul palco. Dopo aver visto e scritto articoli per quattro anni su tanti spettacoli teatrali, ora tocca al mio, di cui certo non scriverò una recensione, semmai racconterò le sensazioni di questa nuova esperienza. 

Marco è un grande artista e mi lusinga che abbia voluto interpretare questo testo in cui si farà portavoce del mio mestiere di operatore ecologico. A scriverlo mi spinse un altro attore che stimo moltissimo, Gianluca Delle Fontane, senza il quale non so se mi sarei cimentato in questa avventura; lo ringrazio sia per avermi spronato che per i suoi consigli e il suo aiuto. 

Non credo ci sia una pièce che parli del mestiere del netturbino, soprattutto raccontato in prima persona. Ho voluto inserire aneddoti, curiosità, problematiche, il rapporto con i cittadini… raccontando anche di me e dei miei colleghi; tutto per sorridere con voi e con loro, ma anche per presentare il lato umano, spesso nascosto ma profondo, di chi opera in questo settore del lavoro.

Un settore sempre al centro di polemiche, discusso e criticato, sbeffeggiato a volte a ragione, altre senza conoscere i retroscena che, per questo, in parte ho voluto svelare. 

Ringrazio la genialità, la comicità e lo spessore umano di Marco Zordan per aver voluto dare voce al mio pensiero,  che, sono sicuro, farà con grande maestria e professionalità.

 

September 01, 2023
    Geoffrey Roberts

Nel panorama accademico europeo spicca la figura di Geoffrey Roberts, storico inglese, autore di testi notevoli su Stalin e sulla Seconda guerra mondiale. Il suo sguardo di esperto di storia militare del XX secolo diventa ancora più illuminante considerando la sua conoscenza di due realtà diverse.

Quella del suo Paese, il Regno Unito, uno dei maggiori fornitori di armi all’Ucraina e apertamente ostile alla Russia, e quella dell’Irlanda, Paese di lunga tradizionale di neutralità nel quale è Professore Emerito presso l’Università di Cork. Già alcuni mesi fa Roberts metteva in guardia contro il pericolo di un coinvolgimento diretto della NATO nel conflitto ucraino, che lui definisce una guerra per procura dell’Occidente contro la Russia.

Nell’intervista che ci ha gentilmente concesso, ribadisce il timore che l’espansionismo della NATO e la sua ostilità verso Mosca provochino effetti irreparabili. L’Ucraina, intanto, ha di fatto già perso, ma è ancora in tempo per limitare i danni con dei negoziati.

– La controffensiva ucraina non sta andando esattamente come i media occidentali avevano pronosticato, né tanto meno come desideravano i vertici dei Paesi NATO. Che cosa accadrà sul campo nelle prossime settimane? Secondo Lei il risultato delle operazioni degli ucraini potrebbe cambiare l’atteggiamento di Bruxelles verso Kiev?

– La controffensiva di Kiev ha fallito. Le forze ucraine potrebbero ancora ottenere delle conquiste tattiche, però manca totalmente la prospettiva di uno sfondamento strategico di qualche tipo. I costi umani e materiali dell’offensiva sono stati enormi. In modo lento e inesorabile l’ago della bilancia si sta spostando definitivamente in favore della Russia.

Nonostante l’imponente sostegno occidentale, l’Ucraina sta chiaramente perdendo la guerra. Resta da vedere se questo stato di cose indurrà i vertici euroatlantici a passare alla diplomazia e a cercare una fine negoziata delle ostilità, che possa salvaguardare il futuro dell’Ucraina. Ciò dipenderà dalla forza delle voci realiste e pragmatiche che si trovano nelle élite occidentali. Queste ultime, tuttavia, avendo investito così tanto capitale politico nella sconfitta dei russi, troveranno difficile riuscire a modificare la rotta. Spero comunque che cambino direzione, ma ci vorrà un po’ di tempo e nel frattempo le immani sofferenze degli ucraini continueranno.

– L’Occidente dovrebbe temere un’escalation con la Federazione Russa? Crede che uno scontro localizzato tra i due blocchi sia possibile, ad esempio fra Polonia e Bielorussia? Un conflitto del genere potrebbe ingrandirsi a livello continentale e poi globale?

