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Quando i creditori internazionali del nostro Paese d’accordo tra loro, richiederanno simultaneamente dai mercati la restituzione del credito pubblico italiano, dove reperirà il governo i capitali che non possiede?
Ancora nel caos decisionale sull’accettazione o meno, del contributo europeo di ripresa, ossia del MES. Le decisioni conclusive del sì o del no stanno attualmente dividendo gli ottimisti del “momento fuggente” dai profeti delle conseguenze negative di fronte all’ inevitabile sindacato di controllo della Banca europea sulla destinazione di uso e sulla garanzia di restituzione del prestito.
Il reale pericolo di una recrudescenza del coronavirus non dovrà però, sorprenderci in una condizione di inadempienza circa la restituzione dei crediti ricevuti. Né d’altra parte, sarebbe logico fasciarsi la testa prima di romperla. E allora il rimedio? “Ubi malum, ibi remedium,” dicevano a Roma. Vediamo prima come stanno attualmente le cose.
C’ era una volta
L’Italia fa continuamente fronte alle risorse finanziarie che non possiede, attingendo mediante apposite aste soprattutto dall’ estero, il capitale per pagare gli interessi del debito pubblico. Dal momento però che le modalità della aggiudicazione d’ asta sono castiganti per gli interessi a cui si è volontariamente sottoposta, il primo rimedio è quello di interrompere la spirale perversa del dispositivo che incrementa con questi stessi interessi, il debito complessivo.
C’era una volta un vecchio film che si intitolava: “ Attenti a quei due “; titolo questo che a prescindere dalle idee politiche di ciascuno, richiama la disinvolta gestione dei due partiti attualmente al governo, troppo diversi per riuscire insieme ad operare in modo non contraddittorio.
Il guaio che si profila all’orizzonte dell’ Italia non è di carattere ideologico ma di reale pesante natura finanziaria. Tenuto conto però, che lo Stato siamo tutti noi, il capitale di cui il governo intende disporre soprattutto per impieghi senza ritorno, riguarderà alla fine le disponibilità economiche degli italiani.
La sfida del governo
Il progressivo indebitamento pubblico verso l’ estero che in specie in questo periodo viene accumulato dal governo quasi in senso di sfida verso chi la pensa al contrario, senza farci soverchie illusioni, dovrà essere restituito con i relativi interessi.
Dunque, messa da parte la pericolosa speranza di fare affidamento su elargizioni europee a fondo perduto, nella realtà dei fatti il Governo continuerà a ricorrere a pericolosi prestiti internazionali che aumenteranno sempre più anche la mole degli interessi da corrispondere periodicamente.
In queste condizioni la faticosa economia di valuta che i cittadini italiani per loro indole di risparmiatori hanno affidato alle casse delle banche, rischia sempre più di essere impegnata e impiegata per situazioni che come la Grecia insegna, potrebbero all’improvviso esplodere a fronte di una simultanea richiesta di restituzione da parte dei creditori esteri.
Il tempo critico
Il problema della potenziale insolvenza si verificherà quando alcuni Stati acquirenti presenteranno sul mercato massivamente i titoli italiani, facendo aumentare in modo critico il famigerato spread, così come è avvenuto allorquando Francia e Germania nel 2015, decisero di mettere in serissima crisi di governo italiano imponendogli di fatto, come poi avvenne, una diversa guida politica.
Si potrebbe continuare senza necessità di alcuna immaginazione ad elencare le possibili conseguenze per il nostro Paese se continuerà a indebitarsi ulteriormente per pagare i debiti esteri, vantando poi paradossalmente di aver saputo superare le resistenze dell’Europa, mentre il passivo nazionale sta avviandosi allegramente al superamento dei 2500 miliardi di euro.
Allo stato delle cose il debito pubblico è arrivato alle stelle e sempre più sarà difficile liberarsene se il sistema di indebitamento rimarrà il medesimo.
Ma qual è il sistema? Quello di ricorrere alle sovvenzioni internazionali attraverso un metodo aberrante.
Le aste internazionali
Entrando nel merito dell’indebitamento, vediamo come questo avviene.
Lo Stato non potendo onorare la restituzione ai creditori di quanto loro è dovuto, chiede ulteriori prestiti agli istituti finanziari, soprattutto esteri mediante aste per pagare almeno gli utili finora maturati.
Si tratta di circa 65 miliardi di euro di soli interessi che l’Italia corrisponde ogni anno ai creditori.
Consideriamo però che quasi la metà è destinata all’estero. Vediamo ora come avviene la distribuzione dei titoli in asta che, come detto, vengono offerti soprattutto per onorare il versamento degli interessi alle varie scadenze.
Supponiamo di vendere una certa quantità di titoli per una quindicina di miliardi. Anziché offrire agli acquirenti la base degli interessi che saranno corrisposti, accade il contrario. Infatti, è l’Italia che chiede ai creditori di fissare loro questo valore per i vari lotti in cui viene suddivisa la cifra complessiva.
Supponiamo ora che il primo lotto di qualche miliardo di euro venga giudicato al tasso dell’1,5% e che il secondo venga giudicato al 2,5% e così via fino all’ultimo acquistato al tasso del 4%.
L’Italia non paga a ognuno il suo, ma a tutti il valore di asta dell’ ultimo che è anche il più alto, incrementando a vantaggio anche degli acquirenti già soddisfatti, il debito pubblico nazionale.
La doppia speculazione
Trattando la questione dal punto di vista teorico, per venirne fuori viene ipotizzato da più parti che la prima cosa da considerare sarebbe quella di impedire questa sorta di doppia speculazione di coloro che si avvantaggiano ulteriormente per merito altrui.
La seconda sarebbe quella di rivolgersi agli stessi italiani che non amano investimenti rischiosi e che si fanno erodere dalle banche i propri risparmi a fronte di rendimenti inesistenti o addirittura negativi. Pertanto, in linea con questa tradizionale propensione al risparmio, come avveniva nel passato con i CTT e soprattutto con i BOT, sarebbero gli stessi italiani per il mantenimento del valore dei risparmi a sottoscrivere anche per un interesse minimo quelle stesse offerte di decine di miliardi che come detto prima, incrementano il baratro del nostro indebitamento oltre alla potenzialità dirompente della simultanea richiesta di restituzione da parte dei creditorii internazionali.
