L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.


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Kaleidoscope (1444)

Free Lance International Press

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September 04, 2016

Se la campagna presidenziale americana diventa una scelta tra la libertà di espressione e la tutela della dignità della persona.

 

La notizia dell’endorsement di fatto di Clint Eastwood per Donald J. Trump Presidente ha fatto il giro del mondo. 

The 86-year-old four-time Oscar winner, durante un’intervista alla rivista Esquire, ha dichiarato di preferire il candidato repubblicano come prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America (per leggere l’intervista http://www.esquire.com/entertainment/a46893/double-trouble-clint-and-scott-eastwood/).

…Parole chiare per Clint! 

Trump è sul pezzo (così forse potremmo tradurre correttamente he's onto something, letteralmente “lui è su qualcosa”) perché, secondo Eastwood, ha preso atto che parte dell’opinione pubblica è stanca del political correctness: è per questo che viene “apprezzato”. 

Ricorda che When he grew up nessuno si sarebbe sognato di dire, così facilmente come ora, a una persona che è razzista per il solo fatto di aver espresso un legittimo dubbio (fa riferimento alla vicenda relativa ad alcune dichiarazioni di Trump su un giudice di origine messicana). 

In sostanza, Eastwood rifiuta la pussy generation nel quale gli U.S.A. stanno vivendo anzi, ritiene che questa kiss-ass generation è un momento triste per la loro storia.

Che cos’è la pussy generation? chiede il Direttore della rivista.

«Tutte queste persone che ti dicono “Oh, non puoi fare questo, non puoi fare quell’altro e non si può dire quello”. Io credo che questi sono i tempi in cui ci troviamo». 

Su Hillary Clinton ammette che potrebbe essere una “dura” ma che ha deciso di seguire le orme di Obama, quindi non ritiene di appoggiarla.
  

La notizia dovrebbe lasciare il tempo che trova, essendo la celebrated star of “The Good, the Bad and the Ugly” un repubblicano convinto da tempo. 

Ciò nonostante, le sue dichiarazioni possono accendere, a mio avviso, una riflessione molto importante che sembrerebbe non sia stata tenuta in considerazione dal dibattito politico americano e internazionale.

Mi riferisco alla secolare disputa tra due principi fondamentali delle moderne democrazie occidentali, e segnatamente a quella tra la libertà di espressione e la tutela della dignità della persona.

Oggi più che mai, con lo sviluppo dei mass media e dei social network, l’incontro e lo scontro tra questi due principi è costante, continuo, mai interrotto. Oggi più che in passato la giurisprudenza e la dottrina sono chiamate a stabilire quale dei due principi debba prevalere. 

Il bilanciamento a favore dell’uno o a favore dell’altro non è mai scontato. Tuttavia, è possibile affermare, in via generale, che gli ordinamenti di Common Law tendono a favorire una maggiore applicazione del principio di libertà di espressione al contrario di quanto succede negli ordinamenti di Civil Law dove la tutela della dignità della persona è un principio che limita quasi sempre quello della libertà di espressione (ovviamente ci sono le eccezioni).

Le motivazioni di queste scelte risiedono indubbiamente nella storia dei Paesi interessati (per citarne alcuni: USA, Gran Bretagna da una parte, Italia, Francia e Germania dall’altra) e nell’analisi della giurisprudenza delle proprie Corti Costituzionali.

Negli Stati Uniti d’America la libertà di espressione in ogni sua forma è sancita nella Carta Costituzionale dal 1° Emendamento (ripreso poi nel Bill of Rights):

Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances.

Il principio di freedom of speech, or of the press è l’architrave del sistema giuridico e politico statunitense. “James Madison, padre della patria americana e coautore del Federalist con Hamilton e Jay, ne spiegò il principio sottostante in questi termini: nella forma di governo degli Stati Uniti, fondata sulla sovranità popolare, «the censorial power is in the people over the Government, and not in the Governement over the people»[1]”.  
 

Si tratta di un principio che fonda l’intero ordinamento costituzionale, l’intero Stato americano: la libertà di espressione equivale a dire che la sovranità appartiene al popolo.

Ciò posto, secondo Eastwood negli States di questi tempi non si può parlare liberamente. In coerenza con quanto ritiene e in modo palese sceglie Trump perché il candidato repubblicano dice what’s on his mind anche se sometimes it's not so good o addirittura se dice a lot of dumb things.

Eastwood, da “vero” americano (?), difende la libertà di espressione e probabilmente vede nel candidato repubblicano alla Casa Bianca colui il quale, una volta eletto Presidente, potrebbe maggiormente garantire e tutelare tale principio. 

Hillary Clinton, invece, viene osservata come la naturale prosecutrice delle politiche Obamiane, caratterizzate da una maggiore attenzione verso le minoranze e le fasce deboli della società americana[2] : ergo una politica orientata alla tutela della dignità della persona.   

E’ così?

Direi di no. Non tutte le leggi adottate da Obama, ovviamente, erano dirette in favore dei più deboli o comunque per la tutela della dignità della persona né lo saranno, probabilmente, quelle della Clinton. 

Del pari, non saranno “un sacco di cose stupide” dette da Trump a poter stabilire che, qualora eletto, questi attui politiche a tutela della libertà di parola e di stampa, ovvero che non ponga in essere iniziative in favore della dignità della persona.    

Per concludere, ciò non toglie la possibilità che l’idea della star possa essere ritenuta corretta da moltissimi altri elettori, soprattutto nell’ambito di una campagna elettorale dove contano più gli slogan che i contenuti programmatici e politici (n.b. quello di Trump è per l’appunto “I am Your Voice” - “Make America Great Again”).