– Uno degli aspetti più inquietanti di questa guerra è proprio la mancanza da parte del fronte euroamericano della paura di un’escalation. Continua a permanere lo schema di un aumento costante dell’appoggio dell’Occidente all’Ucraina, in questa sua proxy war o guerra per procura. Sono state le azioni degli occidentali ad aver portato a un conflitto così prolungato.

Se la UE e la NATO si fossero frenate e avessero limitato i loro aiuti a Kiev, gli scontri sarebbero terminati già qualche mese fa e all’Ucraina sarebbero stati risparmiati danni immensi, compresa la scomparsa di centinaia di migliaia di vite. Sì, l’Ucraina avrebbe ceduto territori e la sua giurisdizione sarebbe stata ridimensionata, ma sarebbe sopravvissuta come Stato sovrano e indipendente.

E invece proseguendo la guerra, proseguono anche le perdite territoriali: se non finisce presto, per l’Ucraina si delinea la sorte di uno Stato in bancarotta, incapace di funzionare, completamente dipendente da un Occidente che, non appena cesseranno i combattimenti, si rivelerà molto meno generoso di prima.

È improbabile che la guerra subirà un’escalation fino allo scontro totale fra Russia e Occidente. Tuttavia non si può escludere tale ipotesi, partendo ad esempio dal caso della Polonia contro la Bielorussia. Bisogna poi tenere a mente che nel fronte anti-russo vi sono degli estremisti che desiderano l’escalation e che fin dall’inizio del conflitto spingono per provocarla. I neocon euroatlantici e gli ultra-nazionalisti ucraini sono convinti che la Russia sia una “tigre di carta” pronta a sfaldarsi al primo contatto. Ragionano in modo folle, certo, ma sembrano credere davvero alle loro assurdità.

– Dicono che la storia tenda a ripetersi. Oggi in Ucraina la storia si sta ripetendo davvero? Parliamo dei carri armati tedeschi che avanzano verso est o magari di uno scontro epocale fra due imperi, quello angloamericano di mare e quello russo di terra.

– In questo momento i tank tedeschi (e quelli britannici) non stanno avanzando verso est. Il motivo è vengono distrutti dall’artiglieria della Russia, dai suoi missili anti-carro e dalla supremazia aerea. Lo stesso può dirsi per gli altri armamenti NATO forniti all’Ucraina. I soggetti più lucidi dentro le strutture militari occidentali lo hanno notato e devono aver capito che Mosca possiede le capacità per sconfiggere l’Ovest in qualsiasi scontro diretto e convenzionale di grandi dimensioni.

Hanno anche compreso che una guerra del genere avrebbe un’escalation di livello nucleare, perché sarebbe l’unico modo per gli Stati Uniti di difendere l’Europa dall’attacco russo. Per fortuna non c’è nulla che indichi una tale intenzione da parte di Mosca. In tutto il corso del conflitto, Putin ha cercato di contenere la tendenza degli occidentali all’escalation e lo ha fatto evitando reazioni eccessive alle loro provocazioni, come appunto è stato l’invio dei Leopard tedeschi all’Ucraina.

– Da un punto di vista strettamente accademico, crede che questa guerra fosse inevitabile? E lo è anche il suo esito, già determinato da elementi storici e destinato a manifestarsi nell’arco di un certo tempo? Oppure il risultato potrebbe essere ancora alterato dalle scelte concrete fatte dai politici e dai generali?

– La guerra russo-ucraina è stata la guerra più evitabile o meno inevitabile della storia. La NATO poteva impedirla semplicemente limitando la sua espansione verso i confini della Federazione Russa e non pompando di armi l’Ucraina. La guerra poteva essere evitata con l’implementazione degli accordi di Minsk, che avrebbero restituito a Kiev la sovranità sulle regioni ribelli di Donetsk e di Lugansk garantendo al tempo stesso la protezione dei diritti e dell’autonomia degli elementi russofoni e filorussi dell’Ucraina.