Il valore critico
Almeno in quota parte, i titoli che comportano a favore dei creditori esteri ogni anno 30 miliardi di euro di interessi e che sottraggono valuta dalle disponibilità del nostro Paese, rimarrebbero in ambito nazionale.
Le ragioni per le quali chi potrebbe non interviene per bloccare questa politica dell’ indebitamento ad oltranza, ognuno può immaginarle secondo i propri convincimenti.
Una cosa però è certa e che tutti noi dobbiamo convenire che quando l’indebitamento avrà raggiunto il valore critico, la contemporanea emissione sul mercato dei titoli acquistati dai nostri creditori internazionali metterà lo Stato in una posizione di insolvenza. In questo caso l’unica possibilità per il governo del momento che rimarrà con il cerino acceso in mano, sarà quello di attingere dai risparmi bancari dei cittadini ciò che serve, così come fece il governo Amato nell’81, oppure dichiarare il fallimento dello Stato con conseguenze ancora peggiori. Certo però che per quanto riguarda la tutela dei risparmi degli italiani, talvolta di una intera vita, la strada così mantenuta dal governo è proprio quella sbagliata.
Emendamenti, fughe in avanti, polemiche e cittadini a rischio truffe
Nessuna decisione sui temi ambientali viene presa con concordia e condivisione piena. Non solo sull’ambiente, evidentemente , ma nello specifico nel governo è una continua mediazione . C’è chi si professa ambientalista spinto , ma poi lascia che i provvedimenti abbiano efficacia annacquata, e chi va dicendo che l’Italia presto supererà gli altri Paesi europei nel green deal. Francamente non c’è da stare sereni.
Quello che sta accadendo intorno all’ecobonus per le ristrutturazioni edilizie con vantaggi fiscali al 110%, è lo specchio della divisione politica. Il provvedimento è sottoposto ad una serie di emendamenti, ma il decreto che lo contiene deve essere convertito in legge entro il 18 luglio. Nei fatti le prime agevolaIoni scatterebbero solo in autunno. Sulla carta, però, perché bisognerà poi aspettare ancora i decreti attuativi. Le regole in base alle quali l’Agenzia delle Entrate stabilirà come ottenere lo sconto. Il contentino sarebbe il riconoscimento del bonus dal 1 luglio di quest’anno anno.
Si può fare politica ambientale in questo modo? Coinvolgendo milioni di famiglie, imprese, installatori? Il panorama è talmente complicato che il Sicet, sindacato inquilini della CISL, ha invitato i cittadini a diffidare delle proposte tutto compreso che le ditte possono proporre a chi vuole riqualificare l’abitazione.
Ci sono rischi da evitare per non restare delusi da una scelta che il governo continua a presenta come rivoluzionaria. Si parla si ristrutturazioni a costo zero, ma il pacchetto “ sta generando nei cittadini un’idea distorta, ha detto il segretario generale del Sicet , Nino Falotico, poiché ischia di mettere in moto comportamenti azzardati e speculativi e in taluni casi dare lo spunto a delle vere e proprie truffe organizzate”.
Qualcosa di simile aveva detto anche l’Associazione consumatori e produttori di energie rinnovabili ,Aceper. “ Al cliente finale, ha spiegato la Presidente Veronica Pitea, suggeriamo di non affrettarsi a firmare contratti. È molto più opportuno affidare una diagnosi energetica della propria abitazione a uno studio di professionisti, per capire quali sono gli interventi più indicati per approfittare del beneficio fiscale una volta chiarita la situazione”. Data la situazione dell’iter parlamentare e le diatribe tra i partiti è opportuno non cadere in certe trappole.La possibilità , secondo il sindacato degli inquilini , è quella di aprire il varco alle scorribande degli speculatori, sempre in agguato quando c’è da fare soldi facili e approfittare delle difficoltà economiche di molte famiglie. Ancora più preoccupante , aggiungiamo, se c’è di mezzo lo Stato.
I decreti DPCM di Conte sugli aiuti economici per il Covid 19 sono stati recepiti in tempi record dalla Cassa di previdenza degli architetti e degli ingegneri (INARCASSA). La Cassa ha evaso la richiesta di denaro in 48 ore agli iscritti che ne hanno fatto domanda, sia per quanto concerne il versamento dei 600 euro mensili disposti dal Governo a favore dei professionisti, sia per quanto riguarda i prestiti fino a 25.000 euro a tasso d'interesse zero.
Ne hanno usufruito oltre 600.000 iscritti, su un totale di 800.000, e l’operazione è stata interamente condotta per via informatica. Un fatto che non ha precedenti nel nostro Paese, un vero e proprio miracolo. In pratica INARCASSA ha svolto le funzioni di una vera e propria banca verso i propri iscritti, ma senza frapporre ostacoli burocratici. In 48 ore, grazie all’ l'informatizzazione di cui la cassa è dotata si è potuto accogliere un’ enorme mole di pratiche in tempo reale e rispondere a tutti entro 48 ore dalla domanda.
La lodevole e meritevole operazione dovrebbe essere presa ad esempio dalle banche nostrane. La buona notizia, tra le poche di questi tempi, merita una segnalazione speciale.
Tiberio Graziani |
Per Tiberio Graziani, direttore dell'Italian International Vision e Global Trends Institute for Analytical Studies, la decisione dell'Arabia Saudita di aumentare la produzione e quindi ridurre il prezzo del petrolio è a vantaggio degli Stati Uniti e rende il mercato del petrolio più caotico.
