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L'estrazione del prezioso minerale, indispensabile per la fabbricazione di prodotti high-tech, alimenta guerra e sfruttamento nella Repubblica Democratica del Congo
Coltan è l'acronimo con cui è nota una varietà di columbite-tantalite relativamente ricca di tantalio, prodotta in Australia, ma, soprattutto, nella Repubblica Democratica del Congo, ex Zaire e fino al 1960 colonia belga. Nelle foreste pluviali di questo paese, situate nelle regioni confinanti con Ruanda e Uganda, migliaia di persone, armate di machete, ascia, pala e qualche panno, lavorano in assenza di tutele e a ritmi disumani, per estrarre il prezioso e raro minerale. Molti sono bambini, le cui dimensioni consentono loro di penetrare in profondità nelle miniere. Il mercato del coltan, inoltre, ha dato vita a una serie di “attività collaterali”, come quelle di chi affitta stanze, spesso con prostitute incluse nel prezzo, o di chi “protegge” i minatori dalle bande di rapinatori, all'interno di una sorta di racket delle estorsioni: sia le stanze, che le prostitute, che le milizie armate sono a carico del lavoratore. Così, anche se le retribuzioni sono le più alte del paese, una grossa fetta finisce nelle tasche di trafficanti (di donne) e formazioni armate.
I conflitti che hanno interessato il paese negli ultimi decenni, culminati con una crisi umanitaria ancora in corso, non hanno ricevuto sufficiente attenzione da parte della comunità internazionale, a parte le opere di mediazione sfociate in fragili tregue (la situazione, soprattutto nelle province orientali resta tesa). Basti pensare che uno di questi conflitti si è verificato negli anni '90, lo stesso decennio che ha visto crescere le vendite di coltan del 300 percento. Questo minerale, o meglio il tantalio che contiene, è indispensabile per la fabbricazione di prodotti come telefoni cellulari, satelliti, televisori al plasma, dispositivi MP3 e MP4, fotocamere, ma anche i sistemi computerizzati di razzi spaziali e missili e, in generale, i sistemi elettronici militari. Tutti prodotti che alimentano una parte consistente del mercato internazionale. A nulla sono servite le segnalazioni da parte di organizzazioni umanitarie sul fatto che l'esercito del Ruanda, quando controllava la regione del Kivu, avesse sfruttato prigionieri di guerra per il lavoro nelle miniere. Anzi, la stessa caccia al coltan ha alimentato le rivalità tra fazioni, in parte perché ha reso economicamente strategiche le aree ricche di questo minerale, in parte perché le milizie armate spesso controllavano direttamente le miniere.
Ugualmente devastante l'impatto delle estrazioni di coltan sulle foreste pluviali e, in generale, sull'ecosistema del paese. Per scavare le miniere, infatti, è necessario disboscare, quindi privare la fauna locale del suo habitat naturale. Si stima che la popolazione degli elefanti sia diminuita dell'80 percento, mentre quella degli elefanti ha subito una flessione del 90 percento. Inoltre, il lavoro nelle miniere, che può fruttare dai 10 ai 50 dollari la settimana (quando lo stipendio medio è di 10 dollari al mese), ha provocato il crollo della produzione agricola, impedendo alla popolazione di conquistare la sicurezza alimentare. Per lo stesso motivo, molti bambini abbandonano la scuola per fare i minatori, un ulteriore colpo all'economia. Anche se l'era del colonialismo è finita, la decolonizzazione non è stata un processo verso l'autosufficienza, come aveva auspicato per l'Africa l'ex presidente del Burkina Faso Thomas Sankara, ucciso nel 1987 nel colpo di stato organizzato dal suo ex alleato Blaise Compaore. Il coltan, come il petrolio libico o gli scisti bituminosi del Congo Brazzaville, fa gola a multinazionali che trattano prodotti di fondamentale importanza per i mercati internazionali. Lo stesso meccanismo che privilegia agricoltura e pesca industriali, basate sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, rispetto a quelle su scala familiare, che al contrario potrebbero creare uno sviluppo solido ed ecosostenibile.
Fino al 31 marzo è possibile visitare a Roma, presso i locali della Vertecchi in via Pietro da Cortona n. 18, la prima mostra della giovane pittrice Alice Fois. Abbiamo ora l’occasione di rivolgerle alcune domande sulle sue tele e sull’arte in genere.
D. Come e quando è nata la passione per la pittura e in che modo è diventata così preponderante nella tua vita?
É una passione che ho fin dalla primissima infanzia. Da sempre infatti il disegno, e in seguito la pittura, sono stati fra i miei principali interessi. Fin da bambina passavo quasi tutto il mio tempo con la matita in mano ritraendo quasi esclusivamente animali. Una passione che é sempre stata più di un hobby, una che non ho mai abbandonato e che si é sviluppata, e perfezionata, con il passare degli anni.
D. Come mai la passione per i cani come soggetti dei tuoi quadri?
Il mio amore per gli animali é sempre stato a tutti molto evidente, ma i cani occupano nelle nostre vite un ruolo talmente importante, tale é l’affetto che si nutre nei loro confronti, da essere sempre stati tra i miei soggetti prediletti. Questo amore é ovviamente esploso nel momento in cui ho preso il mio, ed unicamente mio, primo cane, tre anni fa. L’idea di ritrarre su commissione i nostri amici a quattro zampe é nata per caso, al parco. In poco tempo si é sparsa la voce e in tanti volevano un quadro del proprio animale perché non era un semplice ritratto ma una parte di cuore su tela.
D. Cosa ti piace di più nella pittura, il momento creativo, la fase della creazione o la progettualità dell’opera?
Il momento che preferisco é quello appena prima di cominciare il dipinto, quando ricevo le foto dell’animale da ritrarre, ne immagino il carattere, l’indole, osservo nel dettaglio l’espressione degli occhi. Mi hanno detto spesso che riesco a catturare l’anima del cane, del gatto o del cavallo in questione, e questo credo sia dovuto a quella prima importantissima fase di ogni mio lavoro.
D. L’ispirazione è sempre un momento emozionante per l’artista, a te cosa suscita e come avviene?
Ci sono delle mattine in cui veramente non vedo l’ora di mettermi a dipingere, per provare una nuova tecnica o cominciare un cane che mi piace particolarmente o realizzare una richiesta diversa dal solito. In ogni caso da sempre la mia ispirazione sono quegli sguardi muti, che senza l’uso della parola sono in grado di mostrare delle emozioni che veramente sorprendono.
D. Nonostante la giovane età, hai fatto della pittura la tua professione. Prossimi progetti dopo questa prima esposizione? Hai contatti con pittori di altri paesi per uno scambio culturale?
Essendo un’autodidatta e quindi non avendo frequentato ambienti dediti alla pittura, sono del tutto nuova al mondo dell’arte e degli artisti. In occasione della mia prima mostra ho però avuto modo di conoscere tanti pittori, ma per ora non prevedo scambi culturali. I commenti positivi e l’entusiasmo per le mie opere hanno superato le mie aspettative, spero quindi di avere presto la possibilità di esporre ancora.
Frammenti che orbitano qua e là, individuati, carpiti; li commento e condivido con voi.
VINITALY edizione n. 50, da vivere, godere, “da bere”.
(fonte: press office veronaFiere)
Ecco le Novità in frammenti (fonte: press office veronaFiere):
Frammento n. 1
La novità in assoluto: Vinitaly 2016 aperto ai solo operatori business, sommeliers e stampa specializzata.
“L’ingresso a Vinitaly, dal 10 al 13 aprile a VeronaFiere, è riservato solo agli operatori business, ma per il grande pubblico degli enoappassionati dall’8 all’11 aprile nel cuore storico di Verona ci sarà Vinytali and the City: un vero e proprio fuori salone con degustazioni di vino e cibo, spettacoli musicali e culturali, dj set e incontri sul tema enogastronomico. Notte viola sabato 9 aprile. In arrivo cantanti da Sanremo, big e giovani.” Finalmente qualcosa si muove per arginare scene imbarazzanti che tutti gli anni abbiamo registrato. Allineamento con gli altri eventi mondiali. Arriveremo al Vinitaly con solo invito? (Bordeaux docet). Per maggiori info visitare il sito www.vinitalyandthecity.com
Frammento n. 2
Calici dal Mondo al 50° Vinitaly
“Grandi vini di Francia, Spagna, Regno Unito, Portogallo, Australia, Argentina, Ungheria, Ucraina, Romania, Georgia, Azerbaijan, Svizzera, Serbia, Slovenia, Croazia e, per la prima volta, Cina nei padiglioni, nelle esclusive degustazioni di Vinitaly e nel Taste and Buy”. Vinitaly apre il padiglione I (a sinistra dopo l’entrata principale) al vino del resto del mondo. Quest’anno la Spagna sarà la protagonista con una grande collettiva di ben 18 cantine a rappresentare l’intero suo territorio vinicolo. Forte di ben 90 Dop e 41 Igp. Una grande occasione per approfondire la conoscenza. Sicuramente il padiglione della Cina, visto il grande successo di presentazione dei vini cinesi al Vinexpo di Bordeaux edizione 2015, sarà frequentatissimo. Come non esserci!
