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E' stata un'altra giornata di fuoco sull'azione del Monte dei Paschi di Siena dopo altrettante giornate terribili seguite alla Brexit, un fuoco incrociato di vendite che si e' intensificato quando la banca senese ha finalmente ammesso di avere ricevuto una missiva da parte della vigilanza bancaria operante presso la Banca Centrale Europea, una lettera nella quale senza giri di parole si chiedeva di eliminare 10 miliardi circa di euro di sofferenze nette entro il 2018, un vero e proprio bagno di sangue per la banca guidata da Fabrizio Viola che produrrà miliardi di euro di perdite che dovranno giocoforza essere coperte da un aumento di capitale, il tutto mentre il mercato ha già mandato deserti due aumenti di capitale richiesto dalle due tecnicamente fallite banche venete e quando ancora non si hanno notizie dell'aumento da un miliardo di euro richiesto, sempre dalla vigilanza BCE al Banco Popolare.
Mentre sono in corso febbrili trattative tra il Governo italiano e la Commissione europea, quello che e' chiaro e' che quello che e' stato già concordato non risolve assolutamente il prolema del Monte dei Paschi di Siena, così come non risolve quello di Unicredit e delle altre banche italiane in attesa ansiosa di sapere se riceveranno a loro volta una draft piu' o meno ultimativa da Francoforte, perché in realtà il problema delle banche italiane e' molto semplice e consiste nel fatto che servono, come scrive la potente ma ancor piu' preveggente Goldman Sachs, circa 40 miliardi per coprire le perdite derivanti dalle pulizie di bilancio e, di questi tra i 7 e i 9 miliardi per la sola Unicredit, un fabbisogno che non ha niente a che vedere con quello scudo da 150 miliardi di euro che la Commissione ha autorizzato per garantire l'emissione di altrettanti bond da parte delle banche italiane, una possibilità che rischia di arrivare quando alcune delle maggiori banche potrebbero essere nel pieno della procedura di bail in che, lo ricordo, prevede che gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti per la quota eccedente i 100 mila euro paghino il conto del default entro il limite dell'otto per cento dell'attivo della banca in questione.
Avendo a mente quanto e' accaduto con Banca Etruria e le altre tre anche coinvolte a novembre dello scorso anno in tale procedura, non voglio nemmeno pensare a cosa accadrebbe nel caso dello terza banca italiana e credo che altrettanto stiano pensando i nostri vertici governativi e il governatore della Banca d'Italia e sono quindi sicuro che alla fine uscirà un coniglio dal cilindro e che una simile eventualità verrà scongiurata nell'interesse nazionale!
Qualche anno fa, posi sul Diario della crisi finanziaria la stessa domanda che pongo nel titolo di oggi, ma allora il gruppo senese era ancora dominato dalla fondazione omonima e guidato dall'allora presidente Mussari e dal direttore generale Vigni, gli stessi che, insieme ad altri, sono sotto processo per diverse ipotesi di reato legate alle operazioni messe in piedi per occultare il buco miliardario emerso dopo la dissennata acquisizione di banca Antonveneta, un'acquisizione non solo costata quasi dieci miliardi di euro, ma che ha portato in dote un ammontare pressocche' equivalente di crediti andati a male che hanno quasi raddoppiato l'ammontare delle sofferenze del Monte dei Paschi di Siena.
Il nuovo ticket posto alla guida della banca senese, composto dal presidente Alessandro Profumo, l'ex golden boy di Unicredit, e dall'amministratore delegato Fabrizio Viola, si trovo' di fronte una situazione dei conti davvero disastrosa e fu costretto a convincere i molto riottosi soci, in particolare la fondazione omonima, a procedere a sostanziosi aumenti di capitale che pero' non erano in grado di affrontare radicalmente il problema delle sofferenze che, in particolare nell'ultimo triennio, sono aumentate in linea con quelle dell'intero sistema creditizio, e cioe' molto, portando alla fine i Non Performing Loans a circa 40 miliardi di euro.
Su questo fronte, Fabrizio Viola sta lavorando molto intensamente ed entro fine anno dovrebbe partire una piattaforma delle sofferenze gestita da Mediobanca, ma il tempo stringe e l'ultimatum della vigilanza europea di cui ho dato conto ieri prevede un abbattimento delle sofferenze nette (che sono ovviamente di gran lunga inferiori agli NPL) nell'ordine del 40 per cento dello stock attuale entro il 2018.
Come e' noto, la Commissione europea ha dato il via libera ad uno scudo da 150 miliardi di euro sotto forma di garanzie governative alle obbligazioni di nuova emissione, ma e' rimasta sorda rispetto alla richiesta italiana di poter iniettare fino a 40 miliardi di euro di nuovo capitale nelle banche o di poter fare qualcosa di piu' sul fronte delle sofferenze, il che ha provocato una forte insoddisfazione del Governo italiano, sfociata,a quanto pare, in un diverbio tra Renzi e il presidente della BCE Mario Draghi.
