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Come era largamente previsto e come avevo anticipato in diverse puntate del Diario della crisi finanziaria, nel corso del consiglio di amministrazione straordinario del colosso creditizio italiano Unicredit svoltosi martedì scorso, l'amministratore delegato del gruppo, Federico Ghizzoni, ha annunciato la sua disponibilità a rassegnare le sue dimissioni prontamente accettate dai consiglieri che hanno dato mandato al presidente, anche lui in odore di uscita, di trovare un nuovo numero operativo entro la riunione del 9 giugno del CdA, anche se, a quanto si sa, il candidato sarebbe già stato individuato nelle convulse giornate che hanno preceduto il passo indietro del non troppo rimpianto Ghizzoni.
Ma perché Unicredit cambia in corsa il proprio Chief Executive Officer? La risposta è presto detta, in quanto, sotto attacco da parte delle donne e degli uomini che rispondono agli uomini che rispondono agli ordini di Daniele Nouy, capo della vigilanza bancaria europea presso la Banca Centrale Europea, la resistenza di Ghizzoni a procedere al rafforzamento patrimoniale per 5-7 miliardi di euro e la sua ostinazione a trovare misure alternative sotto forma di alienazioni di pezzi dell'impero internazionale del gruppo di Piazza Cordusio sono state giudicate dai soci non più proponibili e di qui la ricerca di un nuovo numero uno più obbediente alle scelte dei soci stessi che tutto vogliono meno che trovarsi in un conflitto con la Nouy e il suo braccio destro operativo che chiedono alla banca di passare dal coefficiente patrimoniale del 10,5 per cento a quello più solido del 12,25, misura già prevista per la Deutsche Bank.
Ma perché la Nouy chiede ai due gruppi creditizi di stare circa due punti percentuali sopra i requisiti patrimoniali previsti dalla normativa vigente nell'eurozona? Mai si sono viste ragioni più divergenti per un identico risultato. per il colosso tedesco sono legate all'enorme esposizione in derivati e titoli più o meno tossici, rischi sui quali mi sono già soffermato diffusamente in passato, mentre per la banca italiana la ragione è duplice ed è data da un lato alla rilevante esposizione in Non Performing Loans e, dall'altro, nei rischi finanziari, ma anche geopolitici, legati alla presenza in decine di paesi diversissimi tra di loro, con posizioni importanti in Germania, dove Unicredit possiede la quarta e un po' traballante banca tedesca, in Austria e in numerosi paesi dell'Est europeo, in particolare in Polonia con Banca Pekao in procinto di essere ceduta pur essendo un'importantissima banca che fa un agguerrita e a volte vincente concorrenza alle banche tedesche attivamente operante in quel dinamico paese!
Se la mia lettura degli avvenimenti è giusta, vedremo nelle prossime settimane passi importanti di Unicredit in direzione dei desiderata della vigilanza bancaria europea e non è escluso che si assisterà ad un mix tra aumento di capitale e dismissioni.
Nella puntata del 13 maggio, avevo titolato: Il Veneto è il buco nero del credito? riferendomi alle quattro grandi banche operanti nella regione caratterizzata un tempo dall'economia più dinamica d'Italia, delle quattro tra hanno sede nella regione (Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca e, the last but not the least, quel Banco Popolare che presto convolerà a nozze con la Banca Popolare di Milano, previo un aumento di capitale da un miliardo di euro), mentre la quarta, il Monte dei Paschi di Siena, ha sede altrove ma ha acquisito i dolori della Banca Antonveneta per la modica cifra di poco meno di dieci miliardi di euro.
Sul Corriere della Sera di ieri, Federico Fubini ha pubblicato i risultati di una approfondita inchiesta sul credito nella regione Veneto e ha spiegato che ad avere i conti a pezzi sono ben tredici banche con sede nella regione, la maggior parte di piccole e medie dimensioni, banche che diventano quattordici includendo, come è doveroso, il Monte dei Paschi e ha anche chiarito che il meccanismo che ha portato a piazzare azioni non quotate a prezzi stratosferici seguito dalla Banca Popolare di Vicenza (in questo caso si è già avuta la prova della verità con il valore originario dell'azione di 62 euro passato, in sede di aumento di capitale, a 10 centesimi) e Veneto Banca, ebbene questo stesso metodo è stato seguito da quella Crediveneto, messa recentemente dalla Banca d'Italia in liquidazione coatta amministrativa, che ha convinto migliaia di clienti della banca, e moltissime imprese spesso in cambio di aperture di credito, a sottoscrivere azioni che oramai sono carta straccia.
L'elenco delle banche venete fallite e solo in alcuni casi salvate da concorrenti non sempre con sede nella regione è lungo e, anche se si tratta di realtà creditizie nella maggior parte piccole, il danno per il rapporto tra clientela e sistema bancario è bello che fatto, un danno che non è ancora perfettamente quantificato perché viene da chiedersi quanti dei 125 miliardi di crediti erogati torneranno realmente a casa, anche perché le normative italiane sulla classificazione delle sofferenze sono ancora troppo elastiche, non vigendo da noi e in Europa il principio statunitense secondo il quale un credito si trasforma in perdita dopo pochi mesi di insoluti.