Roma - "Credo che la decisione unilaterale dell'Arabia Saudita di ridurre il prezzo del petrolio sia stata una manovra tattica diretta principalmente contro la Russia", ha detto Graziani e ha aggiunto: "Quando si tratta di qualsiasi tipo di fonte di energia, sia dal punto di vista dello sviluppo della tecnologia o dei miglioramenti delle infrastrutture o, come in questo caso, dal punto di vista del mercato o delle transazioni in questo, si agisce sempre consapevolmente o no, in un contesto geopolitico. Pertanto, la decisione dell'Arabia Saudita ha una chiara dimensione geopolitica. Il comportamento di Riyad potrebbe aiutare a contrastare i tentativi della Russia di aumentare i suoi sforzi in Medio Oriente e Nord Africa". Graziani ha spiegato: "Attualmente, il "colpo di testa" dell'Arabia Saudita avvantaggia gli Stati Uniti in quanto punisce la Russia e crea problemi indiretti per la Cina, il che significa che colpisce due paesi, Russia e Cina, con i quali l'amministrazione Trump ha dichiarato la guerra commerciale già da molto tempo. Il capo dell'istituto ha concluso che "a causa di questa decisione, il mercato petrolifero è diventato più caotico, rispetto a prima". E domenica scorsa i prezzi dei futures sul petrolio sono scesi di oltre il 20 percento, dopo che l'Arabia Saudita ha ridotto il prezzo ufficiale della vendita di greggio, dando il via alla guerra dei prezzi dopo che nei colloqui dell'OPEC con la Russia non si è riusciti a raggiungere un accordo sulla riduzione della produzione.
Il mercato del petrolio rimarrà probabilmente in ribasso nei prossimi mesi, dato che i tagli dell'Arabia Saudita avranno un effetto combinato con l'arresto della crescita economica globale causato dal coronavirus, che ha ridotto la domanda di oro nero. L'obiettivo dell'Opec e dell'Arabia Saudita sembra dunque essere uno e uno soltanto: togliere quote di mercato alla Russia scatenando una guerra dei prezzi la quale avrà ripercussioni sul mondo intero. Riad è pronta, scrive il Financial Times, ad annunciare mega sconti ai clienti dell'Europa nord-occidentale, un mercato chiave per gli ex alleati russi. Gli sconti in arrivo sono senza precedenti: oltre 8 dollari al barile rispetto a marzo. Ciò potrebbe comportare ripercussioni anche nella guerra commerciale tra Usa e Cina in quanto il petrolio è legato a molti settori dell'economia globale.
Milano, 9 settembre 2019 La Fondazione ISMU rende noto che, secondo gli ultimi dati della World Bank, durante il 2017, l’Italia ha ricevuto 9,8 milioni di dollari in rimesse dall’estero e – a sorpresa – ne ha inviate verso l’estero di meno: 9,3 milioni. È chiaro che non si tratti solamente di rimesse di migranti e che i dati includano anche gli italiani temporaneamente all’estero (e gli stranieri temporaneamente in Italia); è tuttavia interessante notare come dal punto di vista degli scambi monetari tramite le rimesse, per l’Italia si sia registrato un guadagno. Tale trend a vantaggio dell’Italia in realtà dura da un triennio: nel 2016 infatti furono contabilizzate in 9,5 milioni di dollari le rimesse percepite dall’Italia e in 9,2 milioni quelle inviate, nel 2015 rispettivamente in 9,6 e 9,4 milioni. Tale cambiamento è dovuto probabilmente sia a una minore disponibilità economica della popolazione immigrata a causa della crisi, sia al fatto che gli immigrati con maggiore anzianità migratoria hanno spostato il centro dei loro interessi, anche affettivi, dal Paese d’origine all’Italia, dove spendono e fanno investimenti economici. Inoltre non bisogna sottovalutare le maggiori recenti emigrazioni dall’Italia sia di italiani sia di stranieri con cittadinanza italiana, che hanno senz’altro contribuito ad aumentare il flusso di rimesse verso il territorio nazionale.
Figura 1. Rimesse dall’Italia e verso l’Italia in milioni di dollari. Anni 1980-2017
Fonte: elaborazioni ISMU su dati World Bank
Dal 2008 al 2017 in Italia il saldo netto delle rimesse rimane comunque negativo. Ma nonostante l’inversione di tendenza degli ultimi tre anni, in cui le rimesse ricevute hanno sempre superato quelle inviate per un totale di un milione di dollari, nell’ultimo decennio il saldo netto delle rimesse per l’Italia è stato comunque negativo per 30 milioni di dollari. Infatti nei sette anni precedenti ‒ 2008-2014 ‒ le uscite dall’Italia sono state sempre superiori alle entrate, per un totale di 31 milioni di dollari. Si segnala che la maggior quantità di rimesse realizzate dagli immigrati dall’Italia verso l’estero si è registrata tra il 2008 e il 2011.
L’Italia è al 15° posto nella classifica mondiale per rimesse percepite e al 17° per quelle inviate. Sempre secondo i più recenti dati della World Bank (2017), sebbene in termini assoluti l’Italia sia al 15° posto nel mondo per rimesse percepite e al 17° per rimesse inviate, in termini relativi scende al 133° posto per incidenza delle rimesse percepite sul totale del prodotto interno lordo (0,5%), mentre è al 104° per quelle inviate. In base ai dati del 2017 all’incirca un duecentesimo del prodotto interno lordo italiano viene oggi annualmente inviato all’estero. Chi “perde” di più secondo i dati del 2017, sotto il profilo delle rimesse inviate, sono invece il Lussemburgo (il 20,3%, ovvero più di un quinto del proprio prodotto interno lordo viene inviato all’estero dai migranti) e poi i tre Paesi del golfo persico: Oman (13,9%), Emirati Arabi Uniti (11,6%) e Kuwait (11,4%).
Chi guadagna invece di più dalle rimesse – prescindendo da alcuni Paesi più piccoli – sono l’Egitto (il cui 11,6% del pil deriva dalle rimesse dei migranti), l’Ucraina (11,4%), le Filippine (10,2%) e più a distanza il Pakistan (6,8%). Mentre in termini assoluti i Paesi da cui sono partite più rimesse nel 2017 sono stati ‒ nell’ordine ‒ Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Svizzera e Germania.
