L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Cultural Events (214)

    Marzia Carocci

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Il Museo di Roma e Palazzo Braschi si prestano particolarmente alla mostra di incisioni di Piranesi, in corso fino al 15 ottobre. Il primo per via delle sue collezioni composite, comprendenti anche parte delle stampe in mostra e per il suo scopo di istituzione, ospite delle memorie di Roma sparita. L’edificio è stato costruito nel Settecento, il secolo di Piranesi e della cultura che impronta la sua opera.

Già dal titolo, Piranesi. La fabbrica dell’utopia, l’esposizione suggerisce molteplici suggestioni, che si dipanano attraverso le sezioni e le stanze.

La prima suggestione-considerazione da fare è che le mostre di grafica, siano esse di disegni o di stampe, come in questo caso, non sono diffusissime e particolarmente apprezzate dal pubblico. In realtà le incisioni e le tecniche per realizzarle hanno un grande fascino. Due fondamentalmente i motivi per la loro realizzazione e suddivisione: si distingue solitamente tra incisione di riproduzione e di invenzione. La prima consiste nella diffusione a stampa di opere d’arte famose, la seconda è essa stessa un’opera d’arte prodotta dalla “fantasia creatrice” dell’incisore. Entrambi i tipi sono presenti in mostra: Piranesi ha usato l’incisione sia per divulgare i suoi progetti di architetto, sia per riprodurre architetture, rovine e paesaggi, reali o inventati. I cosiddetti capricci, nascono dal combinare e modificare elementi reali, che danno vita ad edifici e ambienti ideali o di fantasia. Così la parola utopia designa sia la ricostruzione di un mondo passato non più esistente, sia la possibile creazione di uno nuovo che ancora non c’è. In questo senso, tutta la mostra si gioca tra passato e futuro, tra ciò che non c’è più e ciò che non c’è ancora. Alle stampe si accompagnano oggetti come vasi e tripodi o decorazioni di caminetti realizzati, a partire dai progetti e dalle stampe di Piranesi, dall’Atelier Factum Arte di Madrid, nel 2010, in occasione della mostra tenutasi a Venezia, presso la Fondazione Giorgio Cini, da cui provengono parte delle stampe. Sono presenti anche calchi dal Museo della Civiltà Romana all’EUR.

Piranesi stesso testimonia e ama il fatto che, a Roma, vede finalmente, dal vivo, le vestigia della cultura romana che aveva imparato ad amare nelle riproduzioni dell’architetto veneziano del Rinascimento, per eccellenza, Andrea Palladio.

Nella sala dove le finestre di Palazzo Braschi si affacciano su piazza Navona, si può confrontare l’immagine che ne ha dato Piranesi con la realtà di oggi.

Un’altra suggestione è data dai frontespizi dei libri dell’architetto veneto, oltre che all’architettura, alla decorazione, all’archeologia, al paesaggio, il rimando è all’epigrafia e alla paleografia, la scrittura della lingua latina: monumentale, pubblica, letteraria.

Tornando sulle tecniche di incisione, Piranesi usa acquaforte e bulino per i progetti e la descrizione puntuale e reale. Con il bulino si rendono linee nette, pulite, con l’acquaforte, invece, crea l’atmosfera suggestiva, onirica, visionaria delle Carceri. È come se con il bulino la mente eserciti il suo controllo sulla mano che incide, mentre con l’acquaforte, è possibile far trasparire l’emozione, da sempre appannaggio del cuore. L’opera dell’artista ha ispirato a Marguerite Yourcenar La mente nera di Piranesi.

L’unica architettura non rimasta su carta è la Chiesa di Santa Maria del Priorato all’Aventino, è riprodotta in mostra nelle fotografie di Andrea Jemolo. Anche la fotografia, che possiamo considerare, in qualche modo, una sostituzione e uno sviluppo dell’incisione, quando nasce, si divide tra fotografia di divulgazione e d’arte, anche se le due funzioni possono anche coincidere.

Sempre sulla linea del non più e non ancora e dell’utopia, si inserisce la realtà virtuale delle Carceri, riprodotta dal Laboratorio di Robotica Percettiva, dell’Istituto TECIP - Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Per quanto interessante, l’esperimento contraddice l’atmosfera nel colore grigio-bianco e nelle linee degli edifici e degli oggetti, nette e rettilinee e non più vibranti. La musica cerca di creare l’ambiente e le sensazioni perse nella realizzazione virtuale, in parte ci riesce, ma è un’atmosfera fredda, come i volumi e le superfici 3D e un po’ troppo “moderna”.

