L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Economics (243)

Roberto

Roberto Casalena
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I pochi lettori di questa nuova fase del blog sulla più grave crisi finanziaria dalla fine del secondo conflitto mondiale avranno notato che alcuni degli argomenti toccati in queste settimane richiedono più di una puntata del diario della crisi finanziaria, anche se voglio rassicurarli sul fatto che non si tratta di una sorta di accanimento terapeutico, quanto del fatto che si tratta spesso di vicende alquanto oscure e che squarci di luce appaiono qui e là in tempi non prevedibili da chi tiene faticosamente il giornale di bordo della tempesta perfetta.

Uno di questi casi è certamente rappresentato da quella Cina che continua orgogliosamente a chiamarsi Repubblica Popolare Cinese anche se sono anni che è entrata non solo nel sistema capitalistico ma ha anche una forte propensione alla creazione di bolle speculative, delle quali quella del credito è soltanto la più appariscente, una bolla gigantesca che è strettamente collegata a quella dell'ormai vasto mercato azionario cinese, un mercato che rischia di avere assonanze con quello imperiale britannico dell'800 con le ormai famose, se non famigerate azioni che rappresentavano fantomatiche miniere sparse un po' ovunque nel mondo!

Ebbene, nell'un tempo Celesete impero, è stato arrestato il capo dell'ufficio statale di statistiche, quello famoso per essere stato sbugiardato sul dato del prodotto lordo interno cinese da un connazionale riparato negli Stati Uniti d'America, ed è di oggi la notizia che il capo dell'organismo di vigilanza sulle borse cinesi, l'equivalente della nostra Consob, è stato giubilato, per sua fortuna a piede libero, ed è stato sostituito dal presidente dell'Agricultural Bank, una persona che dire che è in conflitto di interessi equivale a fargli un complimento.

Ma la notizia più importante la fornisce l'Economist in un lungo servizio sui rischi che sta correndo l'economia cinese in questo momento e quello più rilevante è rappresentato dal debito complessivo che è pari al 282 per cento del prodotto interno lordo cinese, una cifra che è data dal debito sovrano che supera di poco il cinquanta per cento del PIL, mentre quello che è riferibile a famiglie e società è pari al 232 per cento del PIL.

Sono cifre da far tremare i polsi e che, secondo l'autorevole settimanale economico inglese, potrebbero portare ad una stretta creditizia che porterebbe la prima locomotiva del mondo dritto dritto alla recessione, con contagio pressoché immediato alle economie degli altri paesi industrializzati!

Mi sono occupato per diverse puntate della nuova ondata della tempesta perfetta, cercando, spero con successo, di indicarne le cause profonde, così come ho ficcato il naso nei guai degli altri, indicando i rischi cui vanno incontro gli azionisti, gli obbligazionisti e i depositanti per la parte superiore ai 100 mila euro per deposito (al proposito, riporto le stime di un eventuale bail in a carico dei soggetti summenzionati che sarebbero pari a 130 miliardi di euro per Deutsche Bank e a 165 miliardi per i loro omologhi in BNP Paribus, solo per citare le due maggiori banche globali del continente europeo); è ora quindi di volgere il naso verso i guai di casa nostra e occuparmi di quel grosso problema insoluto rappresentato dalla banca Monte dei Paschi di Siena, un gruppo che vede indagati in diversi gradi di giudizio ex top manager, inclusi presidente e direttore generale e esponenti di primo piano di Deutsche Bank e di Nomura che li avrebbero aiutati a confondere le acque via opportuni derivati dai nomi alquanto fantasiosi.