Frammento n. 3
Vinitalybio e Vivit.
Aziende estere anche tra i vini biologici di Vinitalybio (da questa’anno collocato nel padiglione 8, dove sono presenti altri vini spagnoli, rumeni e francesi. Spostamento al padiglione 8 anche per Vivit che ospiterà vini internazionali provenienti da Francia, Argentina, Slovenia.
Frammento n. 4
Vinitaly Internacional Accademy
A Vinitaly 2016 il vino sarà business ma anche cultura. Degustazioni sempre più prestigiose ed uniche. Le executive class organizzate dal Direttore Scientifico Ian D’Agata, con protagonisti i migliori vini del panorama mondiale. Uno fra i tanti? Pinot Gris Clos Saint-Urbain Rangen de Thann di Zind-Humbrecht.
Segnalazioni:
Save to Date
Lunedì 11, per la prima volta al Vinitaly, tasting sui vini cinesi!!! Sempre Lunedì 11, nell’ambito di Tasting Ex…press, i vini della Tasmania!!!
Frammento n. 5
e non potevano mancare i Premi. 5 Star Wines
“Giudici specializzati per aree produttive, in grado di comprendere la qualità sulla base delle specifiche peculiarità del luogo di origine dei vini e valore espresso in centesimi: sono queste le principali innovazioni proposte dal nuovo premio, ma non le sole. Con 5 Star Wines, Vinitaly offre ai vini che superano i 90 punti uno strumento di marketing estremamente moderno ed efficace, perché comprensibile e riconoscibile dai consumatori di tutto il mondo” In termini più semplici significa avere la possibilità di apportare in etichetta il logo specifico del premio contenente il punteggio ricevuto. Dal Concorso Enologico Internazionale nato 22 edizioni fa al Nuovo “5 Star Wines. Non più primo, secondo, terzo premio o medaglia d’oro, argento e di bronzo, nemmeno menzioni, ma solo il logo e, all’interno, il punteggio in centesimi ottenuto. “Questo renderà più trasparente il rapporto con il mercato, dove a un premio corrisponderà un valore reale, immediatamente codificabile dal consumatore e dal Buyer” Insomma una vera garanzia e trasparenza.
Conclusioni:
Un Vinitaly veramente da vivere, godere, “da bere”.
Osservo, scruto, assaggio e…penso. (urano cupisti)
(Foto Vinitaly)
Il cristiano fa riferimento a quanto riportato nella Bibbia (da cui troppo spesso prende solo ciò che può giustificare il suo comportamento nei confronti del mondo animale), un testo attribuito a Mosè vissuto circa 1300 anni prima di Cristo, mentre alcuni storici affermano che probabilmente fu redatta tra il 9° e il 2° sec. a. C. e sarebbe come se oggi si volesse riportare il pensiero orale e gli avvenimenti accaduti nel Rinascimento.
Un testo considerato sacro, anche se è stato la causa di guerre e crimini di ogni genere. Un testo che mentre invita alla misericordia autorizza la schiavitù, il predominio ed il massacro sistematico di uomini ed animali.
Non un dio d’amore e di giustizia, non un dio universale, ma palesemente di parte a cui sta a cuore solo la sorte di un popolo che considera destinato a
dominare sugli altri. In questo contesto la Bibbia è stato ed è anche la causa di ogni rottura di relazione morale tra l’uomo e l’animale.
Contrariamente alla ricca tradizione di pensiero manifestata da molti santi e dai padri della chiesa in relazione agli animali, si sviluppa nel cristianesimo una visione dell’uomo come dominatore incontrollato dell’universo, che legittima lo sfruttamento incondizionato degli animali e dell’ambiente naturale, ignorando quella affinità fra gli esseri umani e gli animali trasmessa anche dalla cultura filosofica greca alla cultura giuridica romana, nel rifiuto dei sacrifici di animali e nella individuazione di un diritto (ius naturale) comune a uomini e ad animali.
Resta il quesito: perché mai l’uomo nel paradiso terrestre poteva vivere dei frutti degli alberi e l’uomo dopo il Peccato ha necessità di mangiare la carne, cioè una sostanza adatta agli animali predatori che causa gran parte delle peggiori malattie conosciute? Un alimento che non consente nemmeno gli
animali carnivori di vivere se unitamente alla carne non consumano anche erba, germogli e frutta. La superiorità dell’alimentazione vegetale appare
evidente dal fatto che se nella dieta si escludono gli alimenti di derivazione animale si continua a vivere in ottima salute, mentre se si escludono i prodotti vegetali si va incontro inevitabilmente a malattie e a morte precoce.
Chi può assicurarci che ciò che viene riportato come volontà di Dio non sia invece una manovra intesa a favorire una certa prospettiva quando non è un
adattamento alle esigenze soggettive del ricevente (ammesso che di tale si tratta)? Chi ci dice che quel che è scritto riporti il vero pensiero di Dio o se invece non sia stato manomesso per errore di trascrizione o adattato alle esigenze storico/contestuali del regnante di turno? Come si può credere ciecamente, fino a dare la propria vita, o addirittura togliere ad altri la vita, per tenere fede a prescrizioni che altri dicono di aver ricevuto da Dio?
E’ tempo di superare la perniciosa convinzione che ciò che è scritto su carta o pergamena sia la volontà di Dio, anche se ciò non esclude che lo sia; ma ritengo che nessuno abbia mai avuto la più pallida idea, la più sbiadita ombra di cosa possa essere Dio, né conoscere il suo vero pensiero.
La fede cieca ed assoluta è sempre stata fonte di lutti e rovine. Nulla è più pericoloso delle certezze mentre una disposizione al dubbio su tutto ciò
di cui non abbiamo diretta conoscenza ci farebbe sicuramente vivere meglio e in pace, soprattutto nella valutazione delle conseguenze che hanno generato nel corso della storia.
Occorre saggezza, prudenza e senso critico e quando incontri un uomo, un animale o una pianta e sei consapevole che hai di fronte tuo fratello forse
puoi dire di aver percepito il vero pensiero di Dio. Un giorno le future generazioni guarderanno con orrore a noi che per millenni abbiamo ucciso e
mangiato i nostri fratelli animali con lo stesso orrore con cui noi oggi guarderemmo ad una progenie di Angeli che usassero mangiare esseri umani.
Come è difficile riconoscere l’antica Roma nelle rovine del Foro Romano, del Palatino, dei Fori Imperiali.
Come è difficile ricostruire con l’immaginazione i grandiosi edifici, seppure a partire dalle poderose e imponenti murature che ne restano.
Come è difficile capire che Roma antica non si limitava a questo cuore congelato nel tempo, ma vive sotto le trafficate strade di oggi, sotto le chiese e le case.
La Roma antica come la vediamo ora nel Foro, non è mai esistita, è una creazione degli scavi del XIX e del XX secolo.
Nel 1900 viene distrutta la chiesa di Santa Maria Liberatrice al Foro e riemerge la chiesa di Santa Maria Antiqua, identificata dall’archeologo Giacomo Boni. Oggi considerata raro tassello medievale nel cuore antico della città, in realtà, testimonianza della continuità della storia millenaria della capitale.
Con l’imperatore Costantino arrivano la libertà di culto per i cristiani e le prime basiliche, dislocate lungo le vie consolari o, comunque, lontano dal polo politico-religioso pagano. Tanto che il cristianesimo, una volta affermato, creerà la basilica di Santa Maria Maggiore che, insieme ad altre limitrofe, sarà d’appoggio alla basilica di San Giovanni in Laterano per la creazione di un nuovo e alternativo polo religioso.
Nel VI secolo la trasformazione di alcuni dei templi pagani del Foro in chiese, è, per il cristianesimo, un avvicinamento a quello che, in passato, era il centro politico e religioso della città. Per gli edifici pagani, ormai in disuso, è occasione di trasformazione, ma anche di restauro.
Costantino aveva spostato la capitale a oriente, ma la memoria di Roma è ancora viva: la chiesa di Santa Maria Antiqua è frutto e testimonianza di tutto questo.
L’imperatore Caligola nel I secolo d.C. espande la residenza imperale del Palatino nella valle del Foro, vicino al tempio di Castore e Polluce, alla Basilica Giulia e al tempio di Augusto. In seguito anche Domiziano utilizzò e mise mano a questi edifici. Alle spalle del tempio di Augusto c’era una biblioteca, identificata, da una parte degli studiosi, con le murature che delimitano l’atrio della chiesa. Nel presbiterio e nelle due cappelle laterali, sopravvivono lacerti di decorazione pittorica di età adrianea e tracce di quella in opus sectile, realizzata con marmi policromi intagliati.