Piranesi

La fabbrica dell’utopia
16 giugno - 15 ottobre 2017
Roma, Museo di Roma Palazzo Braschi
Orario: dal martedì alla domenica 10-19
Ingresso: intero €.9,00; ridotto €.7,00
Info: tel. 060608

       www.museodiroma.it

       www.museiincomune.it

Settembre è arrivato, Roma si è ripopolata, la scuola ricomincia, sembra proprio che le vacanze siano finite. Per esorcizzare la quotidianità che ripiomba addosso, fino al 17 settembre è in corso, presso il Museo dell’Ara Pacis, Spartaco. Schiavi e padroni a Roma. La mostra prende spunto dalla figura dello schiavo ribelle, resa mitica ed eterna, proprio per lo spirito indomabile e l’invincibile anelito alla libertà, insiti e caratteristici di ogni uomo. Ma è soprattutto la schiavitù, le sue motivazioni e le sue forme, che, attraverso i reperti archeologici e le opere, è documentata nel passato, mentre le foto contemporanee, ne restituiscono l’aspetto attuale.

Undici le sezioni che si succedono nel percorso dell’esposizione. Sono introdotte dalla spiegazione storico-sociale-economica della necessità della schiavitù come forza lavoro per la realizzazione delle infrastrutture dell’impero romano.

Quindi Vincitori e vinti mostra come la guerra, motivata da ragioni politico-economiche, fornisse tra ricchezze e bottini, anche gli schiavi. Particolarmente accattivante il video di questa sezione, le sequenze, accompagnate dal suono, animano il fregio del sarcofago. Il primo piano dei volti, rende i sentimenti, è come vedere la storia accadere di nuovo, in presa diretta. Il video da movimento alla descrizione del fatto storico, caratteristica dell’arte romana. I reperti archeologici in mostra sono in gran parte rilievi ed epigrafi.

Segue Il sangue di Spartaco, schiavo, gladiatore, più precisamente murmillo, della scuola di Capua, che guida la rivoltadi migliaia di schiavi tra 73 e 71 a.C. Viene sconfitto, seimila dei suoi compagni vengono crocifissi lungo la via Appia, ma il suo corpo non viene ritrovato. Il mito è raccontato in mostra da voci narranti che leggono i testi in latino, italiano e inglese, ma le citazioni sono tratte anche da autori moderni, a conferma della longevità della figura di Spartaco.

La terza sezione riguarda il Mercato degli schiavi, seguono quelle che illustrano i settori di impiego: Schiavi domestici; Schiavi nei campi; Schiavitù femminile e sfruttamento sessuale, le tematiche delle ultime due sezioni tornano nel video in chiusura di mostra, realizzato da ILO, International Labour Organization, agenzia delle Nazioni Unite che si occupa delle problematiche legate al lavoro e, specialmente, dell’eliminazione della schiavitù ancora presente in diversi ambiti.

Tra i Mestieri da schiavi vi erano quelli legati al mondo dello spettacolo, in questa sezione è presente una delle straordinarie erme degli aurighi del Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo.

Schiavi bambini, con la tematica del lavoro minorile, è un’altra delle sezioni, purtroppo, ancora attuali anche ai nostri giorni.

L’allestimento della sezione Schiavi nelle cave e nelle miniere, conduce lo spettatore in un percorso labirintico e claustrofobico che imita i cunicoli sotterranei, l’ambientazione è forse un po’ troppo caricata dall’accompagnamento audio.

Una strada verso la libertà è quella che viene descritta attraverso l’affrancamento da parte del padrone.

Un po’ povera, come contenuti e disposizione, soprattutto nella parte riguardante il cristianesimo, risulta l’undicesima sezione dedicata a Schiavitù e religione.

Il gioco…che rende liberi! è il titolo del laboratorio didattico ideato per bambini dai cinque agli undici anni.

Spartaco

Schiavi e padroni a Roma

Roma, Museo dell’Ara Pacis

31 marzo-17 settembre 2017

Orario: 9.30-19.30

Ingresso: intero €.11,00; ridotto €.9,00

Info: 060608

       www.arapacis.it

       www.museiincomuneroma.it

Catalogo: De Luca Editore, €.25.000  

Due amici vengono a guidarci tra i Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma, la mostra in corso fino al 17 settembre a Palazzo Venezia e Castel Sant’Angelo a Roma. All’ingresso del palazzo rinascimentale sarà il primo, il protagonista, a venirci incontro, in lui ci identifichiamo, provenienti da una realtà caotica ed estraniante. Come lui confusi tra una realtà esterna, indaffarata e chiassosa, e quella interiore, sospesa, senza tempo, tra il sogno e un sottile dolore. Ci rispecchiamo in lui, il bel volto sul palmo della mano e lo sguardo perso oltre lo spazio dove il quotidiano accade. Non ci guarda, non facciamo parte del suo mondo, ma è il nostro specchio, siamo noi a far parte del suo, condividendo lo stesso sentire. Questi spazio e tempo diversi, si incarnano nel melangolo, il frutto, simbolo della melanconia che, distrattamente, tiene in mano.

Lo stesso contrasto si vive nel passaggio dall'esterno all’interno del palazzo. Nel giardino, recentemente riaperto al pubblico, non arriva, se non come eco lontano, il chiasso del traffico caotico. Ci si siede o si passeggia all’ombra del verde o immersi nella luce, moltiplicata dal bianco della fontana monumentale centrale.