 

Oggi, il gruppo bancario senese è guidato da una persona che nell'ambiente gode di una solida reputazione e avente fama di integrità, Fabrizio Viola, un manager che non ebbe timori a schierarsi contro il sistema consociativo esistente in Banca Popolare di Milano e che, come è ovvio, ne uscì con le ossa rotte, ma che trovò posti al vertice in diverse banche senza dover inviare il curriculum e che poi fu chiamato come numero uno operativo in quel di Siena in assenza di concorrenti spaventati dal buco nero, e non solo dal punto di vista contabile in cui era sprofondata la banca, tirandosi dietro l'omonima Fondazione i cui vertici del tempo ancora si mangiano le mani per non aver venduto le quote per tempo.

 

Su Mps, come ben sanno i lettori più assidui del diario della crisi finanziaria, credo di avere a quel tempo detto tutto, compreso il nome del gruppo bancario europeo che avrebbe avuto tutto l'interesse e la convenienza a portare il gruppo bancario senese a nozze, nonostante o forse proprio per i guai combinati dai vecchi dirigenti con l'iperpagata e sfortunata operazione di acquisizione di Antonveneta, una banca che il vecchio Botin, patron del Santander, comprò e vendette in un notte guadagnando dai 2 ai 3 miliardi.

 

In quelle puntate di qualche anno fa, indicavo in BNP Paribus il candidato alle nozze e, anni dopo, quando tutto o quasi è cambiato nel settore creditizio italiano ed europeo continuo a vederla come la soluzione più logica, anche se mi consento da solo di formulare un sommesso consiglio a Laurent Bonaffé, CEO del gruppo transalpino, ed è quello di tenersi stretto Fabrizio Viola anche, e forse soprattutto, se non ha fama di essere un signorsì.

Come il bambino innocente che non seppe trattenersi di fronte al Re, ingannato da due astuti sarti, dal gridare che era nudo, così ieri Matteo Renzi, nell'aula austera del Senato della Repubblica, ha gridato che Deutsche Bank e altre banche globali europee, segnatamente tedesche, francesi e britanniche, hanno in pancia, ha detto letteralmente così, una montagna di derivati e titoli tossici e che, di fronte a questa situazione che mette a rischio l'intero sistema finanziario europeo, area euro e non solo, l'Italia avrebbe posto il veto alla proposta di mettere un tetto del 25 per cento del patrimonio al possesso di una banca di titoli pubblici del paese di appartenenza.

Quasi non volevo credere ai miei occhi e alle mie orecchie sentendo pronunciare dal presidente del consiglio di uno dei paesi più importanti dell'Unione europea argomentazioni proprie di noi blogger finanziari impegnati in un'opera spesso ingrata di controinformazione su banche globali che, come Deutsche o Bnp Paribas, dispongono di un attivo tradizionale pari a circa la metà del prodotto interno lordo dei paesi in cui hanno sede, ma che posseggono per di più una montagna di prodotti derivati che, sommandole, è pari a decine di volte il prodotto interno lordo dell'Unione europea.

In questi anni ho scritto diverse volte del caso Deutsche Bank, incluse le due puntate del diario della crisi finanziaria (diariodellacrisi.blogspot.com) pubblicate in questi giorni e devo dire che non è problema di qualità dei Chief Executive Officer di turno, dei quali l'attuale CEO di Deutsche è forse il più bravo, ma dell'impossibilità per gli stessi di porre rimedio alle diavolerie inventate dagli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle investment bank delle banche più o meno globali e che richiedono degli specialisti pagati a peso d'oro per spacchettare questi prodotti che spesso non erano chiari neanche ai loro inventori.

Ma questi ragazzi più o meno ingegnosi sono dei veri e propri apprendisti di quelli impegnati nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, anche perché l'entità cui loro prestano la loro ben remunerata opera è usa a determinare i trend su cui scommette sui mercati delle materie prime energetiche, i metalli preziosi, i cambi e i mercati azionari e obbligazionari, sentenze dei tribunali avverse permettendo, e il valore nozionale di queste attività di Goldman rappresentano un multiplo del prodotto lordo dell'intero orbe terraqueo.

Negli Stati Uniti, la questione si è non risolta ma almeno fortemente ridimensionata grazie al riacquisto da parte della Federal Reserve di parte della montagna di titoli più o meno tossici, cosa che la BCE si rifiuta di fare, accettandoli al più come collaterali!