L'attenzione della vigilanza bancaria della Banca Centrale Europea si sposta dalle banche venete tutte costrette a procedere ad aumenti di capitale che hanno fatto finire la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca nel non molto capace carniere del Fondo Atlante e il Banco Popolare ancora alle prese con la risposta del mercato alla sua richiesta di aumento da un miliardo di euro propedeutico alle nozze entro l'anno con la Banca Popolare di Milano (il prezzo di mercato nelle ultime sedute e' posto al di sotto di quello di offerta).
Ora e' giunta la volta del Monte dei Paschi di Siena che ha ricevuto una missiva da Francoforte che intima alla banca guidata dal bravo Fabrizio Viola di abbattere entro il 2018 le sofferenze nette (pari all'incirca al patrimonio della banca senese), una richiesta che produrra' perdite per centinaia di milioni di euro, con conseguente aumento di capitale nell'ordine presumibile di un miliardo di euro almeno da effettuare nel prossimo biennio.
Ovviamente, la notizia e' piombata come un macigno su un mercato alquanto depresso e il valore dell'azione del Monte dei Paschi, gia' crollato nelle precedenti sedute, ha perso in apertura qualcosa come il 10 per cento, discesa che si e' accompagnata con le solite sospensioni per eccesso di ribasso, sospensioni che hanno innervosito ancora di piu' gli investitori che davvero non sanno quando il mercato tocchera' il fondo.
Ma non e' stata questa l'unica notizia riguardante il gruppo creditizio senese, perche' sempre stamane si e' saputo che la banca ha chiesto il patteggiamento nel processo sui derivati Alexandria e Santorini, quelli messi in piedi per nascondere il buco miliardario determinato dall'acquisizione fulminea nel 2007 di Banca Antonveneta dal Santander allora guidato da Emilio Botin, un'acquisizione fortemente voluta dalla coppia Mussari-Vigni e che ha determinato il fatale deterioramento dei conti del gruppo senese. Con il patteggiamento, il Monte dei Paschi accetta di dichiararsi colpevole di non avere vigilato a sufficienza sull'operato della coppia allora al vertice e propone di pagare 600 mila euro come sanzione e un sequestro di 10 milioni di euro.
Dopo che si erano esaurite tutte le possibili strade di pressione istituzionale sui vertici di Unicredit per giungere alla nomina di un nuovo amministratore delegato che prendesse il posto di Federico Ghizzoni dimissionario dal 14 maggio, erano intervenuti, nell'ordine, il ministro dell'Economia, Padoan e lo stesso premier Renzi. mancava solo il presidente della Repubblica ma i contrasti tra i soci storici e gli stranieri non permettevano di giungere ad una soluzione e alla fine ha deciso il mercato spingendo l'azione giu' del 30 per cento circa in poche sedute e allora gli azionisti hanno ritrovato l'unita' nominando all'unanimita' Jean Pierre Mustier nuovo Chief Executive Officer del colosso creditizio milanese.
Il nome di Mustier certamente non dice molto ai piu' ma mi permetto di ricordare che era a capo della Corporate&Investment Banking di Socgen ai tempi dello scandalo Kerviel il trader che si imposseso' di svariati miliardi di euro della banca francese e fu lui stesso multato per insider trading e poi da li' passo' a fare il capo della CIB di Unicredit per tre anni dal 2011 al 2014 per poi passare alle dipendenze di una banca straniera.
Mustier e' dunque un uomo di finanza e cioe' esattamente il contrario dello skill di uomo retail fortemennte voluto dai soci di Unicredit nei loro primi e un po' confusi intendimenti anche se la borsa ha ieri timidamente premiato il titolo perche' francamente non se ne poteva piu' di questa situazione di stallo e perche' la mission principale che ha ricevuto e' quella di evitare la svendita degli assets e portare a termine un massiccio aumento di capitale che riporti i ratio patrimoniali ai nuovo livelli richiesti a Unicredit e Deutsche Bank dalla vigilanza europea.
Sono in viaggio nella patria della Brexit e cerchero' di mantenere questo appuntamento anche se non necessariamente a livello quotidiano (anche se spero che la prossima puntata del Diario della crisi finanziaria potro' scriverla con una tastiera che prenda le virgole) ma voglio subito dire che le cose qui sono gia' un po' cambiate rispetto alla mia visita di sei mesi fa pur in assenza di variazione dei trattati.