La mostra si snoda all’interno come in un labirinto, nel succedersi delle belle sale, dove lo sguardo si perde, si distrae dal contenuto dell’esposizione e vaga tra pavimenti, soffitti e pareti.

In un percorso a ritroso nel tempo, si incontrano le figure che il palazzo hanno costruito e vissuto. Abbellendolo con collezioni, specchio di raffinati e colti interessi.

In mostra i libri, testimoni e formatori della cultura rinascimentale, dall’Hypnerotomachia Poliphili al Cortegiano di Baldassarre Castiglione.

I bronzetti, virtuosistiche sculture in miniatura, riproducono, oltre agli animali, le opere più famose e significative, come l’immancabile Laocoonte dei Musei Vaticani.

Naturalmente non mancano le arti maggiori, pittura e scultura.

Il giardino dei sogni, installazione video sonora, che conclude il percorso, è un di più non necessario. Una realtà immersiva, per quanto virtuale, che in qualche modo contraddice l’atmosfera, impalpabile e indefinita, nostalgica e melanconica, del resto della mostra.

Alla fine del percorso è il secondo dei due amici a congedarci. Quello che, almeno apparentemente, ci rivolge lo sguardo con un abbozzo di sorriso. Testimone di una recuperata, presente e cosciente serenità.

Il percorso concentrico può proseguire nelle variegate e affascinanti collezioni permanenti del palazzo, che mostrano i punti forti nella scultura lignea, ma anche nei manufatti in terracotta e cartapesta, nei citati bronzetti e nella ceramica. La collezione epigrafico-lapidea si dispone ai lati del perimetro della loggia aperta superiore.

La mostra è allestita in due sedi che testimoniano i rapporti tra Venezia, patria di Giorgione, il famoso ed enigmatico pittore, autore del dipinto intorno a cui è imperniata l’esposizione e Roma. Il Palazzo di Venezia, ovviamente incarna la città lagunare, a Castel Sant’Angelo e, in particolare agli appartamenti papali, spetta, invece, la rappresentanza della Città Eterna. Sono i dipinti di artisti maestri coevi di Giorgione, come Tiziano, Tintoretto, ma anche Bronzino e Barocci, a costituire l’esposizione nel mausoleo-fortezza.

Labirinti del cuore

Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma

24 giugno - 17 settembre 2017

Roma, Palazzo di Venezia - Castel Sant’Angelo

Orari: Palazzo Venezia dal martedì alla domenica 8.30-19.30

         Castel Sant’Angelo tutti i giorni 9.00-19.30

Ingresso: unico per le due sedi, validità 3 giorni intero €.14.00, ridotto €.7.00;

               solo Palazzo Venezia intero €.10.00, ridotto €.5.00. Audioguida inclusa a Palazzo  

               Venezia; apposita app scaricabile per Castel Sant’Angelo.

Info: +39 06 32810

       www.mostragiorgione.it

Arcobaleno di Gyula Vàrnai
Arcobaleno di Gyula Vàrnai (foto Artedamiani)

Il progetto dal titolo Pace al mondo di Gyula Varnai ci parla della sopravvivenza e la necessità delle utopie e del fatto che sebbene le nostre aspettative sul futuro non si siano realizzate, tuttavia in ogni epoca c’è bisogno di nuove visioni per gli scopi dell’umanità.

Il messaggio positivo che viene offerto dall’artista Varnai è senza dubbio qualcosa di piacevole, che può migliorare le premesse di una giornata grigia e lo scenario in cui ce lo presenta non può che essere accolto da un sorriso dopo aver oltrepassato la scritta Peace on Earth, illuminata al neon, e trovarsi di fronte un Arcobaleno formato da ottomila “colori” creati con i distintivi originali di varie associazioni, società, città e movimenti od eventi degli anni Sessanta e Settanta. L’epoca evoca la promettente immagine del futuro della Guerra fredda, la visione della pace sui conflitti, un messaggio tramite i

aprile maggio 108
foto Artedamiani

segni racchiusi nei significati di ogni distintivo che riferisce di lavoro, diletto, sport e quant’altro.

Gyula Varnai crea le sue opere con le più svariate tecniche, utilizzando oggetti reali e visuali del passato, spesso reliquie della guerra fredda o riferite ai dintorni della sua città, Dunaùjvàros, l’antica Città Stalin ungherese. Le sue opere assemblate riscrivono l’immagine del mondo stereotipato nell’Europa dell’est con referenze contemporanee.

PEACE ON EARTH
Di Gyula Vàrnai
Padiglione Ungheria
Venezia, Giardini di Castello
13 maggio – 26 novembre 2017

Intervista a Michele Casamonti


Tornabuoniart Paris si sposta nella nuova sede di Parigi al Marais, situata nel celebre Passege de Retz, il particolare Hotel del secolo XVII: una location di grande impatto.