Se si consulta una pagina di un sito finanziario, si può leggere che lo spread o differenziale tra un titolo del debito pubblico e un altro non è altro che la differenza tra il rendimento interno dell'uno e quello dell'altro, il che significa che il suo valore è dato dai movimenti di prezzo dei due titoli e viene letto come la differenza che il mercato dà ai debiti pubblici sovrani dei due Stati presi in considerazione.

Per noi, lo spread che fa da stella polare è il differenziale tra il rendimento del BTP decennale ad una certa scadenza e il rendimento del Bund tedesco avente scadenza omologa ed è un valore che può subire variazioni per vari motivi e, cioè, sia perché scende il prezzo e quindi sale il rendimento di uno dei due titoli o perché scende il prezzo e quindi il rendimento dell'altro titolo o perché avvengono variazioni nella stessa direzione dei due titoli ma con intensità diversa, o perché, ed è quello che sta avvenendo ora, che un titolo scenda in termini di rendimento e l'altro salga.

Fino al 2011, il termine spread riferito al differenziale Btp-Bund era pressoché sconosciuto ai più e il valore dello stesso si aggirava sui 100 punti base che equivalgono all'un per cento, un valore tutto sommato modesto tenuto conto delle differenze strutturali esistenti tra l'Italia e la Germania, quando, nell'estate di quell'anno, il differenziale tra i titoli italiani, spagnoli e grechi rispetto al Bund tedesco cominciarono a volare, per giungere per il nostro Paese alla cifra record di 575 punti base e favorirono l'ascesa al governo del prof. Mario Monti che avviò quella fase di riforme, anche dolorose, che sono state poi proseguite dai governi di Enrico Letta e di Matteo Renzi.

Dopo aver sfiorato l'area dei 90 punti base e aver illuso i più, lo spread ha ripreso bruscamente a salire, toccando anche punte del 60 per cento superiori ai minimi recentemente raggiunti e questo in assenza di significativi rialzi dello yield to maturity, il rendimento interno appunto, dei decennali italiani ma di una vera propria fuga verso la qualità dei titoli di stato tedeschi rappresentati, a torto o a ragione, come beni rifugio di fronte ai nuovi marosi della tempesta perfetta.

Mi scuso per la spiegazione un po' tecnica, ma in televisione e sui giornali si è usi dare il valore sintetico dello spread senza analizzare le determinanti degli scostamenti quotidiani e siccome questo valore è visto come un indice sintetico dell'affidabilità dell'Italia credo sia opportuno questo rapido approfondimento.

L'incontro al vertice tra il ministro dell'energia russo e i suoi omologhi venezuelano e saudita svoltosi ieri è stata la classica montagna che ha partorito un topolino, in quanto i tre uomini più potenti del petrolio, escludo volutamente gli Stati Uniti d'America che seguono logiche tutte loro, si sono trovati d'accordo nel congelare la produzione di petrolio dei rispettivi paesi al livello raggiunto l'11 gennaio ma non nell'individuare un target effettivo di taglio della produzione di greggio che, qualsiasi ne fosse stata l'entità avrebbe potuto influenzare le quotazioni dell'oro nero in maniera significativa.
D'altra parte, tutte le manovre dal lato dell'offerta, le cosiddette supply side, non hanno effetti di medio e lungo termine se non ci sono variazioni significative dal lato della domanda e questo, nella presente fase congiunturale a livello globale è quanto meno poco probabile, anche perché non si sono notati fenomeni di accaparramenti agli attuali livelli minimi dei prezzi, anche perché, se vi fossero stati avrebbero prodotto, come spiega qualsiasi manuale di macroeconomia, effetti ben visibili sui prezzi.