Parte dei brani di affresco nella navata centrale e nel presbiterio risalgono al 649-653 quando papa Martino I commissiona la decorazione. Ma l’intervento più importante è quello di Giovanni VII, che, educato nell’ambiente dell’amministrazione bizantina stabilitasi al Palatino, trasferì il patriarchìo, sede papale, dal Laterano, nella ex residenza imperiale. Tra il 705 e il 707 fa realizzare le pitture nel presbiterio e nella cappella dei Santi Medici, testimonianza della lotta iconoclasta e della continuità d’uso. Infatti proprietà curative erano attribuite, in epoca pagana, alla fonte di Giuturna, vicina alla chiesa e, nella cappella, continuava la pratica dell’«incubatio». Il malato poteva dormire sul pavimento della nicchia dei Santi Medici, nella speranza di svegliarsi guarito, così come accadeva, in precedenza, nei santuari pagani. Non bisogna dimenticare che nei pressi della chiesa si trovava una diaconia, istituzione religiosa per la cura dei poveri, dei malati e dei pellegrini.
L’altra cappella è dedicata ai Santi Quirico e Giulitta dal donatore Teodoto, funzionario di papa Zaccaria 741-752, che spostò dalla corte bizantina, verso quella dei Franchi, gli interessi del papato.
L’ultimo intervento decorativo dell’abside, insieme ai cicli di Antico e Nuovo Testamento nelle navate laterali, risale a Paolo I e agli anni 757-767.
Nel 772-795 Adriano I fa realizzare il ciclo pittorico nell’atrio, ne è esposto un frammento staccato negli ambienti della rampa imperiale che, dal fianco della chiesa, giungeva al Palatino e che, in parte, è stata riaperta al pubblico qualche mese fa.
Nell’847 il terremoto distrugge la chiesa che viene abbandonata. L’icona della Vergine, insieme al titulus, vengono trasferiti alla chiesa di Santa Maria Nova, attuale chiesa di Santa Francesca Romana al Foro, dove, la più antica icona romana, tornerà dopo l’intervallo della mostra.
Nell’XI secolo nell’atrio di Santa Maria Antiqua, fu creata la chiesa dedicata a S. Antonio di cui sopravvivono brani pittorici nelle murature.
La comprensione della complessa storia di Santa Maria Antiqua e la ricostruzione delle decorazioni è efficacemente supportata da video e dal video mapping delle cappelle e della zona absidale. I sette strati della famosa parete palinsesto sono illuminati progressivamente distinguendo le fasi cronologiche (utile anche il sito della Soprintendenza).
Le opere selezionate per la mostra servono a contestualizzare l’edificio tra queste: all’ingresso le sculture raffiguranti Amalasunta figlia di Teodorico o l’imperatrice Ariadne; i brani di mosaico da Santa Maria in Cosmedin e da Orte, ma originariamente nel distrutto oratorio di Giovanni VII presso la basilica costantiniana di San Pietro.
Tra i sarcofagi stabilmente nella chiesa, va ricordato quello di Giona nella navata di sinistra.
Accompagna la mostra, curata dalla professoressa Maria Andaloro con Giulia Bordi e Giuseppe Morganti, un corposo catalogo edito dalla Electa.
All’esposizione si accede con il biglietto di ingresso al Foro Romano negli stessi orari di apertura
per informazioni consultare il sito .
Non c’è tre senza quattro! È da questa riflessione che si arriva al nostro ristorpizza “Olio&Farina”; vediamo i precedenti.
La prima attività nasce a Napoli agli inizi del 1900 dall'unione di due famiglie: i D'Elia e i Fiorenzano.
I D'Elia erano già noti sin dal 1800 per la preparazione dei fritti poveri napoletani, in una piccola bottega, in Via dei Ventaglieri.
La seconda attività viene fondata nel 1920 con la denominazione "Friggitoria Fiorenzano" in Via Porta Medina 35, a Napoli.
Da sin. Francesco del Bene in arte "Franky", Mimmo Lomartire, |
Nel 1932 la friggitoria riceve il premio della fiera dell’Esposizione del Littoriale di Bologna e dal magistero scientifico italiano di Roma viene premiata con medaglia d'oro.
La terza attività, dopo il bombardamento del 4 agosto 1943 da parte degli Alleati, la “Friggitoria Fiorenzano”apre alla clientela a Piazza Montesanto e vi rimane in attività fino al 2009.
Si volta pagina, e la quarta attività si inaugura proprio qui a Roma nel dicembre 2015, assumendo il nome di “Olio&Farina”, all’Appio Latino, in Via Arrigo Davila 83,vicino alla fermata della Metro Colli Albani, e l'arte culinaria secolare della famiglia napoletana di Salvatore Fiorenzano ben presto viene così apprezzata dai palati romani più esigenti anche per merito dei due pizzettari instancabili, Francesco Del Bene, detto Frank, e Ciro D’Elia, che nel bancone a vista con grande vetrata che s'affaccia sulla strada, usando lievito madre, preparano, spianano, condiscono pizze gigantesche cotte nel forno a legna, che ha il pregio di profumare l’aria del quartiere.
“Olio&Farina” nasce da una centenaria tradizione famigliare. Nella cucina del Ristorante, per la preparazione dei piatti e per le pizze tradizionali napoletane, si utilizza solo ed esclusivamente olio extra vergine italiano prodotto nella Sabina romana, nella Puglia e nella Campania ovvero, nei posti patria dell’ulivo.
Per soddisfare i palati più esigenti, per essere certi di poter recapitare anche a domicilio un prodotto di altissima qualità, nasce la volontà di unire e avvicinare direttamente il produttore al consumatore, ossia dare forma ad una vera e propria filiera corta.
È interessante sapere che si può prenotare da “Olio&Farina” la scorta di olio per la nostra cucina familiare con Olio Extra Vergine d'Oliva e, ben presto anche la scorta di farina di ogni gradazione: dalla farina 1 integrale alla 0 e alla 00.“Olio&Farina” cura la salute della propria clientela!
Oggi come allora il motto della loro attività è la genuinità e l'utilizzo di prodotti genuini. Specializzati nella vera pizza napoletana, lievitata ad arte con lievito madre, il lievito più digeribile in assoluto, e preparata da Frank.
I fritti |
Da “Olio&Farina”si possono assaporare degli ottimi piatti sia di carne scottona italiana, che di pesce freschissimo, così come lo è la pasta all’uovo e i pomodori che si usano. E poi, e poi... il fritto napoletano, i fiori di zucca con alice e mozzarella insomma, è tutto da provare!
La filosofia principe di “Olio&Farina”, è quella di offrire cibi e prodotti veramente freschi e far sentire a proprio agio i clienti, proprio come si sentirebbero a casa loro.
“Olio&Farina” pizzeria al forno a legna, ristorante, bisteccheria, ottima cucina, ottimo vino, ed ottima gestione con personale dedito alla clientela ed ottimo rapporto qualità-prezzo completamente nuovo negli arredi sobri e originali nello stile essenziale;“Olio&Farina”, un vero ristorante all’altezza delle amicizie e delle famiglie da riunire per passare momenti rilassanti. È comunque il personale, il punto di forza trainante di tutto il complesso ristorativo. Luca, il figlio di Ciro, e Nicola che con la loro cordialità e precisione accompagnano gli “ospiti” ai loro tavoli facendoli accomodare carpendo i desideri culinari che in breve tempo saranno realizzati dai mastri cuochi, Frank Franky il pizzettaro pugliese, Ciro il napoletano e Tina che è la moglie, oltre al ragazzo del Bangladesh, addetto alla lucidatura delle stoviglie.
Ehi, ragazzi, questa sera ci incontriamo da “Olio&Farina” nel VII Municipio, all’Appio Latino! “Olio&Farina”, il ristorante dedicato alle famiglie dove i bambini hanno il loro piccolo spazio giochi. Il ristorante di Via Arrigo Davila 83, “Olio&Farina”, nel cuore del VII Municipio, si propone come un punto di riferimento imprescindibile per le famiglie romane, dove la sensibilità dei ristoratori propongono anche menù pensati per i più piccoli o per i più grandi ovvero, i nonni dei piccoli! Ottimi tagli di carne sono esposti sotto vetro, fiori di zucca fritti in pastella ed acciugate con bruschette di pane della casa si accompagnano alla birra alla spina servita in pinte o a vini delle migliori vigne del territorio italiano. “Olio&Farina”è un ristorante pizzeria, bisteccheria, dedicato a chiunque voglia trascorrere in relax e in gioia la consumazione del cibo. I menù sono pensati e realizzati per accontentare il gusto e le necessità alimentari di famiglie, bambini, studenti, single, non più giovani e coppie varie. I gruppi per i compleanni, i battesimi, le comunioni, i matrimoni, le feste di laurea, e le festività in genere, si potranno radunare anche in grandi tavolate e approfittare così di menù concordati per tutte le esigenze e ricorrenze. Prima del saluto si consiglia la mousse al pistacchio, la crostata, la pastiera e i babbà, il tiramisù, la
Frank |
sbriciolata di frutti di bosco, la crema napoletana che è meglio della catalana, e tutti i dolci della casa proposti.
Voglio evidenziare che “Olio&Farina” nasce dalla tradizione napoletana più di mezzo secolo fa ed oggi eccolo qui a Roma con tutti gli odori ed i sapori della tradizione napoletana, non disdegnando la pugliese, e la romana! Ah, dimenticavo di suggerirvi gli spaghetti alla carbonara, i bucatini all’amatriciana, le penne alla gricia e i rigatoni alla puttanesca con olive e capperi! Resta comunque un ristorante specializzato nell'arte culinaria napoletana, mettendo al primo posto i fritti fatti al momento con l'olio della casa, che si potrà anche acquistare.