Questo importante avvenimento, così esordisce Michele Casamonti, che ci accoglie con la consueta ed ineguagliabile cortesia, crea l'opportunità di presentare, in una galleria privata, la più importante retrospettiva, mai realizzata, dell'opera di Alighiero Boetti (1940-1994).

Boetti, ancora oggi vero maestro, guardando le generazioni di artisti a lui ispirata, si può considerare il fondatore principale dell'arte concettuale. Era con ciò naturale realizzare l'apertura in omaggio a questo importante artista italiano con cui la Galleria Tornabuoni ha tradizionalmente lavorato sino alla fine degli anni '80.

I grandi spazi della nuova galleria consentono di costruire un percorso articolato in cinque sezioni distinte, che seguendo un itinerario quasi cronologico, in realtà ripercorrono le diverse tappe delle vicende artistiche di Boetti.

Si inizia dalla prima sala così detta delle Mappe, una sala che raccoglie i lavori più conosciuti, più iconici della ricerca di Boetti. Sono lavori realizzati, pensati, costruiti e disegnati a Roma, ma ricamati in Afganistan dalle donne Afgane. Le mappe, approssimativamente 250, riproduzione fedele delle variazioni geo-politiche mondiali, sono a rappresentare così la globalizzazione del mondo nel tempo in cui vengono realizzate.

Si prosegue poi con la sala dedicata all'opera "Copertine 1984", dove Boetti restituisce un'immagine complessa e articolata, quasi indecifrabile nel suo insieme costruita con un criterio preciso, cronologico dell'anno 1984. L'idea è di realizzare e raccontare uno spaccato complesso di quel periodo storico; le stesse sono realizzate con 12 pannelli ciascuno di 1mt X 1,5 mt all'interno del quale sono riprodotti i dodici mesi e ciascuno dei dodici mesi contiene diciotto copertine.

Si passa poi al concetto "dell'ordine nel disordine": l'esigenza di classificare gli oggetti prima di tutto. Il ciclo chiamato Cielo - Alta Quota, raccoglie una molteplicità di oggetti che si trovano in una sola

 casamonti
Michele Casamonti 

opera: gli aerei.

Modelli di aerei che hanno fatto la storia dell'aviazione: un cielo caotico, come se in qualche modo fosse condensato in un'estensione temporale, Boetti li rappresenta tutti in un sola immagine.  

Una delle opere più conosciute sono I Ricami, con le frasi scritte e le lettere, esempio di passaggio concettuale tra disordine ed ordine.

Sono un caos di lettere, ma in realtà costruite secondo una grafica, una struttura per cui conoscendo le regole diventano leggibili.

Da questo omaggio parigino a Boetti è scaturito un evento più ampio e specifico dal punto di vista del tema che sarà organizzato dalla Galleria presso la Fondazione Cini dall'11 Maggio in concomitanza

della Biennale di Venezia 2017.

E' un tributo all'opera di Boetti cercando di costruire una mostra che si chiama Minimum Maximum, tutte sul tema del formato e della dimensione, mettendo in relazione per ciascuna tipologia di opera la più piccola e la più grande.

L'idea di questa mostra è dimostrare che tra la piccola e la grande non c'è differenza, è tutto un gioco concettuale posto all'interno dell'opera stessa: tra il piccolo e il grande infatti non c'è differenza nella ricerca concettuale dell'artista.

Perché nonostante quattro ore di fila sotto la pioggia battente, il braccio anchilosato dall’aver retto l’ombrello per così tanto tempo in un freddo   omeriggio della metà di maggio e le gambe intirizzite quando sono entrata nelle Scuderie del Quirinale qualche anno fa e ho visto i quadri di Michelangelo Merisi detto Caravaggio, invece di accasciarmi sulla prima poltroncina disponibile non ho saputo far altro che correre da un dipinto all’altro? Non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi quadri e ad allontanarmi dalle sensazioni estreme che salivano dentro di me dallo stomaco al cuore.
Partendo dal celeberrimo “Canestra di frutta” ( non a caso è stato eletto logo della mostra) che apre subito il confronto tra il visitatore appena entrato e il genio del pittore maledetto e passando poi a tutte le altre opere dal “il Bacco” i Bari” “la Deposizione” “Il concerto di giovani” e tutte le altre posso dire con certezza che non stavo visitando una mostra, ma ero entrata in un teatro. Ho pensato ad Harry Potter alla famosa scuola di Hogwarts dove i personaggi dei quadri di punto in bianco iniziano a parlare e a muoversi e talvolta escono dalla tela.
Mi aspettavo da un momento all’altro che Giuditta una volta finito con Oloferne lasciasse cadere la spada e mi chiedesse“Ho fatto la cosa giusta?” che il Cristo flagellato mi si avvicinasse e mi poggiasse la testa sulla spalla, che il Bacco irriverente mi facesse l’occhiolino.