C'era poi un grande assente al meeting dei tre plenipotenziari, quella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, vera regina del mercato dei derivati sul petrolio e sulle altre materie prime energetiche che deve buona parte delle sue fortune a come gestì l'ascesa del prezzo del greggio fino al massimo storico di 147 dollari al barile per poi farne altrettanti girando per tempo le sue posizioni in questo turbolento mercato!
Come indico nel titolo, quella del petrolio e del gas è una bolla speculativa già scoppiata e che, almeno al momento, non ha prodotto l'effetto che i produttori dell'OPEC e non solo si attendevano: quello di determinare lo stop della produzione dello shell oil statunitense che ha dei prezzi di produzione molto più alti di quelli dei concorrenti e che, tuttavia, grazie a incisivi miglioramenti tecnologici, ha subito solo perdite marginali e continua a rappresentare una fonte di offerta, in particolare per la domanda interna a stelle e strisce.


Se fossi ancora un previsore di una trading room, vedrei una strada one way al rialzo per le materie prime energetiche, ma il livello di concorrenzialità esistente in questo immenso mercato mi fa ritenere che difficilmente si giungerà a quegli accordi di cartello a livello planetario che soli potrebbero produrre significative impennate nei prezzi.

Per chi come me ha tenuto il libro di bordo della tempesta perfetta dal settembre 2007 in poi, lo scoppio di una o più bolle speculative non dice nulla di nuovo, anche perché i comportamenti degli operatori e degli analisti sono pressoché identici a prescindere da quale sia l'epicentro della crisi e da quanto siano alti i marosi della tempesta perfetta.

Ai tempi del molto evitabile fallimento di Lehman e dell'incredibile salvataggio del colosso assicurativo statunitense AIG, non riuscivo quasi a credere ai miei occhi di fronte ai comportamenti del duo Paulson-Bernspan e alle tragiche conseguenze del capolavoro che furono in grado di realizzare finalizzato ad eliminare l'unica vera concorrente di Goldman Sachs.

Ma tornando allo scoppio delle tre bolle speculative che stanno iniziando a sgonfiarsi quasi contemporaneamente, mi ha colpito molto quanto ha detto in una trasmissione televisiva il numero uno di un'entità finanziaria il quale spiegava che i problemi con i quali ci si stava confrontando in questo primo squarcio del 2016 erano presenti in modo pressoché identico nel 2015, anno in cui, come tutti ricorderanno, le borse di tutto il mondo, non esclusa certo la piazza milanese pivot a livello europeo, macinavano record su record, facendo pensare ai più che la tempesta perfetta ce l'avevamo ormai alle spalle.

Quello che sta accadendo, in buona sostanza e al netto di eccessi speculativi che non mancano, è un ritorno verso valori più normali e più in linea con i fondamentali delle aziende ed è un tragitto che è tutt'altro che terminato con buona pace degli investitori che hanno comprato i titoli a caro prezzo nei mesi passati.

Come tutti oramai sanno, una delle componenti dei principali listini europei ad avere pagato il prezzo più alto al doloroso processo di aggiustamento in corso è quello bancario, con una media di correzione nel corso delle ultime sei settimane pari al 50 per cento e in qualche caso anche di più, un drastico ridimensionamento a cui non è estranea l'entrata in vigore del bail in un provvedimento che prevede che gli azionisti, gli obbligazionisti subordinati e i depositanti per la parte eccedente i centomila euro partecipino alle perdite della banca in dissesto.

Il Governatore della Banca d'Italia, il Governo e anche i partiti di opposizione hanno proposto di applicare il provvedimento con gradualità, ma Super Mario ha spiegato ieri al Parlamento europeo che non se ne parla proprio!

 Non era possibile esaurire l'analisi delle turbolenze che circondano il colosso creditizio Deutsche Bank, una delle poche banche globali del continente europeo già nei guai ai tempi della prima fase della tempesta perfetta quando era guidata dall'ineffabile Herr Ackermann, in una sola puntata del Diario della crisi finanziaria e oggi quindi torniamo sull'argomento anche perché sono finalmente apparsi sulla stampa specializzata dei numeri più precisi sullo stato dell'arte in questa banca che ha sede nella stessa città tedesca in cui ha sede la Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi.