Ma anche stando ai dati ufficiali, abbiamo sofferenze pari a svariate decine di miliardi di euro, a fronte dei quali spesso non ci sono garanzie di nessun tipo e il cui valore è persino inferiore a quel 20 per cento che viene corrisposto in sede di acquisizione di sofferenze da parte degli operatori specializzati, per non dire che con gli aumenti di Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Banco Popolare le disponibilità del Fondo Atlante previste a questo scopo sono pressoché finite.
Sembra proprio che la riunione dei ministri economici e dei governatori delle banche centrali del gruppo dei sette paesi maggiormente industrializzati riunito nel week end in Giappone non avesse altra preoccupazione che quella della scelta che i sudditi della novantenne Elisabetta seconda faranno il prossimo 23 giugno tra l'opzione di restare, remain, nell'Unione europea e quella di uscire, leave, dall'augusto consesso che riunisce 28 paesi in molti casi molto diversi tra di loro per struttura economica, cultura, assetto politico e chi più ne ha ne metta.
Dalla riunione giapponese è venuto uno scenario di sciagure per il Regno Unito, che poi tanto non lo sarebbe visto che la Scozia già prevede nel caso un secondo referendum per lasciare l'unione e chiedere l'ammissione all'Unione europea, con conseguenze ferali sul prodotto interno lordo e una svalutazione della sterlina stimabile tra il 15 e il 20 per cento, un aumento del tasso di disoccupazione e un forte impatto sulla già strutturalmente deficitaria bilancia commerciale, tutte eventualità che avevo segnalato nella puntata del Diario della crisi finanziaria dedicata all'argomento, esclusa una svalutazione così massiccia della sterlina.
Ma questo intervento a gamba tesa dei potenti della terra sulla libera scelta di una grande nazione, intervento ovviamente fortemente caldeggiato dalle autorità monetarie britanniche presenti all'incontro e dai rappresentanti della Unione europea per non parlare del presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ben presente al centro della foto di gruppo dell'incontro e pressione gradita da tutti gli altri partner presenti rischia di arrivare tardi, perché la partita sembra già decisa in favore della permanenza e ben lo testimonia il forte recupero della sterlina nei giorni scorsi (con un euro si acquistavano 81 centesimi di sterlina poche settimane fa e ora se ne ricevono poco più di 77 centesimi).
Infatti, tutti i sondaggi danno una percentuale dei no all'uscita del Regno Unito dall'Unione europea di sette punti percentuali superiore a quella di quanti vorrebbero invece lasciarla, con gli indecisi ridotti all'infima quota del dieci per cento, sondaggi corroborati dalle quote degli allibratori che pagano pochissimo sopra la pari la possibilità della vittoria del si.
Dando ai sondaggi il credito che meritano, va detto che la partita non è del tutto chiusa e le prossime settimane di campagna possono ancora modificare l'esito che si inserisce in un quadro europeo che vede le presidenziali in Austria che comunque assegnano all'estrema destra circa la metà dei consensi e la partita della Grecia che vede l'Unione europea molto meglio intenzionata verso un accordo, facilitato dal passaggio del secondo pacchetto proposto dal governo Txipras, ma anche qui voglio vedere l'accordo firmato!
In questa analisi della terza ondata della tempesta perfetta che ha preso le sue mosse a cavallo tra il 2015 e questo anno di disgrazia 2016, sto prestando particolare attenzione al sistema bancario italiano ed europeo, anche se non sottovaluto quanto sta accadendo oltreoceano con l'esplosione delle sofferenze nel credito al consumo e la ripresa delle attività delle fabbriche prodotto delle banche globali a stelle e strisce con nuove e pericolose invenzioni escogitate dagli apprendisti stregoni che le popolano, e questa attenzione al sistema bancario è data da un lato ai problemi nostrani in materia di Non Performing Loans, crediti deteriorati per i quali la vigilanza della BCE ci chiede l'avvio di un'opera di pulizia, mentre per quanto riguarda le banche globali europee, Deutsche Bank in testa, continuano a permanere rischi reputazionali e ancor di più rischi legati alla montagna di derivati e titoli tossici che le stese hanno in pancia.
Si è tenuta giovedì scorso l'assemblea di bilancio della Deutsche Bank davanti a 5 mila azionisti molto nervosi, non solo e non tanto perché per il secondo anno consecutivo rimarranno all'asciutto e il gruppo ha registrato una perdita di 6,8 miliardi di euro, ma anche perché la banca è sommersa da 7.800 azioni giudiziarie con contenziosi che vanno da cifre esigue ad altre che prevedono sanzioni per miliardi di euro, molte delle quali già pagate al di qua e al di là dell'Oceano Atlantico.