Tabella 1. Rimesse dall’Italia verso i Paesi con il maggior numero di residenti in Italia durante il 2017
Paese |
Rimesse annue totali (in milioni di dollari) |
Popolazione residente (media 1° gennaio - 31 dicembre) |
Media rimesse mensili procapite (in dollari) |
Nigeria |
558 |
97.301 |
478 |
Egitto |
305 |
116.139 |
219 |
Serbia |
91 |
39.814 |
190 |
Cina |
627 |
286.327 |
182 |
Senegal |
226 |
103.572 |
182 |
India |
326 |
151.611 |
179 |
Filippine |
352 |
167.159 |
175 |
Brasile |
92 |
46.716 |
164 |
Tunisia |
171 |
93.930 |
152 |
Ghana |
81 |
49.039 |
138 |
Sri Lanka |
165 |
106.438 |
129 |
Ecuador |
118 |
81.749 |
120 |
Marocco |
547 |
418.591 |
109 |
Perù |
127 |
98.245 |
108 |
Moldova |
171 |
133.738 |
107 |
Polonia |
118 |
96.395 |
102 |
Pakistan |
132 |
111.201 |
99 |
Kosovo |
46 |
40.858 |
94 |
Russia |
33 |
36.873 |
75 |
Bulgaria |
49 |
58.937 |
69 |
Ucraina |
172 |
235.701 |
61 |
Romania |
771 |
1.179.322 |
54 |
Bangladesh |
83 |
127.198 |
54 |
Albania |
267 |
444.436 |
50 |
Macedonia |
18 |
66.658 |
23 |
Altri Paesi |
3.609 |
867.555 |
347 |
Totale |
9.256 |
5.255.503 |
147 |
Fonte: elaborazioni ISMU su dati World Bank e Istat
La maggior parte delle rimesse che giunge in Italia arriva dagli Stati Uniti. In base alle stime della World Bank risulta che lo stato da cui partono più rimesse per l’Italia sono gli Stati Uniti, seguiti da Germania, Francia e Canada. Per quanto riguarda le rimesse in uscita dall’Italia, i dati della World Bank pongono al primo posto a sorpresa la Francia davanti alla Romania e alla Cina, a cui seguono Nigeria e Marocco.
Rimesse dall’Italia verso l’estero: nel 2017 il primato va ai nigeriani. Nel 2017, tra i 25 Paesi con maggiore numero di residenti in Italia, al primo posto per invio di rimesse dall’Italia verso l’estero si colloca la Nigeria con il valore quasi inspiegabile – se non con il sommarsi di forti flussi finanziari a quelli di pure rimesse dei migranti – di ben 478 dollari medi mensili procapite, davanti all’Egitto (219), alla Serbia (190), alla Cina e al Senegal (182 entrambi); e con in coda Macedonia (23), Albania (50), Bangladesh e Romania (54), Ucraina (61), Bulgaria (69), Russia (75) e Kosovo (94).
Oltre all’inaspettato dato attribuibile ai nigeriani – e parzialmente anche a quello relativo agli egiziani –, stupisce il basso valore relativo ai cittadini ucraini, prevalentemente donne con obiettivi migratori fortemente legati al lavoro d’assistenza domiciliare e di risparmio e rimesse verso il Paese d’origine. Sicuramente in quest’ultimo caso l’invio delle rimesse avviene tramite canali informali, o sotto forma di beni, spesso inviati tramite pullman, furgoncini o corrieri che fanno la spola tra l’Italia e il Paese d’origine. Se il dato sui nigeriani è sicuramente fortemente incrementato da transazioni economiche[1], al contrario quello ucraino è sottostimato in assenza di contabilizzazione delle rimesse di tipo informale.
[1] Allo stesso modo è comprensibile l’elevato valore (347 dollari di rimesse medie procapite al mese) attribuito all’insieme delle nazionalità minori in Italia, composte anche da cittadini di Paesi a sviluppo avanzato le cui rimesse sono in realtà probabilmente spesso redditi d’impresa o finanziari.
Era il 2017 quando Trieste venne scelta per l’organizzazione di ESOF 2020, la più rilevante manifestazione europea focalizzata sul dibattito tra scienza, tecnologia, società e politica, che si svolgerà dal 5 al 9 luglio del prossimo anno, e renderà la città capitale europea della scienza.
ESOF 2020 sarà ospitata nel nuovo polo congressuale che sta sorgendo in Porto Vecchio per opera dell’impresa Monticolo&Foti, cui è stata recentemente affidata la realizzazione edile-impiantistica del compendio congressuale-espositivo.
La costruzione del Centro Congressi di Trieste sta procedendo con grande velocità. Ieri, 25 luglio, l’impresa costruttrice Monticolo&Foti ha posato la prima pietra del nuovo edificio che conterrà la sala da 2000 posti.
Come avevano già comunicato i vertici dell’azienda, Andrea Monticolo e Luca Foti, al sindaco Dipiazza in occasione della sua visita al cantiere, dopo aver eseguito le fondamenta si è iniziata la costruzione verso l’alto del nuovo edificio 28/BIS che sarà il cuore pulsante del complesso. Ad oggi sono stati posati 1.000 metri cubi di calcestruzzo e 60.000 chilogrammi di ferro. I tempi sono rispettati al minuto con l’arrivo dei primi elementi della struttura portante del fabbricato, si stima che l’operazione durerà fino alla metà del prossimo mese quando saranno ultimate anche le pareti di tamponamento. A fine agosto verranno consegnate e posate le travi alari, ognuna pezzo unico lungo 40 metri, la struttura sarà completata con la copertura entro il mese di settembre.
Il gruppo Monticolo&Foti, che impegna quaranta uomini al giorno nel cantiere, sta lavorando nel rispetto dei tempi imposti e con una programmazione di precisione che consente la prosecuzione ottimale nella costruzione degli impianti termoidraulici con la realizzazione dell’anello antincendio interno e tutte le dorsali idriche. A fine agosto sono previste anche le consegne delle macchine di condizionamento ad alta efficienza costruite ad hoc per il cantiere con recupero sia entalpico, ovvero recupero del calore e dell’umidità, sia termodinamico, cioè per il recupero delle temperature del gas refrigerante. Sempre all’interno degli edifici 27 e 28 sono stati costruiti gli impianti elettrici con posa delle dorsali principali con quasi 2 km di tubazioni e 2 km di canala portacavi e sono stati installati circa 2.000 staffaggi antisismici per il fissaggio degli impianti di cui sopra.