D'altra parte, che la situazione sia davvero preoccupante lo dimostrano le mosse di John Cryan, CEO di Deutsche da appena sei mesi, che, dopo aver rassicurato che la banca ha i soldi per pagare gli interessi sui bond subordinati (sic), ha anche promesso che ne riacquisterà con un'operazione di buyback per poco meno di 5 miliardi di euro, una mossa quest'ultima che ha consentito venerdì al titolo di guadagnare un 15 per cento pur restando a meno della metà di quanto quotava pochi mesi orsono.

Ma la cifra che davvero è impressionante è stata resa nota dal quotidiano la repubblica che, in un articolo a firma di Maurizio Ricci, rende noto che l''esposizione lorda sui derivati è pari a qualcosa meno di 60 mila miliardi di euro un multiplo dell'attivo tradizionale della banca e superiore all'intero prodotto lordo dei paesi dell'Unione europea, ma Cryan rassicura dicendo che Deutsche ha una "piscina" di liquidità pari a 215 miliardi di euro e alcuni analisti rassicurano vieppiù, affermando, come è peraltro ovvio, che si tratta di una cifra lorda e che l'esposizione netta è nell'ordine di cifre molto più basse e gestibili.

Peccato che la memoria storica ci porti immediatamente a quelle torride giornate del settembre 2008 quando il ministro del Tesoro a stelle e strisce dell'epoca e in precedenza numero uno di Goldman Sachs, Hank Paulson, e il suo sodale Benjamin Bernanke, in arte Bernspan, fecero fallire Lehman Brothers, che pure aveva una considerevole "piscina" di liquidità, ma che, al momento opportuno si vide negare da altre banche, in particolare JP Morgan Chase (che per questo è stata condannata) la disponibilità dei propri soldi.

Ma il problema vero di Deutsche è il cosiddetto rischio di controparte, perché è solo se le controparti dei contratti sono solide, e liquide, che il passaggio dal lordo al netto della montagna dei derivati in pancia al colosso tedesco è possibile!

 

Evito normalmente di soffermarmi sui movimenti quotidiani delle azioni delle banche, anche perché credo che la cosa più importante sia capire le cause più o meno profonde delle variazioni dei valori azionari stessi, ma quello che sta accadendo in questi giorni e in queste settimane richiede di fare conto anche delle variazioni congiunturali, sopratutto se le variazioni delle quotazioni stesse siano dell'ordine del cinquanta per cento e più nel volgere di poche settimane.

Partirò dal caso italiano, apparentemente immune dal maggiore problema della tempesta perfetta iniziata nel luglio del 2007 e che il mese successivo vide il blocco completo della liquidità interbancaria sul non marginale mercato dell'euribor, un problema che venne individuato nella proliferazione in controllata dei titoli della finanza derivata per cifre nozionali che erano un multiplo del prodotto lordo a livello planetario.

Ma il caso recente della Deutsche Bank di cui ho parlato ieri, una banca globale che ha in pancia titoli tossici per un ammontare anche difficile da immaginare, titoli non smaltiti da nessuno a differenza di quanto è accaduto negli Stati Uniti d'America, con la Federal Reserve che ha fatto da spazzino per la montagna di titoli della finanza derivata posseduti dalle banche a stelle e strisce, il caso della Deutsche, dicevo, fa capire che è difficile assolvere un intero sistema bancario, quello italiano, senza cercare di capire come è strutturato.

Ebbene, come tutti sanno, il nostro è un sistema bancario che presenta un numero molto elevato di banche, ma che è di fatto concentrato su quattro-cinque gruppi bancari che rappresentano oltre il cinquanta per cento del mercato e due dei quali, Intesa e Unicredit Group si sono lanciate in una politica di acquisizioni/salvataggi di banche europee e non solo di varia dimensioni.