Mentre tutti si stanno interrogando su quale è la prossima tappa del percorso di discesa senza freni del valore delle azioni delle banche italiane quotate nei mercati regolamentati, si viene a sapere che il Governo italiano ha allo studio dei non meglio precisati provvedimenti per venire in soccorso delle banche italiane tramortite dal livello elevatissimo dei Non Performing Loans, dall'ipotesi tutt'altro che remota di dover procedere, sotto la pressione della vigilanza europea, ad aumenti di capitale che il mercato assolutamente non gradisce, dalla normativa sul bail in che spaventa azionisti e risparmiatori, una normativa che ovviamente non distingue tra le molto disastrate banche venete e i colossi del settore che un tempo vantavano capitalizzazioni di borsa per decine e decine di miliardi di euro, basti pensare ai 60 miliardi di euro di Unicredit che ora si sono ridotti a meno di 12 miliardi, ma sorte analoga tocca a Intesa San Paolo, Monte dei Paschi di Siena e Ubi.
D'altra parte è quanto va sostenendo da mesi il poco carismatico Governatore della Banca d'Italia e membro del Board della Banca Centrale Europea, il quale non perde occasione per ripetere il suo mantra sulla eccessiva rigidità del bail in che provoca la fuga precipitosa di azionisti e risparmiatori sin dalla prima lettera di messa in mora da parte della collaboratrice tedesca del capo della vigilanza europea creando così le premesse per un ulteriore dissesto della banca sotto esame, insomma un meccanismo perverso che aggiunge danni alla situazione spesso già traballante dell'istituto di credito attenzionato.
Una valutazione di assoluto buon senso quella di Visco e un ragionamento che ha ispirato il Governo e il suo braccio armato, la Cassa Depositi e Prestiti, a favorire la nascita del Fondo Atlante un organismo chiamato ad affrontare tutti e due i corni della questione, gli aumenti di capitale e lo smaltimento almeno di una parte delle sofferenze che affliggono le banche italiane, essendo a tutti chiaro che gli aumenti di capitale sono in tutto o in larghissima parte determinati dalle perdite cui le banche vanno incontro quando cedono, spesso al venti per cento del loro valore nominale, i crediti deteriorati alle entità specializzate nel recupero dei crediti.
Quale è quindi la soluzione a cui stanno lavorando dei ministeri e economici, della Banca d'Italia e della Cassa Depositi e Prestiti? Tutto parte dalla situazione eccezionale determinata dalla Brexit, una situazione che consente di utilizzare quanto previsto dai trattati europei che non escludono che in un frangente simile si possa derogare dal divieto di aiuti di Stato alle banche, anche se poi come si declinerà concretamente questa possibilità è ancora avvolto dalle nebbie, perché si passa da interventi di ricapitalizzazione a un rafforzamento di grandi dimensioni del fondo di dotazione del Fondo Atlante ad un mix di questi due interventi o altre misure che dovessero uscire dal lavoro del gruppo di esperti incaricato di individuare soluzioni!
Quando venerdì ho scritto "Brexit un vero bagno di sangue", pensavo francamente, come tanti, che quel crollo verticale del valore delle azioni delle principali banche italiane e, seppur in proporzioni leggermente più attenuate, di quelle europee rappresentasse un minimo da cui non si poteva che risalire, anche perché vedere Unicredit cedere in una sola seduta poco meno di un quarto del suo valore e Intesa San Paolo e Banco Popolare perdere, rispettivamente, il 24 e il 23 per cento, mentre l'alquanto disastrato Monte dei Paschi di Siena riusciva, nell'ultima seduta della scorsa settimana, a "contenere" le perdite al 16 per cento.
Comprendere i motivi di questo vero e proprio crollo delle azioni delle banche italiane e dei principali colossi bancari europei non è semplice anche perché un nesso causale non c'è o è molto difficile da comprendere, anche perché è vero che esiste la possibilità che dalla Gran Bretagna possa spirare verso il Continente un vento recessivo, ma le proporzioni del crollo sono troppo grandi perché questa spiegazione regga, per non parlare poi del fatto che verosimilmente il divorzio della Gran Bretagna dall'Unione europea si consumerà soltanto tra un paio di anni.
Un motivo in realtà c'è ed è dato dall'ipertrofico settore bancario in Gran Bretagna, un comparto di attività che occupa circa un milione di persone (in Italia non si arriva a 300 mila) e intermedia un quarto dei flussi dell'intera Unione europea.
Analisti e operatori erano quindi in attesa all'apertura delle borse di ieri di assistere al previsto rimbalzo dai livelli davvero infimi toccati venerdì dal listino milanese, maglia nera in Europa con perdite che superavano di quasi sei volte quelle subite dal principale indice della borsa di Londra e inizialmente questo è avvenuto con un timido rimbalzo di qualche decimo di punto, ma è bastato poco per capire che non eravamo di fronte ad una inversione di tendenza, perché i titoli bancari hanno iniziato nuovamente ad affondare ed è scattata una raffica di sospensioni al ribasso che, solo nel listino principale, sono state dodici e tra queste spiccavano quelle dei titoli bancari ed è poi andata così per tutta la giornata per finire con perdite del 13 per cento circa per il Monte dei Paschi, dell'11 per cento circa per Intesa San Paolo e dell'8 per cento per Unicredit che così in due sole sedute ha perso il 32 per cento circa, pari a 83 centesimi in meno, mentre il Footsie Mib 100 ha lasciato sul terreno, tra venerdì e lunedì, oltre il 16 per cento. Perdite importanti anche per tutti gli altri listini europei, per le borse sudamericane e Wall Street. E domani è un altro giorno!