I principali eventi di ESOF 2020 si terranno nella straordinaria area di Porto Vecchio, il vecchio porto di Trieste che è stato per decenni il porto commerciale dell'Impero austro-ungarico e ora è un eccezionale patrimonio architettonico e industriale che il Comune di Trieste sta riqualificando con la collaborazione di uomini e imprese che lavorano per tale comune obiettivo.
Patrizia Grandis
Al posto dei minibot meglio la Lira, solo a circolazione interna e garantita dall'oro di Bankitalia, anche per prepararsi al braccio di ferro con la Ue, come vorrebbero Salvini e Di Maio. Dunque, questa potrebbe essere la ricetta alternativa.
Quindi, ristampare la Lira , ma solo ad uso interno, e garantita dall'oro di Bankitalia. Ma in alternativa si potrebbe vendere anche una parte dei lingotti che giacciono nel ventre della banca centrale , ed utilizzarlo per ciò che serve.
Ma non tutto è così semplice perché il metallo giallo di Bankitalia non appartiene allo Stato, ma alle banche ed assicurazioni che la controllano. Si tratta di un valore di circa 80 miliardi, prima era di 120, ma sembrerebbe che la parte mancante sia stata venduta.
Infatti, la Lega , tramite il parlamentare Borghi ha presentato tempo fa ( circa un anno) un ddl, che ancora giace in Parlamento,con il quale lo Stato si riapproprierebbe dell'oro dell'Istituto centrale.
Ma nel frattempo, 40 miliardi di oro sarebbero stati venduti per far cassa e per non lasciare le banche a bocca asciutta.
E già, perché questa liquidità, nel caso l'oro tornasse allo Stato, rimarrebbe nella Banca d'Italia, e cioè alle banche che la controllano.
Ma di tutto ciò non se ne fa cenno nelle grandi testate giornalistiche blasonate e neanche nei salotti buoni televisivi.
Ora speriamo che il lancio del sasso nello stagno da parte del nostro giornale faccia rinsavire qualcuno.
Infine, se si volesse allargare lo sguardo oltre, proponiamo una ricetta con cui lo Stato potrebbe recuperare ogni anno oltre 100 miliardi, senza sacrifici cruenti, denaro che potrebbe servire per la flat- tax ed altro, senza incorrere nelle ire della Ue.
Abolizione di tutte le detrazioni ( valore stimato di 100 miliardi di euro) escludendo solo quelle per i portatori di handicap. Dunque denaro fresco per ridurre le tasse a tutti.
Inoltre, si potrebbero riaprire le case chiuse ( gettito stimato di 8 miliardi all'anno). Poi cancellare il bonus di 80 euro voluto da Renzi ( valore 10 miliardi annui).
E per concludere lanciamo un macigno nello stagno. Il Giappone ha un rapporto debito-Pil di oltre il 250%, ed i mercati non interferiscono perché questo è solo interno, e gli interessi sono regolati dalla banca centrale. Ed allora qualcuno ne discute?
Nonostante le proteste del ministro degli esteri libanese Gebral Bassil, che recentemente ha accusato il governo di Tel Aviv di violare per circa 860 km le acque territoriali del Libano, verrà costruito il gasdotto più lungo e profondo della storia (1900 km di lunghezza).
Tale gasdotto che collegherà lo stato di Israele con l’Italia, passando per Cipro e la Grecia, è un progetto per buona parte finanziato dall’Unione Europea tramite l’ European Energy Program for Recovery. La società che ha preso in gestione tale costruzione è la Igi Poseidon, società di diritto greco che si trova sotto l’egida dell’italiana Edison s.p.a. .
L ‘ Eastmed che dovrà ultimarsi entro il 2025, costerà ai 4 paesi all’incirca 7 miliardi di euro, 2 miliardi in mezzo in più rispetto al Tap (Trans Adriatic Pipeline), gasdotto che partendo dall’Azerbaijan dovrebbe avere l’Italia come suo terminale. Il nostro paese produce solo l’8% del gas naturale che consuma , dipendendo enormemente da paesi terzi, in particolar modo dalla Russia (40 %) ed Algeria (25 %).
L’Unione Europea grazie a tali progetti sta cercando in ogni modo di diversificare l’approvvigionamento di gas, considerando che è il più grande importatore del mondo di fonti energetiche. E’ evidente che questi gasdotti rappresentano delle pedine che vengono mosse nello scacchiere geopolitico Euroasiatico, in una partita tra diversificati ed imprevedibili attori.
Venerdì 15 marzo 2019, alle ore 16.00 presso l’Auditorium di Via Rieti,a Roma, è stato presentato e distribuito al pubblico il rapporto Europa dei talenti promosso dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” e realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS.
Nella ricerca viene analizzato il fenomeno, sempre più rilevante, delle migrazioni qualificate, di cui vengono prese in esame le potenzialità e gli aspetti critici.
In un’Europa che progressivamente invecchia in assenza di immigrazione, la forza lavoro diminuirà di 17,5 milioni nel prossimo decennio, in larga misura in Italia, e già oggi si riscontrano 3,8 milioni di posti vacanti a causa delle carenze in settori chiave come le scienze, la tecnologia, l’ingegneria e la sanità, mentre gli attuali 12 milioni disoccupati per oltre la metà hanno un basso livello di competenze.
Entro il 2020, per esempio, si determinerà la mancanza di 756mila figure altamente qualificate nelle telecomunicazioni e di circa 1 milione nel settore sanitario tra dottori, infermieri, dentisti, ostetriche e farmacisti.
Risulta urgente un maggiore approfondimento di questa problematica, anche perché secondo la Commissione Europea l’immigrazione altamente qualificata può assicurare fino a 6 miliardi di euro di vantaggio economico annuale. Eppure, il mercato del lavoro UE stenta ad utilizzare a pieno il talento degli stessi immigrati già presenti e poco funzionale risulta lo strumento della Carta blu UE, che nel 2017 ha contato appena 24.305 rilasci (di cui solo 301 in Italia).
All’inizio del 2017 sono 16,9 milioni i cittadini comunitari attivi in un altro Stato membro, oltre a 2 milioni di frontalieri (sia lavoratori che studenti). Tra di essi, 3,6 milioni sono lavoratori mediamente qualificati e quasi 3 milioni altamente qualificati (numero quasi triplicato rispetto al 2004). Un terzo è inserito in settori altamente qualificati, come la sanitò (11,0%), le attività professionali, scientifiche e tecniche (12,0%) e l’istruzione (10,6%).