Quante volte davanti ai quadri di altri geni quali Leonardo da Vinci abbiamo pensato “Sembrano fotografie” e davanti a Raffaello “sono pura poesia” Ecco davanti a Caravaggio noi vediamo l’unione del  realismo e della poesia, del sacro e il profano, ammiriamo il capolavoro Caravaggio non fotografa semplicemente l’umanità e allo stesso tempo non vuole ammantare di poesia la realtà. Non vuole   mistificare neppure la rappresentazione della divinità. Furono diversi infatti i suoi quadri rifiutati da ordini monastici per i suoi santi e le sue madonne troppo “popolani” Caravaggio dipinge delle vicende e le usa come pretesto per  catturare l’anima umana. Individua uomini e donne, dopo averli cercati per le vie Roma, e li traduce su una tela. Attua un semplice trasferimento, imprigiona la loro essenza,  catturando le luce che una determinata azione  accende nei loro corpi, ci mostra il loro lampo vitale circondato sempre e comunque da un’oscurità inquietante. E i chiaroscuri dei suoi quadri  sapientemente fusi alle luci e alle ombre riprodotte nelle sale dai curatori della mostra, ci insinua quella lieve angoscia dentro, che si mescola allo stupore, all’ammirazione, alle mille domande che sorgono sulla sua vita disgraziata e dissennata. Ci lascia commossi, inquieti e riconoscenti. Con queste sensazioni complesse mi sono recata al punto vendita della mostra e mi è caduto l’occhio sul un libro  intitolato “Caravaggio una luce nelle  tenebre” scritto dallo studioso americano Roy Doliner. Più tardi andando  avanti nella lettura di questo saggio ho rischiato di cadere nel tranello e provare un pizzico di delusione, ma è stato solo un attimo. E’ accaduto quando a pagina 71 ho letto questo brano: “Nella sua mansarda d’artista il  soffitto e la finestra dell’abbaino erano dipinti completamente di nero e la
parte superiore del lucernario era stata sfondata per far entrare la luce che si rifletteva in uno specchio convesso collocato vicino alla finestra in modo da concentrarsi come in un riflettore nell’oscurità dello studio sottostante. Focalizzando la luce intensa dall’alto creava il famoso  hiaroscuro teatrale delle sue opere, evidenziando i modelli e gli oggetti principali delle scene eliminando i dettagli inutili con l’uso dello scuro” Caravaggio usava insomma una rudimentale camera oscura, improvvisata con i mezzi dell’epoca. Con lo specchio l’immagine veniva proiettata direttamente sulla tela creando poi un   effetto ricalco e quindi il più reale possibile.

Questo sistema facilitava il suo lavoro, velocizzava i tempi e gli lasciava più tempo libero per dedicarsi alle sue occupazioni preferite: i bagordi le risse e il gioco.
Tesi avvalorata anche da alcuni scritti dei suoi contemporanei, e dal fatto che conoscesse la tecnica perché a servizio del Cardinal romano Del Monte, uomo illuminato e al corrente di tutte le novità  scientifiche del tempo tra cui anche la costruzione dell’ultima camera oscura della Porta a Venezia. Che dire? La sua improvvisata camera oscura gli era di aiuto certo...ma è veramente il suo grande segreto? Che tanto genio lo si possa spiegare solo svelando l’uso di uno specchio convesso? Che tutto di Caravaggio lo si debba sempre ricondurre alle sue intemperanze
e alle sue poco ortodosse inclinazioni e che non abbia nessuna grandezza spirituale un uomo che dipingeva quadri simili?
Io non credo. Pochi lo credono per fortuna.
Tra gli ultimi quadri esposti nel percorso della mostra troviamo “Davide e Golia” la testa di Golia è un autoritratto di Caravaggio a tre mesi dalla sua morte. Guardate bene l’espressione di Davide e quella di Golia nella testa mozzata. Se riusciamo veramente ad entrare dentro a questo dipinto, capiremo che la risoluzione del rebus e lì. Pietà, superbia, umiltà arroganza, luci ,ombre, eroi buoni, giganti   cattivi, sacro e profano, ideali sublimi e istinti più bassi, tutto convive nelle tavole di Caravaggio così come dentro tutti noi e quindi nel mondo, ma lui solo ha saputo fissare il caos su una tela in modo talmente umano da risultare ultraterreno.
Facciamo una fila di quattro ore per vedere noi stessi riprodotti in modo magistrale. Forse è questo il segreto.

Le donne ritratte da Giovanni Boldini richiamano istantaneamente e immancabilmente l’aria del terzo atto del Rigoletto di Giuseppe Verdi, La donna è mobile. Non sono mai ferme o statiche, ma colte sul momento, perennemente accompagnate dal fruscio delle preziose, lucide e luccicanti stoffe dei loro elegantissimi abiti. Anche quando siedono o stanno fisse sui loro piedi, il movimento viene da dentro, dallo stato d’animo. La luce dei gioielli non offusca la lucentezza del loro sguardo, che, anzi, si sostituisce, in mancanza, ai preziosi monili. Il curatore Tiziano Panconi, autore del catalogo ragionato di Boldini nel 2002, ha detto, in conferenza stampa, che le donne dei dipinti emanano un fascino talmente grande, da non averne esse stesse piena consapevolezza.