In alcune puntate precedenti del Diario delatrici finanziaria, avevo messo in guardia dal facile ottimismo che si era diffuso nei giorni che hanno immediatamente preceduto questo 23 giugno 2016 che non so se, come sostiene Nigel Farage, sarà ricordato come l'Indipendence Day britannico o come il giorno della catastrofe, un ottimismo basato su sondaggi che si sono rivelati franchi come già in occasione del referendum sull'indipendenza della Scozia, quello vinto con buon margine da quello stesso Cameron che venerdì ha dovuto dichiarare le sue dimissioni a certo tempo data per lasciare il passo a colui o colei che saranno incoronati a ottobre dal congresso dei conservatori.
Eppure la sera stessa del voto gli opinion polls davano un discreto margine a favore del remain, ma le banche della City avevano preparato per tempo i propri piani, mobilitando nella notte centinaia di traders e di analisti che si sono scatenati tra le tre e le quattro del mattino vendendo la sterlina e i future sugli indici azionari britannici e su quelli dei più importanti paesi membri dell'Unione europea che hanno poi aperto con livelli di perdita che in genere si verificano solo a fine seduta nei giorni più neri. Ma il peggio doveva ancora venire e devo dire che, mai come nella giornata di venerdì, la realtà ha superato di gran lunga l'immaginazione.
Per quanto riguarda la borsa italiana, di proprietà della borsa britannica e il cui indice principale si chiama Footsie Mib, l'unica cosa che riusciva a partire era l'indice, mentre le principali azioni che lo compongono erano in massa sospese per eccesso di ribasso, condizione dalla quale sono faticosamente uscite denotando, in particolare le maggiori banche, perdite intorno ai 20 punti percentuali, livelli di perdite dai quali davano nelle ore successive l'impressione di potersi risollevare, per poi risprofondare su perdite ancora peggiori che poi hanno mantenuto fina a quando è finalmente giunto il segnale di chiusura delle contrattazioni.
Era come se fosse stato allestito uno stress test reale e ben diverso da quelli cui le autorità di vigilanza europea le sottopongono in modo virtuale ed è così che Unicredit ha perso il 24 per cento circa del valore segnato solo ventiquattro ore prima, mentre Intesa-San Paolo di punti ne ha persi 2£, in linea con le perdite del Banco Popolare che ancora una volta avvicina il valore di mercato a quello previsto per l'aumento di capitale in corso, mentre il Monte dei Paschi di Siena è riuscito a limitare le perdite al 16 per cento. La perdita dell'indice di Piazza Affari ha segnato un record storico coni 12,48 per cento. Nel frattempo la sterlina perdeva il 10 per cento contro l'euro, mentre oro e Bund tedeschi volavano e la somma delle perdite dei mercati europei, Londra inclusa, superava i 600 miliardi di euro.
Quando leggerete questo articolo, forse sarete già al corrente del risultato del referendum svoltosi ieri e nel quale i cittadini britannici sono stati chiamati a decidere se rimanere nell'Unione europea con un pacco di eccezioni che non ha pari in nessuno degli altri 27 paesi dell'Unione o semplicemente decidere di recidere quel cordone ombelicale esistente da più di quaranta anni e tornare ad una politica isolazionistica con i vantaggi e i rischi che questo comporta.
Sì, perché, al contrario di quello che in tanti pensavamo, lo spoglio delle schede del referendum pur essendo iniziate ieri alla chiusura dei seggi alle 23 verrà ufficialmente comunicato questa mattina (e senza la diffusione di veri e propri exit exit polls dopo la chiusura dei seggi) aggiungendo suspence, ove se ne sentisse il bisogno, ad una attesa che ha prodotto sfracelli sui mercati con perdite di oltre mille miliardi di euro in poche sedute, perdite solo parzialmente recuperate quando i mercati si sono convinti che con il barbaro assassinio della giovane deputata laburista Jo Cox il vento fosse radicalmente cambiato a favore del remain, una visione che ho criticato in "Brexit o non dir quattro se non l'hai nel sacco", sia per motivi etici sia per la scarsa consistenza in un Paese spaccato in due e dove le convinzioni di chi propende per il leave sono molto radicate e molto emotive.