Chiaramente sono specializzati nella vera pizza napoletana, condita con olio fresco su una nevicata di mozzarella e pomodoro, dove l’alice ancora nuota nel golfo di Napoli, in vista di Capri e Procida mentre il Vesuvio se la fuma!“Olio&Farina” è uno di quei locali che una volta provato, difficilmente si dimentica e non vedi l'ora di tornare a gustare le specialità genuine della tradizione napoletana, e non solo. Ricordo alla clientela che la loro filosofia è quella di offrire cibi e prodotti veramente freschi e far sentire a proprio agio i clienti, il tutto a prezzi veramente contenuti. Il cliente si sente così coccolato, perché risalta evidente l’impegno profuso dai camerieri per accontentare e saziare, viziare e soddisfare tutta la clientela con tutti i loro gusti. Non perdete tempo, chiamate per prenotare il vostro tavolo e citando questo articolo avrete addirittura uno sconto del 10% sul menù alla carta.
È stata inaugurata venerdì 19 marzo nella splendida cornice del Teatro Signorelli di Cortona, la mostra “Gli Etruschi maestri di scrittura”, evento organizzato da Museo del Louvre, dal sito archeologico LattaraMuseo Henri Prades di Lattes - Montpellier, e dal MAEC di Cortona.
Frutto dell’incontro e della collaborazione delle strutture museali francesi delLouvre e del Museo Henri Prades di Lattes Montpellier con il Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona, la mostra è stata inaugurata lo scorso 19 marzo e resterà presso il MAEC sino al 31 luglio 2016.
L’esposizione, che ha ricevuto un grande successo in Francia, presso il Museo di Lattes fino al 29 febbraio scorso, prosegue ora nel suo percorso in Italia, rientrando così in terra etrusca.
Da più di trent’anni non venivano organizzate mostre sulla scrittura etrusca e recentemente, dopo alcune scoperte di epigrafi etrusche vicino Montpellier e al ritrovamento a Cortona del terzo testo etrusco esistente più lungo, la Tabula cortonensis, i tre musei hanno deciso di progettare questo grande evento archeologico.
L’originalità di questa esposizione sta nel fatto che in questa sede la scrittura viene studiata come elemento culturale che può far passare una società dall’oblio alla memoria. In questo senso le iscrizioni rinvenute sugli oggetti esposti, (sia su oggetti di uso quotidiano, su oggetti di culto, su statue o su atti) sono classificate per settori di appartenenza: dalla sfera del rito a quella del sacro, dall’ambito funerario a quello giuridico. In questo modo è possibile notare come nell’arco di circa 7 secoli la scrittura abbia occupato il suo posto nella società etrusca sia in ambito religioso che economico o giuridico.
Ospite d’eccezione dell’esposizione è la così detta Mummia di Zagabria, una delle testimonianze più importanti dell’epigrafia etrusca insieme alle lamine di Pyrgi. Si tratta del testo etrusco più lungo (più di 1000 parole), riportato sulla tela che avvolgeva la mummia; la risorsa più preziosa per gli studiosi della scrittura etrusca. I reperti esposti, provenienti da alcuni dei più importanti musei del mondo, dimostrano chiaramente la diversità dei supporti e delle tecniche di scrittura, così come le scoperte degli ultimi anni di studi in materia.
aaAll’inaugurazione,che ha avuto luogo venerdì 19 marzo presso il Teatro Signorelli di Cortona,erano presenti,in rappresentanza dei complessi museali interessati: Laurent Haumesser, Conservatore sezioneantichità greche etrusche e romane del museo del Louvre; SajinMihelic Direttore Museo Archeologico di Zagabria, Paolo Giulierini Direttore del MANN di Napoli, Lionel Pernet Direttore Museo cantonale Archeologico di Losanna; Florence Millet conservatrice del Museo Archeologico di Lattes Montpellier;Paolo Bruschetti presidente del MAEC di Cortona.
Una mostra dunque che ha interessato tre Paesi, (Italia, Francia e Croazia), sei musei, (MAEC, Louvre, Lattes – Montpellier, Zagabria, Losanna e Napoli).
Un progetto nato dalla collaborazione di tre grandi poli musealiche progressivamente ne hanno inglobati altri, caratterizzato quindi da un’apertura e uno scambio culturale e umano, a dimostrazione che la cultura può essere realmente via di incontro come lo è stata per gli etruschi. L’auspicio degli organizzatori infatti è di recuperare uno spirito collaborativo e di incontro, di scambio e di circolazione di espressioni di un passato comune.
Un percorsoche, come sottolineato dal Sindaco Francesca Basanieri, ha posto al centro la cultura educativa con un risvolto nel sociale. Importante infatti, è ed è stata la partecipazione attiva della cittadinanza di Cortona proprio perché la cultura può “unire e riunire popoli del Mediterraneo”.
Interessanti le attività collegate alla mostra come ad esempio la proposta di laboratori di didattica sperimentale per ragazzi e attività per adulti; visite didattiche per portatori di handicap visivo e aggiornamento-formazione continua per insegnanti ed educatori e, per finire, il concorso letterario per racconti brevi inediti “Scribiamo! Narrazioni etrusche”. Inoltre, durante tutto il periodo di esposizione della mostra, saranno proposti incontri con specialisti della disciplina epigrafica.
Sembra proprio questo il momento propizio per approfondire lo studio sugli etruschi: infatti in contemporanea, dal 19 marzo fino al 30 giugno, sarà possibile visitare al Museo di Palazzo Pretorio di Prato la mostra “L’ombra degli etruschi” .
Ed è di questi ultimi mesi la notizia di alcuni scavi nell’area di Camuciache stanno facendo emergere strutture murarie e manufatti riferibili ad un vasto e imponente edificio etrusco.
Per info: MAEC, Piazza Signorelli, 9 –
Cortona, tel. 0575.637235;
www.cortonamaec.org,
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All'indomani dell'accordo con Bruxelles sui rifugiati, Ankara non cambia atteggiamento: repressione delle minoranze e dei dissensi interni e interventi “indiretti” nel Kurdistan siriano
Mentre l'Unione Europea conclude con la Turchia un accordo su rifugiati e migranti, Ankara continua le sue operazioni militari nelle regioni sud-orientali, a maggioranza curda. Dal fallimento del cessate il fuoco con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), gli sfollati interni sono oltre 350mila, ma il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan continua a mettere in atto la sua linea dura, forte della maggioranza assoluta in Parlamento (ottenuta lo scorso novembre, al secondo tentativo di elezioni parlamentari nel paese) e del tacito assenso della comunità internazionale. Ponendo sullo stesso piano quelli che ufficialmente ha individuato come “nemici”, il PKK e i cartelli del jihad del cosiddetto “Stato islamico” (Daech), Ankara aveva già lanciato un chiaro messaggio: nessuno si intrometta nella questione kurda. Così, nessuna istituzione sovranazionale ha avuto alcunché da obiettare sul sostegno turco ai Nipoti di Saladino, formazione armata curda integrata nell'Esercito siriano libero (ESL).
Una qualsiasi forma di autonomia nelle regioni curde siriane è, dal punto di vista del governo turco, una minaccia alla propria integrità territoriale, da scongiurare ad ogni costo. Un atteggiamento analogo a quello mostrato nei confronti della minoranza politica, in occasione dell'ingresso in Parlamento di rappresentanti del Partito democratico dei popoli (HDP, partito moderato filocurdo), a seguito del quale tutte le trattative per un governo di coalizione sono fallite. Se all'interno, anche nei confronti del dissenso, Ankara sceglie la linea della repressione, al di fuori dei suoi confini predilige l'intervento indiretto. In Turchia, infatti, hanno il loro quartier generale i Nipoti di Saladino, potenziali fattori di indebolimento del PYD e di destabilizzazione di un'eventuale regione autonoma curda in Siria. Il paradosso è che Mahmoud Abou Hamza, comandante dei Nipoti di Saladino ha dichiarato ultimamente che la sua organizzazione gode del sostegno degli Stati Uniti: “La Turchia non ci sostiene con le armi. Le nostre armi sono americane”.
Dunque, gli USA, che sostengono il PYD elogiandone i successi contro Daech, sono al contempo alleati di una fazione curda costituita per combattere il PYD e le sue Unità di difesa popolare (YPG): “Loro sono contro i Curdi. Questi gruppi tentano di scatenare una guerra settaria tra Arabi e Kurdi … Se non si ritirano da Tal Rafat e dalla base aerea di Menagh, noi li combatteremo nell'area tra Jarablus e Azaz”, una zona attualmente controllata dai cartelli del jihad. Come sulla questione rifugiati, anche sulla guerra in Siria (che ne è la causa) la comunità internazionale si limita a fornire aiuti ad alcune parti in causa, che non sempre sono in accordo tra loro. Il risultato è lo stesso degli ultimi decenni: intervenire nei conflitti presenti seminando conflitti futuri.