Ha un bel dire il bravissimo Chief Executive Officer di Deutsche, John Cryan (rimasto solo al comando dopo l'uscita di scena del co CEO, Jurgen Fitschen), che "noi siamo meglio della nostra reputazione", perché è universalmente noto che per una banca, al di là dei dati reddituali patrimoniali, la reputazione è tutto e non è stato visto bene l'allontanamento di Gerog Thoma, l'uomo incaricato di presiedere una commissione incaricata di fare piena luce sugli scandali e del gruppo e che è stato costretto alle dimissioni per le critiche ricevute da membri del consiglio di sorveglianza che lo accusavano di eccessivo zelo. Resta e pesa la richiesta della vigilanza BCE di portare i requisiti patrimoniali dall'attuale 10,7 per cento all'alquanto proibitivo 12,25.
Partono da qua le analogia con il caso Unicredit, anche esso alle prese con una richiesta di forte rafforzamento patrimoniale da parte della vigilanza europea, ma alle prese anche con problemi di governance interna che si intrecciano a quella richiesta, vista la contrarietà del CEO Federico Ghizzoni a procedere ad aumenti di capitale, aumento che, secondo le stime degli analisti, dovrebbero essere nell'ordine dei 5-8 miliardi di euro e che diluirebbero in modo significativo la quota delle tre fondazioni un tempo padrone indiscusse del colosso creditizio milanese.
L'eventuale uscita di Ghizzoni apre poi un capitolo a parte di questa storia, perché è prassi consolidata nel sistema bancario italiano che un cambio al vertice venga annunciato solo quando è stato deciso e, particolare non secondario, quando è pronta una soluzione di ricambio!
Dopo un'attesa durata parecchi mesi, i risparmiatori coinvolti nel dissesto di Banca Etruria, Carimarche, Cariferrara e Carichieti hanno visto accendersi la luce verde su un provvedimento del Governo che prevede, a partire da un fondo portato da 100 a 300 milioni circa di euro, la possibilità di coprire in tutto o in parte quanto da loro perso investendo in obbligazioni subordinate delle stesse banche, in molti casi senza ricevere adeguate informazioni sulla rischiosità dell'investimento che stavano effettuando, situazioni spesso al limite, limite spesso superato, della truffa orchestrata da dipendenti di queste banche, come dimostrano i recenti sviluppi dell'inchiesta della procura di Arezzo su Banca Etruria.
Il provvedimento governativo prevede però alcuni paletti, il primo dei quali è dato dal fatto che le obbligazioni devono essere state sottoscritte prima del 12 giugno 2014, quando è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la nuova normativa sui salvataggi bancari nell'eurozona approvata anche dall'Italia con l'introduzione del bail in, mentre il secondo è rappresentato dal fatto che il reddito lordo del richiedente non deve superare i 35 mila euro e la sua posizione in titoli non deve superare i 100 mila euro; in ogni caso, invece del rimborso automatico si potrà ricorrere all'arbitrato presso l'autorità anticorruzione guidata da Cantone.
Perché il caso di queste quattro banche di dimensioni tutto sommato modeste è così importante, al punto da condizionare l'andamento in borsa di banche di ben maggiori dimensioni nel primo trimestre di quest'anno di disgrazia 2016? Semplicemente perché si è trattato del primo caso di applicazione del bail in, la normativa europea che prevede che, in caso di dissesto, siano gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti per le somme che eccedano la soglia dei 100 mila euro a pagare entro il limite dell'8 per cento dell'attivo della banca coinvolta, un meccanismo che sostituisce il cosiddetto bail out che prevede, invece, che al salvataggio contribuiscano tutti gli incolpevoli e ignari contribuenti.
Ma, se il bail in entrava in vigore solo alcuni mesi dopo, e precisamente il primo gennaio 2016, perché si è scelto di percorrere questa strada alquanto sanguinosa? La tesi del Governo è che altrimenti si sarebbe andati al fallimento vero e proprio delle quattro banche, con conseguenze sulla stabilità delle zone interessate, nonché il licenziamento di qualche migliaio di dipendenti delle banche stesse, una tesi che si fonda tuttavia sul presupposto che il Governo non avrebbe proceduto al salvataggio pubblico delle quattro banche, pur essendo lo stesso ammissibile a quella data dalla normativa europea vigente.
Emblematica è l'idea di stabilire uno spartiacque per i rimborsi automatici alla data del 12 giugno 2014, data nella quale il meccanismo del bail in viene approvato in sede italiana, una data che ha tagliato fuori dall'automaticità solo 186 investitori che avevano acquistato on line le obbligazioni al 50-60 per cento del loro valore e sono stati così classificati come speculatori, tesi che condivido appieno!
Chi mi segue dal settembre del 2007 sa bene che, nel tenere il giornale di bordo della flotta finanziaria scossa dagli alti marosi della tempesta perfetta, ho dichiarato subito che il mio punto di riferimento teorico era il mai troppo compianto John Maynard Keynes, mentre nel panorama contemporaneo le stelle polari erano lo speculatore George Soros e il Leone di Omaha, al secolo Warren Buffett, due persone diversissime tra di loro ma che analizzavano la crisi finanziaria più grave dal secondo dopoguerra mondiale con una lucidità senza pari.
