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Marzia Carocci
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Italo Calvino nasce nel 1923 a Santiago de Las Vegas e muore a Siena a soli 61 anni nel settembre del 1985 a seguito di un intervento al cervello per ictus celebrale. Italo Calvino riposa nel cimitero-giardino di Castiglione della Pescaia, nella provincia di Grosseto.
Nel 1925 la famiglia Calvino si trasferisce a Sanremo, dove lo scrittore trascorrerà l'infanzia e l'adolescenza. Nel '41 si sposta a Torino, dove si iscrive alla Facoltà di Agraria. Inizia già a comporre i primi racconti, poesie e testi teatrali. Nel 1943, per evitare di essere arruolato nell'esercito repubblichino di Salò dopo l'8 settembre, entra nella brigata comunista Garibaldi.
Nel 1945, dopo la guerra, Calvino lascia la Facoltà di Agraria e si iscrive a Lettere. Nello stesso anno aderisce al PCI. Entra in contatto con Natalia Ginzburg e Cesare Pavese a cui sottopone i suoi racconti. Inizia a collabora con il quotidiano "l'Unità" e con la rivista “Il Politecnico” di Elio Vittorini. In questi anni si afferma la casa editrice torinese Einaudi (fondata nel 1933) con famosi collaboratori e consulenti, tra cui Pavese e Vittorini stessi. Proprio su suggerimento di Pavese viene pubblicato nel 1947 il primo romanzo di Italo Calvino “Il sentiero dei nidi di ragno” di stampo neorealista, come la successiva raccolta di racconti.Nel 1952 viene pubblicato “Il Visconte dimezzato” - il primo della trilogia I nostri antenati - nella collana Einaudi “I gettoni”, diretta da Vittorini.
Si assiste in seguito a un cambiamento di stile di Calvino da neorealista a quello fiabesco-allegorico, che diventerà lo stile dell'autore.
Nel 1956 vengono pubblicate le Fiabe italiane, un progetto di raccolta, sistemazione e traduzione di racconti della tradizione italiana popolare. Nel '57 lascia il PCI, dopo l'invasione da parte sovietica dell'Ungheria. In questi anni scrive diversi saggi, tra i più importanti “Il midollo del leone” (1955), sul rapporto tra letteratura e realtà. Collaboratore con diverse riviste, tra cui “Officina”, fondata da Pier Paolo Pasolini, dirige con Vittorini la rivista "Menabò". Il suo stile fiabesco-allegorico si esprime al meglio nel “Barone rampante” (1957) e nel “Cavaliere inesistente” (1959), completando così la trilogia cominciata nel '52 con “Il visconte dimezzato”.
Nel 1962 conosce Esther Judith Singer una traduttrice di origine argentina con cui si sposa nel 1964. Si trasferiscono a Parigi nello stesso anno. Nel 1963 pubblica “La giornata di uno scrutatore”, un romanzo breve. Nello stesso anno esce, nella collana einaudiana “Libri per ragazzi”, Marcovaldo, una serie di racconti incentrati sulla figura di Marcovaldo, un modesto operaio di una ditta del boom economico. A Parigi entra in contatto con lo strutturalismo di Roland Barthes.
In questo clima speculativo e filosofico, Calvino frequenta gli intellettuali del movimento OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle, un laboratorio di letteratura di cui fa parte anche Raymond Queneau, autore de “I fiori blu” e degli “esercizi di stile”.
Da questi incontri e influenze letterarie nascono nel 1965 “Le cosmicomiche” e altre opere di grande interesse. Queste opere fanno parte del cosiddetto “periodo combinatorio” dell’autore, strettamente dipendente dalla riflessione strutturalista sulle forme e le finalità della narrazione.
Nel 1980 esce la sua raccolta di saggi “Una pietra sopra”. Seguono nel 1983 “ racconti di Palomar,” in cui il protagonista attraverso le proprie osservazioni sul mondo circostante, porta il lettore a riflettere sull'esistenza umana e sull’importanza della parola. Questi racconti sono caratterizzati da un profondo pessimismo, e da un senso di solitudine.
Nel 1984 Italo Calvino lascia Einaudi e con Garzanti, pubblica “Collezione di sabbia”. Nel 1985 viene invitato dall'università di Harvard a tenere una serie di conferenze ma, in quel periodo viene colto da un ictus nella sua casa a Roccamare, presso Castiglione della Pescaia. Muore pochi giorni dopo a Siena.
Molti non sanno che Calvino si interessò anche al cinema e alla musica.
Il film “I soliti ignoti” di Monicelli fu tratto dal suo racconto “furto in una pasticceria”. Partecipò inoltre in “Boccaccio 70” sempre diretto dal maestro Monicelli. In campo musicale scrisse alcuni testi che vennero musicati da Sergio Liberovici.
Nel 1981 riceve la Legion d’Onore
Frasi e aforismi
Se infelice è l'innamorato che invoca baci di cui non sa il sapore, mille volte più infelice è chi questo sapore gustò appena e poi gli fu negato.
Chi ha occhio, trova quel che cerca anche ad occhi chiusi.
D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
La fantasia è un posto dove ci piove dentro
Provenienti dalle omonime corazzate austriache, veri e propri trofei della Grande Guerra , i due cimeli rappresentano la più eloquente ed immediata simbologia per l'identificazione dell'edificio.
- A destra dalla “Viribus Unitis” : affondata durante la 1° guerra mondiale, nel 1918 nella rada di Pola, dal primo mezzo d'assalto subacqueo :la torpedine semovente detta “mignatta”, ideata dall'ufficiale Raffaele Rossetti, dal medesimo pilotata , insieme ad altro ufficiale Raffaele Paolucci .
- Sulla sinistra dalla “Tegetthoff” : dall'omonimo nome dell'Ammiraglio che la comandava.
Alla conclusione delle ostilità, la corazzata requisita dai vittoriosi Alleati, dopo aver raggiunto Venezia, il 22 marzo 1919, privata della bandiera e con a bordo equipaggio italiano, in conseguenza delle disposizioni del trattato di Saint-Germain-en-Laye del 10 settembre 1919 , fu assegnata, su esplicita richiesta, all'Italia, come bottino di guerra. Trasferita successivamente nei cantieri di La Spezia, fu demolita nel 1924 /1925.
Si lavava così l'onta subita dalla grande sconfitta di Lissa del 1866, durante la III guerra di Indipendenza, che aveva visto, l'austro- ungarica Ammiraglia, sconfiggere la più ben perfomante flotta italiana.
Leggendaria rimane la nota asserzione attribuita all'ammiraglio Tegetthoff , che recitava così :
«Navi di legno comandate da uomini con la testa di ferro hanno combattuto navi di ferro comandate da uomini con la testa di legno»... con chiaro riferimento all'inettitudine dei comandi italiani.
Ecco quindi come le due ancore, simboleggiano la tradizione marinara italiana e l'epopea risorgimentale che ha condotto all'Unità d'Italia, riconquistata dopo la prima Guerra mondiale.
Ma proprio sopra le ancore, sull'avancorpo centrale della facciata nel romanissimo travertino, il progettista Giulio Magni, nipote di Giuseppe Valadier, si distacca dai dei primi cantieri post-unitari del Vittoriano, ai quali contribuì con il suo stesso autore Sacconi, rinunciando quindi a monumentali statue e fastigi, affidando “la funzione comunicativa” alle più antiche glorie italiane sul mare, di Venezia, Genova e Roma, iscritte sui cartigli degli architravi delle monumentali finestre a timpano centinato del secondo registro, scandite dalle michelangiolesche paraste di ordine “gigante ” che sorreggono una rigorosa trabeazione.
Accostamento dei variegati stili che riconosciamo, fin da questo primo impatto, in neoclassico, neo- rinascimentale e neo-barocco, ben orchestrato, diventa allegoria densa di riferimenti culturali, evolvendo in quello che in architettura chiamiamo “eclettismo”, ovvero un insieme di tratti distintivi e di stilemi declinati in una nuova sintassi, di grande capacità e qualità, che si sviluppa nei primi del '900 e che connoterà i grandi Palazzi ministeriali, le grandi Banche , le Prefetture ecc.
Tale architettura , ornata da rimandi continui alle marinare tradizioni, fatti di timoni, rostri, ancore, navi, tritoni , prore ed animali marini , coniugata ad un enfatico linguaggio di regime, ci accompagnerà nella lettura degli interni dell'edificio...
Ed allora entriamo, in questa magniloquente monumento, ma rispettoso della tradizione costruttiva romana , fatto di mattoni vestiti di “marmoraccio romano” ...