Ma questo progetto è fallito per colpa degli ultra-nazionalisti ucraini, che hanno sabotato l’attuazione di Minsk e che l’hanno fatta franca proprio grazie all’Occidente. La guerra non sarebbe scoppiata se si fossero svolti dei negoziati seri a proposito della sicurezza in Europa, che avrebbero fornito a Mosca le rassicurazioni che servivano e che avrebbero rispettato i suoi interessi riguardanti l’Ucraina.

Se diciamo che l’invasione di Putin è stata un atto illegale di aggressione, allora dobbiamo specificare che è stata tutt’altro che ingiustificata. Anche l’Ucraina e l’Ovest sono responsabili per lo scoppio delle ostilità. Inoltre, il conflitto poteva terminare dopo qualche settimana se solo le trattative di Istanbul della primavera 2022 avessero avuto successo.

E invece sono fallite perché col supporto occidentale l’Ucraina ha abbandonato il tavolo, rinunciando a un accordo che avrebbe limitato i danni al suo territorio e alla sua sovranità e avrebbe stabilizzato le sue relazioni con la Russia.

– Pensa che l’Unione Europea alla fine accetterà l’Ucraina come Paese membro? O continuerà a rimandare la sua adesione, come sta facendo la NATO?

– Credo che l’appoggio della UE a una guerra che viene proverbialmente combattuta fino “all’ultimo ucraino” implichi pure il suo obbligo morale di approvare l’adesione di Kiev. Tuttavia, nonostante le belle parole di Bruxelles, ci vorranno anni affinché l’Ucraina diventi effettivamente uno Stato membro, ammesso che lo diventi davvero. Il Paese che costituisce il più grosso ostacolo all’adesione ucraina è ironicamente proprio il suo maggior sostenitore nello sforzo bellico, cioè la Polonia.

Sebbene vi sia la comunanza della retorica nazionalista anti-russa, nel contesto della UE gli interessi di Varsavia collidono economicamente e politicamente con quelli di Kiev. La Polonia è il Paese che ci perderebbe di più con l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione: potrebbe essere questa la ragione per cui ciò non avverrà.

Presumo che uno Stato ucraino sconfitto, in rovina e non in grado di funzionare possa diventare un membro della NATO nel prossimo futuro, ma ciò richiederebbe pur sempre l’assenso di Mosca e l’unanimità dei membri dell’Alleanza.

– E che cosa può fare l’Unione Europea per agevolare la fine del conflitto?

– Può abbandonare l’atteggiamento guerrafondaio e impegnarsi nella diplomazia. Può riscoprire la sua identità di progetto che anela alla pace. Può usare la sua esperienza e le sue straordinarie abilità nella negoziazione e nel compromesso per garantire un cessate-il-fuoco e un accordo di pace duraturo.

– Come spiega il fatto che la Finlandia e la Svezia abbiano abbandonato lo loro tradizionale neutralità? C’è la possibilità che Austria e Irlanda facciano lo stesso?

– L’adesione di Finlandia e Svezia all’Alleanza Atlantica non costituisce di per sé un passo così radicale come sembra. Per decenni, questi due Paesi sono stati allineati con la NATO e hanno collaborato strettamente con essa. Il pericolo invece consiste nella possibilità che Washington stabilisca basi militari sul loro territorio: ciò verrebbe visto da Mosca come una minaccia.

Per quanto riguarda l’Austria, la sua relazione con la NATO è sempre stata più distaccata di quella tenuta da Svezia e Finlandia e personalmente non credo tale situazione possa cambiare. La cooperazione pratica dell’Irlanda con la NATO si è sviluppata per molti anni ed è aumentata considerevolmente nel corso di questa guerra; l’opinione pubblica resta però fedele all’idea della neutralità irlandese. Tutto ciò è un peccato perché un saldo blocco neutrale in Europa aiuterebbe a mantenere viva la diplomazia e a giocare un ruolo costruttivo negli sforzi per raggiungere una tregua e un accordo di pace. I Paesi europei neutrali si potrebbero anche alleare con la campagna promossa dal Sud Globale per i negoziati che mettano fine alla guerra.