Ebbene, in queste ultime settimane i miei punti di riferimento vanno ognuno per la sua strada, perché George Soros, spaventato dalla sempre più possibile crisi della Cina (e come dargli torto), sta disinvestendo dagli Stati Uniti d'America, anzi sta scommettendo su un tracollo dell'indice Standard & Poor's 500 e gettandosi a capofitto su quello che Keynes definiva un relitto barbarico, sì proprio l'oro che sta comprando fisicamente e a mezzo di futures nonché acquistando quote di società specializzate nell'estrazione e nella commercializzazione del metallo giallo, mentre Buffett, da parte sua (e da par suo) si è lanciato a lancia in resta sull'alquanto traballante Apple e forse anche sulla tecnicamente fallita Yahoo.
Insomma, c'è da farsi venire il mal di testa, anche perché non riesco a dimenticare che solo pochi anni fa il metallo giallo aveva toccato i 1.750 dollari l'oncia per poi precipitare poco al di sopra dei mille dollari, un mercato cioè abbastanza ballerino e nel quale si rischia di bruciarsi le dita se non addirittura le mani, un mercato, cioè ballerino non meno di quello del petrolio dove i giochetti dal lato dell'offerta stanno determinando una corsa basata su alquanto risibili motivi come l'incendio in Canada e gli scioperi in Nigeria, due fenomeni certamente importanti ma largamente surclassati dalla rapida crescita dell'offerta di petrolio iraniano che sta recuperando a grandi passi i livelli di produzione precedenti alle sanzioni.
Il problema è rappresentato dal fatto che Soros non è una stella polare solo per me e, quindi, c'è una quantità di investitori che si stanno mettendo in scia sia sul mettersi contro lo S&P 500 sia nell'acquistare a piene mani l'oro, incuranti del fatto che il metallo giallo vive i suoi momenti migliori quando l'inflazione corre, mentre ora siamo in presenza di una vera e propria deflazione in Europa e di una crescita moderata dei prezzi negli States, ma è ovvio che Soros sta vedendo una recessione mondiale guidata dal crack della Cina e di fronte a questo si va verso i porti sicuri e il porto sicuro per eccellenza rimane l'oro!
Come avevo scritto nelle puntate precedenti, Daniéle Nouy e la sua fidata collaboratrice tedesca incaricata di seguire il dossier delle procedure di risoluzione delle banche appartenenti all'area dell'euro non si accontentano più di pressare, in certi casi molto giustamente, le banche venete o Carige o Monte dei Paschi di Siena ma puntano dritte dritte al cuore del sistema bancario, invitando la seconda banca italiana e la prima per internazionalizzazione, Unicredit appunto, a fare uno sforzo rilevante sul capitale, non bastando i livelli attuali di Cet1 fully loaded che attualmente è al 10,85 per cento, ma chiarendo che non basterebbe nemmeno portarlo, come prevede il piano aziendale, al 12,6 nel 2018, perché la vigilanza della Banca Centrale Europea vuole molto di più anche se non è stato reso noto a quale livello vuole che il gruppo di Piazza Cordusio debba salire, ma quello che è certo è che lo vuole molto prima di quella data.
La notizia delle pressioni della Nouy aumenta il malcontento dei soci di Unicredit nei confronti dell'amministratore delegato del gruppo creditizio milanese, Federico Ghizzoni, un manager un po' grigio che non si è distinto per azioni eclatanti, concentrato come era a garantire la tenuta dei conti che, però, non è sufficiente a garantire lo sviluppo di una banca molto forte in Germania e in Austria e fortissima in alcuni paesi dell'Est dell'Europa, così come evidentemente non è bastato il piano di allontanamento di 18 mila dipendenti annunciato lo scorso anno.
Da quello che si apprende dai giornali, Ghizzoni sarebbe disponibile all'uscita purché la stessa sia onorevole e non si capisce se alluda alle condizioni economiche, certamente generose, o ad una sua eventuale ricollocazione nel panorama economico nazionale, cosa che prevede molto probabilmente un intervento del Governo che, secondo la stampa, sarebbe molto preoccupato per quello che sta accadendo in Unicredit.
Per chi ricorda quanto avevo scritto nelle numerose puntate sulla vigilanza della BCE, uno dei punti più dolenti sollevati dalle banche italiane era proprio la discrezionalità delle regole applicate, una discrezionalità che ora si estende al livello dei requisiti patrimoniali richiesti alle banche dell'eurozona, perché è evidente che i requisiti di Unicredit soddisfano perfettamente quelle stabilite dalla normativa, anche se non siamo a conoscenza dell'esito dello stress test cui è stato sottoposto l'istituto alla fine dell'anno scorso e se questo esito sia alla base delle pressioni attualmente esercitate nei confronti del gruppo milanese.