Il Salone Internazionale del Vino e dei Distillati si presenta
Presentato a Roma nei giorni scorsi presso il Congress Center del Roma Eventi Piazza di Spagna la 50° Edizione del Vinitaly, il Salone Internazionale dei Vini e Distillati al cui interno trovano spazio Sol&Agrifood (Salone dell’Olio e prodotti agricoli) e Enolitech (il reparto sempre più visitato delle tecniche ed attrezzature al servizio dell’Aziende vitivinicole). La Manifestazione che si svolgerà a Verona dal 10 al 13 Aprile apre da quest’anno ad iniziative che porteranno a cambiamenti importanti tendenti a superare problematiche dovute alla crescita stessa negli anni. Già la decisione di ridurre da cinque a quattro le giornate di fiera, avvenuta alcuni anni indietro, unitamente al rilascio dei biglietti nominativi, restringere il consegnare dei biglietti a riduzione, dovrebbe arginare il fenomeno della presenza dei Wine Lover troppo Lover.
Per l’edizione del cinquantesimo sono previsti investimenti sostanziosi per incoming, strutture, servizi, servizi alle aziende e agli operatori professionali provenienti da ben 141 paesi.
Ma la novità portante di questa edizione è: i Buyer in Fiera e i Wine Lover nel fuori-salone in città.
Duplice scopo: favorire meglio gli incontri d’affari e far vivere la magia del Vinitaly ai numerosi Wine Lover in uno spazio a loro dedicato nel centro storico di Verona con un ricco programma di degustazioni ed eventi nel fuori-salone Vinitaly and the City.
Aumentano le presenze estere nel padiglione Vininternational. Sarà la Spagna la Nazione protagonista con 18 cantine a rappresentare tutti i suoi territori vinicoli.
Francia, Svizzera, Australia, Portogallo, Argentina, Serbia insieme a Regno Unito, Georgia, Azerbaijan e per la prima volta la Cina.
Maurizio Danese, Presidente di VeronaFiere, nel ricordare i numeri dell’export vinicolo italiano ed indicando l’obiettivo di raggiungere i 7,5 miliardi di euro di esportazioni da qui al 2020, ha spiegato e rammentato che:” Per raggiungere questo risultato è necessario che tutti gli attori agiscano in una logica di rete”. Un impegno che ha inizio proprio da questa edizione con molte novità come la netta divisione tra b2b, acronimo che significia business-to-business (commercio internazionale) e b2c, business-to-consumer (relazione tra imprese e la clientela).
Giovanni Mantovani, Direttore Generale di VeronaFiere, ha ricordato che “ per il 2016 VeronaFiere ha investito 8 milioni di euro per aumentare il già alto tasso di internazionalità di Vinitaly con 55mila operatori stranieri in rappresentanza di 141 nazioni e 1.000 buyer selezionati in più all’estero.
Ma Vinitaly non è e non può essere solo business internazionale.
Vinitaly International Accademy continuerà a promuovere su tutti i mercati la forza espressiva del Vigneto Italia. “ La più grande biodiversità al mondo (oltre 500 varietà autoctone) va anche spiegata, per non ingenerare confusione in un importatore o in un consumatore straniero. Ad oggi – ha affermato Ian d’Agata direttore scientifico- abbiamo certificato, tre esperti e 29 ambasciatori del Vino Italiano, che contribuiranno a creare attorno al Vinitaly una vera community globale”.
Senza dimenticare il mercato interno, altrettanto importante al quale bisogna riconoscere di aver accompagnato Vinitaly in questi cinquant’anni facendone la Storia.
Non solo le 48 aziende della prima edizione, 1967 Le Giornate del Vino Italiano – Verona, ma anche tutte le altre che, dal 1971la manifestazione
Urano Cupisti |
diventa Vinitaly, occupano sempre più numerose i 18 padiglioni del quartiere fieristico.
Cinquant’anni di storia del vino italiano, cinquant’anni di Vinitaly
Per ultimo un accenno alla logistica più volte ricordata dal sottoscritto nelle passate edizioni come deficitaria.
“Siamo intervenuti anche sulla logistica del quartiere fieristico. Abbiamo predisposto il rafforzamento della copertura wi-fi in grado di garantire ora il 30% di connessioni in più” parola di Gianni Bruno, area manager wine&food di VeronaFiera. Tutti noi restiamo fiduciosi di questa affermazione. Speriamo anche che la Polizia Locale di Verona abbia in serbo un Piano per la circolazione intorno al Quartiere fieristico da rendere maggiormente facile e fruibile l’accesso e l’uscita dai vari Parking per non registrare e narrare le dolenti note di tutti gli anni unite alle scene raccapriccianti che ne conseguono.
Gli animali da compagnia sono protagonisti, nel bene e nel male, del nostro quotidiano. I più fortunati godono delle stesse attenzioni di cura e bellezza riservate, di solito, agli esseri umani. Attenzioni in vita e in morte, con l’allestimento di cimiteri dedicati.
È di moda far ritrarre il proprio cane o gatto. Ma in realtà non è una nuova tendenza, sopratutto nel mondo anglosassone, c’era e c’è la tradizione di far immortalare in dipinti di artisti, più o meno famosi, alcuni addirittura specializzati nel genere, il proprio cavallo o cane. Anche in altri paesi ed epoche gli animali sono stati ritratti. Del resto il fascino di queste creature, ha fatto sì, che trovassero posto nel Paradiso Terrestre e addirittura nel pantheon di religioni pagane, come divinità. Nei bestiari medievali, vizi e virtù umane, prendevano forme animali
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Fino al 31 marzo presso la filiale Vertecchi di via Pietro da Cortona a Roma, è allestita la mostra di Alice Fois. Sono soprattutto i cani, i protagonisti degli acrilici su tela, ma anche qualche gatto e una giraffa. Sono soprattutto le teste, frontali o di profilo, ad essere indagate con cura, per rendere nei particolari le espressioni, che, a loro volta, mostrano il carattere dell’animale. Lo sfondo è colorato, ma privo di particolari descrittivi, serve ad esaltare l’animale, su cui tutto è focalizzato. Solo uno dei ritratti in esposizione è polimaterico e presenta un collare decorato, in rilievo. Come le espressioni e le inquadrature sono “umane”, così il collare è come un gioiello, a ribadire la “nobiltà”, anche un po’ snob, del protagonista.
In un paese dove vigono ancora le corporazioni medievali tutto tende a perpetuarsi. Questa volta è il caso dell’ordine dei giornalisti nostrano, unico al mondo. Circa un anno e mezzo fa, lancia in spalla il presidente, Enzo Jacopino, aveva denunziato la conduttrice televisiva Barbara D’Urso per “abuso di professione giornalistica”, reato che lo stesso ordine vuole punito con il carcere fino a 2 anni.
la colpa della presentatrice di Mediaset era quella di trattare casi di cronaca nera senza “rispondere a quelle regole deontologiche che impongono precisi doveri ai giornalisti”. Ma il caso vuole che la D’Urso non sia mai stata iscritta all’ordine dei giornalisti per stessa ammissione dell’Ordine, e quindi non si possa accusare di aver violato regole imposte ai giornalisti: un totale controsenso col solo obiettivo di far condannare una persona che svolgeva e svolge il suo lavoro ed esprime le sue opinioni. Ancora una volta il carattere autoritario, corporativo e illiberale di un Ordine che dovrebbe vedere la difesa del diritto alla libertà di espressione e di parola come un valore assoluto,articolo 21 della Costituzione, è esploso virulento, ma ha fatto cilecca: il giudice di Monza ha buttato nel cestino la denuncia contro Barbara D’Urso, accusata di abuso della professione giornalistica. Il gip del tribunale di Monza Giovanni Gerosa, richiamando altre sentenze della Corte Costituzionale, ha deciso per l’archiviazione, richiesta dallo stesso pm, Walter Mapelli, “in ragione della tutela dei diritti fondamentali, quali quello di libertà di manifestazione del pensiero”, articolo 21 della Costituzione. Allora, però, ora si pone un altro quesito: a cosa serve tenere in piedi un Ordine dei giornalisti se è una minaccia alla libertà d’espressione? Non è che basti e avanzi il nostro codice penale per tutelarci dagli abusi di questa?
AL DIRETTORE DE IL FOGLIO, CLAUDIO CERASA
Un vergognoso articolo in prima pagina sul “Il Foglio” di sabato 12 e domenica 13 marzo a firma di Camillo Langone il quale condanna aspramente la
scelta vegan come una tendenza che mette in pericolo le tradizioni culinarie. Per Langone la carne è libertà di espressione, è tradizione e cultura e ognuno deve essere libero di mangiare quello che vuole (ammesso che riesca a mettere da parte la sua coscienza e dimostrare di conoscere gli effetti prodotti di tale primordiale, cruenta, disumana e lesiva abitudine).