Sono andato a dormire, come tanti, sull'indicazione di opinion polls che davano in testa il fronte del remain su quello del leave per quattro punti percentuali, mentre si profilava un record di affluenza alle urne eccezionale per la Gran Bretagna e che oscilla intorno al 70 per cento, ma quando, a metà delle schede scrutinate, si è visto un prevalere dei sì all'uscita sui no per mezzo milione di voti la sterlina ha iniziato a perdere contro il dollaro portandosi a 1,30 dollari contro gli 1,50 di ieri sera, livelli non toccati dal lontano 1985 e i futures sul principale indice borsistico di Londra segnalano un meno 6 per cento e la borsa di Tokyo sta perdendo sette punti percentuali, le quotazioni dell' oro sono cresciute di quasi il 5 per cento, mentre si registra una significativa flessione del prezzo del petrolio, ma il grosso, se la tendenza attuale favorevole all'uscita dall'Unione europea si trasformerà, come è ormai certo, in certezza, lo vedremo quando apriranno i mercati europei.
Sono certo che molti giornalisti hanno preparato due pezzi, a seconda dello scenario che prevarrà, ma io penso sinceramente che, alla luce del risultato, nulla sarà come prima perché al Governo Cameron non sono bastati i quattro punti strappati all'Unione europea a febbraio e molto probabilmente sarà costretto a dimettersi aprendo la strada ad elezioni che vedranno il prevalere dei partiti sensibili alle ragioni dei sostenitori della Brexit e a una politica dell'immigrazione dai paesi dell'Unione europea che si profila già come molto dura!
Su mandato della procura della Repubblica di Vicenza che indaga sui reati di aggiottaggio e ostacolo alle attività di vigilanza, un nucleo di ufficiali della Guardia di Finanza ha operato martedì una perquisizione della mastodontica sede centrale della Banca Popolare di Vicenza per acquisire documentazione su quanto avvenuto nel triennio 2012-2015, gli ultimi ma più intensi anni dell'era Zonin conclusisi con una perdita miliardaria di 1,4 miliardi di euro e che darà il via alla nuova gestione che poi affonderà sull'aumento di capitale da 1,5 miliardi, aumento andato praticamente deserto e che aprirà le porte al Fondo Atlante che si sostituirà al mercato divenendo proprietario del 99,3 per cento del capitale post aumento, acquisendo le azioni a 10 centesimi contro i 62 euro a cui erano state collocate in un non troppo remoto passato.
Due erano i meccanismi adottati ai tempi della gestione Zonin, allora dominus indiscusso della banca, all'attenzione della vigilanza europea e di quella della Banca d'Italia che agisce come braccio operativo della prima e sono la manipolazione deliberata dei profili Mifid di circa 58 mila clienti della banca vicentina, mentre più interessante per comprendere gli sviluppi patrimoniali e reddituali dell'istituto di credito è l'altro meccanismo, quello che vedeva una sorta di patto scellerato che prevedeva prestiti a imprenditori sia locali che provenienti da fuori regione in cambio della sottoscrizione di azioni della banca, ovviamente proporzionato a quanto si riceveva senza troppa attenzione al merito creditizio del richiedente, a meno di considerare garanzie le azioni acquisite a quei prezzi stratosferici e che ben presto perderanno verticalmente di valore.
Non so quale sia stata la reazione del capo della vigilanza europea, Daniele Nouy, e della sua collaboratrice tedesca che segue da vicino il dossier delle banche italiane alle relazioni dettagliate del doppio meccanismo messo i piedi dalla banca veneta, ma è certo che raramente si sono trovate di fronte a una frode di queste dimensioni che vede classificati come investitori professionali casalinghe, pensionati e altri cittadini che a stento distinguono un'azione da una obbligazione, persone che hanno visto andare in fumo i loro risparmi, giungendo in un caso recente di cronaca a compiere gesti estremi, anche se le evidenze palmari emerse aprono la strada al risarcimento totale di quanto hanno investito.
Ma le vere sorprese verranno dall'intreccio incestuoso tra acquisto di azioni e concessione di finanziamenti poi finiti, in larga parte, tra le partite incagliate della banca, basti pensare al caso di Alfio Marchini che di milioni di euro ne deve alcune decine, per non parlare dell'oscura vicenda lussemburghese. Le perdite miliardarie della Popolare di Vicenza nascono in realtà dalla somma di centinaia di posizioni nelle quali il credito erogato nasceva sin dall'inizio come sofferenza, mentre le azioni acquistate dagli stessi soggetti diventavano carta straccia.
Il cinismo dei mercati finanziari ha dato una prova agghiacciante di sé quando è giunta la notizia che Jo Cox, attivista dei diritti umani e membro del parlamento inglese eletta nelle file del partito laburista, era stata barbaramente uccisa da un militante dell'estrema destra che sosteneva il primato della razza bianca, una notizia che ha fatto fare due più due a quanti sono impegnati nelle sale operative delle banche più o meno globali che, come nei giorni precedenti avevano affondato l'affidabile con perdite per mille miliardi di euro solo nei mercati azionari europei, così si sono gettati a capofitto a comprare il comprabile, proseguendo in questa tendenza anche nelle sedute successive a quel tragico pomeriggio.