Al contrario gli uomini ritratti dal pittore ferrarese, parigino di adozione, siedono statici. Il celebre ritratto di Giuseppe Verdi, presente in mostra, lo inquadra frontalmente, con lo sguardo rivolto allo spettatore, ipnotico, come quello delle divinità orientali e delle icone bizantine.

Alle donne di Boldini si uniscono quelle ritratte da Cristiano Banti, Vittorio Matteo Corcos, Giuseppe De Nittis, Antonio de La Gandara, Paul- César Helleu, Telemaco Signorini, James Tissot, Ettore Tito, Federigo Zandomeneghi.

Quattro le sezioni dell’esposizione: La luce nuova della macchia (1864-1870) rende conto dell’influenza dei Macchiaioli fiorentini; La Maison Goupil fra “chic” e “impressione” (1871-1878) racconta l’esperienza parigina nell’ambito degli Impressionisti; La ricerca dell’attimo fuggente (1879-1890) vede ancora Parigi protagonista, ma questa volta dalla parte dell’alta borghesia; Il ritratto Belle Époque (1892-1924) è caratterizzato dalla grandezza naturale delle figure.

Nel catalogo edito per i tipi della Skira, riveste particolare importanza la pubblicazione delle quaranta lettere circa, inviate da Boldini, in qualità di Presidente della commissione d’arte per la sezione italiana dell’Esposizione Universale di Parigi del 1889, a Telemaco Signorini, incarica della scelta e della spedizione delle opere degli artisti fiorentini.

Nel volume sono riprodotti anche quattro schizzi inediti risalenti agli anni tra il 1906 e il 1921.

Giovanni Boldini

4 marzo- 16 luglio 2017

Roma, Complesso del Vittoriano- Ala Brasini

Orario: da lunedì a giovedì 9.30-19.30

venerdì e sabato 9.30-22.00

domenica 9.30-20.30

Ingresso: Intero €.14,00, ridotto €12,00 audioguida inclusa

Info: 06 8715111

www.ilvittoriano.com

Catalogo: Skira €.39,00

Con fiato sospeso si vivono e si attendono le primizie del nuovo corso ai Musei Vaticani. Il passaggio di testimone tra Antonio Paolucci, direttore uscente e Barbara Jatta, direttrice entrante è un cambiamento epocale. Sebbene l’avvicendamento sia stato preannunciato e diluito nel tempo per garantire continuità, le novità si susseguono abbastanza serrate e di sicuro e determinato impatto.

Per prima cosa è stato lanciato il nuovo sito, che costituisce l’interfaccia diretta e l’immagine   proposta al pubblico.

Quindi questa prima mostra «Dilectissimo fratri Caesario Symmachus». Tra Arles e Roma: le reliquie di San Cesario, tesoro della Gallia paleocristiana, in corso fino al 25 giugno 2017.

Il santo vescovo di Arles all’inizio della sua vita religiosa è monaco nell’Isola di Lerino. Conserverà le virtù monastiche di povertà e cura pastorale anche da vescovo, fu esegeta biblico e autore di regole monastiche di notevole capacità, così come abile comunicatore e particolarmente versato nell’arte della diplomazia.

L’esposizione è allestita nel cuore del Museo Pio Cristiano, collezione di antichità cristiane, che raccoglie soprattutto sarcofagi e che si trova nell’ala dei Musei Vaticani inaugurata nel 1970. Cuore nel cuore e vero e proprio fulcro della mostra è la statua del Buon Pastore. La ridotta misura si deve al fatto che non nasce come scultura a tutto tondo, bensì come parte di un sarcofago.

Inversamente proporzionale alla dimensione, l’importanza che il manufatto ricopre come simbolo pasquale di salvezza. Sulle spalle e intorno al collo del Pastore si trova la pecora smarrita della parabola evangelica, che è simbolizzata, a sua volta, dal pallio di lana che, posto intorno al collo e sulle spalle, connota il vescovo metropolita. Colui che è a capo di una provincia ecclesiastica e di altri vescovi.

Proprio nelle teche ai piedi del Buon Pastore sono esposti i due pallii parte delle reliquie di San Cesario. In particolare quello donato da papa Simmaco (498-514), è testimonianza diretta sia della funzione pastorale svolta nelle Gallie, sia del legame con Roma.

La duplice importanza del pallio di San Cesario spiega anche le ragioni della mostra, come riscoperta delle radici cristiane dell’Europa e riaffermazione di antichi scambi e relazioni. La tunica, la cintura con fibbia in avorio e i calzari di cuoio sono le altre reliquie provenienti da Arles. A queste si aggiungono frammenti sarcofagi del Museo Pio Cristiano e poche altre preziose testimonianze.

La presenza degli antichi tessuti è ciò che rende preziosa questa esposizione, piccolo gioiello decorato con numerose gemme. I lacerti tessili sono poco presenti nelle mostre e anche negli studi non godono ancora dell’importanza che spetterebbe loro, in assoluto e in connessione con opere d’arte considerate maggiori.