– Quanto è difficile oggi per un docente universitario esprimere le proprie opinioni senza il timore di essere censurato o disprezzato dai media e dai colleghi? Purtroppo in Italia si sono visti dei casi del genere…

– Non è difficile per me, perché essendo “in pensione” posso dire e fare quello che voglio, persino dei viaggi in Russia per tenere conferenze universitarie. Invece, sui colleghi che si trovano in circostanze meno favorevoli delle mie c’è una pressione enorme per conformarsi alla “linea di partito” occidentale sulla guerra in Ucraina. Ciò spiega la loro reticenza a parlare di questo argomento o anche solo a esporre le proprie conoscenze accademiche in merito: tutti gli sforzi di imparzialità vengono censurati o silenziati. I docenti universitari in Ucraina subiscono minacce e pressioni ben peggiori; anche per quelli russi esprimere visioni critiche sulla guerra è rischioso se non impossibile.

– Il prossimo anno negli Stati Uniti ci saranno le elezioni presidenziali. Crede che qualcosa possa cambiare in meglio?

– Biden potrebbe perdere le elezioni proprio a causa della guerra. Ciò implicherebbe una possibile vittoria di Trump. Il problema di quest’ultimo è che parla molto, ma fa effettivamente poco. Oggi sembra a favore della pace in Ucraina, ma era stata la sua amministrazione ad accelerare il potenziamento militare di Kiev. Putin sarà diffidente verso chiunque diventi il prossimo presidente americano. Il leader russo metterà fine alle ostilità solamente se ci saranno le condizioni per la sicurezza del suo Paese e la garanzia della protezione degli ucraini filorussi. Putin sarebbe capace di combattere fino alla fine, se necessario, per poi imporre una pace punitiva ai suoi avversari.

La finestra per una fine negoziata della guerra si sta chiudendo velocemente. Il prossimo autunno potrebbe essere l’ultima chance della diplomazia per arrivare a un qualche genere di accordo. Se ciò non avverrà, il destino dell’Ucraina sarà deciso sul campo di battaglia, ma quando le armi smetteranno di sparare, lo Stato ucraino in quanto tale potrebbe di fatto non esistere più.

 

 

 

 

 

 
Elisabetta Strickland “Le madri di idee. Le donne scienziate e il premio Nobel”
e Neria De Giovanni “Amalasunta , regina barbara”: scienziate e regine protagoniste della sera finale delle “Letture d’estate a Villa Edera”.

 

Mercoledì 30 agosto alle ore 19,30, si è conclusa la XII Rassegna delle “Letture d’estate a Villa Edera”, presentazione degli autori Nemapress con la direzione artistica di Neria De Giovanni, organizzata dalla Associazione Salpare  con la Fidapa sez. di Alghero e La Rete delle Donne in collaborazione con l’Associazione Orion e Ivan Perella.

E’ stata inserita in “Alghero Experience-un anno così” Cartellone ufficiale degli eventi estivi  del Comune di Alghero,  Assessorato alla Cultura e Turismo e Fondazione Alghero

 

Protagoniste della serata conclusiva saranno le donne, Scienziate e Regine.

La professoressa Elisabetta Strickland matematica ed accademica italiana, già ordinaria di algebra presso il Dipartimento di matematica dell’Università di Roma Tor Vergata, con “Le Madri di idee”  ha presento in questo interessante volume il profilo biografico e professionale delle donne scienziate cui è stato attribuito il Premio Nobel. Come la stessa Strickland ha sottolineato  nella introduzione, “il divario di genere è particolarmente marcato nelle scienze: infatti sono tante le donne che hanno dato lustro alla conoscenza umana, vincitrici o meno di Premio Nobel per le discipline scientifiche”. L’Autrice si era già occupata di questa tematica che le sta particolarmente a cuore, essendo co-fondatrice del Gender University Observatory delle tre università romane attivo dal 2009. Nel 2013 è stata insignita dall’amministrazione capitolina del Premio donne eccellenti di Roma.