Mentre la politica britannica, un mondo che di cinismo de ne intende e non certo da oggi, sospendeva per diversi giorni la campagna elettorale e ieri dava in una seduta commemorativa che vedeva uniti deputati membri della Camera dei Lord una dimostrazione di civiltà che ha commosso il Paese, analisti e operatori scommettevano sulle probabilità di vittoria che la morte di Jo, convinta europeista, avrebbero dato al remain, complice anche l'ultima scivolata del leader dell'Ukip, Farage, che aveva inaugurato una serie di cartelloni montati su camion che mostrano un corteo di immigrati che a suo avviso vanno assolutamente fermati, incurante della estrema somiglianza di questa immagine con quelle esibite nel regime nazista.
Seguendo da una vita i mercati finanziari non dovrei stupirmi di tutto ciò, in particolare avendone fatte le cronache per nove anni nel Diario della crisi finanziaria, ma esistono momenti come questo, nei quali si specula anche sull'assassinio di una donna giovane, madre di due figli, che ha dedicato la sua giovane esistenza ai diritti di quanti, in particolare in Africa, dove è stata impegnata per alcuni anni, non hanno voce!
Lasciando da parte i giudizi morali e l'indignazione, ritengo che questa scommessa sull'impatto di questo tragico evento sull'esito di un referendum che ha spaccato a metà l'opinione pubblica britannica sia anche molto azzardato come lo è stato in precedenza affidarsi ai risultati di sondaggi a un tanto al chilo, il tutto quando sondaggi molto stratificati e con un campione di 16 mila persone denotavano la difficoltà di fornire un quadro omogeneo degli orientamenti elettorali su una questione tanto divisiva e complessa, ma certo non consiglierei a nessuno di scommettere un centesimo su quanto decideranno gli elettori inglesi, gallesi, scozzesi e nord irlandesi giovedì prossimo, un esito che conosceremo peraltro solo il giorno successivo!
Dopo il cruento ribaltone avvenuto nell'ultima assemblea di Veneto Banca, quella che aveva visto il presidente precedente e la sua lista messi in minoranza e l'amministratore delegato Carrus degradato a direttore generale, le due liste di "grandi" azionisti, zeppe di persone che dovevano alla banca centinaia di milioni di euro, avevano promesso che per l'aumento di capitale da un miliardo di euro imposto dalla vigilanza della Banca Centrale Europea non si sarebbe ripetuto lo scenario della Banca Popolare di Vicenza, dove il fuggi fuggi dei soci aveva portato il Fondo Atlante a sborsare 1,5 miliardi di euro per il 99,3 per cento del capitale post aumento, e che erano sicure sottoscrizioni per 150-200 miliardi di euro, che, secondo il portavoce di una di queste associazioni potevano arrivare sino a 600 milioni che avrebbero portato i vecchi soci anche oltre la soglia della maggioranza assoluta del capitale della banca di Montebelluna.
Quando mancano pochi giorni alla conclusione dell'aumento di capitale, queste manifestazioni di interesse si sono dissolte come neve al sole e le adesioni per ora pervenute rappresentano percentuali da prefisso telefonico, e i capitani coraggiosi protagonisti del brusco avvicendamento aziendale motivano il loro ormai quasi certo disimpegno con l'incertezza delle strategie future della banca, sì proprio quel piano strategico atteso per ora invano dalla Nouy e dalla sua collaboratrice tedesca che segue da vicino il dossier.
Giunti a questo punto, due cose appaiono certe e la prima è che Veneto Banca non sarà ammessa al listino di borsa, pur essendosi dichiarata disponibile Borsa Italiana a non essere fiscale sulla soglia minima del 25 per cento di flottante, e che il Fondo Atlante dovrà staccare un assegno da poco meno di un miliardo di euro per assicurarsi poco meno del 100 per cento del capitale sociale post aumento, essendo di fatto azzerato quello precedente, e potrà avere così mano libera nella ristrutturazione, alquanto cruenta, della banca, così come farà in quella Banca Popolare di Vicenza dove si è scoperto che ben 58 mila clienti sono stati classificati con profili di rischio più alti di quello che avrebbe richiesto la loro effettiva condizione.
Nel bagno di sangue che da diverse sedute sta caratterizzando le banche italiane in borsa, l'altra grande banca con sede nel Veneto, il Banco Popolare sta avvicinando la sua quotazione al prezzo previsto per l'aumento di capitale da un miliardo (il che porta il totale richiesto al mercato dalle banche venete nel breve volgere di un paio di mesi alla cifra di 3,5 miliardi di euro), un prezzo di 2,17 che sembrava infimo quando, poche sedute fa, il Banco risiedeva stabilmente nell'area dei quattro euro.