E in tal senso, vista la sensibilità del popolo americano alla libertà sancita dal primo emendamento, le probabilità di vittoria per Trump risulterebbero concrete. 

A ciò si aggiunga che la spregiudicata campagna elettorale del miliardario newyorkese non sembra incontrare un’efficace risposta dalla Clinton che, sebbene proponga questioni politiche rilevanti e forse più realistiche (rivolte maggiormente in favore delle nuove generazioni di cittadini americani?), non dispone, a mio avviso, di quella eccezionale capacità comunicativa del suo illustre predecessore, Barack Obama.

Yes we can…again? Agli elettori americani la decisione.

[1] DE CAIRA Riccardo, La libertà di espressione negli Stati Uniti d’America, Rivista trimestrale di diritto pubblico, Giuffré Editore, 2010

[2] E’ chiaro che i nessi qui proposti possono essere considerati semplici e generici. Tuttavia, si può accettare il fatto che Obama viene rappresentato dalla pubblica opinione come un politico attento ai più deboli. Con riferimento alla Clinton si può evidenziare che in campagna elettorale abbia più volte sostenuto di voler attuare politiche per uno Stato più inclusivo e giusto e in favore della middle class, proseguendo, quindi, almeno a parole, alcune delle politiche tanto care a Obama. 

Nel mio vinovagare per manifestazioni la parte più interessante è sempre quella della scoperta delle novità. E su questa mia dichiarazione, come si usa dire, non ci piove! Anche perché non avrebbe alcun senso dare seguito e spazio all’uniformità.

Quando poi hai l’occasione di intervistare colui che è uno degli ideatori di un determinato nuovo vino inserito in un nuovo progetto “per vini innovatori senza alcun pregiudizio” , la visita riempe di interesse, curiosità, desiderio di sapere, conoscere per comunicare. Inevitabile.

Questo quanto accaduto nella mia visita e partecipazione all’evento annuale che si è svolto nel mese di Marzo, a Magrè in Alto Adige: Summa ’16. Manifestazione ideata ed

SAM 4048
 simbolo Cometa di Lageder

organizzata da Alois Lageder, titolare della ben nota e conosciuta Azienda Vitivinicola altoatesina.

Della validità ed unicità di questo evento ne ho già parlato abbondantemente. Tutti gli anni, oltre al tradizionale ripetersi di alcuni momenti consolidati nel tempo che sono riusciti ad elevarlo come evento eccellente, riesce sempre a colpirmi, cogliere nel segno delle mie continue ricerche del nuovo, dello straordinario e perché no, rivoluzionario presentando nel programma specifici appuntamenti sempre inediti e inattesi.

Innovazione e originalità: siamo partiti dall’ufficialità Da quest’anno si è avuto l’inserimento nel team dirigenziale della Weingut Alois Lageder del figlio Alois Clemens Lageder. Pronto e ben preparato nella sua nuova collocazione e rappresentante incaricato del nuovo progetto aziendale definito “Progetto Vini Cometa”.

L’ho seguito, insieme ad altri colleghi e wine lover’s curiosi quanto il sottoscritto, nel giro di una parte della cantina tra botti secolari

SAM 4049 
 Forra, primo vino Cometa

che nascondono “segreti”. Alcune scritte, numeri in codice da decifrare, riportate come identificazione a celare l’intimo del contenuto.

Alois Clemens ha iniziato il suo racconto. Ha parlato di comete, dei rapporti di quest’ultime con il “progetto”, di definizioni riguardanti vitigni nuovi per l’Alto Adige, di sperimentazioni già in atto e per ultimo a spiegare gli assaggi dei campioni di botte.

Mi sono defilato, volutamente in disparte perché non riuscivo, di fronte ad un progetto così complesso, nella inevitabile confusione di continue domande, richieste di delucidazioni a volte fuori tema, a capire.

Lo ammetto: sono, per principio, contrario alle “profanazioni in massa dei luoghi sacri” e la bottaia di Alois Lageder è uno di quelli.

Sono però riescito a “strappare” un “dieciminuti” da solo con Alois Clemens che ha avuto luogo, così lo è stato, da lì a poco.

Appartati, si fa per dire, nel punto ristoro ricavato per l’evento nel piazzale di fronte all’Azienda, ho iniziato finalmente il “mio” colloquio per illuminarmi circa il Progetto Vini Cometa.

D. - Alois Clemens, la domanda iniziale più semplice e scontata: perché Progetto Vini Cometa?

R. -La cometa, da sempre, è un segno nel cielo, simbolo della speranza. Basta ricordare la stella cometa e il suo significato mistico nella cristianità. Per la mia famiglia ha simboleggiato un emblema, tant’è che non a caso ne è diventato il logo aziendale. Va al di là della parola stessa. Vini Cometa nel tentativo di produrre vino da vitigni che potrebbero rivelare un annuncio nuovo, una promessa per questo territorio.

D. -Secondo le credenze popolari l’apparizione nel cielo di una cometa era sinonimo di portatrice di sventure, pestilenze e guerre. Sappiamo oggi che non è altro che “una innocua palla” composta da rocce mescolate a gas allo stato liquido, acqua, metano, ammoniaca ed abbondanti detriti. Lei la vede come promessa per un territorio?

R. – Non proprio in questi termini. Bisogna uscire dal significato concreto della parola e definirla come un simbolo che indica un percorso che forse non avrà seguito e potrebbe sparire così come si comporta una vera cometa. Ma, al contrario, potrebbe rimanere presente in queste terre indicando nuove frontiere nella viticoltura.