ATRIO
Nel grande atrio, le tre sculture in bronzo a patina oro delle Vittorie alate, disegnate da Magni (modello di riferimento: dal bronzetto conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli , proveniente da Pompei) e due rappresentazioni statuarie di Cristoforo Colombo e del trecentesco Ammiraglio veneziano Vittor Pisano ci danno il benvenuto, prima di approdare nel “Cortile d'Onore”…
CORTE D'ONORE
E' una fontana di berniniana memoria, evocante quella di piazza San Pietro, che fa da punto focale centrale alle quattro “eclettiche” facciate, che racchiudono la Corte, dove , corrono nei lati lunghi due gallerie sovrapposte sottolineate dai ritmi delle lesene che le incorniciano . Inseriti nei fregi delle maestose finestre, simboli vegetali quali la quercia= forza, la palma= vittoria e l'alloro= pace vittoriosa, si alternano a locuzioni dei patriottici poeti Carducci, Pascoli e D'annunzio, tipo “Memento Audere Sempre” (ricorda di osare sempre) desunta direttamente dall'acronimo MAS, (Motoscafo armato silurante ).
Punteggiati simboli marini, rifiniscono sofisticamente questa straordinaria fantasia.
SCALONE CENTRALE
In illusionistica prospettiva, Magni svela la sua grande conoscenza dell'architettura tardo barocca, che realizza, con grande respiro, in questa monumentale scala, con l'audace suggestione delle onde del mare, materializzate in pregiati marmi italiani, nei sedili-corrimano laterali della prima rampa si arrampica fino ad un secondo livello, per lì dividersi a “tenaglia”. Sorvegliata dai busti del generale Caio Duilio ( primo grande ammiraglio della storia romana, II secolo ac) e dell'ammiraglio Andrea Doria ( Repubblica di Genova 1466 -1560 ) Tiene tutto sotto spicco un colorato sfondo vetrato, del maestro romano Cesare Picchiarini (Roma, 1871 – 1943 ) .
Sulla volta nella parte centrale, un dipinto firmato da Giuseppe Rivaroli 1928, raffigurante “ Roma Trionfante ” sul mare tanto cara ai miti del Governatorato.
Stesso autore, sulle pareti corrono i suoi dipinti dei tre mari d'Italia Adriatico, Ionio, Tirreno che si ricompongono, dallo strappato controllo all'Austria dell'Adriatico, il Mediterraneo “Mare nostrum ”.
SALONE DEI MARMI
Preceduto da un anticamera, illuminata da ancora una magia di vetri colorati disegnati anche questi da Cesare Picchiarini, che fissano, incastrano ed imprigionano il fascio littorio con numero VI ( sesto dell'era fascista 1928 anno di inaugurazione del palazzo ) con gli ormai riconosciuti richiami marini, si apre nella sua esuberanza per la policromia del barocco, il grande salone, dove marmi pregiati che incorniciano pareti e portali, si riflettono nel tavolo centrale, ricco di simboli, che fedelmente alludere alla marineria, in costante con il circostante che va da inedite maniglie a forma di ippocampo, ai singoli copritermosifoni con profili di antichi velieri, alle insolite poltroncine con conchiglie e animali marini . Tutte le opere del maestro Umberto Bellotto che rappresenterà anche nella suggestiva biblioteca.
Sulle pareti stucchi pregiati raffiguranti figure allegoriche dipinte a finto bronzo, sullo sfondo prospetti baroccheggianti ed emblemi marittimi.
Al centro del soffitto il dipinto di Antonio Calcagnadoro, “La nave di Roma nuovamente sospinta in mare dalle giovani energie della stirpe” (1928),che ricalca la migliore retorica di sapore littorio .
Bacheche contenenti reperti e cofani portabandiera oltre a vessilli preunitari completano l'arredo punteggiando con sobria eleganza l'ambiente.
LA BIBLIOTECA
Artista poliedrico nell'uso dei metalli , ma anche del vetro, Umberto Bellotto, interpreta il progetto iconografico del Magni nella maniera più suggestiva, dipanando, nello stile più Liberty di Palazzo, nel rispetto dell'individualità degli elementi di composizione , disegni da lui stesso elaborati, nel ferro battuto grezzo o colorato in oro, delle austere balaustre dei ballatoi, della serie di spirali a chiocciola affidatarie dei collegamenti verticali degli scaffali, insieme ai divertenti saliscendi.
Ed ancora negli ottoni dei copritermosifoni. Raffinate, sopra di loro le forgie, degli ormai noti elementi, fino ai tre monumentali lampadari puntati verso l'alta sfera armillare, a segnalare il planisfero celeste, necessario nell'arte della navigazione.
Tanti altri sono gli ambienti che si infilano in altri ambienti, dove tutte le arti applicate concorrono per evocare e rievocare la contagiosa emozione di una costante sinergia fra mare, cielo, terra, passato e presente per un futuro, dove la seduzione del mare sempre ci affascinerà...
La natura umana è di per sé un viaggio di difficile interpretazione. L’uomo nasce come animale istintivo che solo la coscienza lo rende conoscitore del giusto e dell’errore, del bene e del male. Ma la coscienza si può reprimere? E quanto è possibile fare entrare o uscire il male? Quando la propria coscienza si lascia condizionare a favore di un potere, dal denaro, dell’onnipotenza? Chi riesce a fermarsi? Chi si lascia trasportare dall’ingordigia del proprio ego?
Michele Giuttari prima di essere scrittore è stato un poliziotto, la sua esperienza in campo investigativo lo ha portato in vari campi d’indagine dove spesso la coscienza non è stata mai padrona dell’individuo. Anni di indagini: terrorismo, omicidi, mafia, notti insonni e difficoltà fra giorni di luce e momenti di grande oscurità lo hanno portato a scrivere nero su bianco fatti, esperienze o semplicemente intuizioni che ha trasformato in storie di fantasia ma che portano quel sé di esperienza attraverso i suoi libri itinerari fra il giallo e il noir che appassionano il lettore fin dai suoi primi esordi in campo letterario.
L’ultima uscita è “Sangue sul Chianti”, per F.lli Frilli editore, un libro dove con grande maestria e consolidata competenza nel campo poliziesco, il Giuttari ci porta in una spirale tensiva fino all’ultima pagina.
Niente è a caso, ogni tassello viene assembrato mano a mano che ci immergiamo nella lettura. Ogni personaggio è ben strutturato e abilmente descritto così come è esposta in modo convincente ogni azione di uomini scaltri, immorali e corrotti che ruotano intorno a gente insospettabile, ricattabile, influenzabile a servizio di un potere che decide la sorte di uomini e donne. Inizia tutto da un saccheggiatore che diventa il testimone di un omicidio all’interno di una villa situata nel Chianti. Mauro Sacco, si trova nel posto e nel momento sbagliato dove l’inferno e il male daranno inizio a intrighi e grovigli di conseguenze inaspettate.
Sarà l’acume, la caparbietà, la professionalità di Michele Ferrara commissario di polizia a indagare là dove nessuno si sognerebbe di scrutare. Niente lo fermerà, nessuno potrà plasmare il suo senso del dovere come uomo e come servitore dello Stato. Una tela di ragno dove violenza, ricatti, droga, omicidi, silenzi e sangue, si dipaneranno in una convulsa corsa alla risoluzione anche se amara come il fiele.
Un libro scritto sapientemente attraverso immagini che non restano mai statiche ma che anzi, danno al lettore l’impressione di sentirsi testimoni di un qualcosa che prende movimento mano a mano ci si addentri nel plot del romanzo che è talmente realistico nelle modalità d’indagine e di descrizione da sembrare un reale fatto di cronaca dei nostri giorni.
La descrizione dei luoghi è così vivida da vederne i contorni. Le vie di una Firenze con i suoi personaggi, locali, storia, la minuziosità dei particolari, l’accuratezza nel delineare i caratteri e la meticolosità descrittiva sui difetti e i pregi dei vari personaggi rendono il romanzo meritevole di successo. Fluida e intuitiva la forma letteraria, nessuna lungaggine o verbosità complessa. I dialoghi, il ritmo e la descrizione sono piacevoli e scorrevoli rendendo la lettura comprensiva nell’immediatezza lasciando il lettore smanioso di sapere lo svolgimento dei fatti. Un libro che potrebbe essere la trama di un film.
Giuttari è degno di essere nelle classifiche fra i migliori scrittori di libri polizieschi.
“Sangue sul Chianti”: il commissario Michele Ferrara e il suo alter ego Michele Giuttari intersecati da una forza comune: fermare il male ovunque si trovi!.
“Sangue sul Chianti” di Michele Giuttari (F.lli Frilli editore)
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Il giardino delle rose |
armonia, estetica e poesia dai suoi pennelli, le risposte di un artista.
I suoi quadri sono cartoline di una Firenze che incanta. Tetti rossi, tramonti e albe dai colori caldi e avvolgenti. I protagonisti che dipinge hanno anima e movimento; niente è statico, perfino i sorrisi e gli sguardi di ogni personaggio hanno vita.