Dopo la squarciamento in borsa di giovedì scorso dell'azione di Unicredit ad un minimo ultrastorico di 2,13 euro (ne quotava circa 7 nella primavera dello scorso anno), c'è voluta una perentoria dichiarazione del ministro italiano dell'Economia, Piercarlo Padoan, che nel pieno della conferenza stampa in conclusione dei lavori dell'Ecofin, la riunione periodica dei ministri delle finanze dei paesi membri dell'area dell'euro anche denominata eurogurppo un organismo che tanti lutti addusse in passato alla povera Grecia, ha fatto un breve passaggio su quella che è la seconda banca italiana e un gruppo creditizio europeo di dimensioni ragguardevoli, dichiarazioni che hanno consentito un netto recupero dell'azione nella seduta di venerdì scorso, con un aumento che ha sfiorato il dieci per cento, anche se l'azione non riesce a recuperare i livelli che aveva prima delle più che annunciate dimissioni del Chief Executive Officer, Federico Ghizzoni.
Ma cosa ha detto in realtà un non proprio disteso Padoan in quel di Bruxelles? Ha richiamato sostanzialmente i rappresentanti di quel gruppo ristretto di soci di Unicredit a rompere gli indugi e di finirla con il giochetto dei veti incrociati che vedono Protagonisti Palenzona, Biasi e altri esponenti di società che insieme possiedono circa un quarto della banca, sostenendo Padoan che i nomi di banchieri adatti a ricoprire il prestigioso ma anche molto impegnativo incarico di numero uno operativo di Unicredit ci sono e che gli stessi sono assolutamente all'altezza di guidare la banca in questa fase molto tormentata della sue esistenza e che si tratta soltanto di scegliere tra uno dei candidati.
Padoan è stato molto attento a non travalicare i confini esistenti tra l'attività del Governo e l'autonomia dei soci di una banca privata, ma le leggi esistenti gli consentono ampiamente di dire la sua su una situazione di stallo giudicata assolutamente intollerabile dai mercati che, infatti, stavano sparando ad alzo zero sulle quotazioni di un'azione che che rischiava seriamente di sprofondare a livelli da prefisso telefonico, un'eventualità che avrebbe reso molto difficili sia le previste dismissioni di assetts importanti del gruppo, sia avrebbe reso estremamente difficile quell'aumento di capitale da cinque miliardi di euro di cui la stampa specializzata e gli analisti finanziari stanno parlando da molto tempo.
D'altra parte, era impossibile per il Governo non intervenire quando fonti molto vicine al dossier avevano parlato apertamente di tempi di attesa per l'individuazione del nuovo amministratore delegato che si spingevano sino a fine luglio, determinando un clima di incertezza intollerabile.
Quella di venerdì è stata la puntata numero mille del Diario della crisi finanziaria, un'eventualità che non avevo proprio preso in considerazione quando questa avventura ha preso le mosse nove anni fa.
Tra i tanti lamenti che il presidente della Bundesbank, Weidmann, muove alla politica monetaria della BCE, il massiccio Quantitative Easing che in buona parte si traduce in acquisto di titoli rappresentativi del debito sovrano degli stati membri dell'eurozona, non ne ho mai sentito uno sulla pratica di acquistare non solo titoli dei paesi "pencolanti", ma, per quasi un terzo delle disponibilità mensili del piano ben 20 miliardi di euro di Bund alle varie scadenze, ma in buona parte proprio di quelli a scadenza decennale che fanno da riferimento per calcolare il differenziale con gli omologhi titoli degli altri paesi determinando quel valore sintetico che è definito spread e finendo per mandare anche il rendimento dei decennali in territorio negativo, come già da tempo accade per i Bund dalle scadenze più brevi.
Quello che c'è di assurdo nella politica seguita dalla BCE a guida Mario Draghi è rappresentato dalle quantità impiegate nei confronti di un titolo di stato che per ragioni sui quali non intendo annoiare chi legge è di fatto un titolo rarefatto per cui anche ondate di acquisto di proporzioni ben inferiori a quelle che caratterizzano da più di un anno l'istituto centrale di Francoforte hanno consentito di tenere i rendimenti di poche decine di basis point al di sopra dello zero, il che ha determinato valori esagerati dello spread pur in presenza di rendimenti dei decennali degli altri stati molto contenuti rispetto a quelli evidenziati in un recente passato, è il caso dello spread BTP-Bund con il decennale italiano che segnala, anche nei momenti peggiori, valori che sono quasi un quarto di quelli registrati nell'orribile 2011, l'anno nel quale vi furono manovre orchestrate e finalmente accertate tra le banche globali europee, Deutsche Bank in testa con i suoi 7 miliardi di euro di titoli italiani venduti quasi contemporaneamente e mentre la banca tedesca invitava, tramite le sue newsletters, i suoi clienti a non disfarsene!