Neria De Giovanni, autrice di oltre 40 volumi di saggistica, presidente dell’Associazione Internazionale Critici letterari, ha  scandagliato  dalla profondità della storia, un delitto ancora irrisolto: Amalasunta, la figlia prediletta di Teodorico, regina dei Goti, la quale fu strangolata "in balneo" nell’isola Martana sul lago di Bolsena. Sicari e movente sconosciuti. Per vendicarne la morte, l'imperatore Giustiniano scatenò la guerra gotico-bizantina che portò alla fine dell'impero gotico in Italia. In questo libro la scrittrice ha ricostruito la vicenda storica e umana della regina Amalasunta, alternando capitoli in terza persona con i quali rigorosamente viene ricostruito il periodo storico tra i più difficili e contorti dell'alto Medioevo, a capitoli in prima persona dove immagina sia proprio Amalusunta a motivare le proprie azioni e i propri rapporti sia familiari sia politici. Particolarmente efficace è stata la descrizione dello scontro con Teodora, la moglie di Giustiniano, che incarnò un modo opposto di arrivare al potere rispetto a quello di Amalasunta.  Su di lei Neria De Giovanni ha realizzato anche un docufilm messo in onda da RAI3 girato a Ravenna.

Il Flauto traverso di Elisa Ceravola ha accompagnato la serata.

A concludere un buffet con brindisi con l’Autore offerto dalle Cantine di Santa Maria La Palma con i suoi spumanti Akenta rosè e Akenta extra dry.

 

 

 

E’ stata, lo confesso, una scoperta veramente al di là di qualsiasi aspettativa l’essermi imbattuto nel capitolo XI del Gesuita Moderno di Vincenzo Gioberti (1801-1852), intitolato Della religione e civiltà dei Buddisti *, capitolo in cui l’abate torinese aspira, prima di ogni altra cosa, a dimostrare l’infondatezza della tesi  secondo cui il Buddhismo sarebbe una religione “atea”. La mia grande quanto gradita sorpresa non è stata  soltanto per il carattere insolito della tematica, bensì soprattutto per il modo acuto e anticonformista con cui essa viene trattata, a dimostrazione dell’ampiezza degli interessi culturali del Gioberti e della sua spiccata autonomia di giudizio, che, per alcuni aspetti, potremmo definire pionieristica.

 

Egli, infatti, sul piano metodologico, si rifiuta subito di lasciare la questione in mano esclusivamente ai filologi, sostenendo che, su problemi di “dogmatica religiosa e di filosofemi”, lo “speculativo” costituisce un “miglior giudice del filologista”, e che non sia tanto il caso di cimentarsi in disquisizioni e tecnicismi per raffinati  “addetti ai lavori”, ma che si tratti, invece, di penetrare, con buon occhio filosofico, nel cuore profondo dell’essenza degli

                     Gioberti

insegnamenti dottrinali.

A tal fine, come prima cosa, all’interno del Buddhismo, viene proposta la distinzione fra la cosiddetta “parte essoterica” e quella “acroamatica”, ovvero fra  religione popolare e religione filosofica.

In merito alla prima, ritiene, senza alcuna incertezza, che si debba necessariamente parlare di “un teismo misto più o meno di politeismo”, mentre, in merito alla seconda, ritiene che si debbano adeguatamente distinguere le scuole considerate “ortodosse dalle eterodosse”, prendendo in considerazione esclusivamente le prime, perché, altrimenti, si potrebbe arrivare all’assurda conclusione di poter considerare atea qualsiasi “religione al mondo, professata da un popolo culto”. Se, infatti, ci si volesse basare sulle tesi sostenute dalle correnti eretico-scismatiche, si potrebbero ravvisare presenze “atee” anche all’interno del Brahmanesimo quanto dello stesso Cristianesimo.

Gioberti, quindi, ritiene che anche in seno al Buddhismo, gli “atei son tenuti per eretici dagli altri, non meno che da noi i nostri”, e che, di conseguenza, le posizioni di carattere radicalmente e coerentemente atee riguarderebbero esclusivamente circoscritte minoranze ereticali.