Legato alla funzione di Responsabile del Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Apostolica Vaticana ricoperta da Barbara Jatta, è il prestito del codice carolingio del IX secolo, dove è conservato il testo della lettera inviata da papa Simmaco a San Cesario nel 513. L’incipit della lettera costituisce la prima parte del titolo della mostra.

Oltre che sulla figura di San Cesario, particolarmente sui tessuti e sui manoscritti della Biblioteca Vaticana si concentrano i saggi nel catalogo edito per i tipi della Edizioni Musei Vaticani, dove sono approfonditi anche la cristianizzazione della Provenza e la storia della Arles paleocristiana.

Ottanta anni fa nacque Valentina Tereškova, la prima donna a viaggiare nello spazio nella missione di successo svoltasi il 14 giugno del 1963. Per festeggiare questa ricorrenza, nell’ambito del progetto #russiaamoremio, il Centro Russo di Scienza e Cultura a Roma ha organizzato una serata di gala dedicata alla cosmonauta sovietica.

L’incontro tematico, condotto dal Prof. Roberto Toscano ed incentrato sulla vita e sulla missione della cosmonauta, ha svelato dettagli inediti sul suo viaggio epocale, offrendo nuovi spunti e riflessioni sul tema dello spazio. Per l’occasione la sala grande della Casa Russa è stata la cornice per la proiezione di foto e video sul volo storico nello spazio della Vostok 6, regalando agli ospiti del Centro un emozionante viaggio virtuale nel passato.

L’iniziativa è stata corredata da una serie di opere pittoriche, esposte nelle sale del Centro, realizzate dall’artista Franco Toscano e dedicate alla «donna delle stelle».

Numerosi sono stati gli articoli pubblicati dalla stampa italiana in occasione di questo importante anniversario, che ricorre proprio oggi, il 6 marzo 2017. «Tereškova è una donna che ha senz'altro

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 Valentina Tereškova

lasciato un'impronta nel Novecento», - così la definisce il portale ANSA nel suo articolo dedicato all’eroina sovietica.

***

Il 16 giugno 1963 Valentina Tereškova sconfina dall’atmosfera terrestre a bordo della navicella spaziale «Vostok-6». Nel lasso di 71 ore trascorse nell’orbita terrestre compie 48 giri attorno al pianeta. La notizia del volo della Čajka («Gabbiano»), il nome in codice per le trasmissioni radio scelto dalla cosmonauta, raggiunge ogni angolo del mondo.

Quel volo di Tereškova è stato il primo e l’unico nella sua carriera. Dedicò la sua vita all’attività sociale. Per ben vent’anni la donna-generale dell’aviazione guidò il Comitato delle donne sovietiche, a partire dalla fine degli anni 80 del secolo scorso assunse la carica del Presidente dell’Unione delle società sovietiche di amicizia e del Centro Russo per le relazioni con l’estero (Roszarubežcentr, attualmente Rossotrudničestvo*). Fu insignita per meriti con molteplici alte onorificenze dell’URSS e della Federazione Russa nonché di altri stati.

* Agenzia Federale per gli Affari della CSI, dei connazionali residenti all’estero e per la cooperazione umanitaria internazionale presso il Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa

istituto culturale coreano 2Intervista al direttore dell'istituto di cultura  coreano a Roma, Soo Myoung LEE

 

La creatività di un artista scaturisce dall’assemblare elementi di cui se ne ha la padronanza e si è in grado di poter mescolare per creare soggetti diversi, e con lo stesso Dna degli elementi mischiati. Questo è, in sintesi, l’obiettivo che si pone l’Istituto Culturale Coreano che ha aperto i battenti un anno fa a Roma, primo in Italia. L’istituto è stato creato, infatti, non solo per far conoscere la cultura coreana al nostro Paese che sin’ora ha conosciuto e apprezzato quella cinese o giapponese, per parlare di estremo oriente, ma poco sa di quella coreana, ben distinta dalle altre due, ma anche per dare la possibilità agli artisti italiani di interagire con quelli coreani, perché possano nascere  nuove opere d’arte, figlie delle due culture. In un mondo che va sempre più globalizzandosi la mescolanza di culture è capace di creare opere di cultura non più appartenenti a singoli paesi ma all’umanità, sempre più consapevole della propria unicità. Ne chiediamo conferma al direttore del nuovo istituto, il dottor Soo Myoung LEE.

In quali campi l’istituto promuoverà le sue prossime iniziative in Italia? è previsto anche che all’interno dell’istituto possano incontrarsi artisti dei nostri due Paesi per conoscersi e per ulteriori interscambi culturali?