D'altra parte, la stranezza del comportamento di Draghi e compagni fa il paio con l'altrettanto strano comportamento della Commissione europea che, pur fedele custode dei trattati e dei parametri che hanno strangolato i paesi membri nei terribili anni delle prime due fasi della tempesta perfetta, dimentica ogni anno che vi è una previsione che impone di sanzionare il paese membro che evidenzia un saldo delle partite correnti che per oltre tre anni superi il 6 per cento del prodotto interno lordo, cosa che la Germania fa da oltre un quinquennio, giungendo nel 2015 all'8 per cento, senza che l'argomento sia stato neppure sfiorato quando la Commissione ha distribuito in maggio le severe pagelle agli stati membri.
L'aspra campagna per il referendum sull'uscita o la permanenza della Gran Bretagna dall'Unione europea si è purtroppo tinta di rosso con l'omicidio della deputata laburista Jo Cox, impegnata nella difesa dei diritti umani e fermamente contraria alla Brexit, da parte di un uomo schierato sul fronte opposto.
Da quando il Chief Operating Officer di Unicredit, Vittorio Ghizzoni ha deciso di cedere alle pressioni dei grandi azionisti della banca italiana ma presente in forze in altri importanti mercati creditizi europei, Germania, Austria e Polonia in testa, dichiarando in un consiglio di amministrazione di fine maggio di essere disponibile, dopo avere ovviamente concordato le laute condizioni economiche per l'addio, a passare la mano, l'azione di Unicredit ha perso, al 14 giugno il 30 per cento del suo valore toccando i 2,21 euro, un minimo storico che va raffrontato ai quasi 7 euro della primavera scorsa e perdendo 18 miliardi di euro di capitalizzazione (ora sono ridotti a poco più di 13 miliardi) dall'inizio di quest'anno di disgrazia 2016, l'anno che segna l'avvio di una terza e molto complicata fase di quella tempesta perfetta che ha preso le mosse nel luglio del 2007.
Certo, in un mercato azionario europeo che ha bruciato 2.500 miliardi di euro in sette sedute non c'è da stare allegri e i guai della seconda banca italiana potrebbero anche passare quasi inosservati, tenendo conto di quanto accade al Monte dei Paschi di Siena o ancor più alle due banche destinate a convolare a nozze entro novembre, il Banco Popolare e la Banca Popolare di Milano, con l'azione del primo che sta quasi raggiungendo il prezzo fissato per l'aumento di capitale da un miliardo di euro attualmente in corso, ma non vi è dubbio che il mercato non può non rimanere sconcertato rispetto a una banca globale, quale Unicredit è, i cui azionisti più importanti non hanno pronta la candidatura del banchiere che dovrà rimpiazzare il grigio Ghizzoni, un uomo che non verrà ricordato per intuizioni di rilievo fondamentale, ma che almeno si è adoperato in questi anni per dare una sistemata ai conti dopo la effervescente gestione di Alessandro Profumo.
Un po' di ritardo per la scelta del nuovo numero operativo passi, ma quando da fonti autorevoli e, come si dice, vicine al dossier, si è appreso che l'attesa del nuovo numero operativo potrebbe non trovare termine prima di fine luglio le vendite si sono letteralmente scatenate con volumi esagerati e quelle perdite verticali del valore dell'azione di cui parlavo all'inizio e che in un tentativo di rimbalzo mercoledì scorso dopo varie sedute di bagno di sangue ha fallito clamorosamente il ritorno nell'area dei 2,30 euro per ripiegare rapidamente verso i livelli ignominiosi toccati nelle sedute precedenti.
Ma quale è la materia del contendere tra i grandi soci di Unicredit, che insieme ne controllano circa un quarto delle azioni e che per la dispersione degli piccoli azionisti fanno il bello e il cattivo tempo nell'istituto di Piazza Cordusio? E' presto detto: vi è un contrasto sanguinoso tra gli esponenti delle tre fondazioni bancarie che a suo tempo diedero vita insieme al Credito Italiano a Unicredit, un confronto che vede su fronti opposti Palenzona che vorrebbe Nagel di Mediobanca come nuovo CEO e Paolo Biasi di Cariverona che preferirebbe, come quasi tutti gli altri soci, un banchiere esterno al mondo Unicredit (primo azionista di Mediobanca che, a sua volta è un importantissimo azionista delle Assicurazioni Generali) e come dargli torto? Si è poi saputo ieri che, di fronte a quanto sta accadendo sui mercati, Unicredit ha deciso di accelerare i tempi e, nel giorno del voto su Brexit, cioè giovedì della prossima settimana, verrà esaminata una terna di nomi per la sostituzione di Ghizzoni.