L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
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Circa venti opere realizzate da Giovanni Neri negli ultimi due anni, sono disposte negli spazi del Palazzo Santa Chiara nel cuore di Roma. Sono disposte più che esposte, perché entrano quasi a far parte dell’arredo dei particolari ambienti del palazzo, adibiti soprattutto ad ospitare eventi. Una parte dell’edificio seicentesco viene trasformata in teatro nel 1873.
I dipinti sono dislocati lungo le mura perimetrali di quello che possiamo definire il foyer del piccolo teatro, che, sul fondo, si apre su uno spazio minore dove si trova l’accesso alla Cappella del Transito di Santa Caterina da Siena. Il corpo della Santa è visibile al di sotto dell’altare centrale della Chiesa di Santa Maria sopra Minerva. La cappella fu realizzata nel 1638 negli ambienti che l’avevano ospitata, ormai spogli di qualsiasi memoria materiale.
Nel foyer, al di là di una tenda, si accede ad un disimpegno che conduce al piccolo teatro, mentre sulla sinistra parte una breve scalinata. Sui gradini, il Banner di Giovanni Neri è una sorta di guida che conduce al dipinto posto alla sommità, creando un allestimento suggestivo.
Le opere sono costituite in maggioranza da acrilici su masonite.
L’effetto dripping, che ricorda la pittura gestuale di Pollock, è accompagnato da quello che sembra generato dalla stessa interazione chimico-fisica del colore con se stesso e con la superficie. Una sorta di interferenza o onda, è quella che sembra di vedere, o come se il colore avesse una consistenza elastica e fosse stato tirato e deformato.
Proprio nel gesto e nel colore Giovanni Neri, in questi ultimi anni, ha trovato la migliore espressione dell’emozione e della sua ricerca. Questa si svolge per temi, gran parte delle opere esposte appartengono alla serie Leggendo Ungaretti.
L’esposizione è accompagnata da un catalogo che rende conto del lavoro dell’artista, le immagini coprono un arco temporale che dal 1989 arriva al 2018.
Nella pubblicazione si parla anche del documentario Terre incolte. Giovanni Neri e la sua pittura, che fa capire come l’arte sia per lui una necessità di evasione dal quotidiano lavoro della terra.
Giovanni Neri
Opere recenti
17 maggio-12 giugno 2018
Roma, Palazzo Santa Chiara
Ingresso libero
Orari: dalle 10 alle 20.30, lunedì chiuso
Catalogo: Palombi Editori €. 19,00
Frammenti che orbitano qua e là, individuati, carpiti; li commento e condivido con voi.
Terenzio Medri |
Un’altra figura storica del mondo della sommellerie internazionale ci ha lasciato. Addio a Terenzio Medri, albergatore con la passione del vino: È stato presidente dell’A.I.S, Associazione Italiana Sommelier. CIN Presidente!
La Riflessione!
“Vini prodotti con metodi di lavoro che prevedono il minor numero possibile di interventi in vigna e in cantina e che escludono l’utilizzo di additivi chimici e di manipolazioni da parte dell’uomo”. Questa una delle tante definizioni che troviamo in giro in riferimento ai cosiddetti “vini naturali”. Quando poi vengono organizzate tavole rotonde per osannare i vini veri, a mio avviso, tocchiamo il fondo nella comunicazione: vero è proprio inganno per i consumatori. Il contrario di Naturale: artificiale, alterato. Il contrario di Vero: falso, ingannevole. “Dobbiamo giocare tutti con le stesse regole. Vini naturali, vini veri, sono termini ambigui” ( Ruenza Santandrea. Coordinatrice Alleanza Cooperative Agroalimentari). Aggiungo:” Il vino naturale non esiste. È frutto del lavoro dell’uomo. Altra cosa è biologico”.
Frammento n. 1
Cerea, Vini Veri.
Si è svolta a Cerea, pochi chilometri da Verona, in concomitanza con il Vinitaly, la quindicesima edizione di Cerea ViniVeri, “nel rispetto dei ritmi e delle risorse naturali”. Tema conduttore per questa edizione è stato:” Amore per la natura e i suoi cicli”. Amore come arte del saper attendere, come “certezza che la natura non tradisce mai”, nel rispetto dei ritmi e delle risorse naturali. “Amore, in un’epoca di standardizzazione e omologazione, per i frutti di un’agricoltura sostenibile che preserva ed esalta la ricchezza e l’unicità dei territori e della loro biodiversità”. Così è stato sostenuto da Giampiero Bea, Presidente di ViniVeri. Filosofia pratica che è e vuole diventare anche stile di vita. Non importa se il vino non è buono. L’importante è che sia frutto di amore, natura, passione, ambiente, rispetto, sostenibilità, identità. Quindi al centro il vignaiolo, la vigna, la cantina. Al bando i trattori inquinanti, le vendemmiatrici, tutta la tecnica di vinificazione che ha rappresentato studi e conquiste per il viniviticoltura. E dato che ci siamo chiudiamo le Facoltà di Agraria ed Enologia che sfornano di continuo i “personaggi del male”. Però, attenzione, udite udite, un piccolo peccato può essere ammesso: l’aggiunta in “modeste” dosi di solfiti. Viva Cerea e i suoi Vini Veri. Se non ci fosse saremmo tutti senza una parte di “filosofia di vita”. Un consiglio: continuate questo tipo di produzione e lasciate agli assaggiatori dire che il vino così ottenuto è Vino Buono.
Frammento n. 2
Spesso ci dimentichiamo delle Pietre Miliari della ViniViticoltura.
I 40 anni di Banfi ci ricordano, in questo mondo di ricerca del diverso a tutti i costi, che esistono realtà che rappresentano la viniviticoltura italiana nel mondo. Era il 1978, l’anno della messa a dimora della prima barbatella di sangiovese a Montalcino. Ogni tanto corre l’obbligo di ricordarlo per primo a noi stessi: cosa sarebbe oggi Montalcino senza Biondi-Santi, Fattoria de’ Barbi e Banfi? Festeggerà i traguardi raggiunti, oltre a degustazioni particolari e iniziative sia in Italia che all’estero dove l’etichetta Banfi è presente, con un vino celebrativo, prodotto solo in 2.000 esemplari, che non sarà in vendita ma omaggiato a selezionati clienti che propongono Banfi in tutto il mondo.
Frammento n. 3
Sandro Gini eletto Presidente del Consorzio Tutela Vino Soave.
Presidente Gini |
Sandro Gini, enologo classe 1958 e titolare dell’azienda “Gini Sandro e Claudio” è il nuovo Presidente per il mandato 2018/2020. Subentra ad Arturo Stocchetti, storico Presidente rieletto per 14 anni. Conscio di essere a “capo” di circa tremila piccole aziende distribuite su circa 7.000 ettari di territorio vitato. La sfida è quella di proporre un nuovo Soave sia in Italia che all’estero, arricchito di valori basati sull’unicità del territorio. Occasione per vedere alla prova il Nuovo Presidente è stata Soave Preview, dal 17 al 20 maggio scorso. Dove, davanti ad una platea formata da stampa specializzata e buyer da tutto il mondo, ha ben spiegato i nuovi progetti di tutela e valorizzazione della denominazione. Buon lavoro Presidente!
Frammento n. 4
Terremoto nel Consorzio dell’Oltrepò Pavese.
Era nell’aria già da tempo. 15 aziende hanno lasciato il Consorzio perché “legato a schemi passati”. Gli “aventiniani” che da tempo partecipavano passivamente alle riunioni consortili, si sono riuniti presso l’Azienda Torrevilla sottoscrivendo le lettere individuali di dimissioni irrevocabili. Pare che, alle prime quindici, seguiranno altre. Una cosa è certa: viene meno il ruolo del Consorzio su controllo e vigilanza delle produzioni nel territorio. Il futuro? Auspicabile le dimissioni di tutto l’apparato consortile, apertura di un serio dibattito e riscrivere nuove politiche di rinnovamento. Altrimenti questa scissione non sarà che l’inizio di un nuovo percorso che porterà alla costituzione di un Consorzio alternativo. Diciamo la verità: l’Oltrepò non ci guadagnerà.
Frammento n. 5
Tar: la nocciola delle Langhe è solo delle Langhe.
Svolta storica: la sentenza del Tar Lazio ha accolto il ricorso presentato da circa cento comuni piemontesi per difendere il nome e l’identità di un territorio. La sentenza mette fine alla generica definizione “Langhe” e apre la strada al riconoscimento di una nuova Igp che farà storia: Langhe è solo delle Langhe. Quindi cancellazione dal Registro Vivaistico Nazionale “Tonda Gentile Langhe” che permetteva ad altre nocciole, di quella specie prodotte nel resto d’Italia, di portare in etichetta Langhe creando nel consumatore una evidente confusione.
Osservo, scruto, assaggio e…penso.