D. –Mi scusi ma preferisco riportare i piedi saldamente in terra. Nella pratica questo progetto, di fatto, in cosa consiste?

R. -Abbiamo piantato vitigni nuovi, diversi da quelli conosciuti e presenti in Alto Adige e dedichiamo a loro le nostre ricerche e studi approfonditi. Non solo. Siamo rivolti a vinificazioni sperimentali anche su vitigni ormai presenti da molti anni. Per noi il futuro.

SAM 3304 

Alois Clemens Lageder ed Urano Cupisti (a destra)

D. -Nello specifico mi può fare alcuni nomi dei vitigni sia nuovi per il territorio sia già presenti e motivo di studio per vinificazioni diverse?

R. -Stiamo elaborando vinificazioni diverse su quattro Sauvignon Blanc e tre Pinot Gris con risultati sorprendenti. Inoltre sono già in botte tre diverse annate di Tannat e un Incrocio Manzoni. Quest’ultimo, vendemmia 2014, coltivato nella vigna Fórra, che poi è il nome del vino, ha finito l’affinamento. A giorni procederemo all’imbottigliamento e sarà in vendita quest’anno.

D. -Per concludere come definirebbe un Vino Cometa?

R. -Vino da vitigno adatto al territorio, resistente ai cambiamenti climatici, alle malattie ed innovativo, con qualcosa dentro di nuovo da trasmettere.

Vini Cometa. Un annuncio nuovo, una promessa per l’Alto Adige. Parola di Alois Clemens Lageder.

Negli ultimi tempi lo chef Franco Vissani più volte ha sentito la necessità di definire i vegan una setta: una setta che però solo in Italia conta 600 mila persone in una tendenza a cui è impossibile opporvisi dal   momento che rappresenta la coscienza più lungimirante ed evoluta della specie umana. Se si pensa poi che i vegetariani nel mondo, per vari motivi, sono circa un terzo della popolazione, le sue esternazioni risultano fuori luogo. Ma spesso alcune persone rivelano il peggio di se stesse quando vedono in pericolo i loro interessi.

Mentre una setta ha bisogno di un capo, la nostra filosofia di vita si pone ideologicamente agli antipodi da tali visioni della vita in quanto il nostro scopo è quello di rendere l’essere umano artefice del proprio destino, capace di essere medico di se stesso con una coscienza libera e luminosa, senza condizionamenti mentali e senza attaccamenti a tradizioni di cui dovremmo solo vergognarci.

Ma se Vissani si esprime in modo offensivo e denigratorio nei confronti dei vegani noi non raccogliamo la sfida e non definiamo i mangiatori di animali coloro che continuano a nutrirsi di salme come l’uomo delle caverne. Noi non diciamo che chi usa mangiare animali disprezza la vita ed il dolore di esseri che forse più di tanti umani meritano rispetto. Non diciamo che promuovere il consumo della carne è un crimine contro la vita, la civiltà, la giustizia, la salute delle persone, l’economia, l’ambiente. Non diciamo tutto questo, ma lo pensiamo.

Vissani pensi piuttosto a verificare il suo stato di salute dal momento che i mangiatori di carnami sono sicuramente in stato di perenne acidosi, e molto più esposti dei vegani a ritenzione idrica, all’acido urico, a  putrefazione intestinale, a insufficienza epatica e a tutto ciò che ne consegue l’aumento di colesterolo, di obesità, di diabete, di ipertensione e cancro.

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LE CODE DEI MAIALINI

(da “Il dilemma dell’onnivoro” di Michael Pollan – Ed. Gli Adelphi)

“Gli allevatori tagliano le code alla nascita seguendo una pratica che ha la sua logica perversa nel culto dell’efficienza che domina una porcilaia industriale. I maialini sono allontanati dalla madre a dieci giorni dalla
nascita (in natura lo svezzamento avviene in 13 settimane) perché ingrassano meglio con un pastone pieno di medicine che con il latte di scrofa. Ma questo distacco prematuro frusta il loro innato desiderio di succhiare e mordicchiare, una voglia che cercano di soddisfare nelle gabbie con la coda di chi sta davanti a loro. Un maiale sano si ribellerebbe a questo morso, ma agli esemplari depressi degli allevamenti non importa nulla, in psicologia si parla di “impotenza appresa”, fenomeno molto diffuso nei Cafo, dove decine di migliaia di maiali passano la vita senza mai vedere la terra o il sole, stretti dentro gabbie di metallo chiuse sui quattro lati e sospese su una fossa settica. Non deve stupirci il fatto che un animale così intelligente si deprima in queste condizioni e si lasci mordere la coda fino a farsi venire un’infezione. Visto che curare gli esemplari malati non conviene economicamente, queste unità non più efficienti vengono in genere ammazzate sul posto a bastonate.

Il Ministereo dell’Agricoltura raccomanda la mozzatura delle code come soluzione al “vizio” porcino di mordersele. Con l’aiuto di un paio di pinze, ma senza anestetico, si strappa via il codino lasciandone però un pezzetto attaccato. Questo perché lo scopo dell’operazione non è eliminare del tutto l’organo, ma renderlo ipersensibile. Dopo questo trattamento il morso di un altro individuo è talmente doloroso da provocare la reazione anche del maiale più depresso”.