In simili reazioni c’è la palese paura che qualcosa o qualcuno possa influire sulle innovazioni fino a rischiare di sottrarre un piacere al quale non si vorrebbe rinunciare, a costo di un cancro, quando non c’è la pressione delle lobby agro zootecniche alimentari di veder ridotti i loro lucrosi guadagni; senza pensare che ad ogni eventuale macelleria che chiude si apre inevitabilmente un negozio di frutta e verdura, a beneficio non solo della salute umana, degli animali, della coscienza, dell’ambiente, dell’economia e, non per ultimo, della fame nel mondo.
Ma si sa, la cultura vegan è per menti più aperte, è per coscienze più vaste, responsabili e lungimiranti, non è per i nostalgici della violenza, del sangue e dei campi di sterminio (leggi mattatoi).
Dopo la dichiarazione di cancerogenicità della carne da parte dell’OMS sostenere, invogliare a consumare carne ci si rende responsabili di tentato genocidio. Ma si rassegni Camillo Langone, la sua visione delle cose appartiene allo stato di primordiale esistenza dell’umano, il tempo in cui per vivere si imitavano gli animali predatori, uno stato di necessità che però ha reso l’animo umano insensibile al dolore del prossimo, che lo ha abituato alla soppressione dell’altro, all’indifferenza verso la sofferenza altrui, al disprezzo della vita in senso lato: da allora gli umani pagano le terribile conseguenze con la violenza, le guerre, le malattie. Si rassegni Langone, l’evoluzione dell’intelligenza e dalla coscienza umana è una realtà inarrestabile e tra non molto, tutti guarderanno con orrore a chi considerava normale, giusto e lecito uccidere animali e mangiarseli cucinati.
Langone è tra quelli che prendono dalla Bibbia solo ciò che serve a giustificare le proprie visioni (ed è per questo che nel corso della storia la religione cattolica si è macchiata di crimini inenarrabili) tralasciando, per es. il fatto che in Gen. 1,29 Dio dà un preciso comando ad essere vegetariani: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e ogni albero in cui è frutto…saranno il vostro cibo…” e che Gesù nell’Evangelo della Pace secondo l’apostolo Giovanni delle chiese cristiane d’Oriente (originale in aramaico del 3° sec. d.C. Bibl. Vat. 156-P) afferma: “Io in verità colui che uccide uccide se stesso e colui che mangia la carne degli animali abbattuti mangia un corpo di morte. Io vi chiederò conto del loro sangue spumeggiante, il loro sangue nel quale dimora l’anima. Io vi chiederò conto di ogni animale ucciso”. Dimentica che il Padreterno, deluso della malvagità umana, autorizza gli umani non solo a mangiare animali ma a scannarsi a vicenda nelle successive guerre di conquista. Dimentica che probabilmente alcune parti dei Vangeli non riportano il vero pensiero di Cristo dal momento che “…non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo…” contamina è come l’uomo dal momento che contamina non solo il suo corpo ma la sua mente e la sua coscienza. Ma lui si sente cristiano perché la sua religione lo autorizza e lo assolve da qualunque violenza nei confronti del mondo animale.
Ci ripensi il Direttore a dare spazio nel suo Giornale ad articoli così insensati e contro l’evoluzione civile, morale e spirituale delle nuove generazioni. E in attesa di un contro/ articolo, se non altro per spirito di democrazia e par condition da parte della cultura vegan, mi asterrò di acquistare il suo giornale e inviterò amici e parenti a fare altrettanto.
Franco Libero Manco
Giù le mani dal mio piatto! Manifesto della libertà di alimentazione
Ogni persona mangiando esprime quello che è e ciò a cui appartiene. Dobbiamo difenderci dallo stato dietista che vieta cibi per compiacere vegani, animalisti e burocrati di Bruxelles: c’è in gioco la nostra libertà di <http://www.ilfoglio.it/camillo-langone___3-f-fa-46_c150.htm> Camillo
Langone | 12 Marzo 2016 ore 06:18
La libertà di alimentazione è il pezzo più gustoso della libertà di espressione. Io mangiando l’agnello pasquale esprimo il mio essere cristiano, mangiando pesto di cavallo esprimo il mio essere parmigiano, bevendo vino esprimo il mio legame con la terra che prima di chiamarsi Italia si chiamò Enotria, e quando riesco a mettere le mani su una bottiglia di vero assenzio ecco che posso esprimere appieno il mio discepolato verso Baudelaire. E’ un discorso che vale per millanta ingredienti e tante appartenenze: chi mangia tofu esprime il suo vegetarianesimo, chi compra cibi halal esprime il suo islamismo, chi beve il caffé del commercio equosolidale esprime il suo comunismo, chi ordina Martini Cocktail esprime il suo bondismo, e potrei andare avanti a lungo. Dispensa e frigorifero mi descrivono quanto la libreria, fra gli scaffali di cucina e quelli dello studio ci sono nessi evidenti, lì c’è il Lambrusco e qui Guareschi, lì la ricotta forte e qui Scotellaro, lì i ceci e qui Orazio, lì la piadina e qui Pascoli, lì il foie gras e qui Dumas… Mettere all’indice un cibo equivale a
mettere all’indice un libro con la differenza che di libri proibiti quasi non ne esistono più (in Germania hanno appena rimesso in circolazione il “Mein kampf”) mentre la lista dei cibi ufficialmente o ufficiosamente vietati si allunga di continuo.
Dei tanti elementi che costituiscono la libertà di espressione, la libertà di alimentazione è l’unico universalmente accessibile: pochi sono capaci di scrivere un romanzo, di dipingere un quadro, di comporre una canzone, di girare un film, tutti invece sono capaci di mangiare. Pertanto i continui attentati alla libertà di alimentazione sono perfino più gravi di quelli alla libertà di espressione comunemente intesa. Sono più classisti: un colto può consolarsi leggendo Grimod de La Reynière o Anthony Bourdain, un ricco può prendere l’aereo e cenare in un paese libero anche dal punto di vista alimentare, ad esempio il Giappone, mentre chi non possiede né soldi né cultura deve adattarsi senza fiatare ai cibi permessi dallo stato dietista.
C’è in giro voglia di stato impiccione, di stato etico, seguendo una parabola che va da Hegel a Debora Serracchiani, dal filosofo per cui “lo Stato è la realtà dell’idea etica, i singoli hanno il dovere supremo di appartenere allo Stato” alla presidentessa secondo la quale “noi non possiamo pensare solo all’economia ma abbiamo il dovere morale di pensare anche alla crescita morale di questo paese”. Alle menti servili non dispiace, anzi, che conti correnti e menù vengano monitorati dall’alto, e le menti servili pullulano ovunque, come si evince dal fatto che la censura alimentare non conosce destra e sinistra: la lunga, ingombrante presenza nel partito berlusconiano della pasionaria animalista Michela Vittoria Brambilla, nemica della ricerca scientifica e autrice di proposte di legge per vietare il consumo di cavallo e coniglio (due anni di carcere ai trasgressori), dimostra che la libertà non è di questo liberalismo.
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<http://www.ilfoglio.it/articoli/2016/03/08/nella-mente-a-km-zero___1-v-1391 90-rubriche_c301.htm> Nella mente a km zero <http://www.ilfoglio.it/scienza/2016/03/11/vegani-evolvetevi-uno-studio-di-nature-spiega-che-senza-carne-siamo-scimmie___1-v-139283-rubriche_c122.htm>
Vegani, evolvetevi! Uno studio di Nature spiega che senza carne siamo scimmie. La libertà di alimentazione è un pezzo della libertà di cultura, proibire un ingrediente per compiacere le signore vegane o i burocrati di Bruxelles è come coprire una statua classica per compiacere un teocrate iraniano. Un grande critico gastronomico spagnolo, Rafael García Santos, ha colto nel segno con questa doppia, felice definizione: “L’alta cucina è arte creativa e la cucina tradizionale è cultura”. Entrambe le facce della medaglia gastronomica meritano pertanto di essere difese dai braghettoni, dai liberticidi, e nelle costituzioni di tutto il mondo abbondano gli articoli che sembrano scritti all’uopo. Ma la Carta non serve finché non diventa carne. Secondo la Costituzione italiana “l’arte e la scienza sono libere”, inoltre “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”, e sono espressioni finanche eccessive perché basterebbe che la Repubblica non ostacolasse coi suoi innumerevoli lacci e lacciuoli il lavoro dei produttori e dei ristoratori, e che non omettesse di difendere dalla violenza animalista i cuochi come Cracco che insistono a cucinare il piccione. Si capisce che i proibizionisti alimentari non minano soltanto la tradizione, il patrimonio identitario costituito da ricette avite e riti della tavola, ma pure l’innovazione. Quando Bottura tirò fuori dal cilindro le uova
embrionali ebbi paura per lui, temetti una visita dei Nas che poi arrivarono davvero anche se per altro motivo: i carabinieri del Nucleo antisofisticazioni, che forse avevano perso gli indirizzi dei ristoranti cinesi, proprio da lui cercarono additivi venefici. Naturalmente non trovarono nessun veleno e non riuscirono a multarlo ma intanto avevano scatenato le televisioni e i coglioni: Bottura usa additivi! Certo, usava e probabilmente usa ancora l’agar agar, addensante ricavato dalle alghe, più pacifico della colla di pesce usata dalla nonna per rendere consistente la panna cotta.