Osservando i suoi lavori si percepisce l'amore e la passione per ciò che immortala su tela. Immagini su immagini che sono poesie di dipinti. I particolari della sua pittura sono così ben definiti da lasciare affascinato l'osservatore.
Andrea Gelici ha pubblicato anche due libri di poesia.
“Ragione al tempo”( 2018) per A&A di Marzia Carocci edizioni e “Dove dir di Luna” (2020) per A&A di Marzia Carocci edizioni.
Conosciamolo meglio:
Andrea Gelici nasce a Firenze il 2 marzo 1956. Sempre attratto dall'arte in tutte le sue forme ottiene il diploma di specializzazione tecnica artistica presso l'Accademia Sprone di Firenze nell'anno 1980 sotto la guida del maestro Otello Scacciati. Dedicatosi al disegno e al ritratto fino all'inizio degli anni 90 si evolve attraverso l'olio e l'acquerello fino alla tecnica mista su tavola. "FIRENZE DEI MIEI GIORNI DIPINTI" Una città di antichi ricordi, fatta di vicoli e scorci, rivive nei colori
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Il mae dentro |
e nella luce di un'epoca sospesa tra il vecchio e il nuovo. Ed è un mondo che appartiene a quei ricordi, ad anni vissuti intensamente, nel segno dell'impressione e della figura dipinta come in una storia che regala sulla tela il gusto di ogni giorno. Un'epoca romantica, specchio di un'
Quattro chiacchiere con l'artista:
Ciao Andrea, grazie per avermi dato la possibilità di intervistarti.
La prima domanda che vorrei porti è piuttosto consueta ma servirà per conoscere ciò che non tutti sapranno:
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La città del fiore |
D- Come hai scoperto questa tua passione per la pittura?
R- Leggendo.
Avevo dieci anni e mio padre mi portato a casa un fumetto, ricordo le sue parole:_Questo lo leggevo da ragazzo, forse piacerà anche a te._
L'albo era quello di Flash Gordon, i disegni del grande Alex Raymond. Rimasi stupido.
Le tavole erano eccezionali, saranno stati i colori, il tratto, le inquadrature, la storia, fatto sta che la prima cosa che mi venne in mente fu quella di prendere un foglio e provare a quella meraviglia.
D- Qual è stato il tuo primo dipinto e che tipo di emozione hai provato?
R- Avevano portato dei fiori ad una parente che abitava al piano superiore. Mi ritrovai davanti ad un vaso di vetro con dei gigli.
Usavo le tempere, quelle che adoperavamo in classe nell'ora di disegno.
Disegnai un giglio, in primo piano, e una strada immaginaria che si perdeva dietro una curva.
Le tempere come acquerelli, non avevo nessuna conoscenza delle tecniche, solo una grande voglia di raccontare.
D- Quali sono state le più grandi soddisfazioni che hai vissuto grazie a questa tua forza
artistico?
R- Le mostre sono state certamente una grande soddisfazione. Soprattutto quelle dove mi hanno invitato. La possibilità di proporsi. La capacità di sostenere un'intervista con la telecamera che ti guarda, il saper esprimere con le parole quello che hai dipinto, ma soprattutto, il più grande piacere, per me è il cogliere nelle persone che vedono i tuoi dipinti quel senso d'intesa , di condivisione, quello che un paesaggio o un ritratto possono suscitare, ricordare e rivivere.
D- Quali delusioni se ce ne sono state?
R- Non riuscire a completare che un quadro, rendersi il giorno prima eri contento di quello che stavi facendo e il giorno dopo non capire il perché. Entra in quello stato particolare in cui tu sei i colori che stai mescolando sulla tavolozza e poi, niente, non ci sei più. È come essere colpiti da un'immagine bellissima, che poi svanisce lasciandoti un senso di sconfitta e di vuoto.
Delirio, perdita di idee, incapacità nel proseguire.
Uno straccio sulla tela, a cancellare quella parte di te per ricominciare. A volte mi è capitato, ed è comunque una piccola ferita, una ruga, che si aggiunge e ti aiuta a pensare.
D- L'arte è qualcosa di sublime, per farla conoscere vi è senza dubbio necessità di
esporre. Quali tipi di difficoltà hai incontrato?
R- All'inizio, negli anni settanta dipingevo solo per mettermi alla prova. La matita era però il mezzo che preferivo. Chiaroscuro, tratteggio, carboncino. Fu in un negozio di cornici dove lavoravo, che il titolare prese in mano un mio lavoro e mi consigliò di portarlo a far vedere ad un pittore famoso. “Questo è bello puoi fare strada.” Parole che galvanizzavano. Mi sentivo come se avessi salito un gradino importante. Non ci fu nessun incontro. Il giorno dopo una cartolina azzurra lasciai il lavoro, la casa, e partii
per la caserma di Viterbo.
Tutto ricominciò negli anni ottanta l'accademia dello Sprone di Firenze, il diploma.
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Quasi una fantasia |
I primi approcci con il mondo dell'arte. La prima mostra, curata da Roberto Cellini. Tanta emozione, gli amici che hanno ricevuto a congratularsi con te, facce note e meno note, sconosciuti che ti esaltavano, qualcuno anche troppo.
Poi altre mostre, dove ho conosciuto tanti pittori, gente del "giro" critici, artisti e non.
Ed è lì che ho capito molte cose. Vuoi esporre in gallerie importanti? Devi essere importante, quotato, ci vuole un promotore, e, soprattutto molti soldi. Devi creare uno stile, più o meno sempre gli stessi soggetti, lo stile è importante tanto da prevaricare il talento. È difficile esporre, specie a Firenze, la città dell'arte e anche se sembra un controsenso è così.
Il problema è che sono cambiati i termini. Negli anni cinquanta, mi hanno raccontato, che erano le gallerie che acquistavano i lavori dai pittori, pagandoli poco, sì, ma permettendo a chi aveva talento di emergere e farsi un nome.
Oggi è diverso, gli "artisti" sono moltiplicati sono una marea, e su questa, e non sugli acquirenti si basa sulla gran parte del lavoro degli "addetti".
Nella posta elettronica ho tutti i giorni richieste di partecipazione a quella mostra, a quel concorso, tutti importanti, come i cataloghi dove ti vogliono iscrivere, presentare, recensire. Poi vai a leggere bene il tutto e su dieci richieste non più di una sono serie. Credo di parlare a nome anche di tanti altri valenti artisti che conosco. Se vuoi entrare a far parte di una certa élite fare con l'adulazione, il tuo adattamento a richieste richieste, alla moda, a quel senso del mercanteggio e della compiacenza che non mi ottenere.
Le mostre più belle sono quelle dove mi hanno invitato, dove mi hanno cercato e dove sono andato felice di incontrare persone vere.
D- Hai opere esposte in varie zone d'Italia. Vuoi farci conoscere alcune località di
queste?
R-Ho esposto al museo Kunstart
A Bolzano con la galleria Gaudi di Madrid, a Parigi, Pantin,con il Centro d'arte Modigliani, a Napoli a Castel dell'Ovo, a Palazzo Rospigliosi nel museo del giocattolo, a Genova alla mostra d'arte contemporanea, a Firenze alle Giubbe Rosse, e alla galleria FirenzeArt e poi tante personali in toscana e collettive in Italia. Alcuni miei quadri sono anche andati più lontani, ad Amburgo, in Germania, nel nord Carolina in USA, in Brasile.
D- Sei un artista dalle grandi capacità espressive sia per quanto riguarda l'arte figurativa
che quella poetica. I tuoi dipinti e le tue liriche hanno in comune l'introspezione e la
nostalgia. Vuoi parlarci di entrambe?
R-Sono passati molti anni da quando ho iniziato a dipingere.
Ai tempi della scuola, durante le lezioni mi piaceva ascoltare e nello stesso momento disegnare, qualsiasi cosa, che mi passava per la mente.
Il tratto, il segno, mi hanno sempre seguito. Poi il colore.
Ancora oggi cerco sempre l'ultimo colore, quello che ispira la luce, il ricordo.
Anni fa ne usavo meno nei miei quadri, di colore. Erano per lo più immagini soffuse, ovattate.
Oggi no, sto cercando la luce, quella più vivida. Amo i contrasti e le visioni istantanee.
Scrivo qualcosa, ogni tanto, l'ho sempre fatto da quando avevo sedici anni, ma lo tenevo per me. A volte una frase può racchiudere un pensiero importante, poche parole un concetto fondamentale, così provo a metterle sulla tela, e il risultato, spesso, mi lascia interdetto, trovo sempre qualcosa di diverso dall'idea originale, a conferma della nostra impermanenza.
D- In genere gli artisti amano l'arte in genere ma non tutti gli stili e tutte le varie correnti.
Hai preferenze di pittori classici? E contemporaneo?
RI pittori che amo di più sono gli impressionisti ei macchiaioli.