Riguardavo gli ultimi articoli ul sistema bancario italiano e ho notato che erano uniti da una visione pessimistica, in buona parte dovuta al pressing e all'inedito attivismo della vigilanza della Banca Centrale Europea sulle nostre banche, in particolare quelle più fragili, se non disastrate, e segnatamente quelle con sede legale in Veneto. Ma va detto che, nell'era dei tassi bassi, se non negativi, non tutto va male e a testimoniarlo è l'esplosione dei mutui a fronte dell'acquisto degli immobili da parte delle famiglie, cresciuti nel 2015 del 90 per cento circa (60 per cento al netto delle rinegoziazioni di mutui già esistenti) e del cosiddetto credito al consumo che, nell'aprile di quest'anno, è cresciuto di poco meno del 14 per cento e si è portato ai livelli più alti da quel 2011 che segna l'inizio della tempesta perfetta su quelle banche italiane che avevano superato pressocché indenni la prima ondata della crisi ifnanziaria in quanto molto poco esposte ai rischi connessi ai derivati e ai titoli tossici e che non avevano richiesto interventi di salvataggio da parte del Governo fino ai Monti Bonds che sono successivi a quella data e dei quali sarà, in buona sostanza. unico fruitore il molto mal messo Monte dei Paschi di Siena.
Il discorso cambia e di parecchio se volgiamo lo sguardo agli impieghi bancari alle imprese non finanziarie e qui le banche italiane nel loro insieme continuano a procedere con i piedi di piombo, gravate come sono di 360 miliardi di Non Performing Loans, un aggregato che è vero che non si trasforma del tutto in sofferenze che sono intorno ai 200 miliardi, mentre, al netto di rettifiche e accantonamenti, sono finalmente scese a 83 miliardi, ma, purtroppo, questo aggregato non viene preso in considerazione dalla vigilanza della BCE che sostiene che, in caso di dissesto, quegli accantonamenti e quelle rettifiche non potrebbero essere utilizzati per la crisi di liquidità che sopravverrebbe inevitabilmente, in particolare se si tratta di gruppi bancari di grandi dimensioni.
Ma il ritorno del credito al consumo a livelli precedenti la crisi, una crisi che non è stata solo e forse non tanto finanziaria quanto economica, è una buona o una cattiva notizia? Per poter rispondere bisognerebbe disporre di dati di dettaglio che dividano per lo meno tra finanziamenti finalizzati all'acquisto di un bene e finanziamenti finalizzati alla costituzione di scorte monetarie, mentre l'unica cosa che ho potuto vedere dalla notizia è che i richiedenti appartengono alle classi centrali di età, le due che vanno dai 25 ai 45 anni, a dimostrazione che le classi di età più anziane hanno una minore propensione all'indebitamento, in particolare nei confronti di questo tipo di finanziamenti a tassi normalmente non leggeri erogati dalle finanziarie di ogni ordine e grado.
In un brillante articolo, Nicola Porro, giornalista e intrattenitore televisivo, ha illustrato i risultati di una ricerca di ImpresaLavoro sulle perdite subite dagli azionisti, e, nel caso delle quattro banche tecnicamente fallite a novembre dello scorso anno, anche dai risparmiatori, a partire dall'inizio della tempesta perfetta nell'agosto del 2007, e ne viene fuori una cifra mostruosa di 210 miliardi di euro così ripartito: 150 miliardi di minor valore delle azioni per le 17 banche quotate in Borsa, 50 miliardi di aumenti di capitale delle stesse e 10 miliardi circa tra le quattro banche di cui al decreto governativo del 23 novembre 2015 e il resto ascrivibile alle Banca Popolare di Vicenza, mentre mancano all'appello nello studio citato le perdite legate a Veneto Banca, con relativo aumento di capitale da un miliardo e il miliardo richiesto dal Banco Popolare di Verona, entrambi richiesti ultimativamente dalla vigilanza della Banca Centrale Europea, insieme a tante altre misure da adottare in concomitanza.
Pur trattandosi di cifre mostruose, va tuttavia detto che i rischi per i risparmiatori legati alle banche italiane non finiscono qui, in quanto, come ricordavo in una recente puntata del Diario della crisi finanziaria, secondo uno studio della Banca d'Italia, sono esposti a rischio bail in più di 400 miliardi di euro tra obbligazioni non garantite e, per 225 miliardi, da depositi oltre la soglia dei 100 mila euro, questi garantiti da uno sforzo cooperativo delle banche sopravvissute al salvataggio dall'interno di una o più di loro mediante il Fondo interbancario di garanzia, Fondo che al momento ha in cassa solo quanto serve a far fronte ai rimborsi degli obbligazionisti di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara, ma che avrebbe qualche difficoltà a reperire i fondi se il default riguardasse qualche big del settore o un fenomeno di fallimenti a catena.
Vorrei sommesamente ricordare che la strada del passato per il rafforzamento del settore creditizio, quella che ha visto fondersi nelle due più grandi banche del sistema, Unicredit e Intesa-San Paolo, decine e decine di banche e casse di risparmio di ogni dimensione, non ha dato grandi frutti, anche perché ci sono voluti tempi lunghissimi per rendere efficienti qusti carrozzoni ed ora, quindi, il Governo pensa di percorrere la strada degli sgravi di costi, in primis di quelli relativi al personale, per un ammontare pari a 30-40 mila unità, come sta già avvenendo, in vista della fusione con la Banca Popolare di Milano, al Banco Popolare di Verona e Novera che ha appena annunciato 1.800 esuberi di personale.