Fino al 26 maggio è visibile presso Cosarte a Roma, la mostra collettiva Contemporanea-mente. Non c’è un tema univoco che collega le opere, differenti anche per il mezzo espressivo prescelto dai diversi autori. In prevalenza sono state realizzate con una tecnica mista, come le opere di Luciano Antonacci, ma anche con colori acrilici, Maurizio Campitelli, o olio su tela, Anna Cunicella. In gran parte sono dipinti, ma sono presenti anche alcune fotografie di Giorgio Cirillo e di Debora Gloriani, delle illustrazioni di Cinzia Isabella Chitti e una scultura di Enzo Romani, forse il più classico degli autori presenti.
Figurativo, Debora Mazzone e astratto, ricorda la tecnica del dripping di Pollock, Maria Grazia Lunghi, ma anche recupero e riutilizzo di materiali, proposto da Roberto Fantini.
Il trait d’union è da rintracciarsi proprio nel titolo, in cui mente e contemporanea sono separati. Il protagonista è quindi il mondo contemporaneo interpretato, però, o meglio filtrato, pensato dalla mente, che condivide e vive il medesimo momento.
Lo spazio espositivo di Simona Gloriani nasce come scelta di vita, a contatto con il quotidiano del quartiere Garbatella. Si apre sulla strada come spazio creativo che invita a partecipare a corsi di pittura, ad eventi di varia natura, disponibile alla collaborazione con altre iniziative culturali ad ampio spettro presenti sul territorio.
Nel 1933 i bambini di Gruaro vennero sacrificati sull’altare della conoscenza: cavie umane a cui non è stata dedicata nemmeno una lapide
In questi giorni, nel silenzio generale, ricorre l’85° anniversario di una strage sconosciuta ai più ma non per questo meno terribile e assurda.
Nel 1933 si decise di avviare la sperimentazione di un nuovo vaccino antidifterite sui bambini dai 13 mesi agli 8 anni residenti nel comune di Gruaro, un paesino tra i più piccoli e poveri del Veneto. Il vaccino costava 80 centesimi e sarebbe stato inoculato gratuitamente.
L’ufficiale sanitario, il dott. Bettino Betti, si rifiutò di praticare i vaccini poiché non vi erano focolai epidemici di difterite (si erano verificati soltanto due casi negli ultimi tre anni) ma sotto le pressioni del prefetto di allora fu costretto a procedere. In una settimana, a partire dal 10 gennaio 1933, furono vaccinati 253 bambini, nonostante la diffidenza della gente e la contrarietà del parroco di Guaro e di quello di Bagnara. Dopo i primi “eventi avversi” (eritemi, esantemi, orticaria, edemi, disturbi gastrointestinali), il 18 aprile il dott. Betti riscontrò il primo caso allarmante su un bimbo di 3 anni, “colpito agli arti inferiori,” e dal giorno successivo cominciarono a moltiplicarsi i casi di paralisi.
Alla fine, 28 dei 253 bambini vaccinati morirono e altri riportarono danni neurologici permanenti.
Ariego Rizzetto, nel libro “Gruaro, venti secoli di storia”, racconta questo episodio, oggetto anche delle testimonianze di Adamo Gasparotto che alla strage sopravvisse insieme alla sorellina di 3 anni e cercò – del tutto inutilmente – di mantenere viva la memoria su questa storia vergognosa. Infatti, ogni famiglia colpita da lutto ricevette 7mila lire e tutto fu insabbiato. Visto ciò che stava succedendo le autorità salirono a Gruaro per far sparire ogni traccia del vaccino passando addirittura di famiglia in famiglia per raccattare tutte le scatole vuote. Il fascicolo scomparve e non risulta che sia stata avviata alcuna indagine giudiziaria per accertare eventuali responsabilità.
Si diceva che la storia di questa strage è sconosciuta ai più e si capisce il perché. E’ una storia molto, molto scomoda. Specialmente di questi tempi. Tempi in cui anche i nostri bambini fungono da cavie, sottoposti d’autorità a dosi massicce di vaccini di cui non si conoscono le sperimentazioni, non si conoscono i componenti, non si conoscono gli effetti e non si conoscono le controindicazioni. Tutto in nome di una scienza sovrana lasciata nelle mani di pochissimi eletti spesso in palese conflitto di interessi. Ci sono però tantissimi Gasparotto che non ci stanno e continuano a battersi per un approccio più democratico, più dialettico e più responsabile del problema, in modo da evitare che l’elenco dei 28 bambini di Guaro continui ad allungarsi con l’inclusione di tante piccole vittime ignote.
Di seguito gli articoli sull’argomento usciti su “Il Gazzettino”:
“Quei bambini usati come cavie per testare un vaccino: morirono in 28” di Gabriele Pipia, martedì 2 dicembre 2013.
“Bimbi usati come cavie: sparito il fascicolo sulla strage di Gruaro” di Maurizio Marcon, mercoledì 3 dicembre 201
“Fecero la foto per la lapide ma io sono sopravvissuta” di Gian Piero del Gallo, giovedì 5 dicembre 2013.
Articolo sulla Rivista la bassa, anno XXXV, n. 66, giugno 2013 di Giacomo Tasca.
Lettera aperta al Sindaco di Gruaro (281,3 KiB, 1.858 download)
La strage di Gruaro del 1933, Il Gazzettino (198,3 KiB, 639 download)
estratto da 'Gruaro, venti secoli di storia': la strage del 1933 (489,3 KiB, 832 download)
http://www.veneziatoday.it/cronaca/strage-gruaro-2933-bambini-morti-vaccino.html
http://www.facebook.com/pages/VeneziaToday/252463908142196
Aldo Moro e Peppino Impastato |
08.05.2018 - Il 9 maggio è la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi. Sono passati 40 anni da quando nello stesso giorno, il 9 maggio 1978, sono stati trovati morti Aldo Moro e Peppino Impastato. Il primo ucciso dai terroristi che volevano abbattere lo Stato e l’altro dalla mafia che si presentava come Stato alternativo.
Di Aldo Moro sono fissate nella memoria collettiva le immagini del corpo fatto ritrovare nel bagagliaio di una R4 rossa a pochi passi dalle sedi dei due partiti popolari italiani del dopoguerra, la DC e il PCI. Di Peppino Impastato furono ritrovati soltanto brandelli del corpo, dilaniato dall’esplosivo, sparsi nel raggio di decine di metri.
Aldo Moro è stato il politico che più di tutti ha cercato di costruire un ponte tra cattolici e comunisti, che ha consentito di approvare riforme importanti per i diritti nel lavoro, nella scuola e nella sanità. Peppino Impastato si è ribellato al sistema mafioso, che abitava a 100 passi di distanza, che permeava la sua famiglia e il suo paese (Cinisi), denunciando gli interessi economici perseguiti dai clan con la connivenza di apparati dello Stato.
Aldo Moro fu tra coloro che scrissero la Costituzione e fu il primo firmatario dell’Ordine del giorno approvato all’unanimità l’11 dicembre del 1947 in cui si dice: “L’Assemblea Costituente esprime il voto che la nuova Carta Costituzionale trovi senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado”. Nel 1958, quando Moro fu nominato Ministro dell’Istruzione, mantenne la promessa Costituzionale e istituì l’insegnamento obbligatorio dell’Educazione Civica nelle scuole medie e superiori. Peppino Impastato è nato nel gennaio del 1948 insieme alla Costituzione della Repubblica Italiana. Nel 1967 partecipò alla “Marcia della protesta e della speranza”, organizzata da Danilo Dolci, dalla Valle del Belice a Palermo, così descritta: “gruppi di giovani, con cartelli inneggianti alla pace e allo sviluppo sociale ed economico della nostra terra, confluiscono con incredibile continuità nella fiumana immensa dei manifestanti”.
Aldo Moro trascorse le ultime settimane di vita in un cubicolo di 2 metri quadrati, senza spazio per camminare. Fu ucciso per una sentenza pronunciata da un sedicente “tribunale del popolo”, che intendeva colpire il cuore dello Stato. Peppino Impastato non sopportava le ingiustizie, soprattutto quelle autorizzate dallo Stato. Negli anni ’70 fu in prima linea nelle lotte contro la speculazione edilizia, l’apertura di cave da riempire di rifiuti, la realizzazione di un villaggio turistico su un terreno demaniale, la costruzione di una nuova pista dell’aeroporto. L’art. 9 della Costituzione stabilisce che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Aldo Moro nelle lettere scritte dalla “prigione del popolo” mise a nudo la logica aberrante del potere, con il suo “assurdo e incredibile comportamento”, a tal punto di arrivare a chiedere alla moglie di “rifiutare eventuale medaglia”, essendo ben consapevole della fine. Peppino Impastato contrastò le collusioni della politica con la mafia, con grande creatività, organizzando un carnevale alternativo, con una sfilata di cloni che dileggiavano i potenti del paese e con la trasmissione radiofonica “Onda pazza”, in cui si raccontavano in modo dissacrante le storie di “mafiopoli”.