Vado spesso nell'ultima sala di Palazzo Pitti quella più in alto.
E resto a guardare, come fossi in un altro mondo, proprio quel mondo che è stato ed è, per me, il vero senso della pittura. Si impara tanto a guardare. Si riesce a sentire tutta la voglia di raccontare ed esprimere ciò che fino agli anni antecedenti era stato nascosto.
Fattori, Cabianca, Segantini, Banti, Lega, Boldini, Borrani, Gioli, Signorini, Lloyd e tutti gli altri di cui adesso non ricordo i nomi, e poi , Monet, Manet, Renoir, Van Gogh, ci vorrebbe un giorno per elencarli tutti .
Uno che mi colpì da giovane e che non fa parte della categoria è il grande pittore olandese Johannes Vermeer, i suoi dipinti ti assalgono con una luce straordinaria.
Amo un po' tutta la pittura in genere, l'arte americana prima dell'avanguardia, tra tutti, Hopper. Ci potrebbero le potenzialità per poter fare un lungo discorso su tutto questo, ma potrei essere tacciato come conservare incapace di comprendere e apprezzare l'arte moderna, specie quella contemporanea. Non è così una banana attaccata ad un muro lì ci sono sicuramente dei grandi, solo che il mio gusto personale non riesce a così un muro animale ucciso lì ci sono sicuramente dei nastri attaccati con del adesivo e tanto meno un palo nero bruciato con pseudopodi scarnificati nella più bella piazza del mondo.
D- A questa intervista sono accusati alcuni tuoi dipinti, vuoi inserire anche un paio delle tue liriche?
R- Come ho detto prima, scrivere è l'altra mia passione.
Lascio qui due pensieri, uno scritto quando avevo diciott'anni, l'altro adesso.
IMPRESSIONI (1974)
Vi conosco
siete i miei libri
i miei quadri
impressioni
della mia vita
siete i colori
che spando su questa tela
senza soluzione.
Il mondo mi libera
e fermandosi
la mia passione
s'avvinghia al domani
Se terrete così il mio vivere
sempre
nelle vostre vostre richieste
costruita una terra
un porto
in premio alla mia fatica
Oggi non guardo
perché non voglio immaginare
ma il domani s'avvicina
prende i colori dal mio viso
ed io rimango
stanco
assolo
inutilmente
Disegno dai contorni
di matita scura
che si schiude per ridere
un po' di sé
per non morire
veramente
QUESTE POCHE PAROLE (2020)
Sono volute di fumo
non volute da me
Queste poche parole
abbandonare alla sera
rincorrono strade
con lo sguardo che era
quello sguardo per te.
In spirali di fumo
fra i riflessi di un vetro
sulla linea di un muro
una sedia dov'era la figura di ieri
dondola vuota
non è il vento che spira
ad alzare la mira al ricordo
di dove ho nascosto
quel lume che indicava il cammino
due piccole lune
una eclissi sul fiume
un sorriso arlecchino
si è contratto in un grumo
in volute di fumo
Non voluta da me.
D- Chi conosce le mie interviste sa che lascio una parte “bianca “ all'artista.
Uno spazio dove l'autore si senta libero di scrivere ciò che sente, nel bene e nel male del
proprio ambiente. Noi amiamo la libertà di stampa e di pensiero per tanto Andrea sentiti
libero di esprimerti come vuoi su questo meraviglioso mondo dell'arte che
indubbiamente, come tutto, ha i suoi pro ei suoi contro
Grazie di cuore Andrea, grazie di ciò che sai darci attraverso la bellezza.
R-Penso di aver già fatto capire cosa penso di questo mondo.
Come in tutte le cose, c'è chi vive PER l'arte e chi vive CON l'arte. Le due cose, a volte si mescolano, e, da lì può sortire fuori un genio o un impostore.
Forse è il bello dell'avventura, alcuni hanno capito come andrà a finire, altri no.
Io sono tra quelli che resta nel dubbio, non ho avuto mai certezze assolute, l'unica a cui mi rivolgo e chiedo ascolto è quella di non acquistare un quadro, una scultura, per il valore del mercato, o perché ci sta bene con il mobile ed il divano, ma perché ti ha colpito, ti ha incuriosito, fa nascere un ricordo, o semplicemente perché ti piace.
Grazie Marzia, grazie dal cuore.
La musica è la lingua dello spirito. La sua segreta corrente vibra tra il cuore di colui che canta e l’anima di colui che l’ascolta
(Khalil Gibran)
Il nostro paese, è ricco di arte, di cultura, di emozioni. Nel fronte musicale abbiamo diversi cantanti e componitori italiani di tutto rispetto. Vorrei puntare sul cantautorato che arricchisce ancora di più il panorama della musica: comporre musica e parole è arte pura, cantare i propri costrutti, ancora di più. Riuscire a farlo per sé, per gli altri e farlo bene è già un successo ma se questo viene fatto in punta di piedi, con delicatezza, umiltà, professionalità e impegno, si arriva alla vetta.
Mariella Nava è tutto questo-
Maria Giuliana Nava, Mariella Nava per tutti, nasce a Taranto dove inizia a studiare con profitto al pianoforte. Scrittrice da sempre come da sempre estremamente sensibile.
Questa attività la porta dopo consigli di amici di fare leggere le sue composizioni e così inizia la strada di un grande talento. Fu con Gianni Morandi che iniziò i suoi primi successi con la canzone “ Questi figli”. Segue il contratto discografico con la RCA, l’apparizione al Festiva di Sanremo nel 1987 e poi innumerevoli meritati successi. Ha collaborato con illustri nomi della musica, ha scritto per Eduardo De Crescenzo, per Renato Zero, per Andrea Bocelli. Ha duettato con Mango, Amedeo Minghi, Dionne Warwick… Riceve premi per l’attività di scrittura, riconoscimenti al suo lavoro cantautorale e tantissime altre soddisfazioni che ha meritato appieno. La sua emotività e sensibilità l’hanno portata spesso ad essere presente in occasioni di beneficenza in eventi solidali.
Cerchiamo di conoscerla attraverso le sue parole che gentilmente mi ha concesso-
D- Ciao Mariella, intanto grazie per la gentilezza nell’avere accettato l’intervista:
ci piacerebbe conoscere il tuo imprinting con la musica. Quando è stato il primo momento nel quale hai compreso questo amore?
R.: Non ne ho una percezione temporale esatta ma credo che la musica si sia palesata a me come interesse insostituibile nel momento in cui entrò in casa mia un pianoforte verticale.
Sarebbe dovuto essere oggetto di studio per mia sorella di qualche anno più grande di me e quindi più pronta a iniziare ma invece mi ci appassionai io, fu una specie di folgorazione da cui non sono mai guarita. Avevo 7 anni.
D-Hai collaborato artisticamente con grandi nomi della musica? Vuoi parlarci di queste tue emozioni?
R.: grandissime emozioni tutte le volte e tutte diverse.
Le assimilo ad una scala piena di gradini da salire. Ogni volta era per me come un respiro nuovo ed un test importante da superare che insieme mi onorava ma mi metteva alla prova con me stessa. Anche perché il più delle volte era una richiesta che mi arrivava da artisti affermatissimi e non un mio propormi. Tutte le volte aggiungevo un valore alla mia scala e componevo la mia piccola storia. Era come dire: “ Ce L’ ho fatta anche questa volta!”
Ci sono state alcune occasioni in cui mi sentivo troppo inesperta per tenere testa alla domanda di collaborazione ma poi venivo esortata proprio da chi me la chiedeva a mettermi al lavoro con fiducia con il fatto di poter essere benissimo all’ altezza.
Questo è successo con RENATO Zero con “Spalle al muro“ nel 1991 o con Dionne Warwick nel 2004 con “It’s forever”.
D- Hai duettato con diversi artisti, vuoi dirci chi ti ha particolarmente coinvolto? Perché?
R.: Tutte le volte ho provato un grande coinvolgimento.
Ricordo “ Crescendo” con Renato Zero di cui girammo anche un bellissimo videoclip diretto da lui e poi ancora Amedeo Minghi con “ Futuro come te “ portata insieme al Festival di Sanremo del 2000.
Nel cuore ho anche il bellissimo ricordo di Pino Mango con cui cantammo “ Il mio punto di vista”. Due timidi che si incontrano puoi immaginare? Una tenerezza infinita se ci penso!!!!
Però quel giorno intero in studio a registrare e nostre voci insieme resta dentro me come uno dei momenti più emozionanti e belli.
D- La canzone “Vecchio” presentata a Sanremo nel 1991 è stato un enorme successo di Renato Zero e tuo. Quanto è contato per te l’incontro con il carismatico Renato?
R.: L’ ho sempre raccontato. Devo a lui moltissimo per come ha accolto nel suo repertorio questa mia creatura musicale.