In questi giorni, fra le tante generose iniziative a favore delle popolazioni terremotate di Amatrice e dintorni, si è fatta notare la campagna incentrata sulla “pasta all’amatriciana”, piatto promosso nei ristoranti al fine di devolvere in raccolta fondi una piccola parte del relativo guadagno.
Ora, credo che la cosa richieda qualche breve riflessione.

E’ certamente fuori di dubbio l’encomiabilità dello spirito dell’iniziativa, a cui, tra l’altro, numerosi ristoratori delle più disparate località hanno dato immediata adesione. Essa rientra, in modo esemplare, nel novero di quelle tante piccole cose di facile realizzazione che si possono attuare per dare concretamente aiuto al prossimo, senza richiedere gesti particolarmente impegnativi.
Ma la proposta presenta dei limiti non indifferenti che occorrerebbe cercare di valutare e di superare, al fine di allargare al massimo le possibilità di un felice esito.
La “pasta all’amatriciana” (o “matriciana” che dir si voglia), infatti, comporta l’impiego (seppur in quantità contenute) di carne suina.
Questo implica (e stupisce davvero che non sia stato opportunamente considerato dai promotori e sostenitori della campagna) l’esclusione di una buona parte della popolazione mondiale, quella, cioè, che, per varie ragioni, rifiuta la carne suina o qualsiasi tipo di alimento carneo. Parliamo, insomma, di tutti coloro (buddhisti, induisti, teosofi, nonviolenti, ecc ...) che praticano il vegetarianesimo o il veganismo e di tutti coloro che rispettano regole alimentari ebraiche e islamiche.

kjlA questo punto, allora, perché non cercare, in nome della necessità di creare il massimo consenso intorno all’iniziativa, di allargare il ventaglio delle opzioni in ottica sanamente pluralistica? Ovvero, perché non prevedere di proporre, accanto alla “pasta all’amatriciana”, dei piatti alternativi accettabili anche dalle suddette categorie di individui? Piatti rustici, cioè, che abbiano ugualmente forti legami con la ricca tradizione culinaria delle zone colpite, quali potrebbero essere “tonnarelli a cacio e pepe” o “penne all’arrabbiata”?!
Ricordarsi dell’esistenza delle diversità culturali (e quelle gastronomiche non sono certo irrilevanti o secondarie), provando a rispettarle il più possibile costituisce sempre la strada migliore per poterci sentire veramente vicini fra tutti quanti noi, miseri abitanti di questo irrequieto e sventurato pianeta.
Soprattutto quando ci sentiamo più in pericolo. Soprattutto quando siamo particolarmente immersi nel dolore.
Magari ponendoci anche seriamente il problema se sia giusto o meno, in nome di qualsiasi fine (più o meno nobile) continuare a produrre altra sofferenza nei nostri fratelli minori, eterni dolcissimi bambini ... gli animali ...

Non è solo l’originalità delle immagini che coinvolge lo spettatore ma anche quello sguardo sull’uomo che le stesse suggeriscono, espressione di una storia “dimenticata”. “Storie di vite usate - la diversità in mostra”, rassegna aperta fino al 25 settembre negli spazi del Museo PierMaria Rossi di Berceto, è da leggere in primo luogo per i suoi significati culturali. Ideata e prodottadall’Associazione Culturale Sentieri dell’Arte, realizzata con il patrocinio della Regione Emilia Romagna, del Comune di Berceto e dell’Associazione Borghi Autentici, in collaborazione con Survival Italia, a sostegno della difesa dei popoli indigeni, e Collezione Radauer di Vienna, la proposta espositiva offre,infatti, materiali storici, una settantina originali, inerenti alle mostre etnologiche del secolo scorso. Al centro gli antichi zoo umani che dalla metà dell’Ottocento fino agli anni ‘40 del Novecento, si diffusero in cannibalitutta Europa, venendo a costituire una sorta di rappresentazione del razzismo propagandato dalle teorie scientifiche dell’epoca.

Era stato un commerciante di Amburgo, Carl Hagenbeck che riforniva di animali selvaggi i giardini zoologici di mezza Europa, ad avere l’idea intorno al 1874 di esporre anche alcuni indigeni dell’isola di Samoa presentandoli come individui “puramente naturali”. Si rese presto conto di quanto potesse essere lucroso esporre uomini di etnie differenti da quella europea e inventò di fatto “gli zoo umani”, che divennero presto una delle maggiori attrazioni delle prime Esposizioni Universali.

Al Museo PierMaria Rossi è possibile ripercorrere la vita di intere famiglie alle quali sono state tolte le loro radici. Uomini e donne portati lontano dai paesi d’origine, considerati “diversamente umani”, in alcuni casi spacciati dal mondo scientifico come anelli mancanti tra l’uomo e la scimmia in una logica di darwinismo sociale. Sono immagini e temi delle grandi esposizioni universali, a partire da quella di Torino del 1884.

Manifesto pubblicitario dellepoca del giardino zoologico di Parigi Copia 54811 
 Manifesto pubblicitario d'epoca del giardino zoologico di Parigi

Documentate in particolare quelle di Milano (1906), Torino (1911), Parigi (1931), attraverso fonti giornalistiche, letterarie, iconografiche, fotografiche, di costume mentre una grande installazione riproduce la gabbia originale dell’esposizione di Saint Louis (1904). L’esposizione del 1958, la prima post bellica tenuta a Bruxelles, è raccontata nel cortometraggio “Zoo” di Monda Raquel Webb, concesso in esclusiva per la mostra.
Storie avvincenti quelle narrate, coinvolgenti nei testi del catalogo che racconta di “vite rubate” come quella di Sarah, la Venere ottentotta o quella di Ota Benga, Pigmeo africano. Sono solo un esempio di un percorso che si snoda tra una drammatica realtà e le immagini fantastiche delle riproduzioni di poster datati tra il 1870 ed i primi anni Trenta, volti a raffigurare un fenomeno tanto sconvolgente quanto straordinario. “Non riuscivo a credere che una cosa del genere potesse mai essere accaduta” scrive Clemens Radauer che ha prestato gli oggetti della sua collezione perchè “mostre come questa sono molto importanti per la diffusione della

Pigmei Londra 1884 Copia 54671 
 Pigmei - Londra 1884

conoscenza sugli zoo umani e la sensibilizzazione del grande pubblico”.