Il funerale di Aldo Moro venne celebrato senza il corpo dello statista per esplicito volere della famiglia, che non vi partecipò, ritenendo che lo Stato italiano poco o nulla avesse fatto per salvare la sua vita. Al funerale di Peppino Impastato parteciparono migliaia di giovani compagni, nell’indifferenza della gente del paese di Cinisi, nascosta dietro l’omertà delle finestre chiuse. Nelle prime indagini si ipotizzò che Peppino Impastato fosse saltato in aria mentre stava compiendo un attentato. In nome del popolo italiano furono i giudici Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto a riconoscere la matrice mafiosa dell’omicidio di Peppino Impastato.
Aldo Moro fu rapito mentre si stava recando in Parlamento, il giorno della presentazione del nuovo Governo, sostenuto da un’alleanza innovativa, che si era “tanto impegnato a costruire”. Il 6 maggio 1978 il gruppo politico di Peppino Impastato, con riferimento ad Aldo Moro, diffuse nel paese di Cinisi un volantino in cui si leggeva: “Di fronte alla possibilità, che trapela dal modo in cui si conclude il comunicato delle B.R., che l’assurda condanna a morte non sia stata ancora eseguita, rivolgiamo un ultimo appello alla trattativa in nome della vita e per la difesa del diritto a lottare delle masse popolari”. Peppino Impastato, candidato nella lista di Democrazia Proletaria, alle elezioni del 14 maggio 1978 fu eletto consigliere comunale da morto.
Le immagini di Aldo Moro e di Peppino Impastato, persone molto diverse, per una coincidenza di data, per un destino che li accomuna, tendono ad avvicinarsi. Tutti noi siamo in debito verso entrambi, uomini coerenti e attenti al nuovo che avanza, assetati di giustizia e con la voglia di cambiare, ognuno nel proprio contesto, al di fuori e dentro le istituzioni.
Aldo Moro scrisse che commemorare significa “non solo ricordare insieme, ma ricordare rendendo nuovamente attuale” e parlò della necessità di “pulire il futuro”.
Oggi sarebbe un segno dei tempi se un Comune italiano intitolasse una via ad “Aldo Moro e Peppino Impastato”, uniti nella memoria. Facile immaginare che quella strada ogni anno il 9 maggio sarebbe inondata da tanti giovani, per rendere vive le vittime della violenza, per promettere impegno e dare gambe a quelle speranze che Aldo Moro e Peppino Impastato hanno cercato di realizzare.
Per gentile concessione dell'agenzia di Stampa PRESSENZA
Eleonora Bordonaro è una cantante siciliana di Paternò in provincia di Catania.
L’occasione al Teatro Vascello, in prima assoluta a Roma, è la presentazione del nuovo disco “Cuttune e lamè - Trame streuse di una canta storie”.
La Bordonaro abbandona momentaneamente il progetto dell’Orchestra Popolare Italiana di Ambrogio Sparagna di cui è la voce, per dedicarsi a questa parentesi solistica.
La cantante siciliana si muove tra sonorità folk con predilezione allo stile dei cantastorie (quelli che con chitarra e cartellone giravano le piazze con il tetto dell’auto come palco), tra brani originali, tradizionali e poesie popolari dell’800 interpretati in lingua siciliana, nello stile ricorda molto Rosa Balistreri e Carmen Consoli quando quest’ultima canta nel proprio dialetto.
Il concerto inizia con “Sentimi Rosa” brano di apertura anche il suo ultimo disco, qui eseguito in una veste scarna solo chitarra e voce, per continuare, con l’arrivo della band sul palco con “La tassa di li schetti” che racconta (fatto realmente accaduto nel ventennio fascista) di una giovane fidanzata molto esigente che chiede al proprio spasimante una vita agiata con tanto di servitù e l’aspirazione al lusso più sfrenato; lo sventurato che non può permettersi quel tenore di vita alla fine chiederà indietro l’anello di fidanzamento, che gli servirà per pagare la tassa mussoliniana (inflitta al celibe) che lui ribattezza “ tassa per la mia libertà”.
Arriva anche “Tri tri tri” con un ospite d’eccezione il percussionista Arnaldo Vacca con la sua inseparabile tamorra, che vanta collaborazioni con Antonello Venditti, Edoardo Bennato e Teresa De Sio solo per citane alcune.
La produzione di questo nuovo disco “Cuttuni e Lamè” è affidata a Puccio Castrogiovanni membro de I Lautari, polistrumentista, presente anche lui sul palco che interviene in voce nel bel duetto “E poi ci su i paroli”, sfoggiando tra i tanti strumenti anche uno strano scacciapensieri (marranzano in siciliano) ucraino.
Il concerto prosegue con la canzone “Li fomni” (le femmine) cantato nel dialetto di San Fratello paese dei monti Nebrodi occupato fin dall’ invasione Normanna da una popolazione proveniente dalla Francia( Provenza, Bretagna e Normandia) e dall’ Italia del nord (Piemonte e Liguria),dove si parla un sorta di dialetto né francese né italiano detto anche gallo-italico utilizzato solo in questa zona, le sonorità del canto di questa misteriosissima lingua ricordano uno struggente 'fado' portoghese.
Dopo aver ascoltato i canti della tradizione del venerdì santo “Lamento di Maria”,
“Ucch’i l’arma” e ”Maria passa pi na strata nova“ si arriva alla title track in stile tango
“Cuttuni e Lamè” brano con cui l’autrice divide l’universo femminile in due categorie “donna-Cuttuni” una donna al naturale con un’innocenza disarmante, fragile e sempre in cerca di protezione e di comprensione, una sorta di vittima inconsolabile e la “donna-Lamè” astuta sofisticata con abiti eccentrici, trucco pesante, sicura di sé - la cosiddetta mangia-uomini -, ma nessuna delle due donne troverà una degna redenzione e una realizzazione personale.
Concludono il concerto una struggente “Vuci” e “A partita” quest’ultima con una chiara impronta blues.
La cantante concede il bis proponendo un brano della sua prima formazione musicale quella dei Majaria Trio “Niura mi dicisti”.
Ho assistito a una serata ricca di tradizione, musica folk, melodia e suoni contemporanei al profumo degli agrumi di Sicilia.
Annunciati a Murcia i narratori e i poeti delle quattro lingue ufficiali vincitori del Premio conferito dall’Associazione Spagnola dei Critici letterari
Come ormai da tradizione a fine aprile sono stati proclamati i vincitori dei Premi Nazionali di poesia e narrativa decisi dall’Associazione Spagnola dei Critici Letterari, l’unico premio nazionale che dal 1975 include a pari merito gli scrittori delle quattro lingue ufficiali dello Stato spagnolo: castigliano, catalano, basco e galiego.
Il Premio della Critica che era sempre convocato a Saragoza, Barcellona e Madrid ha iniziato a proporsi in diverse città spagnole cambiando ogni anno sede di conferimento. Le ultime città che lo hanno accolto, tra le altre, sono Soria, Santa Cruz de La Palma, Pontevedra, Logroño, Cáceres, Santander, La Coruña, Sevilla, Lugo.
Il rituale si ripete dal 1956 quando un gruppo di critici spagnoli propose di organizzare un premio indipendente, dal prestigio riconosciuto, che sottolinea l’influenza della critica letteraria in contrasto con i premi più commerciali. Infatti la peculiarità di questo Premio è che viene assegnato senza alcun compenso in denaro o altro riconoscimento materiale; addirittura i premiati sono assenti perché sanno del premio soltanto cinque minuti prima che la Giuria lo annunci alla Stampa.
E’ veramente singolare assistere allo spoglio delle preferenze espresse dalla giuria dei critici spagnoli che via via si assottiglia eliminando i meno votati fino alla discussione sui due più votati che devono arrivare allo spareggio!
Serietà e continuità nel tempo caratterizzano così questo Premio che conta tra i suoi vincitori i più affermati scrittori nelle lingua della Spagna: dal premio Nobel Camillo José Cela a Torrente Ballester e Delibes fino a Luis Mateo Díez passando per Ana Matute, Vargas Llosa, Aldecoa, Cristina Fernández Cubas e Aramburu, tra gli altri grandi narratori di ieri e di oggi; Vicente Aleixandre, Luis Rosales e Blas de Otero, José Ángel Valente, José Hierro, Caballero Bonald e María Victoria Atencia, passando per Guillermo Carnero, García Montero, tra gli altri poeti di prima linea.
Così anche i più importanti poeti e narratori catalani, baschi e galieghi hanno vinto il Premio della Critica tra cui Cunqueiro, Méndez Ferrín, Celso Emilio Ferreiro, Carlos Casares e Manuel Rivas tra i galieghi Salvador Espriu, Mercè Rodoreda, Josep Pla, Joan Margarit e Pere Gimferrer tra i catalani e Ramón Saizarbitoria, Bernardo Atxaga, Kirmen Uribe e Anjel Lertxundi tra i baschi.