Non sarebbe diventato il successo che è se non avesse goduto di quella insuperabile interpretazione su quel magico palco dell’ Ariston.
Tutto era perfetto per scrivere storia.
Io devo a lui il piacere di avere potuto partecipare a quel brillante momento della storia della musica leggera italiana.
Poi tutto il resto. Tutto quello che si può capire e imparare da un grande della nostra scena musicale.
D- L’ambiente della musica come di ogni altro mondo artistico è indubbiamente un cammino tortuoso, difficile e non sempre sinonimo di meritocrazia. Quanto ti sei sentita compresa? Quante altre volte hai avuto la percezione di insoddisfazione?
R.: posso dirti la verità? Incompresa molte volte. Nonostante la stima guadagnata essere donna in musica è davvero complicato.
Ho versato molte lacrime ma posso dirti oggi che sono state proprio la mia forza. Perciò benedico quei no. Benedico tutte le porte in faccia. E ad ogni delusione ricevuta corrisponde la mia crescita interiore e una mia canzone nuova che poi mi ha dato le più grandi soddisfazioni. Oggi sono molto più consapevole delle mie possibilità, del mio posto e non ho più paura di essere quello che sento e che voglio.
Un artista ha bisogno anche di questo per formarsi.
D- Sei una “scrittrice di vita” e porti in musica incanti di emozioni, hai la qualità di saperti esprimere in modo ottimale con la parola, la metafora e l’espressione emozionale. Quanto è contato tutto questo nella tua carriera? Quale è stata la tua prima importante collaborazione?
R.: è arrivata con una canzone sul rapporto genitori figli. La inviai a Gianni Morandi che come vedi è sempre pronto a voler scoprire e cantare nuovi generi musicali ancora oggi.
Lo lessi su di un giornale che avrebbe cantato volentieri nuovi autori.
Era il 1985. Così gli spedii una cassetta con su una canzone registrata voce e piano in diretta.
In una lettera di accompagnamento dicevo di essere di Taranto, studentessa e un numero di telefono di quelli fissi perché non c’ erano ancora i cellulari.
Rispose mia madre a quel telefono che squillò inaspettatamente in un pomeriggio ed era lui che mi cercava. Pensai che fosse uno scherzo ma era vero. Tutto iniziò da lì.
Cantò per primo le mie note e le mie parole.
Il brano si intitolava “ Questi figli”.
D- Mi piacerebbe che tu ti esprimessi liberamente su quanto è cambiata la musica, gli stili e la richiesta del pubblico.
R.: La richiesta del pubblico ? E chi la ascolta più? Con quale metodo? Se la ascoltassimo almeno una volta potremmo sapere qualcosa in più, per esempio perché non si compra più la musica mentre una volta si correva in un negozio a prenotarne il disco in uscita, perché non la si vuole più possedere ma ascoltare e basta? Ormai sono saltati molti parametri e se ci fermassimo a fare domande semplici avremmo moltissime sorprese.
Come in politica…
La musica è quella che sentiamo perché è quella che gira e forse quella che si sa fare con più facilità da molti ( forse troppi?) in questo momento.
La si “ compone “ con dei campionamenti e il più delle volte il vestito supera di gran lunga il nucleo della canzone, il contenuto, ammesso che ci sia. Spesso la linea musicale se la analizziamo è inconsistente, costruita su una nota sola, a volte due, se si arriva a tre si festeggia, scherzo naturalmente, però è vero che diventa insopportabile, troppe volte ripetuta e monotona.
Tutte le produzioni si assomigliano, in una sorta di overdose di brani poco distinguibili e destinati a non lasciare molto ricordo di sé dopo poco tempo.
Con questo non voglio dirti che tutto quello che si produce non sia valido, anzi, ci sono cose concepite e realizzate molto bene ed anche affascinanti nei nuovi generi, ma generalmente arrivano dall’ estero, dove hanno imparato a scrivere meglio di noi le canzoni che un tempo ci invidiavano.
Però, per farti un esempio, se un esperto musicista compositore si chiudesse in uno studio e capisse come si creano le canzoni in voga adesso, credo che con un po’ di impegno imparerebbe presto e ne potrebbe fare tante.
Il difficile è invece L’ esperimento contrario, scrivere le canzoni, trovare passaggi musicali unici, con cognizione di causa, parole inconfondibili, insomma scrivere quelle canzoni che riescano a rimanere nel tempo e parlare a più generazioni, quelle che non si scrivevano a chili per le stagioni, ma che venivano pensate con cura prima di vestirle con giusti strumenti, quelle che nascevano prendendo una chitarra e cantando come faceva Battisti con Mogol o Modugno o De Andrè, oppure sedendosi ad un pianoforte come faceva Burt Bacharach, tirando fuori un giro di accordi e di melodia di ineccepibile bellezza.
D-Hai qualcosa che vorresti dire ai nuovi talenti?
Si, di essere veri, soprattutto veri , di non scimmiottare mai nessuno e di scriverle loro le mode, non di seguirle!
D- Cosa ne pensi dei Talent che si aprono ai giovani?
Non mi dispiacciono, L’ ho detto già tante volte ma farei qualche cambiamento sui giudici scelti, altrimenti diventa puro show televisivo non al servizio della musica.
D- Una domanda di pura curiosità che rivolgo spesso a ogni tipo di artista: “La tua passione è nata in autonomia o nella tua famiglia vi era già il seme artistico?”
No in realtà è nata da me anche se mia madre, che era insegnante, ha sempre gradito
un’ educazione all’ arte per i suoi tre figli. La riteneva fondamentale per il nostro crescere e la nostra sensibilità e non posso darle torto.
D- Cara Mariella, è mia abitudine lasciare uno spazio bianco a qualsiasi artista perché sono convinta che l’arte non debba avere alcuna catena e limite d’espressione. Mi piacerebbe un tuo pensiero sul panorama musicale e dicendo panorama musicale, intendo spaziare a 360°.
Sentiti libera di dire che…
R- ho già un po’ detto tutto per cui mi limiterò a lanciare un annuncio:
Sappiate che la bella musica c’ è, non morirà mai, basta andare a cercarla.
Tempo che soffre e fa soffrire,
tempo che in un turbine chiaro
porta fiori misti a crudeli apparizioni.
(Mario Luzi)
Il tramite della poesia rimane l'uomo, l'uomo con la sua mentalità, intelligenza, scaltrezza, l'uomo con le proprie esperienze, sensazioni e cammini emotivi.
Senza alcun dubbio Mario Luzi è stato fra i maggiori esponenti della poesia ermetica anche se incanalarlo solo in uno stile poetico è a dir poco riduttivo e insufficiente.
Mario Luzi era molto di più; era una persona attenta, sofferente di un mondo ai suoi occhi immorale, scorretto dove l'essere umano è l'artefice di tanta nullità. Era un viaggiatore ma sopratutto un trasformatore della parola mosaico ogni terminologia trasformando con gli anni la sua poetica di ari passo con i tempi e le concezioni del momento cambiando spesso le strutture strutturali del proprio stile.
Fin dall'esordio con "La barca" (1935), il giovane Luzi, inizia la metamorfosi del suo lungo dire passando da una sospensione metafisica, seguendo poi con i settori emetico-cattolici fino ad arrivare a una visione simil-fotografica degli ambienti e luoghi fino ad arrivare poi alla contestualità della morte e della sofferenza.
Il suo versificare sul dolore, sulla certezza dell'incomunicabilità, la serrata sensazione dell'inquietudine, l'ansia come insopportabile resa di un'epoca sorda e sterile, lo rendono un meraviglioso uomo pensante e non un ennesimo scrittore di poesia elegiaca. Già dopo il 1943 Luzi si stacca dal suo essere ermetico intraprendendo un cammino di neorealismo sia poetico che letterario che abbandonerà in seguito per uno stile del tutto personale addentrandosi su tematiche di una società moderna e post moderna. Un continuo evolversi del poeta che non si sofferma e un cliché forzato ma che si lascia trasportare da un'interiorità complessa di riflessi emotivi da spingerlo liberamente verso una ricerca liberatoria del sé svincolato da stili, correnti o forme poetiche “obbligate”.
Nella raccolta “Nel magma” (1963), il poeta ormai adulto, diventa coscienza e scrutatore di vita e di morte rimanere libere le parole di “agire” e formare ciò che la propria mente partorisce costruendo così testi e conversazioni di stile prosastico, lontani da creazioni ermetiche ma simbiotici alla vita. Una silloge di impronta eliotiana dove l'ombra filosofica-metafisica aleggia fra simbolismi e tracciati di vita reale.
In queste poesie alloggia nel poeta il ricordo, l'ansia, la nostalgia, la spiritualità, la costruzione, l'arresa, l'invitabilità e il tutto abbracciato in quell'inquietudine che in questa raccolta intera vibra.