In ogni caso, l’aumento delle occupazioni non o poco qualificate tra gli altamente qualificati comunitari attesta un processo di crescente sottoutilizzo (brain waste) di questi giovani migranti, connesso con le difficoltà economiche che coinvolgono quasi un’intera generazione, alle prese con la disoccupazione diffusa, la crescente instabilità lavorativa, un costo della vita relativamente più alto rispetto al salario. Del resto, è significativo che i due terzi degli studenti internazionali non-UE, una volta laureati, preferiscono insediarsi in un paese non europeo.
In Italia la situazione è ancora meno soddisfacente per il basso tasso di occupazione (10 punti percentuali e 3,8 milioni di occupati in meno rispetto alla media UE-15). Notevoli sono le carenze in alcuni comparti ad alta qualificazione (sanità, istruzione e pubblica amministrazione). In particolare, dei 2.423.000 occupati stranieri rilevati dall’Istat nel 2017, quasi 2 su 3 (62,8%) svolgono professioni non qualificate o operaie e solo 1 su 14 (7,2%) fa lavori qualificati, risultando più spesso sovraistruiti (nel 35,5% dei casi gli immigrati svolgono mansioni al di sotto del loro livello di formazione). Continuano tuttora a essere limitati gli spazi offerti ai lavoratori qualificati non comunitari (5.000 nel 2017).
“L’Italia – commenta il prof. De Nardis, presidente dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” – soffre l’assenza di una strategia in grado di attrarre lavoratori qualificati nei comparti strategici, dove i ridotti investimenti bloccano l’impiego sia di nuove leve italiane sia di quelle in arrivo dall’estero, facendo del paese un tipico caso di spreco di talenti, di cui fanno le spese i giovani, sia autoctoni sia immigrati”.
Non a caso, secondo l’Ocse, l’Italia è l’ottavo paese del mondo per numero di emigrati. L’Aire attesta che nel 2017 gli italiani residenti all’estero (oltre 5.114.000, di cui quasi 2.657.000 per espatrio) sono in aumento. I cancellati alle anagrafi sono stati 114.000 nel 2017 (120.000 secondo le prime stime dell’Istat per il 2018), da maggiorare per un coefficiente di 2,5/3 volte se, come ha fatto Idos, si tiene conto delle registrazioni effettuate nei paesi europei di arrivo. Si tratterebbe, insomma, dello stesso livello di espatri degli anni ’60, con la differenza che ora a lasciare l’Italia sono molti laureati: erano appena 3.500 nel 2002 e sono diventati 28.000 nel 2017, per un totale di 193.000 laureati e 258.000 diplomati in sedici anni.
Proiettando queste incidenze sulla stima degli italiani effettivi che lasciano il paese, si può affermare che nella fase attuale l’Italia ha perso nel 2017 tra i 90mila e i 108mila connazionali altamente qualificati e che tra il 2002 e il 2017 sono stati circa mezzo milione i laureati che sono andati a cercare fortuna all’estero, di cui almeno un terzo non è più rimpatriato.
“Un paese come l’Italia – osserva Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS – che invecchia rapidamente e che continua a perdere competitività, con una economia in recessione, dovrebbe avere il coraggio di aprire i propri sistemi economici, produttivi e di ricerca ai giovani talenti, sia italiani sia stranieri, prima che essi optino per l’abbandono del paese. La dominante retorica della ‘chiusura’ non solo rivela la chiusura mentale di chi la alimenta, ma autocondanna il paese a un futuro sempre più asfittico e infecondo”.
I dipendenti della sede INPS Monteverde di Roma dal 7 gennaio sono in agitazione, le assemblee sono quotidiane e i dipendenti e le sigle sindacali rivendicano la centralità della funzione del servizio pubblico dell’ente. Per gli utenti la fila avanti alla sede per il disbrigo delle pratiche inizia alle sei del mattino, scene apocalittiche. Inevitabili le conseguenze sul servizio al pubblico, in particolare agli sportelli. Pratiche che vengono evase dopo mesi e mesi, addirittura anni, con tutto ciò che ne consegue per il disagio, non solo morale, ma anche economico (310.000 abitanti circa). La sede (53 dipendenti in totale) è al collasso e nulla viene fatto dalla dirigenza dell’ente per sopperire a questo grave disagio che da tempo viene segnalato e denunciato.
La situazione per una sede considerata di frontiera non è più sopportabile. Sia per i dipendenti che per l’utenza. Inevitabile il corto circuito tra la domanda di prestazioni da parte di una utenza quantitativamente e qualitativamente rilevante e la scarsità dei dipendenti. Lo stato di agitazione continuerà finché non ci saranno cambiamenti concreti da parte dell’istituto. Per il momento l’unico cambiamento certo è “quota cento” e “ reddito di cittadinanza” che vedranno, come se non bastasse, l’esodo di alcuni dipendenti, per cui l’organico diminuirà di almeno 10 unità, scendendo da 53 a 43 circa. A tutto ciò va aggiunto il decurtamento dello stipendio ai medesimi dipendenti da circa due anni per non raggiungere i risultati prefissi dalla dirigenza. La miscela è esplosiva. Nel loro comunicato la RSU lavoratrici e lavoratori INPS della Sede di Roma Monteverde sottolineano che la richiesta è assolutamente superiore rispetto alla risposta che si è pronti a dare e che “la dignità non ha prezzo“.
Terrorismo fiscale. Occhio alle cartelle già emesse in passato ed al macero, ma rinviate come se ancora valide.
Nella manovra di bilancio è inserita anche la rottamazione totale per le cartelle esattoriali sotto i 1.000 euro ( ciascuna) per il periodo 2.000-2.017, per cui tutte quelle emesse ed inviate al contribuente, nel periodo in questione, dovrebbero essere annullate automaticamente.
Ma , stranamente, il Fisco continua a rinviarle, anche se dovrebbero essere state annullate.