Nonostante siano trascorsi anni dalle storiche grandi esposizioni etnologiche -l’ultima documentata in mostra è quella di Augusta, in Germania, del 2005, ultimo caso europeo - la globalizzazione, nel bene o nel male, mette continuamente a confronto realtà e radici differenti, a volte con scambi culturali di grande respiro che portano ad una nuova consapevolezza collettiva, a volte con risultati di intolleranza perchè il “diverso” incute sempre paura, disagio e pregiudizio. L’obiettivo della mostra è sensibilizzare sulla necessità di considerare “l’Altro” non più come nemico in base alla sua appartenenza etnica, sociale, religiosa e politica nella scoperta di vicende reali che la fotografia, l’oggettistica, i manifesti, i testi possono tramandare.

Dopo il successo ottenuto nella mostra al Museo storico della Lamborghini, a Sant’Agata Bolo-gnese, in occasione delle celebrazioni del 50° Anniversario della Miura, Alfonso Borghi si pre-senta con una nuova mostra, “i quattro quartetti” a cura di Stefania Provinciali, critica d’arte e giornalista, nella splendida cornice del Castello Scaligero di Malcesine. Le opere tutte inedite sono dedicate ai poemetti di T.S. Eliot e ripercorrono con la materia ed il colore, elementi basilari nell’opera dell’artista di Campegine, pensieri e parole del celebre saggista e poeta. Un affa-scinante indagine che unisce parole ed immagini e l’idealità di un pensiero racchiuse nelle quindici tecniche miste che compongono la mostra.
Ancora una volta Alfonso Borghi interpreta con passione e tecnica sapiente l’originalità di un autore sulla tela. Si accosta alla materia con immediatezza, compone un’idea donandole una forma ideale nella assoluta certezza di una pittura informale che affonda le radici nella tradi-zione padana. scrive nella sua introduzione al catalogo Claudio Bertuzzi, Assessore al Turismo di Malcesine.

Il tempo e la campana hanno sepolto il giorno T.S. Eliot 2016 tecnica mista su tela cm 50x50 

Il tempo e la campana hanno sepolto il giorno
(T.S. Eliot), 2016,tecnica mista su tela, cm 50x50

Alfonso Borghi, nato nel 1944 nella cittadina di Campegine di Reggio Emilia, si avvicina alla pit-tura a soli 18 anni, ha la possibilità di esporre le sue opere per la prima volta, grazie all’intercessione di un collezionista. Parte per un breve viaggio a Parigi. Da questo soggiorno consegue una ricerca appassionata, che virerà verso l’Espressionismo dopo il suo ritorno in Ita-lia, grazie anche al fortunato incontro con George Pielmann, allievo di Kokoschka. Le sue opere, viaggiano nelle principali città europee e statunitensi. Sono gli anni ’70: Barcellona, Berlino, Madrid, Vienna, Parigi, NewYork, Los Angeles. A partire dagli anni ’80 un susseguirsi di mostre e di eventi importanti costellano l’attività artistica del maestro. Lavora il vetro, la ceramica, ma si dedica anche alla scultura, avvicinandosi ad una pittura di più chiara matrice informale.
Oggi le sue opere trovano spazio in collezioni pubbliche e private e in musei italiani e europei. Tra le mostre più recenti nel 2014 al Museoteatro della Commenda di Prè a Genova, con la mostra Alchimie della realtà e a Palazzo Medici Riccardi a Firenze. Al Centro Espositivo Rocca Paolina, di Perugia presenta l’antologica Sonorità materiche. Nel 2015 e a Milano al Palazzo Giuriconsulti, poi in ottobre sempre a Milano alla Galleria San Carlo, con una personale La pittura sublime alimento dell’anima. Nel 2016 è alla Casa del Mantegna Mantova con la personale L'Olimpo della materia e al Museo Lamborghini a Sant'Agata Bolognese, celebra i 50 anni della Miura con la mostra Velocità e colore.
La mostra “i quattro quartetti” sarà accompagnata da un catalogo in italiano, inglese e tedesco con testi di Stefania Provinciali. Il catalogo sarà presentato sabato1 ottobre a Malcesine.