L'altra strada, quella dell'aggressione della massa da 360 miliardi di euro dei Non Performing Loans, richiederà molto più tempo e l'adozione di misure molto più coraggiose di quelle intraprese sinoad ora con il Fondo Atlante e con lo schema di garanzia dei pacchetti senior di sofferenze delle banche elaborato dal ministero dell'Economia.
Ho dedicato diverse puntate del Diario della crisi finanziaria alle vicende della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, due banche che sono un vero e proprio ricettacolo di Non Performing Loans (una sigla che rappresenta i crediti deteriorati che ha come sotto insieme le sofferenze lorde e, al netto delle verifiche, le sofferenze nette) con un incidenza sugli impieghi vivi e sul patrimonio a livelli stellari, per poi affrontare il problema rappresentato dal Monte dei Paschi di Siena che, con i suoi 40 miliardi di euro circa di Non Performing Loans, è davvero la grande malata nella pattuglia di vertice delle banche italiane e, tramite l'acquisizione di Antonveneta, è una delle banche leader di questa disgraziata regione dell'Italia, ma ho finito per dimenticare un gigante a livello regionale come il Banco Popolare di Verona, banca che sta per fondersi con la banca Popolare di Milano, come in precedenza aveva fatto con la Popolare di Novara.
Ebbene, la somma degli NPL delle quattro banche non è lontana da quella che caratterizza quella delle banche di una nazione europea di medie dimensioni ed è considerata con grande attenzione, e lettere ultimative, da parte delle donne e degli uomini alle dipendenze del capo della vigilanza presso la Banca Centrale Europea, organismo che ha imposto aumenti di capitale per complessivi 3,75 miliardi di euro, il primo dei quali, quello da 1,75 miliardi, della Banca Popolare di Vicenza è andato notoriamente deserto e ha costretto il neonato Fondo Atlante (mentre il comitato direttivo di Borsa italiana dichiarava l'inammissibilità alla quotazione dell'azione nei mercati regolamentati) a immobilizzare in questa singola banca la metà delle sue disponibilità volte a tale scopo, mentre Veneto Banca ha chiesto tempo per il suo aumento da un miliardo e, per il Banco Popolare, i non lusinghieri dati di bilancio e l'annuncio ufficiale dell'aumento di capitale da un miliardo hanno spinto l'azione a registrare mercoledì una perdita del 15 per cento (poi limata a poco più del 9 per cento in chiusura.)
E' evidente che da una situazione del genere non si esce con misure normali e che le tre banche con sede legale nella regione richiedono una cura di cavallo, che, per il Banco Popolare, coinvolgerà inevitabilmente anche la sposa Banca Popolare di Milano, una cura che passerà attraverso un radicale taglio dei costi operativi, leggi costi del personale, multiplo di quella sensibile sforbiciata prevista dal Governo a livello nazionale, un taglio che comunque non basterà se non verranno adottate misure altrettanto straordinarie sul fronte dei Non Performing Loans per le quali Atlante non ha i mezzi e le misure previste dal Governo sono solo parzialmente applicabili, in quanto riguardano solo gli NPL di buona qualità e ho proprio l'impressione che da queste parti di crediti incagliati di categoria senior ve ne siano non tanti!
Dopo una ripresa effimera dopo l'annuncio della costituzione del Fondo Atlante guidato da Alessandro Penati, economista prestato alla finanza, è ripresa quella corsa allo squarciamento delle quotazioni in borsa dei titoli elle principali banche italiane, con Monte dei Paschi di Siena che dopo aver sostato nella parte bassa della soglia dei 70 centesimi ora si ritrova nella parte alta della quota dei 50 centesimi e Unicredit che dopo aver rivisto a portata di mano i 4 euro, ora si trova a lottare per tornare a quella dei 3 euro, per non parlare poi delle promesse spose, Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, con la prima alle prese con un periglioso aumento di capitale da un miliardo di euro e la seconda che la segue a ruota nei ribassi sempre più consistenti.
Da questo macello si salva in qualche modo Intesa-San Paolo che, tra alti e bassi, rispetto all'inizio di quest'anno, permane nell'area dei due euro. Ma, a livello di sistema, siamo di nuovo a un calo delle quotazioni del 40-50 per cento rispetto a quelle registrate nel mese di dicembre che erano già in sensibile calo rispetto ai massimi toccati nella prima parte del 2015.
Certo, ha pesato il fallimento del tentativo di quotare in borsa la alquanto disastrata Banca Popolare di Vicenza e il ribaltone con vero e proprio ritorno al passato di Veneto Banca, con una nuova maggioranza raccogliticcia e inquinata dalla presenza di grandi debitori, spesso insolventi, della banca con sede a Montebelluna e con il nuovo consiglio di amministrazione che ha dovuto chiedere più tempo per procedere all'aumento di capitale da un miliardo di euro, ma anche il Monte dei Paschi di Siena che tanti crediti problematici ha ereditato dall'acquisita Antonveneta, tuttavia il buco nero delle banche venete o assimilate si riverbera su tutto il sistema bancario italiano per una serie di ragioni che tratterò di volata. Tra le banche venete, ho colpevolmente dimenticato Il Banco Popolare di Verona che ieri in borsa ha perso fino al 15 per cento per i conti in rosso e l'aumento di capitale richiesto dalla BCE.