Ora il problema è quello di capire cosa c'era in pancia di alcune di queste prede, in particolare in quelle tedesche e austriache, e, tanto per non fare nomi, nella controllata tedesca di Unicredit, una banca sulla quale è stato difficile per un certo tempo fare chiarezza sui conti anche per un certo tempo dopo la stessa acquisizione.

Ho proprio l'impressione che l'ostinazione del governo tedesco nel privilegiare i prodotti derivati più o meno tossici negli schemi di salvataggio europei a scapito di quelle che ieri definivo banali sofferenze abbia dei solidi e fondati motivi, peccato che a fare le spese di tutto questo la quasi totalità delle banche italiane dove si è pensato che i derivati fossero qualcosa che aveva a che fare più con l'analisi matematica che con l'attività bancaria!

Interrompo l'illustrazione delle cause profonde della nuova fase della tempesta perfetta perché è davvero preoccupante quello che è successo ieri nel colosso tedesco Deutsche Bank, una delle poche banche europee a rivaleggiare con quelle statunitensi nella produzione di titoli tossici e di certo la più multata proprio per il suo attivismo in queste spericolate attività.


Infatti, dopo aver perso il 40 per cento circa di capitalizzazione di borsa nelle prime settimane di questo orribile 2016, il neo amministratore delegato del gruppo ha annunciato di avere i soldi, un miliardo di euro, per pagare gli interessi sulle obbligazioni subordinate per il 2016 e che dovrebbe avere anche quelli necessari alla stessa bisogna per il 2017, sempre che i risultati di bilancio dell'anno in corso vadano secondo le previsioni.
Non è proprio un bel segnale quando il numero uno di una banca si vede costretto ad annunciare coram populo che è in grado di far fronte ai suoi impegni, fatto sta che il mercato gli ha creduto e ieri il titolo è volato in borsa, grazie anche all'aperto sostegno dell'arcigno ministro delle finanze teutonico, lo stesso che negli schemi europei di salvataggio delle banche ha privilegiato i titoli tossici a scapito delle banali sofferenze.
Ma la vera notizia di ieri, oltre alla provvidenziale vendita della affiliata banca cinese, è stata la decisione di chiudere/cedere le due branche dell'investment banking proprio quelle che con le loro fabbriche prodotto hanno determinato in questi anni davvero turbolenti la maggior parte degli utili della banca globale ma anche la quasi totalità delle multe miliardarie!

Delle tre cause profonde della crisi finanziaria in corso delineate ieri, ho collocato non a caso la Cina e i suoi problemi al primo posto, anche perché in pochi luoghi della terra i problemi di questa nuova fase della tempesta perfetta si concentrano in una miscela davvero esiziale.

Comincerei dal problema della crescita di quella che è oramai diventata la locomotiva dell'economia mondiale e in quel +6,9 per cento di crescita del PIL 2015 che tanto aveva deluso analisti e osservatori. Ebbene, uno studioso cinese esule negli States, grazie ai suoi contatti nella madrepatria, ha scoperto che la crescita reale sarebbe di almeno due punti percentuali più bassa e le ferie forzate di fine anno degli operai cinesi sembrerebbero dimostrare tale assunto, per non parlare del recente arresto del numero uno dell'istituto di statistiche cinesi.

C'è poi il problema delle banche, appesantite, si fa per dire, da sofferenze pari a quasi due volte il prodotto lordo cinese (1,6 volte); per dare un'idea, basti pensare che le sofferenze delle banche italiane, al netto degli accantonamenti, non superano il 5 per cento del prodotto interno lordo italiano ed è più o meno così per tutti gli altri grandi paesi europei.

Per quanto poi riguarda le borse cinesi, credo che in pochi casi si possa parlare di bolla speculativa come nelle due borse situate sul continente cinese, mentre quella di Hong Kong appare caratterizzata da fondamentali più solidi.

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