Mario Luzi crea la poesia dai fatti, dalla speranza fra avvicinamenti e distacchi dove il tutto convola fra l'etereo e la materia dove sempre perdura quell'ansia sconvolgente creata dall'assenza del valore umano.
Fu traduttore, giornalista, professore universitario, scrittore, opinionista, collaboratore di riviste, autore di monologhi di pezzi teatrali. Nominato Senatore a vita della Repubblica Italiana; fu un grande letterato che mai dimenticò di essere UOMO. Nessuno più di lui dimostrò tanta umiltà, sempre disponibile a interviste, dialoghi, conferenze. Amava tardare con gli studenti anche ben oltre i normali orari di lezione. Molti ragazzi venivano da tutta Italia per incontrarlo e lui dimostrò sempre molta attenzione e ascolto per ognuno di loro dando sempre la propria disponibilità.
Ci sono uomini che lascino di sé i loro operati, ma ci sono anche uomini che oltre ai doni da loro elaborati, lasciano ricordi e orme indelebili del loro passaggio grazie al loro enorme senso morale e civile. Questo e molto di più era Mario Luzi.
Mario Luzi nasce a Castello allora frazione di Sesto Fiorentino adesso è in provincia di Perugia il 20 ottobre 1914 e muore a Firenze il 28 Febbraio 2005.
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Foto di Tolkien presa da Wikipedia |
" La Fantasia è una naturale attività umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca offesa alla Ragione; né smussa l'appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la percezione. Al contrario: più acuta e chiara è la ragione, e migliori fantasie produrrà. "
—Tolkien da "Sulle fiabe"
John Ronald Reuel Tolkien nacque a Bloemfontein in Sud Africa da genitori inglesi il 3 gennaio 1892 e morì a Bournemouth nello Hampshire il 2 settembre 1973 a 81 anni.
Nel luogo della nascita rimase solo per tre anni, subito dopo la morte del padre si trasferì con la mamma e il fratello a Serehole in Inghilterra.
All'età di 9 anni perde anche la madre; viene affidato con il fratello a un prelato; padre Xavier, un prete cattolico degli Oriatoriani.
Nel 1921 divenne docente di lettere all'Università di Leeds, successivamente Professore di filosofia e glottologo a Oxford e in un secondo tempo insegnante di letteratura medievale al Merton College. Arrivò persino ad insegnare la lingua norrena, l'antenata della lingua scandinava.
Tra il 1920 e il 1930, inizia la sua grande attività letteraria; leggende, fiabe, mitologie dall'ingente fantasia. Al termine degli anni '20 in un foglio bianco scrive la frase: “In un buco nel terreno viveva uno hobbit”. Così nasce Lo hobbit ”, opera che viene pubblicata nel 1937, nata inizialmente per i più giovani ma complessa e articolata tanto da diventare un libro amato da tutti gli amanti del fantasy di ogni età.E pensare che Tolkien scriverà "Il Signore degli anelli" solo dopo la richiesta di Stanley Unwin (editore) che riteneva "Lo hobbit" bisognoso di un seguito, ciò non fu semplicissimo inizialmente, Tolkien si sentì infatti costretto e svogliato nella stesura dell'epico volume tanto da non dargli un titolo nell'immediatezza, ci mise oltre un anno, poi se ne innamorò lui stesso.
Le saghe di tematiche medievali “Lo hobbit”, “il Signore degli anelli”, “il Silmarilion” e “racconti incompiuti”, sono le opere che si svolgono nel periodo delle tre ere della terra di mezzo, un continente di Arda che Tolkien sosteneva essere una terra all'interno della nostra stessa terra. Un mondo circondato da oceani e privo di ombre ...
L 'abilità di Tolkien è di essere riuscito con stile mitopoietico a creare romanzi fantasy epici, ricchi di colpi di scena, di personaggi veri e improbabili, di storie e ambienti dove il lettore nonostante si renda perfettamente conto che di solo lettura si tratta, viene catapultato quasi per magia in quella “realtà” inverosimile capace di ipnotizzare la parte coerente del sé.
Un mondo in altri mondi dove le vicende e le gesta nonostante siano frutti della mente di Tolkien, rasentano il dubbio del reale per la modalità in cui sono scrupolosamente descritti.
Le opere più conosciute
“Lo Hobbit” (1937), “La compagnia dell'anello” (1954), “Le due torri” (1954) e “Il ritorno del Re” (1955) sono indubbiamente capolavori uniti in un unico volume dal titolo “Il Signore degli anelli ”la trilogia che ebbe ed ha ancora, un successo planetario scritto in una lingua molto simile all'inglese medievale, ha venduto oltre cento milioni di copie in tutto il mondo. Parker lo portò nelle sale cinematografiche diventando così anche un cult del cinema fantasy.
Chistopher John Reuel Tolkien, il figlio, scrittore editore fu il disegnatore delle mappe originali all'interno dei libri del padre e fu lui che dopo la morte di questo, fece la revisione del materiale che non era ancora pubblicato.
Le opere postume alla morte di Tolkien furono:
1977 “Il Silmarillon”
1981 “I racconti incompiuti”
2007 “I figli di Hurin”
2017 "Beren e Luthien"
2018 “La caduta di Gondolin”
Curiosità sull'autore:
- Tolkien ha passato l'intera vita allo studio delle lingue. Sua madre, fin da piccolissimo gli parlava in latino, in tedesco e in francese. Questo acuì il suo interesse personale verso lo studio di queste, tanto che negli anni imparò il russo, l'italiano, il greco, il gallese antico e moderno, l'inglese medioevale, lo svedese, il danese, lo spagnolo, il norvegese, il finlandese. Una volta che completò questa sua voglia di sapere, annoiato, inventò 14 lingue con alfabeto completo.
-Taccagno per natura, s'irritava quando doveva pagare le tasse che trovava essere un ladrocinio.
Fra i suoi documenti trovati dopo la sua morte, ci fu un ritaglio della dichiarazione dei redditi dove in calce vi era scritto: "Nessun penny per il Concorde" ha scritto un decreto britannico che chiedeva di usare fondi pubblici per finanziare il famoso aereo.
-Lo hobbit fu bandito dalla Germania perché ritenuto scritto da un autore che si era rifiutato di rendere omaggio al nazismo. Nel 1937 un editore tedesco prese in considerazione di pubblicare il libro di Tolkien, s'insinuò nella trattativa un ufficiale del Terzo Reich che contattò lo scrittore per domandargli se era di origini ariane, egli rispose che "purtroppo" non aveva avi ebrei e che era dispiaciuto per questo visto che erano un popolo dotato. Ovviamente con questa risposta, Tolkien finì nel registro nero delle autorità naziste.
-Tolkien visse la sua vita facendo il professore di filologia inglese, a lui non interessava essere famoso e conosciuto, amava ciò che scriveva per pura passione e per dare sfogo alla sua fantasia geniale. Morì nel 1973 due anni dopo la moglie ed è seppellito con lei in un cimitero vicino ad Oxford.
-Una curiosità: le tombe della coppia non riportano i reali nomi: Edith Bratt e John Ronald Reuel Tolkien ma sono siglate da nomi di fantasia “Luthien” e “Beren” nomi tratti dal romanzo postumo scritto da Tolkien ambientato nell'universo fantasy della terra di mezzo che narra la storia di un amore contrastato, lui umano e mortale della terra di Mezzo e lei un'elfa regale immortale.
la bellezza del mondo ha due tagli, uno di gioia, l'altro d'angoscia, e taglia in due il cuore (VW)
Virginia Woolf nacque a Londra il 25 gennaio del 1882 con il nome di Adeline Virginia Stephen.
Divenne una delle scrittrici e saggiste più importanti e influenti di sempre per la sua modernità nei suoi romanzi per esempio "la signora Dalloway" del 1925, "Gita al faro" del 1927 o "Orlando" del 1928. Famosa per le sue sperimentazioni di scrittura come quella di riportare subito sulla pagina bianca i pensieri così come si trova nella mente senza strutturarli fissando così quel flusso di coscienza senza elaborazioni particolari. Amava la lettura e la scrittura in modo quasi ossessivo,
La Woolf si avvicinò al nascente movimento femminista ea quello delle suffragette, donne forti, decise, che si batterono per l'emancipazione femminile e per il diritto al voto. Ricordata per il suo impegno attivo a favore dell'emancipazione e dei diritti delle donne, temi che insieme in moltissime sue opere letterarie. Fu una delle prime donne a scrivere romanzi. Ebbe inoltre relazioni omosessuali, intenso il rapporto con la poetessa Vita Sackville West che le fu di ispirazione per il romanzo “Orlando”.
Virginia era figlia del famoso filosofo, critico e alpinista britannico Leslie Stephen e di Julia Prinsep Stephen modella per i pittori sopratutto in Inghilterra.