Il tempo presente e il tempo passato
sono forse presenti nel tempo futuro,
e il futuro è racchiuso nel passato.
(T.S. Eliot “Quattro Quartetti”)


Inaugurazione sabato 3 settembre ore 17,30 Castello Scaligero
Alfonso Borghi “ i quattro quartetti”
Malcesine, Castello Scaligero, Via Castello, 39
Dal 3 settembre 2016 al 30 ottobre 2016
Mostra organizzata da Comune di Malcesine
Orari: tutti i giorni dalle 9,30 alle 18
Per informazioni: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.; This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.; www.alfonsoborghi.com

Ha origini calabresi, è nato a Crotone, ma all’età di sei anni si trasferisce con la famiglia a Reggio Emilia. E’ proprio in terra emiliana che Alfonso Oliver inizia a muovere i primi passi nel mondo della musica. Si iscrive ad una scuola pubblica e si dedica al canto moderno,oltre allo studio della chitarra classica. Per mantenersi lavora come carpentiere, ma la musica lo accompagna sempre e si impegna con determinazione per concretizzare il suo sogno. Arriva il primo album“Hotel del rock”, realizzato con il proprio gruppo “Gli Oliver”, prodotto dall’etichetta romana Terre Sommerse, un esordio che consente al giovane artista di farsi conoscere a livello territoriale. Poi una scelta, un percorso da solista, che lo porterà al primo album da cantautore “Tutta colpa della musica”, un progetto discografico che contiene otto brani particolarmente interessanti. “Giro giro mondo” sarà la track di maggior successo. Tanta radio, diverse trasmissioni televisive, live e concerti, l’incontro con i big. Continua la scia di consensi e dopo il singolo #Blablablasi aggiungonoaltre date in giro per l’Italia e in Ucraina. “30” non è altro che una provocazione rivolta a quei giovani non più ventenni che pensano che non ci sia più spazio per le speranze e per i sogni. E’ un invito a reagire, a credere in se stessi e nel futuro, perché la vita è un viaggio da affrontare con coraggio, privi di rimpianti e paure.

Alfonso Oliver, un percorso artistico fatto di sacrifici ed impegno, che ti ha portato anche in Ucraina. Dall’esordio quali sono state le tappe più importanti? E come hai vissuto l’esperienza fuori dai confini nazionali?

La tappa più importante è stata quello di iniziare questo percorso, poi tutte le volte che scrivo, che salgo su un palco, le considero grandi opportunità. I sacrifici fanno parte del gioco, e bisogna essere disposti a pagare il prezzo che questo lavoro richiede.L'Ucraina è stata una grossa scoperta per me. Grazie al cantautore Andrea Pinto, italiano ma residente a LVIV, ed ai suoi promoter, sono stato per due volte in tour in quella bellissima terra. C'è un amore sfrenato per noi Italiani e soprattutto per la nostra musica.

30, come nasce questo nuovo singolo e come è avvenuta la realizzazione del video? Perché proprio questa cifra?

Questo nuovo singolo nasce dalla voglia di provocare tutti coloro che credono che superando una certa età, i "30", si debba porre fine ai propri sogni e mettersi al sicuro,senza poter rischiare più nulla della propria vita...E' un testo scanzonato, ma se si ascoltano bene le parole c'è anche tanta nostalgia.

Che significato ha per te fare musica nell’era digitale?

Essendo io stesso dell'era digitale, non saprei forse dare una giusta risposta…Ma non mi sono mai posto la domanda devo dire.

Che rapporto hai con la tecnologia e con i social?

Molto buona. I social e la tecnologia sono tutto oggi e ad essere sincero amo la comodità che ti danno.

La vita è fatta di incontri. Quale è stato fondamentale in ambito professionale?

La mia prima scuola di canto.

Che rapporto hai con le persone che ti seguono e come vivi la popolarità?

Amo la gente e l'unica cosa di cui veramente mi preoccupo sempre, è riuscire a toccare i loro punti deboli...perché sono loro che decidono chi può o meno fare questo mestiere…E devi dare tutto quello che puoi e anche di più.

Progetti futuri.

Finirò il mio tour in agosto. Poi si torna in studio!!

Lo dico subito a scanso di equivoci: sto con Aldo Fabrizi e la sua meravigliosa e verace quanto appetitosa poesia “La Matriciana mia” (dissento solo sugli spaghetti, amo i bucatini):


Soffriggete in padella staggionata, 
cipolla, ojo, zenzero infocato, 
mezz'etto de guanciale affumicato 
e mezzo de pancetta arotolata.

Ar punto che 'sta robba è rosolata, 
schizzatela d'aceto profumato 
e a fiamma viva, quanno è svaporato, 
mettete la conserva concentrata.

Appresso er dado che je dà sapore, 
li pommidori freschi San Marzano,
co' un ciuffo de basilico pe' odore.

E ammalappena er sugo fa l'occhietti, 
assieme a pecorino e parmigiano, 
conditece de prescia li spaghetti.

Parto da queste considerazioni finali cercando di ripercorrere in sintesi la storia di un piatto “romano” che è diffuso in tutto il mondo.

Matriciana o Amatriciana?

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 Il Passetto

Due linee di pensiero gastronomico che dividono non tanto i cittadini di Roma che rivendicano a pieno titolo (sono schierato con loro) l’originalità della ricetta quanto i laziali e gli abruzzesi. Per ragione di parte i “reatini” sono schierati per l’Amatriciana di Amatrice, così pure gli aquilani, mentre il resto del Lazio è a favore della Matriciana. Altro elemento di divisione è l’utilizzo del formaggio pecorino. I favorevoli all’Amatriciana “spolverano gli spaghetti” con pecorino abruzzese mentre i Matriciani “ con pecorino romano.

Personalmente aggiungo che, se trattasi di ricetta originale romana, meglio usare i “bucatini ”, abbinabili da sempre a condimenti forti.

AMATRICIANA o MATRICIANA?