Per il 2018 I Premi della critica sono andati, per la lingua castigliana al narratore Javier Marías per il libro Berta Isla e al poeta catalano Luis Bagué Quílez per Clima Mediterráneo; per la lingua catalana in narrativa, Els fills de Llacuna Park di María Guasch e in poesía, Convivència d'aigüe di Zoraida Burgos; in lingua galiega Emma Pedreira, per Bibliópatas e fobólogos,ey Lupe Gómez in poesia, per Camuflaxe; in lingua basca Aingeru Espaltza, perr Mendi-joak e Luis Garde, per la poesia Barbaroak baratzean.
Il Presidente della Giuria Angel Basanta ha sottolineato come pochissimi nei lunghi anni del Premio lo hanno vinto due volte, tra cui proprio Javier Marìas che giusto 25 anni fa ha vinto per un altro racconto ed oggi è annoverato tra i massimi scrittori spagnoli.
Come Presidente internazionale dell’Associazione Internazionale dei critici letterari sono stata invitata, così come già a Soria, dal presidente Angel Basanta a seguire i lavori della Giuria e la premiazione. Mi ha entusiasmato e profondamente colpito la serietà di questa scelta critica e soprattutto mi pare che sia da onorare una selezione che prescinde dalla visibilità commerciale e mondana per privilegiare invece soltanto la qualità letteraria del testo.
Angel Basanta e tutta la Giuria mi dicono che dopo l’annuncio di questo riconoscimento anche le vendite dei libri premiati vola perché i lettori si fidano del giudizio dell’Associazione Spagnola dei Critici Letterari.
Mi adopererò per portare in Italia questo modello grazie anche all’aiuto di Angel Basanta che oltre ad essere il Presidente dell’Associazione Spagnola dei Critici Letterari è anche il Segretario generale dell’Associazione Internazionale dei Critici Letterari .
Murcia, con il suo prestigioso Sindaco José Ballesta, già Magnifico rettore dell’Università di Murcia e lo splendido barocco delle sue piazze e della Cattedrale, con l’ottima ospitalità offerta, sarà la culla del Premio della Critica letteraria italiana?
Lattanzio: grande emozione dopo anni di lavoro
Mosca, 7 mag. (askanews) – Concerto al Cremlino e tra i cantanti c’è anche una voce italiana. Si tratta di Luca Lattanzio, di Numana (Ancona) invitato a partecipare al concerto dello scorso 5 maggio. L’artista, attivo da anni in Russia, si dice fiero di aver avuto l’onore di rappresentare l’Italia. Ha cantato la celebre canzone Russa “Katiuscia” sia in italiano che in russo, accompagnato dal celebre coro dell’Armata Rossa e dalla grande orchestra del Cremlino. “Una grande emozione dopo anni di lavoro e studio all’estero” ha detto. “Un momento della mia carriera che ricorderò per sempre” ha aggiunto.
L’esibizione molto applaudita ed apprezzata dal pubblico in sala verrà trasmessa sul primo canale della Tv russa in prima serata davanti a oltre 60 milioni di telespettatori.
Dal 7 al 13 maggio, presso il Teatro Palladium di Roma, si terrà la XIII edizione del Roma Tre Film Festival, tra omaggi ai 50 anni del ’68 e a C’era una volta il West, incontri con grandi personaggi e il doveroso ricordo di Vittorio Taviani, recentemente scomparso, che insieme al fratello, Paolo Taviani, ha realizzato pellicole che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del cinema, capace di influenzare intere generazioni.
Un programma ricco di appuntamenti e riflessioni culturali caratterizza la nuova edizione della rassegna, ideata e diretta da Vito Zagarrio, nata come "Carta bianca Dams", all'interno del Festival romano "Arcipelago", per valorizzare i cortometraggi degli studenti, per poi evolversi gradualmente e conquistare, ormai da tredici anni, un proprio spazio di rilievo, diventando il Festival del cinema dell’Università di Roma Tre. Da manifestazione per gli studenti si è trasformata in un laboratorio aperto a giovani professionisti provenienti dai Dams italiani o dalle scuole di cinema, ma anche ad autori di varie generazioni.
Negli anni il Festival ha monitorato l'immaginario di una generazione, seguito l'irruzione del digitale, tastato il polso di un "cinema espanso", di un’immagine in movimento che, attraverso numerose contaminazioni, ritrova la propria vitalità.
E anche quest’anno la manifestazione si propone come punto di incontro di appassionati di cinema attraverso proiezioni, anteprime e dibattiti alla presenza di studiosi nazionali ed europei, addetti ai lavori, operatori del settore e studenti delle discipline audiovisive.
Placido, Montaldo, Bellocchio, sono solo alcuni dei nomi che contribuiranno a rendere gli appuntamenti della kermesse avvincenti. E poi Giovanna Taviani, Claudio Sestieri, Wilma Labate, tutti illustri rappresentanti della Settima Arte, accompagnati dalla nuova generazione emergente, tra documentario e fiction, come Bellino, Bertozzi e Aiello.
Si parte lunedì 7 maggio alle 20.30 con Il cratere di Luca Bellino e Silvia Luzi, alla presenza dei registi del film e di Luciana Della Fornace. Martedì 8 maggio, il DAMS dell’Università Roma Tre (via Ostiense, 139, aula 1) dedica un omaggio ai 50 anni del ’68 con la proiezione del provocatorio Teorema di Pier Paolo Pasolini, cui seguirà una tavola rotonda a cura di Giacomo Martini con la partecipazione, tra gli altri, di Giacomo Marramao, Enrico Menduni, Stefania Parigi, Wilma Labate, Daniele Vicari, Simone Isola, Paola Dalla Torre, Vito Zagarrio. In serata, alle 20.30, incontro con Michele Placido al Teatro Palladium dove verrà proiettato Il grande sogno per la regia dello stesso attore.
Mercoledì 9 maggio continuano le proiezioni dei film realizzati o prodotti da “Quelli del DAMS” mentre in serata, a partire dalle 20.30, per i 50 anni di ’68, al Teatro Palladium, Giuliano Montaldo, uno dei grandi maestri del cinema, racconta la nascita e i retroscena del film La morte legale: Giuliano Montaldo racconta la genesi del film Sacco e Vanzetti, di Silvia Giulietti e Giotto Barbieri. Dopo quasi cinquant’anni, nel 1971, il regista Giuliano Montaldo realizza un film sul commovente e straziante racconto dei due italiani finiti ingiustamente sulla sedia elettrica, nel penitenziario di Charlestown, che diventa immediatamente un manifesto contro l’intolleranza, l’ingiustizia, la pena di morte, oltre a un grande successo internazionale; la colonna sonora, “Here’s to you”, di Ennio Morricone e Joan Baez è il simbolo della libertà e difesa per i diritti umani. Giovedì 10, giornata dedicata alle proiezioni dei film in concorso (dalle 15.30), come pure quella di venerdì 11, che ha il suo clou, alle 20.30, nell’incontro con Paolo Taviani e la proiezione dell’ultimo film girato insieme al fratello Vittorio, Una questione privata, una storia toccante e struggente, tratta dal romanzo di Beppe Fenoglio. L’omaggio a Vittorio Taviani continuerà la domenica pomeriggio con una master class (h. 18.00) di Giovanna Taviani e la proiezione di estratti da I nostri trent’anni. Generazioni a confronto (2004) e Fughe e approdi (2011) della documentarista, figlia di Vittorio Taviani
Sabato 12 si segnala alle 18.30 una master class su "La fotografia nel cinema di Sergio Leone” a cura di Patrizia Genovesi in collaborazione con Libera Università del Cinema, mentre alle 20.30 Christian Uva e Vito Zagarrio introdurranno la proiezione del capolavoro di Sergio Leone C’era una volta il West, in pellicola grazie alla collaborazione con la Cineteca nazionale. Sarà un’occasione di “cinema- vintage”, in cui il pubblico potrà vedere il film di Leone in 35 millimetri cinemascope. Ospite d’onore Dario Argento, soggettista del film.
Domenica 13 maggio gran finale del Roma Tre Film Festival. Alle 20.30 incontro con il regista Marco Bellocchio, storico interprete del ’68, che proporrà un director’s cut del suo Nel nome del padre.
La manifestazione si concluderà con la premiazione dei vincitori del Concorso Carta Bianca DAMS e l’assegnazione del premio del pubblico, con conseguente proiezione del corto vincitore.
Il Roma Tre Film Festival è realizzato con il patrocinio della Regione Lazio e della Fondazione Roma Tre – Teatro Palladium in collaborazione con Università di Roma Tre, Dipartimento Fil.Co.Spe., DAMS, Centro Produzione Audiovisivi Università Roma Tre, Università di Enna – Kore e Libera Università del Cinema.
Maggiori informazioni al sito: http://romatrefilmfestival.wixsite.com/romatrefilmfestival
Consumare latte per assicurarsi il calcio è come bere acqua salata per estinguere la sete. Più latte e latticini si consumano e più viene sottratto calcio ai muscoli e al sistema scheletrico e a predisporre l’organismo all’osteoporosi; i latticini, infatti, sono sostanze altamente acidificanti e questo costringe l’organismo a sottrarre calcio alle ossa per tamponare l’acidità prodotta. Le statistiche mostrano che più le popolazioni consumano latticini più sono colpite da osteoporosi e da fratture.