Innanzitutto vogliamo essere presenti sia nel tradizionale che nel moderno. Il nostro primo obiettivo è quello di presentare la cultura del nostro Paese che comprende, oltre lo spettacolo in generale, sia la tradizione che l’arte moderna. Oltre, quindi, gli eventi culturali e gli spettacoli che organizzeremo, vorremmo presentare al pubblico italiano la quotidianetà in Corea, cioè far vedere cosa mangiano, come si vestono, come vivono a casa i coreani, cioè presentare la vita quotidiana dei coreani. Questo per noi è di grande importanza, ha quasi la stessa importanza degli altri eventi culturali. Per quanto riguarda l’incontro tra artisti italiani e artisti coreani posso anticiparvi che abbiamo in programma una mostra che ha come tema la carta coreana (hanji) che si ricava dalla corteccia del gelso. Ne saranno protagonisti gli studenti italiani che presenteranno le loro opere come espressione di arte moderna e, a fianco, ci sarà un’altra mostra che permetterà di vedere come viene prodotta la carta. E'un ottimo esempio di collaborazione tra artisti italiani e coreani per creare l’arte in se, se possiamo dire. Questo obiettivo si può raggiungere in tre modi: far lavorare gli artisti italiani con elementi coreani, far lavorare artisti coreani con elementi italiani per aversi, infine, un incontro culturale tra gli artisti dei due paesi. Un altro nostro importante obiettivo è quello di promuovere le Olimpiadi invernali che si terranno in Corea, a Pyung Chang, nel febbraio del 2018, alle quali parteciperanno ovviamente anche gli atleti italiani. Sembrerà strano, ma per noi è importante anche che nel mondo si riesca a distinguere la lingua della Corea del Sud da quella del Nord. A volte le persone non distinguono la Corea del Nord da quella del Sud.

Dopo la “Korea week” aperta al pubblico italiano, e alla quale sono intervenuti anche molti giovani, avete in programma altri appuntamenti?

Lo scorso anno abbiamo organizzato a Roma la “Korea week”, quest’anno esporteremo il pacchetto delle manifestazioni in altre città italiane: Firenze, Palermo e così via. Ci saranno mostre, performance di arti marziali coreane, il Taekwondo, si avrà la possibilità di vedere la cultura coreana tramite laboratori, anche di cucina etc. A Roma, in occasione del primo anniversario dell’inaugurazione del nostro istituto, inaugureremo il festival della Corea, sarà il prossimo 26 ottobre, nel mentre continueremo a presentare la nostra cultura con spettacoli, mostre tradizionali, mostrando eccellenze di gastronomia coreana, organizzando manifestazioni di arti marziali e tutto ciò che concerne la cultura coreana. Inoltre, come ultima risposta alla sua domanda, ci sarà una giornata della cultura: il Ministero della Cultura coreano dedica alla cultura l’ultimo mercoledì di ogni mese e quindi anche presso l’istituto c’è stato un evento,  lo scorso 22 febbraio c’è stato un concerto di musica classica, e così via, di mese in mese.

Ci sono mostre in corso da poter visitare nel Centro culturale aperte al pubblico?

Certamente, l’istituto è aperto tutti i mesi dell’anno, eccetto luglio e agosto. C’è quella dei dipinti coreani e, a seguire, una mostra di artisti coreani che lavorano in Italia. Per quanto riguarda la gastronomia l’istituto organizza dei corsi, purtroppo ancora limitati per l’orario in quanto gli Scef professionisti per l’ora di pranzo e cena non possono essere presenti in istituto. Seguirà una mostra con tema la carta coreana, poi ancora una mostra sull’arte della calligrafia coreana, ancora una mostra di artigianato molto pregiato, arte creata con le conchiglie, una mostra di artigianato casalingo e, per finire, una mostra di stoffe molto colorate. Inoltre sono stati organizzati anche dei laboratori, di modo che gli italiani possano vivere lla nostra arte.

Molto apprezzati sono stati i corsi di cucina e gastronomia coreana, lei pensa che nel 2017 ci potranno essere altri laboratori di gastronomia?

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 Il direttore dell'Ist. culturale coreano a Roma Soo Myoung LEE (al centro)

Per quanto riguarda la gastronomia l’istituto organizza dei corsi, purtroppo ancora limitati per l’orario in quanto gli cheff professionisti, per l’ora di pranzo e cena, non possono essere presenti in istituto in quanto impegnati nei ristoranti, in aprile comunque l’orario sarà più vicino alle esigenze dei tirocinanti e corsi si potranno tenere anche nella pausa pranzo. Attualmente abbiamo intenzione di proporre la cucina coreana anche nei ristoranti di istituzioni internazionali, come per esempio la FAO. Sono in previsione anche delle manifestazioni di cucina vegetariana, tipica dei templi buddisti coreani. In questi viene consumato cibo biologico e viene usato il principio dello Slow food. Vorremmo presentare anche ai preti cattolici la cucina dei templi buddisti. Siamo in contatto con l’associazione dei buddisti coreani in Italia per presentare questo programma il prossimo anno e, non solo per questo, ma anche per presentare i vari aspetti della filosofia buddista, inclusa la cultura del SHANSUSEY, che concerne la permanenza nei templi buddisti , come vacanza per un determinato periodo, che adesso va tanto di moda.

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