Al fine di avvalorare la sua tesi, si concentra, a questo punto, sul concetto di Nirvana, riferendosi ad esso come concetto basilare  sia per le scuole ortodosse sia per quelle eterodosse, e da lui considerato “il cardine panteistico di tutte le meditazioni orientali” .

Constatato che “Alcuni dei pensatori eterodossi intendono per Nirvana il nulla assoluto”, ritiene che, in questi casi, sarebbe possibile applicare la definizione di atei, anche se ancora meglio risulterebbe quella di “nullisti”.

Ma siccome la maggior parte delle scuole e, in particolar modo, quelle ortodosse, conferiscono al Nirvanauna significazione positiva”, intesa come assai simile al “non ente” platonico e “all’ àpeiron o all’infinito dei Pitagorici, di Anassimandro e di quasi tutti gli antichi filosofi italo greci”, non sarebbe possibile parlare di ateismo, bensì soltanto di panteismo.

Molto bella è, a questo punto, la definizione di ateismo che viene proposta, indubbiamente lontana dai tradizionali stereotipi di carattere confessionale (del tipo: ateo è chi non crede nel dio in cui noi crediamo e/o nel modo in cui noi crediamo).

Per ateo – scrive – s’intende nel comune linguaggio chi nega la realtà eterna di un principio assoluto e sovrasensibile produttivo per creazione o emanazione o per altro modo dei fenomeni di natura.” Di conseguenza, i cosiddetti buddhisti ortodossi, che, a suo parere, ammetterebbero l’esistenza di tale principio assoluto, non potrebbero essere considerati atei.

Il pensatore torinese afferma, inoltre, che apparirebbe alquanto difficile comprendere come una religione veramente “innestata sull’ateismo”,  avrebbe potuto, oltre che venire abbracciata da milioni di seguaci, dimostrarsi “durante e fiorente almeno da ventiquattro secoli”. E ancora più incomprensibile risulterebbe, a suo giudizio, dover accettare, su un piano strettamente pratico, che un culto ateo possa essersi dimostrato “più umano, più mansueto, più civile di altre credenze fondate nel monoteismo, nel panteismo, nel politeismo”, tanto da risultare, nell’ambito delle religioni orientali, moralmente superiore, nei suoi effetti, sia all’islamismo che al brahmanesimo.

Gioberti, pur ammettendo che la componente “ipermistica” presente nel Buddhismo abbia finito, nel tempo, per allontanare i popoli che lo hanno accolto dall’agire nel mondo, attribuisce al credo buddhista una encomiabile inclinazione “favorevole alle imprese civili negli ordini della pace”, nonché  il merito di aver dato vita a meravigliose opere architettoniche e ad innumerevoli e preziosi luoghi di culto.

Questo senso incivilito - dichiara - fu infuso nel Buddismo dal dogma della salute universale, che tempera e modifica le ascetiche intemperanze dell’istinto contemplativo, ed è atto a promuovere naturalmente quei sensi benefici e pietosi, onde mossero le celebri riforme di re Asoco (= Ashoka)”.

A tale proposito, fa riferimento a quanto testimoniato dal padre gesuita Daniello Bartoli (“gran detrattore dei bonzi e perciò tanto più autorevole”), in merito alle popolazioni del “Tunchin” (regione del Tonchino, nell’Indocina francese), le quali “si occupavano a cercarein che opere di virtù acquistar nuovo merito per la vita avvenire, massimamente operando in beneficio del pubblico: come a dire, aprir novi sentieri, con che accorciar la via lunga o spianare qualche erta fatichevole a’ viandanti; voltare archi e gittar ponti sopra fosse, fiumi, torrenti perigliosi a guadare; aprire alberghi, dove gratuitamente ricogliere i pellegrini; e somiglianti, per cui mettere in effetto non mancava loro danaio tra del proprio e del contributo in limosina da’ divoti’ ”.