Non è la quantità di calcio presente in un alimento ciò che conta ma la quantità che il nostro organismo è in grado di assimilare. Il calcio dei latticini è scarsamente utilizzabile perché reso inorganico dalla bollitura o dalla pastorizzazione. Solo il 30-35% viene utilizzato contro il 40-60% delle verdure. Il mondo vegetale è ricchissimo di calcio (verdure a foglia verde, legumi, semi ecc.) ma soprattutto è privo degli effetti collaterali del latte (che è una specie di discarica di tutti gli inquinanti consumati dall’animale), da quello che mangia ai residui dei medicinali e alle malattie dell’animale. Tra il latte umano e quello vaccino vi è la stessa differenza tra una donna ed una mucca.
Nessuno si sognerebbe di consumare latte di una donna; nessuno darebbe al proprio bambino il latte di una donna che fuma, che si droga, che prende medicinali, ormoni o ammalata; eppure si ritiene logico e salutare dare il latte di una mucca, in catene dalla nascita alla morte, disperata, ammalata. Il calcio noi vegani lo prendiamo dalle stessa fonte dove lo prendono gli animali erbivori e frugivori, cioè dal mondo vegetale. Un quarto della popolazione mondiale non usa bere latte e gode di una salute migliore delle popolazioni che ne fanno uso. Ma la fissazione del calcio richiede la presenza di vitamina D che un’adeguata esposizione giornaliera alla luce sole è in grado di assicurare.
IL CALCIO nei vegetali: (mg/ 100 gr)
Tarassaco: 316
Ruchetta: 309
Soia secca: 257
Fichi secchi: 286
Mandorle: 240
Prezzemolo: 220
Farina di soia: 210
Spinaci: 170
Nocciole secche: 150
Cicoria: 150
Ceci secchi: 142
Fagioli secchi: 135
Pistacchi: 131
Agretti:131
Bieta bollita: 130
Radicchio verde: 115
Crusca di frumento integrale: 110
IL CALCIO nei prodotti animali: (mg/ 100 gr)
Grana: 1169;
Pecorino siciliano: 1162;
Parmigiano: 1159;
Emmental: 1145;
Latte vacca parz. screm.: 1124;
Groviera: 1123;
Latte di vacca, intero: 1050;
Fontina: 870;
Caciocavallo: 860;
Provolone: 720;
Crescenza: 577;
Stracchino: 567;
Scamorza: 512;
Formaggino: 430;
Cacio ricotta: 396;
Ricotta di bufala: 340;
Cioccolato al latte: 262;
Latte di bufala: 198;
Frammenti che orbitano qua e là, individuati, carpiti; li commento e condivido con voi.
La Riflessione!
Langhe shock. Mezzo ettaro di terreno nel Barolo venduto per due milioni di euro. E giù fiumi di parole che hanno invaso i social e la carta stampata. Notizia descritta come “orrore” in un mondo che ci ha abituato da tempo a simili “pazzie”. Ci dimentichiamo i limiti di decenza superati nel mondo della “pelotas”, dei cachet pagati per attori, presentatori televisivi e giornalisti opinionisti. Ci meravigliamo della vendita di un “pezzettino di Barolo” (ancora lontano dai prezzi della Borgogna) e lasciamo passare inosservati gli accordi multimilionari di acquisizioni del Made in Italy sempre meno Italy. E poi Farinetti che esclama :”sono un po’ preoccupato”. Chapeau!
Frammento n. 1
Il mondo del vino in lutto. Ci ha lasciato Leonildo Pieropan
Leonildo Pieropan (il gazzettino) |
Viticoltore del Soave, fondatore della FIVI (Federazione italiana Vignaioli Indipendenti). La scomparsa di Leonildo avvenuta alla vigilia del Vinitaly, ha scosso moltissimi produttori e wine lovers che hanno, da sempre, apprezzato l’uomo e i suoi vini. Commovente la menzione di amici e vignaioli che hanno deciso di ricordalo nel suo “mondo”, il padiglione della FIVI.“ Tutti a ricordare Leonildo Pieropan dedicandogli un momento di raccoglimento e silenzio.
Frammento n. 2
Langhe sotto shock
Langhe Barolo (foto sfbest.com japan) |
La notizia motivo della mia riflessione. Mezzo ettaro del Cru Cerequio de La Morra ceduto per 2 milioni di euro. I prezzi che circolano in Borgogna sono sempre molto lontani. Basti pensare che i cugini vendono a filari e conseguentemente un ettaro oscilla tra i 7 e 8 milioni di euro. Quindi “avanti Savoia”( per l’origine del barolo nelle langhe), ci sono “margini di crescita” (o lievitazione). La notizia è stata commentata da Oscar Farinetti nel totale “no comment” dei grandi produttori come Gaja, Chiarlo, Voerzio, Damilano e altri. Il nostro guru di Eataly ha detto:” In realtà sono un po’ preoccupato. Temo l’effetto bolla, ci vuole equilibrio. Non si può andare oltre certi limiti”. E se lo dice lui c’è da crederci. (Sic!)
Frammento n. 3
Cambiamenti climatici. Finalmente se ne parla.
Bodega Colomé 3.150 mt nel Salta (Argentina) foto aziendale |
Finalmente se ne parla attribuendo al fenomeno nomi maggiormente identificativi. Il cambiamento climatico permette alla vite di “sfondare quota 50” (cinquantesimo parallelo sia nord che sud considerato limite invalicabile). A dire il vero gli antichi Romani, nell’espandere l’Impero, arrivarono a coltivare la vite a ridosso del Vallo Adriano. Ma venne considerata impresa al limite con risultati altamente scadenti. Oggi la produzione di chardonnay e pinot noir in Inghilterra è significativa per la produzione degli sparkling (spumanti). Non solo latitudini ma anche altezze. L’asticella si è alzata: dai tradizionali 800 mt (limite ritenuto insuperabile) agli attuali 1.200/1.300 mt slm (di media con picchi fino a 2.200 metri).
Finalmente se ne è parlato ufficialmente al Convegno dell’Alleanza delle Cooperative tenutosi a Roma alla fine del mese di Marzo. Il meteorologo Luca Mercalli ha precisato:” siamo nella situazione in cui un vigneto trova le stesse condizioni di un secolo fa a circa 250 metri più in alto e a 200 chilometri più a nord”. Da diversi anni, nei miei incontri, lezioni, parlo di cambiamento e che le “fasce climatiche” non esistono più, superate dal concetto Terroir. In tal senso possiamo giustificare quanto avviene in Argentina, nello Stato Salta, dove il vitigno a bacca nera Malbech viene allevato a ben 3.150 metri di altezza (Fazenda La Caloma).
Frammento n. 4
Adotta un filare.
Non è proprio una novità ma comunque fa sempre scalpore, notizia. Ultimamente è accaduto ad opera di una giovane vignaiola piemontese nella Langa Barolo, Sara Vezza a Monforte d’Alba. L’adozione di
Filari d'uva numerati |
un filare in una vigna, secondo Sara, rappresenta la salvaguardia dell paesaggio vitivinicolo (insomma) e garantisce la sopravvivenza dei piccoli produttori (ecco, ci siamo. Attestato di adozione con relativo bonifico). Il tutto ammantato dalla finalità di creare degli itinerari turistici e culturali. Sì perché nell’adozione è compresa la visita alla cantina, partecipare alle varie fasi sia in vigna che altrove fino alla degustazione dei vini. Insomma, sono nati i “benefattori del vino”.
Durello metodo classico |
Frammento n. 5
Il Durello anche con Metodo Classico
Svolta storica: dal metodo charmat (grandi recipienti) al metodo classico (rifermentazione in bottiglia). Lo spumante dei Monti Lessini cresce ed aspira a ricoprire posizioni di eccellenza. Per aiutare il consumatore nella scelta, in etichetta, sarà ben evidenziato “Lessini Durello” a significare Metodo Charmat e “Monti Lessini” a significare Metodo Classico. La quinta DOC spumantistica italiana che ha superato 1.000.000 di bottiglie. Esigenza di fare chiarezza in questa evoluzione di eccellenza.
Frammento n. 6
La Street Art Romana ispira i Cocktail
Alessandro Antonelli, barman dello Sky Stars Bar dell’A.Roma Lifestyle Hotel, ha presentato, alcune sere fa, sette drinks ispirati da sette murales della Città di Roma. Gli abbinamenti:
Cecafumo - foto autorizzata C. Dutto |
Inutile ribadire il successo dell’iniziativa. Christian Marazziti,regista di turno:”il connubio tra arte di strada e cocktail l’ho trovato originale, geniale”. Un evento davvero al di fuori delle serate classiche romane. Comunque la si pensi sorseggiare un cocktail dal panoramico Sky Stars Bar con la incantevole vista dall’alto della città di Roma non ha prezzo! (Fonte: Uff.St. Carlo Dutto)
Osservo, scruto, assaggio e…penso.