La prima riguarda proprio il neonato Fondo atlante, con una dotazione di 4,2 miliardi di euro, quasi due in meno rispetto agli annunci, che ne ha 1,5 miliardi già immobilizzati in Banca Popolare di Vicenza e della quale si accorgerà ben presto che sarà molto difficile procedere a un a forte ristrutturazione. Ebbene, secondo fonti autorevoli, la parte del fondo dedicata agli aumenti di capitale è pari a 3 miliardi e ve ne sono in vista altri due per almeno 2 miliardi, quindi, le munizioni del fondo a questo scopo sono pressoché esaurite, mentre ne restano 1,2 miliardi per affrontare il problema dei Non Performing Loans (360 miliardi di euro circa) delle martoriate banche italiane, con la evidente conclusione che il Fondo Atlante è oramai bello che esaurito!
Agli investitori che hanno investito ai tempi d'oro nelle banche italiane non resta dunque che allacciare le cinture di sicurezza e sperare in tempi migliori.
Dopo essere stata indagata e multata per quasi tutto quello che una banca davvero globale può fare e in attesa per il processo che si terrà in Gran Bretagna dove, sulle manipolazioni dell'URIBOR sono indagati sette suoi top manager, ora il colosso tedesco è sotto indagine, presso la procura di Trani, per manipolazione di mercato, avendo venduto nel 2011 quasi tutti i BTP italiani in suo possesso proprio mentre consigliava ai suoi clienti di tenerli sia per la solidità dei conti pubblici italiani, sia perché lo spread tra questi e i Bund tedeschi era tutto sommato a valori limitati tra i 100 e i 200 punti base.
La vendita avvenne massicciamente nel primo trimestre del 2011, regnante Silvio Berlusconi e mentre al timone del ministero dell'Economia era Giulio Tremonti, l'uomo che ha svolto quell'incarico per ben tre volte, senza però lasciare grande traccia di sé, se non per i forti e frequenti contrasti con il suo capo di allora.
I fatti successivi sono noti a tutti, perché la mossa di Deutsche suonò come un campanello di allarme nelle sale operative all over the world e tutte le banche più o meno globali si misero a vendere i BTP italiani con il risultato che lo spread cominciò a salire inesorabilmente sino a raggiungere un picco a 576 punti base e costrinse Berlusconi a dimettersi per lasciare il posto ad un uomo della Trilateral ed espressione dei poteri forti italiani europei che adottò un programma lacrime e sangue senza neanche l'intervento della Troika, Fondo Monetario Internazionale-Banca Centrale Europea-Unione europea,, tanto anticipò i desiderata di questo organismo, in alcuni casi, vedi la riforma Fornero, li superò, portando il nostro sistema previdenziale ad essere tra i più sostenibili dell'Unione europea e frustrando al contempo le attese di milioni di italiane e di italiani che si credevano allora prossimi alla pensione.
Questi sono i fatti e, per chi potesse dubitare della mia fede antiberlusconiania invito a leggere il lungo pamphlet dal titolo Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi, recentemente ripubblicato sul Diario della crisi finanziaria, ma non posso non considerare il fatto che con una manovra delle banche globali europee, banche legate a doppio filo con i rispettivi governi, è stata decretata la fine di un Governo, per quanto pessimo, regolarmente eletto.
Non so quante e quali carte abbia a disposizione l'attivissima procura di Trani, anche perché è noto che il pool dei reati finanziari della procura di Milano ha lasciato cadere la cosa, ma certo ci sarà da divertirsi nel prosieguo di un indagine che vede indagati l'ex presidente Ackermann e altri uomini al vertice di Deutsche!
Come responsabile dell'ufficio studi di un sindacato del settore finanziario ho scritto decine di pagine su quelle che allora chiamavamo pressioni commerciali esercitate dai vertici sui dipendenti delle banche che avevano l'ingrato compito di piazzare a ignari clienti delle banche, ma anche nelle compagnie di assicurazioni non si scherza, prodotti più o meno a rischio di ogni genere e natura, prodotti che spesso hanno rovinato più di un malcapitato e hanno certamente messo a rischio la reputazione di più di una banca.
Non mi ha stupito dunque quanto è emerso ieri nel corso delle indagini sul crac di Banca Etruria, una delle quattro banche salvate dal Governo nel novembre dell'anno scorso con la prima applicazione del micidiale meccanismo del bail in che ha visto l'azzeramento del valore delle azioni, delle obbligazioni e dei depositi per la soglia oltre i 100 mila euro, un applicazione in anticipo di mesi sull'introduzione delle nuove procedure di risoluzione e che tanto è costato in borsa ai titoli dell'intero settore finanziario, è emerso, dicevo, che, secondo gli inquirenti della procura di Arezzo, esisteva nell'ambito della banca una cabina di regia volta a vendere anche ai piccoli risparmiatori, anzi in prevalenza a loro, decine e decine di milioni di euro di bond subordinati, quelli appunto più a rischio se le cose si fossero, come poi è puntualmente accaduto, messe male!