Virginia aveva sette fratelli alcuni naturali e altri acquisiti. Nel 1895 all'età di tredici anni iniziarono i primi lutti della scrittrice; morì la madre e qualche anno dopo anche il padre e una delle sorellastre. Virginia iniziò ad avere le prime crisi nervose, diceva spesso di avere la sensazione di sentire “spilli nella testa”; la vita l'aveva già messa a dura prova appena adolescente, non solo per i lutti ma per le violenze sessuali subite dai fratellastri Gerard e Geoge. Di questi episodi ne parlò anche nel libro “Momenti di essere e altri racconti”. Visse sempre con i sensi di colpa di non avere dimostrato amore al padre e alla madre, visse lotte interiori per tutta la vita.
Giovanissima si trasferì con il fratello Thoby e la sorella Vanessa nel quartiere di Bloomsbury a Londra dove con un gruppo di intellettuali contribuì a creare uno dei più influenti circoli culturali del Paese denominato come Bloomsbury Group, il circolo era aperto a tutti gli artisti non avvezzi alle convenzioni siano quella religiose, di razza o di scelta sessuale.
Una donna eclettica, intelligente, coraggiosa nelle scelte e determinate anche verso decisioni per molti discutibili. Spesso etichettata come snob, borghese, fredda e eternamente depressa, giudicata, additata e non compresa da molti. Anticonvenzionale e libera nel senso più ampio della parola.
Nel 1912 sposò Leonard Wolf, teorico politico e scrittore con il quale nel 1917 fondò la casa editrice Hogart Press. Una casa editrice che portava avanti un'idea rivoluzionaria; non dovevano esserci scismi fra le varie forme artistiche. Qui iniziarono a stampare libri a mano anche per gli autori stranieri (Cechov, Dostoewskij ecc)
Virginia, quasi quarantenne si innamorò di Vita Sackville West conosciuta al circolo Bloomsbury. Si frequentarono per tre anni fino a che Vita stessa invitò Virginia a casa sua dando così inizio alla loro relazione sentimentale. Nel libro “Scrivi sempre a mezzanotte” di E. Munafò sono raccolte centinaia di lettere che le due donne si scrissero nei lunghi 15 anni di relazione.
Virginia non fu mai interamente felice, un moto interiore la trascinava di continuo fra momenti belli e baratri da tenere sotto controllo. Più volte tentò il suicidio, più volte cedette al male interiore. La sua intelligenza, genialità e determinazione in un mondo maschilista e antiquato non la fece mai sentire completamente a proprio agio. Visse di sensi di colpa, insicurezze che mai dette a vedere. Il marito non l'abbandonò mai, sempre premuroso e attento nonostante le difficoltà che le crisi nervose gravavano nell'entourage matrimoniale. Comprese sempre Virginia, conosceva la sua psiche più di chiunque altro e mai la giudicò.
Nel 1941 il 28 marzo, a soli 59 anni, Virginia si dirige verso il fiume Ouse nel Sussex, mentre lentamente cammina appoggiata al suo bastone, inizia a riempirsi le tasche di sassi… uno… due… tre ... dieci e dopo un ennesimo crollo psichico cede alla “gabbia” della sua vita; si suicida immergendosi nell'acqua. Era una giornata di primavera ma Virginia non vede più il sole ne tanto meno ne sente il suo calore. Virginia stanca di vivere va portando via con sè una mente eccelsa chiusa in una testa piena di spilli.
Prima di morire lascia una lettera al suo compagno di vita
Carissimo,
sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone potrebbe essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai, lo so. Vedi, non riesco neanche a scrivere come si deve. Non riesco a leggere.Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo - tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi, saresti stato tu. Tutto se n'è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possono essere state più felici di quanto lo siamo stati noi.
V.
In via Borgo Ognissanti al numero 12 a Firenze, si può notare che il balcone di una palazzina ha una forma curiosa, osservando attentamente ci accorgeremo che la sua costruzione è inconsueta perché montata al contrario, ogni elemento è stato assemblato in modo rovesciato. le balaustre, le colonnine, le mensole e persino le decorazioni.
Nella vecchia Firenze tale bizzarria veniva chiamata “il palazzo con il balcone alla rovescia”
Siamo nel 1530, a quel tempo il proprietario del palazzo di Borgo Ognissanti era Messer Cristofano Baldovinetti, egli voleva fare costruire un elegante e spazioso balcone per rendere ancora più elegante la sua proprietà.
Fece domanda di concessione all'allora Duca Alessandro de 'Medici, (ultimo discendente del ramo principale de' Medici detto il Moro), che negò la richiesta dal momento che proprio in quell'anno fu da lui emanata un'ordinanza che sostanzialmente vietava la costruzione di balconi e elementi architettonici troppo invadenti, dato che le strade della città erano particolarmente strette.
Baldovinetti non accettò quell'imposizione e per moltissime volte ritentò la richiesta di concessione sempre in modo garbato ma deciso, voleva ad ogni costo una grande terrazza per la sua dimora; un balcone imponente ed elegante.
Inutile la spiegazione del Granduca che esasperato dall'insistenza del Baldovinetti continuava infastidito a chiarire in modo perentorio l'ordinanza; non si potevano costruire in alcun modo elementi architettonici su muri e palazzi per non sovraccaricare le già strette strade del centro storico.
Baldovinetti convinto che l'ubicazione del suo palazzo si ergesse in una via non particolarmente stretta, non intendeva demordere alla sua richiesta inviando ad ogni diniego di tale domanda, un'ulteriore pretesa.
Un giorno, stanco delle incessanti richieste del Baldovinetti, Alessandro de 'Medici pensò a uno stratagemma convinto che finalmente le pressanti e continue pretese cessassero una volta per tutte.
Disse così al Baldovinetti che gli avrebbe concesso la possibilità di costruire il grande balcone desiderato ma che questo però, fosse costruito al contrario.
Contento di sé il Duca si convinse di non sentire finalmente mai più quella pretesa.
Baldovinetti invece, non si perse d'animo, prese per buone le parole del Duca e costruì il suo stravagante balcone. Alessandro de 'Medici ovviamente non potette che acconsentire ammirando la determinazione e riconoscere il lavoro ben fatto nonostante la stramberia della cosa.
Adesso tanti turisti che non sanno la storia di quella particolarità, guardano con il naso all'insù tale curiosità pensando forse, che i fiorentini son tutti “grulli”
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Il cavallo eretico - video-intervista ad Antonio Presti |
E niente… ci piace chiudere e aprire un anno così… con la favola dell'Eresia, la bella storia di un visionario e del suo viaggio nella Bellezza. A incarnare ancora una volta lo spirito eretico quale valore della scelta è Cavallo eretico, la sontuosa scultura in lamiera zincata che Antonio Presti ha donato alla valle dell'Alesa. Iconico e imponente, Cavallo eretico, si pone a custode della verità e dall'alto dei suoi 4 mt di altezza ci impone il diritto di scegliere.
Esortazione e monito, dunque, in un periodo storico che è sicuramente il più critico della storia moderna, dalla Seconda guerra in poi! Ma poiché di Favola… oggi… vogliamo parlare… diciamo pure che Cavallo eretico è il Dono, (l'ennesimo di una lunga serie peraltro!) Che un mecenate, eretico per scelta e per dogma di fede, fa all'umanità tutta.E 'il dono dell'amore che, stanco di dormire, nella notte, si volge indietro a guardare il giorno appena trascorso, quasi fosse l'ultimo giorno di dolore, nell'ingenua, forse, ma ostinata e dannata speranza che quel misterioso Salvatore del mondo segretamente custodito e abitato nei meandri più o meno reconditi dell'umana esistenza… si svegli e venga a sdoganare gli animi dal pregiudizio, a districare i nodi che sono divenuti grovigli, ad allentare le maglie di quella fitta rete che è la Soglia della gabbia dorata che dispoticamente tiene il pensiero ostaggio di libertà negate.
E questa è la Favola bella che Presti racconta instancabilmente agli alunni di Librino, realtà ai margini di una Terra a margine. E i ragazzi ascoltano, e… fiduciosi… si adoperano affinché lo stereotipo del vecchio adagio che da più di un secolo anima le coscienze di chi ama pensare che nella Terra del Gattopardo “nulla mai cambierà” si tradisca da sé. In questa terra inquieta che vive le profondità del suo mare azzurro,
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Antonio Presti |
dilaniata e accecata dalle sue intime contraddizioni si consuma il mistero della vita, della morte e della bellezza generatrice.
Sarà colpa della Luna che annega nel nero di un orizzonte indecifrabile, a renderla così inquieta… questa
terra che invoca gli abbracci ei baci negati. Mentre quell'orizzonte nero si fa strada in un pensiero segreto e diventa l'Orizzonte altro, quello possibile, quello da cui ripartire, feriti forse, provati sicuramente, ma prostrati Mai. A tutti… cittadini del mondo auguriamo di correre come gitani, verso quel mare dalle onde salmastre che ci tenta con le sue rughe salate perché custode della nostra memoria e delle nostre Speranze. Grazie ancora Antonio perché ci restituisci fiducia e speranza!