(Foto di Democracy Now) |
29.04.2018 - Credo che la “Dichiarazione di Panmunjom per la pace, la prosperità e l’unificazione della Penisola Coreana” (https://www.pressenza.com/it/2018/04/dichiarazione-panmunjom-la-pace-la-prosperita-lunificazione-della-penisola-coreana/) scaturita dallo storico summit fra le due Coree meriti alcune riflessioni ulteriori, oltre la pioggia di commenti che vi è stata. Intanto dissolve una minaccia che è stata agitata per quasi 30 anni, ed ha prodotto l’effetto esattamente contrario a quello che si diceva di volere.
Personalmente ho sempre ripetuto e argomentato da un anno a questa parte la convinzione:
Mi soffermerò solo su qualche punto che, se pure è stato considerato nei tanti commenti, merita una riflessione più specifica.
Che cosa implica la denuclearizzazione?
Penso che l’aspetto che più ha richiamato l’attenzione del pubblico sia quello della “denuclearizzazione”: il modo in cui esso viene impostato merita un commento approfondito, perché chi non segua da vicino questi problemi può non cogliere alcuni punti fondamentali .
In primo luogo si deve osservare che non si parla di smantellamento dell’arsenale nucleare di Pyongyang, di “denuclearizzazione della Corea del Nord”, come era richiesto finora come condizione dagli Stati Uniti. Si parla invece dell’«obiettivo comune di realizzare, attraverso la completa denuclearizzazione, una Penisola Coreana libera da armi nucleari» (the common goal of realising, through complete denuclerization, a nuclear-free Korean Peninsula). Questo è un obiettivo ben diverso e di portata molto maggiore, e non solo per la penisola coreana. Non è solo Pyongyang, infatti, ad avere introdotto le armi nucleari nella penisola: gli Stati Uniti inviano regolarmente aerei e navi con capacità nucleari verso la Corea del Sud per esercitazioni militari. È un aspetto che parla direttamente anche a noi, che ospitiamo tra le 40 e le 70 testate termonucleari statunitensi, e abbiamo 11 porti che ospitano visite di navi a propulsione nucleare, che dai primi anni Novanta non dovrebbero più trasportare bombe nucleari, ma non possiamo averne la certezza in caso di crisi internazionali, come per esempio l’attacco alla Libia.
La questione poi delle Nuclear Free Zones[1] è di scottante attualità perché richiama direttamente la regione nella parte opposta del continente asiatico – il Medio Oriente – dove minaccia di riesplodere la crisi riferita all’Iran, con la prospettiva sempre più concreta che Trump non certifichi nuovamente in maggio l’accordo sul nucleare JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) del luglio 2015. In questa regione sono in ballo l’arsenale di Israele e le testate termonucleari statunitensi schierate in Turchia. Vale la pena richiamare alcuni fatti che forse non molti hanno presenti. In primo luogo la “Dichiarazione di Teheran” sottoscritta il 21 ottobre 2003 da Francia, Germania e Gran Bretagna con l’Iran, a fronte dell’impegno di Teheran di sviluppare solo tecnologia nucleare civile: la UE si impegnava a cooperare per la realizzazione di una “Zona Libera da Armi di Distruzione di Massa in Medio Oriente”[2]. Senza contare quello che era stato praticamente l’unico risultato positivo nel fallimento della VIIa Conferenza di Revisione del TNP del maggio 2005, l’impegno a convocare per il 2012 una Conferenza Internazionale per rendere il Medio Oriente «Zona Libera da Armi Nucleari e di Distruzione di Massa», con esplicito riferimento (per la prima volta) all’arsenale nucleare di Israele, e l’invito esplicito ad aderire al tnp e ad accettare le ispezioni della iaea. Israele, dopo avere esercitato pressioni fortissime sugli usa, reagì in modo furioso, dichiarando che mai avrebbe partecipato a questa conferenza[3], che poi di fatto non fu mai convocata. Insomma, promesse di marinaio!
La Dichiarazione di Panmunjom parla quindi anche di altri problemi e indica la strada di possibili soluzioni. Ed propone anche un percorso concreto, con l’affermazione che “La Corea del Sud e del Nord hanno concordato di cercare attivamente il sostegno e la cooperazione della comunità internazionale per la denuclearizzazione della Penisola Coreana”.
Questa è la vera posta in gioco. L’impegno della chiusura del centro nucleare di Punggye-ri nel nordest del Paese, dove sono stati condotti i sei test nucleari, sarà probabilmente un segnale positivo, d’immagine, ma certamente non risolutivo.
Quale “pace” e “sicurezza”?
È già stato ampiamente sottolineata l’importanza storica dell’obiettivo di concludere finalmente, a distanza di 65 anni dalla Guerra di Corea (1950-1953), un Trattato di Pace. Così come l’intenzione di “stabilire un permanente e solido regime di pace nella Penisola Coreana”, che però dovrà affrontare e risolvere alcuni nodi cruciali e complessi. In primo luogo la presenza in Corea del Sud di circa 25.000 soldati statunitensi. Per non parlare delle esercitazioni militari che si svolgono periodicamente nelle acque limitrofe alla Corea del Nord, e che non danno certamente un segnale di “sicurezza”.
Queste brevi considerazioni rafforzano l’importanza storica dell’incontro di Panmunjom.
[1] Esistono attualmente quattro trattati che contemplano divieti in parte diversi, ma come minimo proibiscono lo schieramento, la sperimentazione, l’uso e lo sviluppo di armi nucleari all’interno di una particolare regione geografica: Trattato per la Proibizione di Armi Nucleari In America Latina e nei Caraibi (Trattato di Tlatelolco, 1985); Trattato per la Zona Libera da Armi Nucleari del Pacifico del Sud (Trattato di Rarotonga, 1985; la Nuova Zelanda ha un’ulteriore legislazione interna che vieta l’ingresso nei suoi porti di imbarcazioni a propulsione nucleare, o che portino armi nucleari, che non è invece vietato dal trattato di Rarotonga: questa norma ha creato problemi con gli Stati Uniti); Trattato per la Zona Libera da Armi Nucleari del Sud Est Asiatico (Trattato di Bangkok, 1995); Trattato per la Zona Libera da Armi Nucleari dell’Africa (Trattato di Pelindaba, 1996). Vi sono poi altri trattati che vietano specificamente esplosioni nucleari di qualsiasi tipo e lo smaltimento di scorie radioattive: il Trattato sull’Antartide (1959), il Trattato sullo Spazio Esterno (1967), e il Trattato sui Fondi Marini (1971).
[2] Ma un voluminoso documento della UE del 5 dicembre 2005 (http://ue.eu.int/uedocs/cmsUpload/st14520.en05.pdf) sulle strategie contro la proliferazione di armi di distruzione di massa, pur premettendo un riferimento ai tre pilastri del TNP (non-proliferazione, disarmo e usi pacifici), non faceva poi più alcun riferimento agli obblighi di disarmo nucleare nel corpo del documento e nelle azioni e i finanziamenti che proponeva! Evidentemente la UE ha un grosso problema interno costituito dagli arsenali e dai progetti nucleari della Francia e della Gran Bretagna. Ma – come per molti altri aspetti dei rapporti internazionali – avrebbe un grosso peso una decisione dell’Europa di procedere al disarmo nucleare: una decisione unilaterale in questo senso, concordata possibilmente con altri Stati nucleari, metterebbe nell’angolo anche gli Stati Uniti e renderebbe per loro assai problematico proseguire da soli sulle linee attuali.
[3] Sulla pervicace ambiguità mantenuta da Israele sul proprio arsenale nucleare v. ad es. A. Cohen, Israel’s Nuclear Future: Iran, Opacity and the Vision of Global Zero, in C. McArdle Kelleher, J.V. Reppy (eds), Getting to Zero, Stanford University Press, Palo Alto, 2010.
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza
Leggiamo in un articolo pubblicato nel sito PRI di Mineapolis ( USA.), che Lee Johnson, un abitante di Vallejo (California) di 46 anni, nel 2014 manifestò una grave eruzione della pelle, due anni dopo aver iniziato a usare il Roundup nell’ambito del suo lavoro di manutenzione nel comprensorio scolastico di Benicia. “Lesse le scritte sul contenitore”, ha detto il suo avvocato Timothy Litzenburg , "e seguì tutte le istruzioni di sicurezza prescritte dalla Monsanto".
L’eruzione si trasformò in una forma invasiva di linfoma no Hodgkin, un cancro del sistema linfatico. I medici non dettero a Johnson più di sei mesi di vita; aveva moglie e due figli. La sua è una delle 2.400 cause proposte contro la Monsanto dalle vittime del cancro dinnanzi alle corti di tutto il paese; la causa di Johnson sarà la prima a essere discussa in giudizio.