Con singolare tempismo, sempre ieri Giuseppe Vegas, presidente della CONSOB, l'organismo che dovrebbe appunto vigilare sul fatto che cose del genere non accadano, ha detto, nella sua relazione annuale, due cose: la prima è che i risparmiatori erano perfettamente informati, la seconda è che l'organismo da lui presieduto ha fatto (sic) tutto quello che doveva fare in questa circostanza, dimenticando che era stata emanata una disposizione che autorizzava le banche a non inserire più nei prospetti le simulazioni che indicavano esattamente i rischi connessi con gli stessi bond subordinati offerti ai risparmiatori e dimenticando, altresì, quello che era già emerso anche nei mesi scorsi su quanto era avvenuto in moltissimi casi, quando i risparmiatori erano stati volutamente raggirati in sede di sottoscrizione dei bond medesimi.
Non c'è, quindi, da meravigliarsi se, pur in un quadro di debolezza dell'intero sistema bancario europeo, le banche italiane quotate in borsa stiano soffrendo dall'inizio di questo anno disgrazia 2016 in modo ampiamente supplementare e i guai delle due non quotate venete hanno determinato l'azzeramento di fatto del valore delle loro azioni, con Veneto Banca che ha dovuto far slittare di una settimana le procedure per l'aumento di capitale.
Mi ponevo ieri l'interrogativo sulla solidità del sistema bancario italiano e credo proprio che vicende come queste, e soprattutto i retroscena delle stesse, non aiutino di certo!
Dal settembre del 2007 ho tenuto il diario di bordo del sistema finanziario all over the world sommerso dagli alti mari della tempesta perfetta nelle sue tre fasi principali, della quali la terza, quella che stiamo vivendo a partire dai mesi a cavallo del capodanno di questo anno di disgrazia 2016, risulta a mio avviso la più pericolosa e spero di averlo spiegato nelle puntate con le quali ho dato il via alla ripresa del Diario della crisi finanziaria dopo tre anni di voluto silenzio, e, in tutte e tre queste perigliose congiunture, ho sentito sempre un mantra dalle autorità monetarie e da quelle politiche italiane e questo mantra recitava che il sistema italiano era solido e per questo non era stato necessario ricorrere alle massicce ricapitalizzazioni facilitate dalla mano pubblica che in altri paesi europei avevano salvato i rispettivi sistemi creditizi e finanziari dal collasso; ma quanto c'è di vero in questo ritornello che non diventa più reale solo perché è stato ripetuto fino alla noia da governi di destra e di centro sinistra che si sono succeduti alla guida del nostro Paese?
Se la vigilanza sul sistema creditizio italiano fosse ancora attribuita alla Banca d'Italia, sottoscriverei questa apodittica affermazione, ma sin dal 2014 le cose in materia sono radicalmente cambiate e la vigilanza sulle banche dell'eurozona è stata attribuita all'ex responsabile della vigilanza della Banca di Francia, Daniéle Nouy, che si avvale come braccio operativo di Frau Koening e che, dopo una fase relativamente breve di studio, ha fatto chiaramente chiarito con gli atti e con le interviste che l'aria era radicalmente cambiata e che le banche dovevano rapidamente attenersi alle prescrizioni delle draft con cui si intima, pena ricorso alla procedura di risoluzione, di riportarsi su parametri europei per quanto riguarda l'adeguatezza patrimoniale e la massa dei Non Performing Loans espressi in percentuale dei crediti sani che, per le banche italiane, è attualmente intorno a valori doppi se non tripli di quelli della media dell'eurozona.
Ovviamente, una pulizia, anche non radicale, dei bilanci delle banche italiane che, seppure a fatica, hanno superato gli stress test della Banca Centrale Europea nella passata edizione (mentre per la prossima si attende a breve il risultato) comporterà, nella maggior parte dei casi, di procedere ad aumenti di capitale necessari per restare nell'ambito dei parametri patrimoniali imposti e che, in alcuni casi, possono essere aumentati fino a valori intorno al 20 per cento, come si vocifera per un importante gruppo creditizio nostrano.
Ma quello che preoccupa davvero è lo stato delle casse del Fondo interbancario dei depositi, ossia l'organismo che deve garantire i depositi fino alla ormai arcinota soglia dei 100 mila euro, che pochi giorni fa, per bocca del suo direttore, ha dichiarato che i 300 milioni in cassa sono tutti impegnati per le obbligazioni subordinate delle quattro banche medie tecnicamente fallite e che le disponibilità precedenti sono state interamente utilizzate per garantire, appunto, i depositi di quelle stesse banche nella soglia garantita dei 100 mila euro. Ricordo sommessamente che, secondo la Banca d'Italia, i depositi fino a 100 mila euro a livello di sistema sfiorano i 500 miliardi di euro e non oso immaginare cosa accadrebbe se ad andare in procedura di risoluzione fossero una o più banche di grandi o grandissime dimensioni!