Versione AMATRICIANA. La cittadina di Amatrice ne rivendica la ricetta. Ricordano i loro abitanti che i pastori quando seguivano al pascolo i loro greggi portassero con se guanciale affumicato da tagliare a cubetti, pecorino fatto da loro e spaghetti. Maiale, formaggio di pecora e pasta per preparare quello che chiamavano “unto e cacio” per una dieta calorica necessaria a sopportare il duro lavoro. Poi l’emigrazione verso la Capitale a causa della crisi della pastorizia e alcuni di loro, trovando occupazione nella ristorazione, fecero conoscere questo piatto tipico. La Storia dei ristoranti romani ci ricorda “Il Passetto” vicino a Piazza Navona aperto da un amatriciano di nome Luigi Sagnotti. Correva l’anno 1860. L’amatriciana di Amatrice era ufficialmente arrivata a Roma. Poi, per dover di cronaca, ricordo che lo stesso Ristorante, nel 2009, finì in prima pagina su tutti i quotidiani nazionali per quel “conticino salato” rifilato a due turisti giapponesi. Ma questa è altra storia.

Versione MATRICIANA. L’origine è sempre legata ai pastori, questa volta dell’Agro romano, che nei tempi dei tempi variarono un’usanza (divenuta ricetta) dal nome di “Gricia”. Sostituirono alcuni ingredienti rendendola “più facile”.

Nel 1855, ben cinque anni prima dell’apertura del “Il Passetto”, il Cavalier Alessandro Rufini, scrittore di cose romane, pubblicò un libro dal titolo molto lungo ma esaudiente “Notizie storiche intorno alla origine dei nomi di alcune osterie, caffè, alberghi e locande esistenti nella Città di Roma”. Nel libro cita “l’Osteria della Matriciana”, via della Pilotta 22, detta della “matriciana” perché condotta da una donna di origine napoletana o meglio “della matrice del Regno di Napoli” E guarda caso preparava spaghetti con sugo composto da guanciale di maiale, formaggio pecorino romano e conserva di pomodoro. Gli spaghetti alla Matriciana, con tanto di cartello pubblicitario fuori dalla porta. Oggi, nella stessa via, nello stesso palazzo c’è un altro Ristorante con nome diverso, Le Lanterne, che offre una variante alla matriciana: non spaghetti o bucatini ma i più richiesti “paccheri”. L’“evoluzione” dei gusti.

Comunque la si pensi, poco importa chi l’abbia inventata. Una cosa è certa: è Roma e la sua cucina che ha fatto conoscere nel mondo il sugo alla Matriciana, pardon all’Amatriciana.

Personalmente sto con Aldo Fabrizi e con i Bucatini.

August 26, 2016

In questo momento, la democrazia in Brasile è minacciata fortemente, sulla base di un impeachment illegale della presidente Dilma Rouseff.
La accusa è di aver praticato "pedaladas fiscais", pratica comune fatta in diversi governi precedenti, da governatori di diversi stati brasiliani e che mai, precedentemente sono stati inquisiti.

Di recente, alcune perizie promossa dal senato e dal ministero pubblico federale, hanno dimostrato  che in realtà, non è esistita  nessuna irregolarità.
Il 19 luglio, è stato istituito a Rio de Janeiro, un tribunale internazionale, sul  modello del tribunale dell' AIA, per i diritti, dove hanno partecipato diverse autorità che operano nel  settore della tutela dei diritti umani, e all' unanimità, la presidente Dilma  è stata riconosciuta innocente.

Non esistono  prove che la incriminano, vogliono allontanarla  per garantirsi l' immunità.

Dilma è stata la politica che ha dato la più grande autonomia per investigare sui crimini legati alla corruzione nella storia del paese.
Il governo illegittimo Michel Temer  sta distruggendo in tempo record tutto quanto fatto in precedenza come, per esempio, i benefici sociali raggiunti dai governi precedenti, cercando di attuare un programma neo liberale e ultra conservatore, non approvato dalla popolazione brasiliana.

La stampa mondiale ( le Monde, El país, Der spiegel, the guardian, Washington post, the new York time, al Jazeera, the intercept e molti altri, hanno dimostrato grande interesse nel verificare lo stato reale delle cose, e hanno pubblicato regolarmente articoli in relazione al golpe in corso.

Il popolo brasiliano sta ricevendo crescente attestati di solidarietà, da diversi parlamentari di tutto il mondo ( paese europei, America latina, Stati uniti, Parlamento europeu, ONU e tanti altri) che dimostrano preoccupazione in merito alla crisi democratica brasiliana, giudicata un colpo di stato.
Purtroppo la stampa brasiliana si sta rendendo protagonista di un processo di disinformazione sociale, ovvero non informa i brasiliani secondo il manuale del giornalismo autonomo e independente,facendo da esempio a tutti i giornalisti indepenti, blogs , e ai social media.

Per questo motivo, pensiamo che sia di fondamentale importanza poter contare sul  vostro lavoro, per dimostrare in maniera imparziale alla comunità italiana ciò che sta realmente avvenendo in Brasile.


Secondo il ultimi sondaggi, il 70% della popolazione non approva l' operato del signore Temer, un esempio ci viene anche da quanto è avvenuto all'inaugurazione delle olimpiadi del 5 agosto, quando il giorno prima la torcia olimpica  è stata spenta dalla popolazione in rivolta contro il golpe.

Il mese di agosto, come anche il periodo precedente  all ' allontanamento della presidente Rouseff, sarà un mese di lotta a favore della democrazia, in tutto il Brasile e in tanti altri paesi del mondo, le manifestazioni sono  denominate " fora Temer" e " Volta querida".
I movimenti  sociali democratici porteranno nuovamente milioni di persone nelle strade , sia in Brasile che all ' estero, dove stiamo organizzando delle attività in almeno venti città.
Siamo sicuri che la comunità italiana non resterà indifferente a quanto sta accadendo , ed abbiamo la certezza che quello che stiamo denunciando  sia di grande importanza anche per il popolo italiano.