Tutte le vittime chiedono l’accertamento della responsabilità della Monsanto, sostenendo che è stato il glifosato –sostanza attiva compresa nell’elenco dei componenti del popolare erbicida Rondup - a causare il linfoma no Hodgkin.
"Circa la metà dei casi [per quanto riguarda il nostro studio] si riferiscono a soggetti che hanno usato il Roundup in comprensori scolastici o in parchi mentre gli altri riguardano soggetti che ne hanno fatto un uso domestico", dice Litzenburg. Un altro studio legale, che rappresenta 600 ricorrenti, afferma che i suoi clienti sono per il 60 per cento consumatori domestici di glifosato, per il 10 per cento incaricati della manutenzione di parchi e scuole e per il 30 per cento proprietari di orti e agricoltori.
I ricorrenti chiedono nelle corti di giustizia risarcimenti che potrebbero ammontare a migliaia di milioni di dollari, tali da azzerare i 2,8 mila milioni di dollari che la Monsanto spera di ricavare dal Rondup solo in quest’anno. Con più di 276 milioni di libbre di glifosato utilizzati in fattorie, negozi, scuole, parchi e ambienti domestici in tutto il mondo, la posta in gioco è ingente.
Dall’esito delle cause si vedrà se dai tribunali sarà possibile ottenere quello che le autorità regolatrici degli Stati Uniti non assicurano: controllo o responsabilità riguardo all’uso del glifosato, un agente chimico che i competenti organi internazionali in ambito ONU hanno considerato un probabile agente cancerogeno.
All’inizio di questo mese, a San Francisco, il giudice federale Vince Chhabria ha iniziato un processo volto a stabilire se gli scienziati che conducono queste ricerche stiano utilizzando metodi affidabili per giungere alle loro conclusioni, nonché a verificare la possibilità di chiamarli a testimoniare nei prossimi giudizi federali.
Le 2.000 cause pendenti dinnanzi alle corti degli stati non sono soggette alla decisione pregiudiziale di Chhabria e la prima causa, quella di Johnson, avrà inizio nel mese di giugno.
Per decidere riguardo all’attendibilità degli scienziati e della pratica scientifica, Chhabria ascolterà i 10 avvocati esperti nella materia presentati dai ricorrenti e dalla Monsanto in udienze probatorie. A Daubert la chiamano “Settimana della scienza”; le udienze saranno una sorta di corso intensivo riguardo al modo in cui gli esperti di livello mondiale procedono a una valutazione del rischio di cancro.
“A Daubert il giudice ha impiegato un’intera udienza per stabilire se debbano o meno essere presentate alla giuria prove non in corso di validità”, ha dichiarato il Dr. Steven N. Goodman, un osservatore esterno titolare della cattedra di epidemiologia, sanità, ricerca e politica nella Facoltà di Medicina di Stanford. Il Dr.Goodman è stato anche docente in corsi di pratica forense a Daubert.
Le udienze di Daubert consentono a entrambe le parti di presentare evidenze scientifiche e, nella maggior parte dei casi, gli avvocati presentano dati scientifici e ricerche a sostegno delle loro tesi. Gli scienziati che hanno testimoniato in aula sotto giuramento erano esperti in tossicologia, sperimentazioni su animali, biostatistica de epidemiologia, tutte discipline coinvolte nella valutazione del rischio di cancro.
Le udienze hanno visto per la prima volta scienziati della Monsanto a confronto in tribunale con tre dei migliori scienziati che hanno lavorato per l’ IARC (International Agency for Research on Cancer), l’Agenzia ONU che nel 2015 ha individuato il glifosato quale probabile agente cancerogeno. E’ stata anche la prima volta che tre scienziati dell’ONU hanno illustrato nel dettaglio i dati e le analisi a sostegno di tale decisione.
Testimoniando a favore dei ricorrenti, il Dr. Charles William Jameson, un esperto in tossicologia animale dell’Istituto Nazionale del Cancro ormai in pensione, ha spiegato come gli scienziati lavorano in gruppo per considerare la totalità delle evidenze pubblicate in studi revisionati inter pares. In primo luogo gli studi sugli animali. Se gli esperimenti sui roditori mostrano evidenza di carcinogenesi, gli scienziati passano alla sperimentazione sulla popolazione umana per verificare se gli essere umani nella realtà - a livelli di esposizione reali – ne risultano ugualmente soggetti.
Jameson ha dichiarato alla corte che l’IARC ha potuto disporre di quella che lui stesso ha definito una “quantità straordinariamente alta di risultati di studi su animali” riguardanti il glifosato e che tali studi hanno dimostrato costantemente che il glifosato provoca il cancro.
Dopo aver elencato una dozzina di studi che dimostrano la replicazione di differenti tipi di cancro in topi e ratti, Jameson ha concluso: “E’ mia opinione che l’esposizione al glifosato non solo può causare linfomi no Hodgkin [negli umani], ma lo sta effettivamente già facendo con l’esposizione ai livelli attuali”. Oltre agli esperti presentati come testi dai ricorrenti, il Dr. Chadi Nabhan, oncologo e direttore sanitario del Cardinal Health di Chicago, ha sottolineato la tradizionale prudenza dell’IARC nella sua storia di individuazione degli agenti cancerogeni.
In primo luogo, dice Nabhan, l’IARC è restio a procedere a delle verifiche. “Per ottenere l’interesse dell’IARC devi dimostrare che c’è una sufficiente esposizione umana e che disponi di dati sufficienti sugli animali”. Riferisce che nei 53 anni di storia dell’IARC, l’Agenzia ha analizzato 1.003 componenti e ha riscontrato che solo il 20 per cento di questi sono cancerogeni o probabili cancerogeni.
“Credo fermamente nelle conclusioni dell’IARC, e questo fa realmente una gran differenza per noi medici”, ha detto Nabhan, aggiungendo che raccomanda ai suoi pazienti di non usare Roundup e glifosato. “Questi sono fattori di rischio modificabili”, ha dichiarato.
La Monsanto ha reagito con forza alla falla aperta dall’IARC, investendo milioni di dollari in una vasta campagna volta a discreditare questi scienziati nonché la stessa IARC, qualificando la sua metodologia come “scienza spazzatura”.
Gli esperti della Monsanto, specializzati in biostatistica, medicina veterinaria e cancro della prostata, hanno contestato la validità dei dati e degli studi presentati dai ricorrenti e hanno presentato le loro controdeduzioni sui dati stessi nonché ricerche di segno opposto.
L’esperto in studi animali Dr. Thomas Rosol, professore di medicina veterinaria presso l’Università dell’Ohio, ha contestato il concetto scientifico largamente accettato di plausibilità biologica, secondo cui una sostanza che si scopre essere cancerogena sui topi dovrebbe esserlo anche sugli esseri umani, citando ad esempio un nuovo farmaco che induce il cancro nei topi ma non negli umani.
La Dott.ssa Lorelei Mucci, professore associato ad Harvard la cui ricerca è centrata sul cancro della prostata, si è basata in larga misura su un documento del 2017 che ha riportato i risultati di uno studio a largo raggio su 90.000 consumatori di pesticidi commerciali, agricoltori e coniugi di contadini dello Iowa e Carolina del Nord, non rilevando alcuna relazione tra l’esposizione al glifosato e il cancro. Gli esperti in epidemiologia dei ricorrenti, in risposta, hanno evidenziato gli errori contenuti in questo studio, riportando per contro numerosi studi che hanno dimostrato una correlazione tra il glifosato e un accresciuto rischio di contrarre un linfoma no Hodgkin.
Questa sorta di tira e molla, in cui ogni parte in causa presenta dati a supporto della propria tesi, è comune nelle udienze di Daubert, osserva il Dr. Goodman dell’Università di Stanford. ”E’ molto difficile per un giudice capire nel contesto avverso quali critiche siano legittime e quali no”, ha detto, “e poi capita spesso che le discordanze o le incertezze minori vengano accentuate per falsare i risultati”.
Aggiunge che, sebbene gli scienziati siano in condizione di “distinguere chiaramente tra le differenze scientifiche ragionevoli e quelle irragionevoli”, i giudici spesso non lo sono. Però, avverte, il compito del giudice in queste udienze non è decidere il caso in sé, bensì assicurare che la giuria ascolti degli esperti che soddisfino determinati standard professionali.
Quello che è successo dopo.
Alla fine della Settimana della Scienza, Chhabria ha condiviso quello che aveva appreso, sia nella sua prima udienza a Daubert che nel corso accelerato per la valutazione del rischio di cancro. Una settimana dopo, Chhabria ha invitato due degli esperti dei ricorrenti a ripresentarsi per un nuovo interrogatorio. Sebbene ritenesse scientificamente provato che il glifosato causa il cancro negli animali, le conclusioni epidemiologiche non gli apparivano altrettanto chiare.
“L’aspetto per me più importante è che l’epidemiologia è una scienza pigra e altamente soggettiva”, ha detto Chhabria, aggiungendo di aver trovato che le prove dello studio sulla salute della popolazione prodotte dagli istanti erano “abbastanza scarse”.