Dunque, il Fisco prova a chiedere ciò che non è lecito richiedere, con manovre “ truffaldine”, mentre invece dovrebbe richieder solo il rimanente, dopo la rottamazione automatica.
E così accade che il Fisco prova ad abbattere la sua ascia affilata sui cittadini ignari o disinformati.
Ma per qualsiasi eventuale impugnativa, di cui non ce ne sarebbe neanche bisogno, occorre comunque aver conservato le cartelle che sono già state inviate in precedenza, a dimostrazione che queste sarebbero state dovute essere inviate al macero.
E già, perché se le cartelle già inviate in precedenza non sono state conservate ( ed è ciò su cui il Fisco ci prova), come si fa a dimostrare che queste sono già state recapitate negli anni passati?
Per cui il Fisco ci prova, alla chetichella, ad incassare ciò che non dovrebbe.
D'altronde, Renzi quando ancora governava spavaldamente annunciò che Equitalia sarebbe stata chiusa.
Defunta per accorparla, invece, all'Agenzia delle Entrate, ben più temibile, perché può entrare nei conti correnti e sequestrarli, mentre Equitalia non poteva.
E coloro che non hanno disponibilità per poter pagare neanche il rimanente delle cartelle non estinte, e che possono essere perseguibili, cosa debbono fare per potersi difendere?
E così al Fisco si può fare un bel marameo, per non essere schiacciati dal non senso.
Per concludere, sul tema estorsioni, un'altra chicca. Al Verano, il cimitero di Roma, se si possiede una tomba, e si è superata la soglia dei posti previsti, anche dopo la rottamazione delle ossa degli avi in cassette, occorre sborsare all'Ama 3.000 euro per un nuovo ingresso. Ormai siamo alla pura follia fiscale. Qualcuno intende porvi rimedio?
Dulcis in fundo. Presto faranno pagare la bolletta della spazzatura accorpata a quella dell'elettricità. Così, oltre alla Tv pubblica, se non si paga la tariffa della spazzatura ti staccano la corrente elettrica. E che vuoi di più dalla vita? Forse un amaro per digerire il tutto? Naturalmente a pagamento.
A volte anche il Presidente Usa è vittima dei suoi stessi uomini di vertice la cui nomina non può essere revocata senza conseguenze peggiori dello stesso male
Con il “senno del poi” - Se Trump avesse avuto la possibilità di licenziare Powell già da due mesi a questa parte l’avrebbe sicuramente fatto; non manca a lui infatti, la coerenza delle sue decisioni, quantunque siano sempre oggetto di decisa opposizione da parte dei suoi avversari politici.
Per il licenziamento di Powell ci sono delle obiezioni di carattere finanziario che effettivamente ricadono per fatti concludenti sulla Federal Reserve a causa della eccessiva tempestività di voler considerare consolidata la ripresa dell’economia Usa. È stato infatti con una certa disinvoltura che Powell ha aumentato il costo del denaro, pur essendo questo ancora sotto la linea ottimale di un’inflazione del 2%.
L’economia americana è indebitata fino al collo, ossia, molto di più di quanto normalmente si creda. Infatti il suo debito pubblico ha raggiunto la astronomica cifra di 21.500 miliardi di dollari. È vero che l’economia Usa è la prima del mondo ma il valore assoluto dei debiti può essere simbolicamente rappresentato come l’ altezza delle onde del mare che prescinde dalla profondità sottostante. Ciò in quanto 21.500 miliardi di dollari rappresentano per chiunque e per ogni tipo di transazione il medesimo valore a prescindere dal creditore o dal debitore.
Quando nei mesi precedenti la Fed aveva portato il costo del denaro a 2,25 %, già allora i mercati avevano dato un importante segno di non gradimento. E adesso a maggior ragione, prima di uscire completamente dalla crisi finanziaria che sta ancora mordendo i polpacci, necessitava maggiore cautela ossia, maggiore consolidamento dell’economia non solo americana, per azzardare un ulteriore incremento dei tassi di sconto.
Non era la prima volta - Già allora Trump aveva ammonito il Presidente della Federal Reserve con considerazioni di opportunità, di non alzare il tasso di sconto. Tanto che, vista e considerata la prevedibile regressione di borsa già dall’ottobre scorso, malgrado il tentativo di dissuasione di Trump, tutti i mercati hanno manifestato un significativo segno di nervosismo, dando inizio ad un evidente arretramento dei valori investiti.
Il fatto che adesso in modo del tutto immemore, lo stesso Powell abbia elevato ancora il costo del denaro da 2,25 a 2,50 e che la stessa Fed dichiari che il tasso di crescita americano per il 2018 e per il 2019 si attesterà ad un valore inferiore a quanto preventivato, sembra piuttosto una conseguenza logica di aver peggiorato la situazione.
Oltre a questo va anche aggiunto che mentre Trump ammonisce Pawell di non leggere soltanto i numeri ma di porre attenzione ai mercati, quest’ultimo ha preannunciato che la Fed avrebbe ulteriormente incrementato il costo del denaro nel corso del 2019 quando il tasso neutrale potrebbe benissimo attestarsi al 2,75%. Valeva la pena allora di tanto scompiglio?
Si è trattato di una serie di prese di posizione che hanno causato, senza alcun dubbio, una catastrofe sulle aspettative di borsa e sull’economia americana, tanto da essere arrivata al record assoluto del calo di venerdì scorso crollando ai minimi di un anno e mezzo fa. E tutto ciò malgrado le raccomandazioni del Segretario del Tesoro Usa, Mnuchin, ai vertici delle maggiori banche americane di contenere le inevitabili conseguenze dei mercati.
Non possiamo meravigliarci pertanto, se ora Trump afferma con la sua nota determinazione che la Federal Reserve è divenuto l'unico problema della economia americana. Ma se questo è il teorema, allora il suo corollario è che il problema rappresentato è il Presidente Powell.
L’ aspettativa decisionale - C’è un impedimento però fondamentale che lo stesso Presidente Trump non sta sottovalutando, circa il rimedio a cui egli intenderebbe ricorrere per risalire in questo particolare periodo politicamente turbolento, soprattutto per gli eventi internazionali. La decisione che Trump anche molto plausibilmente, preferirebbe adottare nell’immediato per por fine a questa forte decrescita dei mercati, è quella della rimozione di Powell dalla Federal Reserve.