La libertà di alimentazione è ovviamente un pezzo della libertà di culto, non esiste religione vecchia o nuova che non si nutra di prescrizioni alimentari, salvo l’unica vera religione il cui fondatore così parlò: “Non ciò che entra nella bocca rende impuro l’uomo; ciò che esce dalla bocca, questo rende impuro l’uomo!”. Impuri sono dunque i moralismi vegani a cui nessun cristiano deve piegarsi perché Cristo, modello perfetto, era onnivoro: a Pasqua mangiò agnello e dopo la resurrezione, a Emmaus, ebbe voglia di pesce arrosto. Impuri e impostori, come scrive san Paolo nella prima lettera a Timoteo: “Impostori imporranno di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati. Tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi”. L’ortoressia, che è l’ossessione, ammalante, per il nutrizionalmente corretto, occupa gli spazi lasciati vuoti dall’ortodossia. Colpa dei preti che parlano di tutto l’opinabile ma non dell’indiscutibile liberazione dai tabù alimentari realizzata da Cristo, e molto di rado ricordano l’oppressione che il cristianesimo subisce nei paesi dove i proibizionisti alimentari hanno il potere assoluto, come l’Arabia Saudita in cui il possesso di vino implica arresti e frustate e dunque l’eucarestia è illegale. Non lo dicono i preti, non lo dice nessuno, bisogna pertanto dirlo qui: animalisti e wahabiti hanno qualcosa in comune, il medesimo vizio di mettere le mani nel piatto e nel bicchiere altrui.
La libertà prima che un diritto è un dovere, ci ha insegnato Oriana Fallaci, quindi abbiamo il dovere di non sottometterci ai politici e ai fanatici che vogliono imporci il loro credo alimentare. L’inviolabilità del domicilio fissata nell’articolo 14 della Costituzione va estesa al frigorifero, a tavola ogni uomo dev’essere libero di ubbidire a Dio (“Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo”, Genesi 9,3) o al proprio edonismo, e se la gola è un vizio va considerata materia di confessione e non di legislazione.
Resistere ai proibizionisti alimentari è indispensabile per salvare la tradizione dalla completa distruzione e l’innovazione dalla metastasi normativa, per difendere gli artigiani, gli agricoltori, i distillatori, gli allevatori, le identità nazionali, regionali e comunali, gli orti, i macelli, le cantine, le malghe, le trattorie, i laboratori, la varietà dei sapori e dei piaceri, la dignità e lo statuto dell’uomo.
Migliaia di profughi siriani arrivano ogni giorno in Grecia. Nonostante le difficoltà economiche, grande è la solidarietà del popolo greco.
Sono migliaia i profughi siriani che arrivano in Grecia. Centinaia ogni giorno. Il flusso è continuo da mesi, arrivano con barconi più o meno sgangherati, ma anche con enormi gommoni dal valore di migliaia di euro. Alcuni hanno il salvagente. Non tutti possono permetterselo economicamente. Un salvagente arriva a costare anche cinquecento euro, ma in molti casi può salvare la vita dei propri figli. Molte famiglie che arriva sulle coste greche sono state vittime dell'ignobile tratta dei profughi che avviene in maniera organizzata sulle coste turche. I profughi vengono concentrati, organizzati e in molti casi costretti a partire da chi ogni giorno diventa sempre più ricco sfruttando la disgrazia altrui. Una solo una piccola parte di loro può comprarsi un gommone e sceglie se e quando affrontare il viaggio.
La stragrande maggioranza sono nuclei familiari, uomini e donne con i propri figli. Arrivano sulle coste delle isole greche più vicine alla Turchia. Le immagini che ogni giorno arrivano nelle case di tutta la Grecia tramite la televisione sono agghiaccianti e eloquenti del dramma che in migliaia stanno vivendo grazie all'idiozia della guerra.
Sono tantissime le persone ammassate nei porti, nelle piazze e nei giardini delle piccole cittadine delle isole. Non hanno niente con se. Ma se pur liberati di tutti quei particolari e oggetti che immediatamente ci comunicano lo stato sociale e culturale di una persona, guardandoli, ci si può immediatamente rendere conto che non sono per niente diversi da noi.
L'unica differenza è il foulard che copre la testa delle donne. Non stanno arrivando sulle coste europee per per motivi economici o per trovare un futuro migliore di quello che pensavano di avere in Siria in un recente passato. Fuggono dalle bombe. Sono persone di ogni genere. Ingegneri, dottori, insegnanti, commercianti, tecnici, operai, impiegati, agricoltori etc.. tutta gente che un lavoro ce l'aveva. Questo lo si capisce immediatamente con uno rapido sguardo, in molti, non potendosi portare con se altro, hanno con se il proprio smartphone, come a voler tenere stretta a se l'ultima particella di una normalità che si sono lasciati alle spalle.
Appena arrivati sulle coste greche trovano la solidarietà di molte centinaia di volontari che da mesi si alternano sulle isole più esposte all'arrivo dei profughi, offrendo soccorso e logistica per organizzare nella maniera migliore le centinaia di persone che ogni giorno arrivano. È un lavoro difficile, tutti devono mangiare, devono bere, devono dormire, e devono avere dei servizi igenico sanitari di base. Tutto questo in uno spazio limitato e geograficamente isolato come le isole dove le strutture sanitarie e di emergenza sono piccole e a misura di una popolazione che spesso conta solo poche centinaia di persone.
In genere i profughi passano sulle isole solo pochi giorni e poi vengono imbarcati sui traghetti e portati sulla terra ferma.
Questi che sono arrivati sui barconi al freddo e alle intemperie, che sono rimasti accampati per alcuni giorni sulla banchina del porto in tende di fortuna, che sono riusciti a restare uniti ai propri figli, questi sono i "fortunati". Per altri, molti altri, questa "fortuna" non c'è stata.
Sono centinai i morti annegati, in maggioranza sono bambini. Sono strazianti le immagini delle loro salme allineate sulle spiagge. Ancora più straziante sono le immagini dei loro genitori li a piangerli.
In tanti hanno perso un pezzo della propria famiglia. Sono centinaia i bambini orfani o non accompagnati che si contano nei centri di accoglienza gestiti dalle varie organizzazioni non governative in azione sul territorio greco. Questa è un'enorme tragedia nella tragedia.
Pescatori, nonnine e semplici persone delle isole sono diventati eroi di tutti i giorni offrendo soccorso e ospitalità ai profughi. Le storie che conosciamo ci arrivano tramite la televisione, sono storie emozionanti e commoventi, a raccontarle sono le stesse persone che le hanno vissute.
Si ascoltano con un nodo alla gola che spesso tarda ad andarsene e che per alcuni minuti ti costringe a stare in silenzio. È un silenzio rispettoso verso la figura di un pescatore con il viso bruciato dal sole che racconta di aver salvato con la sua piccola barca decine di persone in mezzo al mare, che piange ricordando di aver fatto il possibile, senza riuscirci, per salvare un bambino assiderato dal freddo, oppure il racconto di una vecchietta vestita di nero che tiene in braccio un bambino piccolo, lo nutre con un biberon mentre ci racconta che è l'unico superstite della sua famiglia. Anche questa vecchietta piange raccontando la storia di questo neonato, piange pensando a come la disgrazia dell'umanità non finisce mai e si ripete in maniera perpetua, la tragedia della fame e delle mille sofferenze che lei stessa ha vissuto durante la sua infanzia nella seconda guerra mondiale e poi nella guerra civile si ripete nella tragedia del popolo siriano.
Ogni giorno migliaia di profughi raggiungono Atene e da li, fino a pochi giorni fa, si mettevano in cammino per arrivare alla frontiera. Pochi vogliono restare in Grecia, quasi tutti sono decisi a proseguire il proprio viaggio verso altri paesi. Adesso i confini sono chiusi, ma sono in molti a non saperlo, non è facile far arrivare l'informazione a tutti. È così che molti affrontano il viaggio a piedi, dirigendosi comunque verso il confine nord. Gruppi composti da
numerose persone, con bambini di ogni età al seguito, avanzano a passo d'uomo.
Al ridosso della linea di confine sbarrata si è formata una tendopoli di migliaia di persone che aspetta in vano la possibilità di continuare il proprio viaggio. Vivono in tende di ogni tipo e negli ultimi dieci giorni hanno dovuto sopportare piogge battenti e basse temperature. Molti bambini sono malati, con febbre e raffreddore.
Si calcola che, dall'inizio dell'ondata di profughi, hanno attraversato la Grecia più di 900.000 persone. Sono tanti, sono tanti soprattutto se pensiamo che la Grecia è un paese in crisi e con limitatissime possibilità. Ma la solidarietà non si ferma. In ogni città vengono raccolti generi di prima necessità come cibo in scatola, frutta secca, biscotti, latte UHT, latte in polvere, carta igienica, sacchi a pelo, medicinali etc.. I generi raccolti devono avere un alto contenuto calorico ed essere confezionati in maniera singola, devono essere in poche parole adatti a condizioni di sopravvivenza, perché proprio queste sono le condizioni che affrontano le famiglie ammassate ai confini da giorni.