Sulla base di questa elogiativa descrizione, Vincenzo Gioberti approda, portando a termine le sue riflessioni, a due importantissime conclusioni:

  1. Una simile autorevole testimonianza (teologo, scienziato e letterato, autore di opere monumentali, Daniello Bartoli, definito dal Monti come il massimo conoscitore dei segreti della lingua italiana, è il principale storico della Compagnia di Gesù) può risultarci utile per comprendere cosa realmente fossero i seguaci del Buddha “dell’India nei migliori tempi”, ben al di là dei pregiudizi ampiamente diffusi nel mondo cristiano-occidentale.
  2. I Gesuiti, se, con la loro opera missionaria, invece di fare guerra ai monaci e alle monache buddhisti, “gli avessero imitati e superati”, il Cristianesimo forse sarebbe potuto fiorire “nell’ultimo Oriente”.

Questi, riassumendo, gli aspetti più significativi presenti nell’analisi giobertiana del Buddhismo:

1.Necessità di distinguere nettamente religione popolare da pensiero filosofico.

2.Necessità di distinguere, all’interno di quest’ultimo, le posizioni ortodosse e maggioritarie da quelle cosiddette eretico-scismatiche.

  1. Aver conferito al concetto di Nirvana una fondamentale centralità.
  2. Aver preso atto della presenza di concezioni nichiliste in alcuni pensatori ortodossi.
  3. Aver riconosciuto che la maggior parte delle scuole (in particolar modo quelle considerate “ortodosse”) conferisce al Nirvana una “significazione positiva”.
  4. Aver riconosciuto, in detta concezione, caratteri di affinità con il pensiero metafisico di buona parte delle filosofie presofistiche italo-greche.
  5. Aver ritenuto improprio applicare la definizione di ateismo al Buddhismo, dal momento che in esso sarebbe presente la credenza in “un principio assoluto e sovrasensibile”.
  6. Aver ritenuto impossibile, qualora si accogliesse la tesi di un buddhismo-ateo, fornire una valida spiegazione della diffusione e della durata della religione buddhista, nonché il suo livello di ammirevole eticità, superiore a quello riscontrabile nelle religioni (di vario orientamento) non atee.
  7. Aver riconosciuto al Buddhismo, nonostante la sua tendenza “ipermistica” (che indurrebbe prevalentemente alla inazione), una apprezzabile attenzione all’impegno concreto sul fronte della pacifica convivenza e su quello della costruttività civile e religiosa.
  8. Aver sottolineato come la sua concezione della salvazione universale abbia esercitato un valido freno rispetto alle tendenze ascetiche, favorendo attive forme di benevolenza compassionevole (con riferimento particolare all’opera riformatrice del re Ashoka);
  9. Aver fatto intelligente uso della testimonianza di un illustre padre gesuita (Daniello Bartoli), al fine di evidenziare la presenza di ammirevoli forme di benefica e filantropica operosità in una regione, come quella del Tonchino (Cocincina francese), intimamente imbevuta di cultura buddhista, e, proprio per questo, particolarmente rappresentativa.
  10. Aver concluso il suo scritto con una nitida bordata polemica rivolta agli iniqui quanto fallimentari metodi dell’opera missionaria della Compagnia di Gesù, mettendo in luce, con graffiante arguzia, che il Cristianesimo avrebbe forse potuto riuscire a diffondersi anche in Estremo Oriente qualora i Gesuiti, invece di “far guerra” alle monache e ai monaci  buddhisti,  si fossero “cristianamente” prodigati nell’imitarli e superarli sul piano delle realizzazioni  sociali di carattere benefico.

 

Particolarmente degni di nota appaiono, a mio avviso, i punti 5-6-7, che denotano la presenza in Gioberti (filosofo, teologo, letterato, politico, ma non certamente orientalista, né storico delle religioni) di una indubbia profondità di analisi, accompagnata da coraggiosa originalità di giudizio. Intorno alla vera natura del pensiero buddhista, infatti, prevalevano, all’epoca, visioni fortemente etnocentriche tendenti alla svalutazione (e, sovente, alla deformazione) di ogni produzione culturale estranea all’Occidente. Assai ricorrente, in particolare, l’uso di una chiave di lettura basata sulla contrapposizione stereotipata fra civiltà cristiano-occidentale, proiettata sul piano della concretezza del fare e dell’agire, e civiltà buddhistico-orientale, immersa in una sorta di torpore ascetico, rinunciatario e antivitale.