L’altra possibilità è che Trump, ormai circondato dal largo fronte interno ed esterno che in questi ultimi tempi egli stesso ha accresciuto senza troppi scrupoli, decida di tenersi almeno per qualche mese ancora Powell. Ciò avverrebbe probabilmente, in attesa di tempi migliori, pur con la trepidazione che nel 2019 quest’ ultimo continui, come ha preannunciato, ad aumentare i tassi di sconto.
Il paradosso della situazione - Per Trump il dilemma che pertanto si prospetta lo pone in ……amletico dubbio sul da farsi: se infatti, decidesse di mettere in soffitta l’uomo che lui stesso ha nominato, ovvero, Powell, potrebbe generarsi sulle borse mondiali una ulteriore e ancor più grave perdita per la esplicita dipendenza finanziaria della Federal Reserve dalla politica governativa di Trump.
È vero che nei giorni prossimi dovremmo aspettarci in borsa l’immancabile impennata del cosiddetto rimbalzo tecnico. Ma il rimbalzo tecnico non significa inversione del trend.
Il punto più importante della imparzialità della politica monetaria americana da quella del governo federale, rappresenta il concetto fondamentale sul quale la borsa mondiale ha finora confidato. Se invece venisse provato con il licenziamento di Powell, la dipendenza della leadership della stessa Federal Reserve dalla Casa Bianca, avverrebbe una reazione nel mondo finanziario di non facile previsione.
In effetti, la condizione che Powell ha determinato all’ economia americana ricorda per analogia il comandante di una nave che per il fatto stesso di essere deposto per incapacità, implicherebbe la preliminare accusa di ammutinamento dei protagonisti e poi tutto il resto. Solo che nei mercati finanziari non ci sono processi, dopo quanto avviene: “…………chi ha avuto, ha avuto, ha avuto; chi ha dato, ha dato, ha dato…….”.
La non facile previsione sopra accennata, non significa che il risultato del licenziamento sia necessariamente catastrofico, in quanto potrebbe essere anche quasi indolore, ma com’è noto in borsa l’indecisione e le attese negative sono più rovinose della stessa peggiore realtà dei fatti.
A questo punto non è facile capire che cosa avverrebbe, in quanto la forza risolutiva dei problemi che lo stesso Presidente affronta quasi quotidianamente, supera le previsioni della classica diplomazia consolidata, tanto che le stesse possibili risposte ai vari problemi che si prospettano, contengono la medesima indeterminazione dei fatti che ne sono causa.
Ma perseverare …….. - Lasciar pertanto scivolare l’economia lungo la china discendente della regressione, dopo la pioggia di miliardi immessi sui mercati con il Quantitative Easing (QE) per la politica dei tassi di sconto, sarebbe una contraddizione; considerato infatti, l’enorme debito pubblico degli Stati Uniti d’America, potrebbe trattarsi forse di un male peggiore di un drastico provvedimento preso a tempo reale.
Alberto Zei
Ascoltare e leggere le notizie del Rapporto Italiani nel mondo 2018 è un po’ come guardarsi dal di fuori.
Dal di fuori nel senso dello spazio perché si parla di italiani all’estero. È un guardarsi con i loro occhi. Sono 5,1 milioni gli iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) nel 2018.
Si trovano soprattutto in Europa e in Centro e Sud America. In particolare in ordine di grandezza sono in Argentina, Germania, Svizzera, Brasile, Francia.
Ma è un guardarsi dal di fuori anche nel senso del tempo, in un confronto col passato. Sono ancora soprattutto i meridionali ad emigrare, il 49,5%, seguito dal 34,9% dei settentrionali e solo il 15,6% degli italiani del Centro.
Un 48,1% di donne contro il 51,9 di uomini. Il 55,3% è single, il 37,0% sposato, il 2,5% divorziato o vedovo.
Forse il dato che più che un’idea, sembra voler dare un vero e proprio giudizio su ciò che siamo, come viviamo e dove andiamo, è quello delle classi di età. Il 15,0% ha meno di 18 anni, il 22,2% ha tra i 18 e i 34 anni, il 23,4% ha tra i 35 e i 49 anni, il 19,1% ha tra i 50 e i 64 anni, il 20,3% ha più di 65 anni. Se è più comprensibile che siano i giovani i più disposti ad emigrare per costruirsi un futuro con prospettive migliori, con una volontà e un entusiasmo ancora freschi, è quel 40,0% circa, che ha tra i 50 e oltre 65 anni, che spiazza.
Allora si cerca conforto nelle motivazioni e soprattutto quelle delle fasce d’età più sconcertanti. Gli over 50 sono soprattutto disoccupati e con alta e diffusa precarietà. Nelle fasce alte di età un’altra motivazione è il ricongiungimento con figli e nipoti all’estero. Questa volontà/necessità di ricostruzione/ricostituzione della famiglia è testimoniata anche dal successo del ristorante di cucina italiana a Londra, La mia mamma. Sono le mamme dei figli migranti che li vanno a trovare, si fermano per tre mesi e fanno da chef al ristorante con pari alternanza di menù a seconda delle regioni d’origine.
Sono definiti migranti di rimbalzo coloro che rientrati in Italia alla fine dell’attività lavorativa, la lasciano nuovamente perché rimasti vedovi e/o per ricongiungersi con i figli rimasti all’estero.
Infine i migranti previdenziali, cioè coloro che, pensionati, si trasferiscono all’estero dove la vita ha un minor costo, ma offre anche una qualità più alta, soprattutto a livello sanitario. Le mete più richieste sono Marocco, Thailandia, Spagna, Portogallo, Tunisia, Santo Domingo, Cuba, Romania.
Se lo sguardo sembra non essere dei più ottimisti e benevoli, tanto più se si considerano le difficoltà, cioè che non sempre la migrazione va a buon fine, è proprio guardando alle fasce di età, che si può tirare qualche considerazione positiva.
L’età avanzata dei migranti testimonia l’allungamento della vita, ma anche una più longeva mentalità positiva che continua a guardare e a cercare il meglio, anche se altrove.