“Credo che i demoni approfittino della notte per traviare gli sprovveduti”. Non sembra certo una frase scritta dal padre della narrativa macabra. In realtà Edgar Allan Poe (Boston 19 gennaio 1809-Baltimora 7 ottobre 1849) aveva paura anche del buio. Figlio di una coppia di attori girovaghi perse la madre da piccolo. Il padre già aveva abbandonato la famiglia e morì poco tempo dopo la moglie. Orfano dall’età di 3 anni fu adottato da una famiglia benestante ma anaffettiva e che certo non lo comprese mai veramente. Crebbe in Virginia nella città di Richmond. Alcolizzato fin da giovanissimo e dedito al gioco d’azzardo si indebitò moltissimo; con i soldi che gli mandava il padre non pagava le rette Universitarie tanto che abbandonò la scuola dove aveva studiato lo spagnolo, l’italiano e il francese, iscrivendosi in seguito all’Accademia militare a West Point. Entrò nel 1830 e già l’anno successivo fu estromesso per comportamenti non idonei e disubbidienza agli ordini. Fu processato alla corte marziale.
Sgradevole, ubriacone, attaccabrighe e giocatore d’azzardo. Di aspetto cagionevole e trasandato da dimostrare più della sua età. Lottò per tutta la sua breve vita contro le proprie dipendenze e debolezze. Fu diseredato dal padre adottivo per il suo comportamento e addirittura minacciato se si fosse ripresentato presso la sua abitazione. Sposò sua cugina Virginia Clemm di soli 13 anni, lui ne aveva 27. Iniziò a scrivere racconti e storie per alcune riviste. Non si riprese mai psicologicamente, la sua vita fu un tormentoso viaggio annegato nell’alcool e nel delirio oltre che all’abitudine del gioco d’azzardo.. E’ nota la vicenda dei cinque giorni nel quale lo scrittore/poeta fece perdere le proprie tracce. Fu ritrovato svenuto e emaciato di fronte a un pub Irlandese. Ricoverato in ospedale, morì in preda all’incoscienza invocando più volte un nome: Reynolds… Reynolds… All’inizio i medici pensarono che fosse morto a causa di un delirium tremens o congestione celebrale da alcool e narcotici. E’ probabile invece che la causa della sua morte stesse racchiusa tutta in quei cinque giorni dove forse lo scrittore fu rapito da alcuni assoldati per motivi politici. Pare fosse stato obbligato a votare più volte lo stesso nome per l’elezione del sindaco contro la propria volontà; probabilmente fu fatto bere fino al coma etilico. Si dice inoltre che fosse malato di sifilide e di diabete ma di tutto questo vi è totale mistero dal momento che le cartelle cliniche non furono mai ritrovate.
Il suo poema preferito fu “Il corvo” nonostante non avesse avuto alcun successo. Ne era così compiaciuto da inviarlo a tutte le riviste dell’epoca ma se ne crucciò poiché il testo era diventato talmente noto che quando arrivò a pubblicarlo, non fu acquistato praticamente da nessuno.
I suoi pensieri erano spesso imbrigliati fra le righe dei suoi racconti dove nella finzione esponeva anche le proprie verità di pensiero.
*Nel racconto Eleonora del 1841 scrisse:
«Mi hanno chiamato pazzo; ma nessuno ancora ha potuto stabilire se la pazzia sia o non sia la più elevata forma d'intelligenza, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non derivi da una malattia del pensiero, da umori esaltati della mente a spese dell'intelletto generale.»
Scrisse romanzi, racconti, raccolte grottesche, racconti di terrore ma anche di temi vari, scrisse satira letteraria e critica oltre ai saggi. Iniziò anche una drammaturgia che lasciò incompiuta (Poliziano) e scrisse molte poesie che dimostravano la sua grande sensibilità spesso occultata dietro a opere di spessore diverso. Molti non sono a conoscenza che Poe non amava solo dedicarsi alla letteratura ma era anche appassionato di spazio e cosmologia. Durante la sua breve vita Edgar Allan Poe fu conosciuto più come critico letterario che come scrittore. Soffrì dei suoi stessi errori. Morì a soli 40 anni.
Un aforisma ci offre parte della sua profondità.
"Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte".
Paolina Leopardi, (Paolina Francesca Saveria Placida Blancina Adelaide)è stata una traduttrice e scrittrice italiana. Nata il 5 ottobre del 1800, era la terzogenita e unica figlia femmina del conte Monaldo Leopardi e di Adelaide Antici (cugini fra oro).
Ricordata spesso solo come la sorella del poeta di Recanati, sottolineando soprattutto il suo aspetto gracile e la non bellissima presenza estetica.
Vestiva sempre di nero, carnagione olivastra e capelli corti e neri, religiosa tanto da dir messa, fu soprannominata “Don Paolo”, visse nella sua “casa prigione” 57 anni fino alla morte della madre dispotica trovando finalmente una sorta di libertà nella seconda stagione della sua vita. Iniziò a viaggiare, andare a teatro a conoscere persone e avere così una vita sociale.
Non dava amicizia nell’immediatezza, ma quando accadeva era devota a questo sentimento.
Timida ed erroneamente giudicata non cordiale. In realtà Paolina aveva sempre avuto pochissimo contatto con le persone da sembrare schiva ma era solo schiava della propria timidezza tanto che quando si trovava in presenza di estranei, non riusciva quasi a proferire parola.
Una donna coltissima che privata di contatti e di possibilità riuscì solo in piccola parte a esprimere il suo grande sapere e la sua enorme cultura. Studiò la lingua francese in modo ottimale, sapeva inoltre tradurre sia il tedesco che l’inglese. Conosceva ed approfondì il latino. Studiosa di musica e di storia oltre che di testi biblici.
In età adulta fu un valido ed indispensabile aiuto per il padre Monaldo nel tradurre articoli di giornali in lingua francese che inoltre recensiva. Fu autrice di diverse traduzioni dal francese e di una biografia di Mozart (fu la prima donna che lo ha fatto in lingua italiana).
Paolina dunque crebbe in un ambiente ferreo con il padre Monaldo e la madre Adelaide, quest’ultima era particolarmente despota costringendo la figlia a regole continue che la privavano anche di semplici libertà quali il ridere o il piangere vivendo una sorta di clausura domestica.
In una lettera scritta il 26 maggio 1830 a Marianna Brighenti scrisse:
Fra gli altri motivi che hanno renduto così triste la mia vita e che hanno disseccato in me le sorgenti dell’allegrezza e della vivacità uno è il vivere a Recanati, soggiorno abominevole ed odiosissimo; un altro poi è l’avere in Mamà una persona ultra-rigorista, un vero eccesso di perfezione cristiana, la quale non potete immaginarvi quanta dose di severità metta in tutti dettagli della vita domestica. Veramente ottima donna ed esemplarissima, si è fatta delle regole di austerità assolutamente impraticabili, e si è imposta dei doveri verso i figli che non riescono punto comodi …
Ebbe un rapporto stretto per molto tempo con il fratello Giacomo che adorava; fu al suo fianco quando egli iniziò a non vedere più molto bene e addirittura scriveva sotto dettatura le poesie che Giacomo le dettava. Ascoltava ogni suo progetto, desiderio, confidenza. Tutto questo fino a quando il poeta risedeva a Recanati. Cambiò in seguito il loro rapporto, nel periodo che il Leopardi si instaurò a Napoli, quando a causa di diverse opinioni politiche e religiose dei due, il legame si freddò. Paolina era religiosa come il padre Monaldo, mentre Giacomo portava avanti le idee ateiste. Non si scrissero quasi più nonostante il poeta chiedesse alla sorella di farsi sentire più spesso. Lui si ammalò ma lei non andò mai a trovarlo.
Solo nel 1867 rese omaggio alla tomba del fratello a Napoli
Gli ultimi anni di Paolina si conclusero viaggiando finalmente libera da tanta segregazione.
Visitò spesso Pisa che era la città amata dal fratello Giacomo. Andò spesso a Firenze.
Morì sola a Pisa nel 1869 probabilmente per una pleurite. Fu in seguito trasportata a Recanati e seppellita al cimitero civile.
Ci lascia un bagaglio di opere, epistolari vari, traduzioni, recensioni e molti inediti.
Una donna forte nonostante le privazioni, le segregazioni, le imposizioni. Con la mente e la voglia di sapere studiò tutto quello che voleva conoscere quasi fosse un lungo viaggio oltre il luogo fermo della sua casa a Recanati.
Paolina non era l’ombra di Giacomo, ma il suo alter ego. L’incomprensione e l’anaffettività della famiglia la limitò molto tagliandole le ali ancor prima di volare.