Siamo a dispozicione per fornire maggiori informazioni e confidiamo nella vostra profissionalita, e nel  valore dell vostro lavoro, affinché questi eventi non  passino inosservati in Italia, in nome della democravia brasiliana

Brasiliani in Italia contro il Golpe

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Se da una parte l’onnivorismo ha consentito all’uomo di superare tempi di penuria dall’altra è stato ed è la rovina della nostra condizione fisica e morale

Nella comune accezione si considerano onnivori gli animali che usano mangiare di tutto. E anche se l’essere umano non ha alcuna caratteristica degli animali onnivori, lo si ritiene tale, senza considerare che furono estreme necessità di sopravvivenza a costringere la specie umana ad adattarsi a mangiare anche la carne.
Fuorvianti e tendenziose le immagini che in tv mostrano gli uomini primitivi consumare sanguinolenti pezzi di carne di animali abbattuti, come se i nostri progenitori si fossero nutriti solo di carne: in questo caso non sarebbero sopravvissuti un solo mese. Gli animali carnivori mangiano l’animale intero (cosa che l’uomo non può fare), cioè ossa, cartilagini, muscoli e le interiora con il cibo ingerito della preda.

Nei periodi più duri della guerra gli uomini mangiavano pane fatto con cortecce di alberi, segatura di legno e gramigna essiccata. Continuare a farlo anche dopo passato il periodo di penuria porterebbe inevitabilmente a malattie di vario genere. Il leone affamato mangia anche le mele ma se l’eccezione diventa norma ne paga le conseguenze. Oggi l’umanità continua ad adottare un’alimentazione di guerra in tempo di pace.
Col passare del tempo la carne è stata appannaggio delle classi abbienti, e il popolo ha emulato le abitudini dei ricchi, sia perché erroneamente convinto della sua importanza nella dieta e sia perché resa gradevole dalla cottura.

La paura infondata che manchi qualcosa nella nostra dieta, se priva di prodotti carnei, suffragata abbondantemente dalla medicina convenzionale, crea dei dubbi anche nelle persone più inclini al vegetarismo. E nell’incertezza, nel dubbio, la gente è portata se non altro a limitarne il consumo, e soprattutto non farla mancare ai bambini, nella convinzione che questa sia necessaria al loro sviluppo. Se fossimo onnivori avremmo alche la caratteristiche fisiche, anatomiche ed istintuali degli animali onnivori.
Tra gli animali più conosciuti considerati onnivori abbiamo, in ordine alfabetico: babbuino, carpa, cigno, cinghiale, corvo, criceto, formica, gabbiano, gallina, gallo, gorilla, granchio, macaco, maiale, mandrillo, merlo, oca, orango, pesce gatto, piranha, ratto, riccio, scarafaggio, scimpanzé.

Ebbene, l’essere umano archetipo dei primati (non ha nulla in comune con nessuno di questi animali considerati onnivori eccetto babbuino e scimpanzè che raramente mangiano anche insetti ed altri animali) non ha come gli altri animali onnivori gli strumenti naturali per procacciarsi la carne come cibo; non ha artigli, zanne, corna, zoccoli, becco; non ha i denti secodonti adatti a strappare brandelli di carne dal corpo dell’animale; non ha quantitativi necessari di acido cloridrico nello stomaco per digerire le ossa; non ha l’enzima uricasi per neutralizzare gli acidi urici; non ha un intestino corto adatto a smaltire rapidamente le scorie prodotte dagli organismi in via di decomposizione.
Le scimmie antropomorfe, per il 98% vegetariane e per il 2% onnivore, hanno canini corti utilizzati per difesa, mentre nell’uomo sono corti e smussati e non si incrociano. Come le scimmie antropoidi produciamo ptialina salivare che ci consente di digerire i carboidrati. Ma anche se, per assurdo, noi fossimo addirittura carnivori, il nostro senso di giustizia e della nostra ostentata civiltà non dovrebbe indurci ad adottare l’alimentazione etica e ad escludere dalla nostra alimentazione prodotti che non sono necessari al nostro sostentamento ma che urlano di dolore?
Anche se babbuino e scimpanzé, quando scarseggia il loro cibo elettivo, occasionalmente si nutrono anche di carne in modo occasionale (non sistematico come succede negli umani) tutti gli altri componenti della grande famiglia delle scimmie antropoidi, a cui la specie umana appartiene, sono fruttariane. Non solo. Mentre i nostri cugini antropoidi sono provvisti di armi naturali (come denti ben appuntiti e potenti mascelle, di cui noi umani siamo sprovvisti, e che in qualche modo giustificherebbe una dieta a volte onnivora), gli esseri umani, fisiologicamente e anatomicamente risultano essere ancora più marcatamente progettati per nutrirsi esclusivamente di frutta, germogli, bacche, semi e radici. Insomma, la natura non ha previsto che l’uomo consumi prodotti di derivazione animale, pena il subire gli effetti di un cibo incompatibile con la sua salute fisica e soprattutto con la sua dimensione morale e spirituale.

“L'uomo è in grado di mangiare qualsiasi cosa.
Ha la capacità di digerire zampe di cadaveri mummificate, rocce,
miceti e secrezioni irrancidite e fermentate delle ghiandole
mammarie. Ovvero, prosciutto, sale, funghi e formaggio,
se detti così vi piacciono di più”. (Jasmina Trifoni)

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