 Intorno alla vera natura della condizione del Nirvana, in particolare, risultavano dominanti orientamenti interpretativi di carattere nichilista, volti a vedere nell’aspirazione al Nirvana la manifestazione estrema del rifiuto radicale (peculiare della spiritualità indiana) non soltanto della  mondana oggettività, bensì anche di ogni forma di esistenza soggettiva.

Lo stesso Vincenzo Gioberti, probabilmente influenzato dal Burnouf, non molti anni prima, aveva sostenuto che “Il fine ultimo che il buddhismo attribuisce a tutte le realtà esistenti coincide con il loro annientamento, il Nirvana, «a cui come scopo supremo anela il creato» nel tentativo di porre fine alla sofferenza della propria esistenza, ottenendo un riposo eterno nella beatitudine del nulla”. **

Ora, tenendo presente che ancora per tutto il XIX secolo, fino ai primi decenni del XX, numerosi orientalisti propenderanno, come ben spiega Radhakrishnan*** , nel considerare il Nirvana come “la notte del nulla, l’oscurità dove ogni luce viene estinta” ,  decisamente apprezzabile e lucida risulta la posizione giobertiana che sottolinea la presenza di  “una significazione positiva” di tale concezione all’interno della maggior parte delle scuole “ortodosse” dell’universo buddhista. Ed anche indubbiamente apprezzabile risulta l’aver inteso che, optando per la tesi di una condizione nirvanica di carattere positivo, risulterebbe impossibile non approdare, poi, all’affermazione dell’esistenza di un principio permanente, paragonabile al concetto di arché proprio delle prime speculazioni onto-cosmologiche  elleniche. Cosa questa che consente al nostro abate  di parlare di panteismo, riuscendo pertanto a sollevare il pensiero buddhista dall’accusa infamante (almeno dal suo punto di vista di filosofo cristiano) di “ateismo”.

In pratica, la prospettiva giobertiana sembrerebbe armonizzarsi con le parole attribuite al Buddha in persona, che, pur rifiutandosi di ammettere qualsiasi speculazione in merito alla condizione di colui che consegue il Nirvana, si trovò costretto ad ammettere, sul piano del rispetto rigoroso della pura logica, la realtà di “un essere al di là di ogni vita, che è incondizionato, al di sopra di tutte le categorie empiriche”****:

 

Vi è, o discepoli, un qualche cosa che non è generato, né prodotto, né creato, né composto. Se non vi fosse, o discepoli, questo qualche cosa di non generato … non vi sarebbe alcuna possibile via di uscita per ciò che è stato generato.” (Udana, VIII 3, e Itivuttaka, 43)

 

Insomma, considerando che Vincenzo Gioberti scrive circa trent’anni prima dell’ apparizione di un’opera come Iside Svelata (New York 1877), in cui Helena Petrovna Blavatsky (fondatrice della Società Teosofica) contrasterà e smaschererà in maniera magistralmente competente  le varie inesattezze insite nelle occidentali concezioni relative all’autentica filosofia buddhista, ritenendo “un fatto incontestabile” che ad essa non appartenga l’insegnamento  della finale nirvanica “annichilazione”, non possiamo che riconoscere, nel nostro abate teologo e aspirante orientalista, la presenza di due virtù autenticamente filosofiche:

 una particolare brillantezza di intuizione e una robusta capacità di pensiero anticonformista.

 

*da Il Gesuita moderno, vol. V, cap. XI, Losanna 1847, p. 76: poche paginette, in realtà, all’interno di un’opera di ben cinque volumi.

** https://www.pensierofilosofico.it/articolo/LINTERPRETAZIONE-FILOSOFICA-DI-VINCENZO-GIOBERTI-SULLE-RELIGIONI-ORIENTALI/204/, a firma di Paolo Gava.

*** S. Radhakrishnan, La filosofia indiana, Einaudi, Torino 1974, p. 455.

****ibidem.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

August 27, 2023

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