L'Europa che spesso si è riempita la bocca con parole di civiltà, che si è presa la briga di andare a ristabilire con guerre e con missioni militari i diritti umani di questo o di quell'altro paese, che si vanta di essere un baluardo in difesa di democrazia e giustizia e contro la barbarie. Adesso che potrebbe dimostrarlo concretamente il proprio attaccamento ad una cultura che mette al centro l'uomo e l'umanità e che ha radici nella storia più remota, cosa
fa? Chiude le frontiere.
Sembra che i confini della Grecia non siano i confini dell'Europa.
Il problema causato dall'arrivo dei profughi viene usato in Europa come ennesimo attrezzo di pressione e ricatto economico per estorcere il più possibile alla Grecia.
Per un lungo periodo l'Unione Europea ha cercato di convincere il governo greco che la soluzione migliore per arginare l'ondata dei profughi era quello di respingere le loro imbarcazioni. Questo, che non è stato accettato dal governo, come potete immaginare avrebbe causato la morte di un numero enorme di persone. Infatti è impensabile respingere un'imbarcazione con bambini, specialmente dopo un viaggio ai limiti della sopportazione umana. Intanto, gli stessi che proponevano di applicare questa barbarie ai danni dei profughi siriani, hanno versato ragguardevoli somme di denaro alla Turchia per la gestione dei profughi siriani, profughi che in parte la Turchia stessa produce appoggiando economicamente lo Stato Islamico e bombardando le postazioni Kurde che di fatto sono l'unica vera resistenza sul campo contro l'Isis.
Il ministro dell'economia tedesco Schäuble ha dichiarato meno di una settimana: "la Grecia non deve usare la questione profughi come scusa per ritardare la valutazione sulle riforme".
Altri ministri dei "nuovi" membri dell'Unione Europea hanno spudoratamente intimato alla Grecia di tenersi i profughi in cambio di una revisione del debito. È grande la fiera delle atrocità dette da primi ministri e vari di tutta Europa sulla questione profughi.
Il governo greco ha provveduto fino ad oggi a fornire almeno tre pasti al giorno a tutti.
Lunghe file di persone aspettano pazientemente il proprio turno ai punti di ristoro organizzati dal governo e dai volontari. I rifornimenti che vengono comprati dalle varie organizzazioni e destinati ai profughi sono stati esentati dalla tassa dell'IVA e un listino prezzi speciale con prezzi ribassati è stato imposto dal governo a tutti gli autogrill che si trovano sul percorso da Atene alla frontiera nord della Grecia, questo per evitare sciacallaggi commerciali ai danni dei profughi siriani.
Verranno dati dei contributi economici dal governo a coloro che decideranno di ospitare famiglie con bambini a casa propria. Il contributo varia a seconda dei casi e può arrivare fino a 800 euro al mese.
Su tutto il territorio greco sono in funzione degli hot spot ovvero dei centri di accoglienza dove i profughi possano stazionare in condizioni meno precarie. Ogni giorno migliaia di profughi vengono invitati a soggiornare nei centri di raccolta dislocati su tutto il territorio greco.
Se da una parte la reazione xenofoba dell'Europa è disarmante, anche all'interno della Grecia si ascoltano proposte deliranti. Il nuovo leader di Nea Dimokratia, Kiriakos Mitsotakis ha proposto che gli hot spot siano di tipo chiuso, ovvero una sorta di lager da dove i profughi non possano uscire e contemporaneamente vede la risoluzione del problema nel cambio di definizione e quindi del loro trattamento. Da profughi come vengono accolti e definiti adesso a clandestini illegali, con il trattamento che ne consegue. Ancora peggio è la soluzione proposta da Chrisi Avghi, il partito nazista greco che sempre di più sembra essere in buona compagnia in Europa. Loro hanno proposto la chiusura forzata dei profughi in campi di concentramento, come Nea Dimokratia, con la differenza dell'obbligo dei lavori forzati. Questo per ripagare "l'ospitalità". Per il momento la solidarietà del popolo greco verso i profughi è più forte. Questo, secondo me, per due ragioni fondamentali.
La prima è che le famiglie di profughi siriani assomigliano in maniera perfetta alle famiglie greche, sia somaticamente che nel modo di vestirsi, a parte il particolare del foulard in testa alle donne.
Nel loro esodo dalle coste turche il popolo greco rivede in qualche maniera la propria storia, rivive l'esodo dei greci dall'Asia Minore avvenuto nel 1922, quando intere famiglie di greci furono allontanate in massa dalle coste turche dell'Egeo dove vivevano da sempre.
Venne cioè fatta una pulizia etnica che coinvolse milioni di grecofoni. Questi bambini in braccio ai propri genitori che sbarcano sulle isole greche sono drammaticamente uguali alle foto in bianco e nero dei libri di storia, l'unica differenza è l'abbigliamento moderno, le facce sono le solite.
Penso che se le stesse scene di sbarchi fossero con famiglie dell'Africa nera la reazione sarebbe ben diversa. Sarebbero in molti meno a immedesimarsi con quelle famiglie, con quei bambini.
La seconda ragione è il lavoro ottimo che sta facendo la televisione di stato ERT, ripristinata da pochi mesi dopo la chiusura forzata da parte dell'ex governo di Nea Dimokratia.
Ogni giorno viene fatto il punto della situazione sia in TV che via radio e le raccolte di generi alimentari e il lavoro dei volontari vengono coordinati in maniera organizzata da uno speciale notiziario che va in onda più volte al giorno. I profughi sono descritti per ciò che sono, cioè come profughi e non come clandestini. Vengono descritte le loro condizioni precarie e le difficoltà che ne derivano. Vengono raccontare le loro storie. Il tentativo della televisione di stato è mirato ad abbassare il sentimento fisiologico di insicurezza che un popolo ha rispetto all'invasione di migliaia di persone straniere che avviene ogni giorno. Non voglio neanche immaginare ciò che sarebbe successo se la gestione mediatica fosse stata monopolizzata dalle tv private, sicuramente ci sarebbero già stati atti tremendi di razzismo.
In Italia, da una ricerca veloce che ho fatto prima di scrivere questo articolo, il problema profughi siriani sembra non esistere. In alcuni articoli vengono addirittura descritti come dei benestanti che arrivano alle 11 di mattina con i gommoni nei porticcioli delle isole greche e la prima cosa che fanno è andare a cercare un bar per connettersi a internet con il proprio smart phone e magari farsi un selfie davanti al molo.
Dell'apocalisse che migliaia di famiglie vivono per mare e per terra non vi è traccia o quasi.
Quando ho visto la notizia che, nel 2015, la popolazione residente italiana è diminuita di 139 mila unità, ho capito subito che era successo qualcosa di inedito su entrambi i fronti che determinano in larga parte questo saldo e, cioè, il numero dei nati che si portano al di sotto della soglia psicologica delle 500 mila unità e quello dei decessi, il cosiddetto saldo naturale che si porta sempre nel 2015 a 165 mila unità, un numero che ha fatto dire a molti commentatori che si tratta di valori compatibili con una guerra ed è su questo ultimo dato che soffermerò la mia attenzione in quanto si tratta del dato più strutturale, in quanto è la maggiore determinante del fatto che la popolazione di cittadinanza italiana si è portata l'anno scorso a 55,6 milioni, con una perdita di 179 mila residenti.
La determinante maggiore dell'incremento dello sbilancio del saldo naturale è dato dal numero dei decessi che sono stati 653 mila, con una crescita di poco inferiore al 10 per cento rispetto al 2014, un numero che porta il tasso di mortalità al 10,7 per mille che, come nota il comunicato ufficiale dell'ISTAT, è il più alto dal secondo dopoguerra in poi, con l'aumento di mortalità che risulta concentrato nelle classi di età molto anziane (75-95 anni).
Nello stesso tempo continua il fenomeno dello sciopero delle culle con i nati che si portano al di sotto della soglia psicologica delle 500 mila unità, 15 mila in meno del 2014 e che si porta a 488 mila unità, un nuovo minimo storico dall'Unità d'Italia, un valore su cui si potrebbe ragionare per diverse puntate del diario, ma che qui viene trattato solo di striscio.
Ma il capitolo più interessante è quello dell'inversione di tendenza nell'aspettativa di vita che perde due mesi per gli uomini e tre mesi per le donne, un dato che mette in crisi il continuo allungamento dell'età necessaria per andare in pensione, anche se ho qualche dubbio che verrà preso correttamente in esame.
Ma quello che più preoccupa è il crollo dell'aspettativa di vita in salute che a partire dal 2007, secondo dati EUROSTAT, ha registrato un vero e proprio crollo passando da valori superiori ai 70 anni sia per gli uomini che per le donne a dati che superano di pochissimo i 60, con un sorpasso degli uomini sulle donne che è davvero stupefacente, un crollo questo che gli istituti di statistica non sanno spiegarsi, così come nessuno sa dire perché in un anno climaticamente normale ci siano stati 54 mila decessi in più!