Ha detto Chhabria: “Mi è difficile capire come un epidemiologo possa concludere… che il glifosato sta effettivamente causando un linfoma no Hodgkin negli esseri umani… Però mi chiedo ugualmente se qualcuno potrebbe legittimamente concludere che il glifosato non sta causando un linfoma no Hodgkin negli essere umani”.
Quali che fossero le sue convinzioni di giudice, Chhabria ha dichiarato che esulavano dalla sua competenza nell’udienza di Daubert. “Il mio compito è decidere se le opinioni espresse dagli esperti dei ricorrenti rientrino nell’ambito della ragionevolezza”, ha detto Chhabria. “E i tribunali ci dicono che perfino un’opinione debole può essere ammissibile poiché… questo esperto sarà sottoposto a interrogatorio. E la giuria potrà ascoltare tutte le argomentazioni e decidere chi ha torto e chi ha ragione”.
L’epidemiologia, ha spiegato, “è lo strumento di cui disponiamo per individuare segnali a livello di popolazione. E quando un segnale risulta essere qualcosa come un linfoma no Hodgkin, esiste una ragione di interesse pubblico per cui dobbiamo cercare i fattori scatenanti o cause di questo tipo di epidemiologia”. Ricardo Salvador, scienziato senior e direttore del Programma alimentare e ambientale dell’Unione degli Scienziati Preoccupati (UCS), ha detto che è difficile per un non scienziato valutare la validità degli studi epidemiologici. “Credo che l’epidemiologia soddisfi standard che non può soddisfare in quanto scienza di osservazione”, ha detto un appartenente a Civil Eats. “La precisione delle misurazioni non potrà mai essere quella degli studi controllati e delle analisi di laboratorio”.
Secondo Goodman della Stanford, le udienze di Daubert richiedono che un giudice sia disposto a fare “molta lettura e molto lavoro fuori dell’aula di tribunale”. Dato che gran parte di quello che si dice in tribunale è anche parte delle argomentazioni, “gli avvocati possono sempre fare in modo che le piccole divergenze sembrino grandi, e le grandi sembrino invece piccole”.
Per esempio, alla fine della discussione orale gli avvocati della Monsanto hanno riepilogato il dibattimento contestando che gli esperti dei ricorrenti non avevano utilizzato in alcuno dei calcoli l’aggiustamento in base all’“odds ratio” [rapporto incrociato?]. Gli avvocati dei ricorrenti hanno replicato a loro volta citando i punti precisi in cui i propri esperti avevano utilizzato la metodologia corretta.
Questa tattica difensiva, secondo Goodman, è una delle più usate nelle udienze di Daubert. “Se un giudice non sta ancorato a qualcosa di esterno a quanto ascolta nell’aula di tribunale”, ha detto, “sarà per lui molto difficile accorgersi che cercano di gettargli sabbia negli occhi”. “E in effetti è molto, molto difficile”.
Intanto Michael Baum, difensore di alcuni ricorrenti, ha detto che i documenti della Monsanto – e-mail e note interne recepite dalla Monsanto come parte integrante del processo nel tentativo di discreditare l’IARC e la dottrina dominante - erano già stati usati in altre parti del mondo.
“E’ come nel Mago di Oz”, ha dichiarato Baum, “quando cala il sipario e mandiamo tutte queste prove agli organi decisionali della UE, ai legislatori e alle autorità regolatrici, questi cominciano ad accorgersi che sono stati ingannati. E cominciano ad adottare decisioni diverse.”
Nella UE si è votato nel 2017 per limitare il rinnovo dell’autorizzazione all’uso del glifosato per un periodo di cinque anni e molti paesi europei hanno annunciato piani per ridurre tale periodo a tre anni. Baum ha aggiunto che paesi come la Francia, l’Italia e l’Austria hanno dichiarato di non sperare di vietare l’uso del glifosato entro tre o cinque anni, ma di essere pronti a procedere non appena ci sarà un’alternativa praticabile.
Salvador avverte che le cose funzionano in modo diverso negli Stati Uniti. In Europa vige il principio di precauzione, per cui l’interesse pubblico, il benessere pubblico e la salute sono prioritari. “Negli Stati Uniti, sono prioritari gli interessi dell’industria e il suo diritto a conseguire profitti, punto di vista molto conveniente per coloro che traggono vantaggio economico dalla dispersione di prodotti chimici nell’ambiente”.
La settimana scorsa Chhabria ha programmato due udienze di monitoraggio il 4 e il 6 aprile per un interrogatorio più approfondito di due degli esperti di parte ricorrente riguardo alle conclusioni epidemiologiche. Si spera che a maggio decida riguardo alle prove scientifiche ammissibili e agli esperti escutibili. Intanto, le cause contro la Monsanto nei tribunali degli stati avranno inizio a giugno.
Zero Biocidas
Traduzione di Maria Grazia Cappugi
Per tanti anni, terminato il Vinitaly, promesse a fiumi mai mantenute. Viabilità, telefonia e connessioni, ubriachi a non finire e “operatori furbetti” che, già dalle prime ore del Mercoledì, ultimo giorno di Fiera, smontano lo stand e…via, insensibili verso chi ha pagato profumatamente il biglietto d’ingresso (€ 80,00)!
Da due anni, devo dire, che qualcosa è cambiato e molto sta cambiando. Le connessioni sono migliorate, gli ubriachi sono stati diluiti tra la Fiera e le vie della città, gli operatori furbetti hanno posticipato alle prime ore del pomeriggio la “fuga”. Ancora nota dolente la viabilità e gli accessi ai parcheggi.
Maurizio Danese, presidente di Verona Fiere e Federico Sboarina, Sindaco di Verona, hanno promesso interventi sostanziali su nuove aree di sosta, gallerie mercatali e un “Central Park”, tra la Stazione ferroviaria e la Fiera. Elementi innovativi che dovrebbero incidere sulla Manifestazione edizione 2019.
Felici di registrare queste innovazioni che ricadranno positivamente nel contesto generale mi chiedo:” lo studio viario per raggiungere le aree di sosta e uscirne in tempi accettabili? Aree all’esterno della città collegate con servizio navetta decente e non all’indiana non sono pensabili?”
Vinitaly in città (Verona Wine Lover-VeronaFiere) |
Auspicabili certamente.
Pazienza, ci vuole pazienza. Del resto “Il Vinitaly racconta la passione del vino. E, ne sono certo, adesso ci sono nuove generazioni che lo faranno per altri 50 anni”. Parola di Maurizio Danese. Vale a dire:”largo ai giovani, ci penseranno loro”.
Veniamo a quelle che ho registrato come “pillole di eccellenza” per l’edizione 2018.
Sicuramente in testa ai sondaggi nel pubblico degli appassionati è stato Vinitaly and the City.
Verona si è aperta ed ha accolto migliaia di eno-appassionati in una invasione che ha reso la tranquilla città scaligera compartecipe della Grande Festa del Vino.
Vino, musica e arte uniti in scenari fantastici. La Fiera e la Città: un tutt’uno.
Circa 40.000 appassionati coinvolti nelle iniziative fuori dal quartiere fieristico in modo da controllare meglio le presenze dei visitatori nei padiglioni espositivi. Non solo. Diminuendo in parte gli appassionati ne hanno beneficiato gli incontri con i buyer in questa edizione. Volti nuovi, qualificati, selezionati, invitati da Veronafiere attraverso la propria rete presente in tutto il mondo. 1.000 nuovi professionisti che hanno partecipato alle iniziative dei Consorzi e ai grandi tasting come La magia delle vigne vecchie presentate dalle Donne del Vino, 30 anni di Amarone a Vinitaly dell’Azienda Masi, il confronto dei territori di Bolgheri e Pessac-Léognan (Bordeaux), i Cinque Terroirs del Barolo e Barbaresco raccontati dalle Cantine Ceretto e i 15 vini provenienti dal Mondo curati dell’enologo Riccardo Cotarella. Senza dimenticare i numerosi tasting effettuati da molte aziende che
interno vinitaly (foto VeronaFiere) |
hanno di fatto occupato le agende degli addetti ai lavori.
In extrema ratio: Quartiere fieristico dedicato al business e Vinitaly and the City ai wine lovers.
Attenzione però a non estremizzare. Il rapporto produttore e consumatore è da salvaguardare. Lo ha dimostrato il successo di presenze fuori da ogni previsione delle aree FIVI, Vi.Vit e dei Consorzi delle Strade del Vino.
Quest’ultime veicolo, trade-union del turismo vitivinicolo che svolge un ruolo importantissimo nella quotidianità delle aziende.
Chiudo questa personale riflessione registrando, ahimè, una verità tutta italiana e ricordata dal Presidente Maurizio Danese all’apertura della Edizione 2018:” Per il vino italiano ci sono molte opportunità inesplorate. Se vogliamo cogliere queste occasioni e diversificare realmente i mercati, è necessario essere presenti come sistema Italia e non con individualità”.
degustazione (VeronaFiere) |