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Economics (238)

Roberto

Roberto Casalena
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Dal 5 di agosto scorso, il giorno in cui la borsa giapponese (indice Nikkei 225) ha perso il 12,5 per cento la vera e propria diga eretta dalle maggiori banche e corporation del mondo “occidentale”, tramite massicce operazioni di buy back (riacquisto di azioni proprie debitamente autorizzate in sede di assemblea) sono riuscite solo per un breve lasso di tempo a frenare il brusco declino dei corsi azionari che nelle ultime tre sedute ha assunto sempre più l’aspetto di una frana.

Solo ieri i maggiori indici statunitensi hanno registrato perdite stellari con i titoli del settore tecnologico che hanno perso diverse centinaia di miliardi di dollari di capitalizzazione ma che restano, esemplare il caso di NVIDIA, a multipli tra utili e capitalizzazione totalmente insostenibili, come ben ha notato in un suo commento il solitamente cauto Professor Romano Prodi.

Ma cali altrettanto significativi hanno riguardato la star indiscussa della logistica, Amazon, il settore delle grandi banche a stelle e strisce e via discorrendo.

Ne meno preoccupante si presenta la situazione nel mercato azionario nipponico che in sole tre sedute ha perso oltre il sei per cento e si avvicina pericolosamente allo stesso livello toccato il 5 agosto.

Molto meno inquietanti sono i dati relativi alle major dei listini dell’area dell’euro o della stessa Gran Bretagna, anche perché non si erano registrate da noi le vere e proprie esagerazioni vissute nel settore Hi Tech statunitense e perché i multipli tra utili e capitalizzazione sono ben più modesti se non modestissimi nel settore bancario italiano, comunque ben provvisto di piani di buy back miliardari dovuti in larga parte ai profitti stellari legati maxi margini di interesse. Ma questo non ci esime dal soffrire, seppur in minor misura, dell andazzo generale (si può leggere in tal senso il pressing della BCE affinché le banche europee siano meno generose nella distribuzione degli utili agli azionisti e aggiungano un di più alle già ingenti riserve previste nell’ultima versione degli accordi di Basilea).

Ho cercato invano nelle edizioni online dei maggiori quotidiani italiani e della stessa ANSA notizie del massacro di ieri e degli ultimi giorni ma non ne ho trovato traccia.

Così come sono state ridotte a poco più che trafiletti le notizie relative alle massicce uscite del fondo di Warren Buffet da Apple, Bank of America e da tante altre società del Dow Jones Industrial, giungendo ad un tale livello di liquidità che porta il suo fondo ad essere il primo detentore (con qualcosa come 400 miliardi di dollari di Treasury Bills a un mese) smobilizzo che ha già effettuato con successo quando erano in vista le ultime quattro crisi finanziarie, Tempesta Perfetta assolutamente inclusa, insomma un vero e proprio sell signal di certo non sfuggito ai suoi principali competitor e che ha portato là capitalizzazione del suo fondo alla ragguardevole cifra di mille miliardi di dollari, primo caso per una società non tecnologica e, come si è detto, quasi del tutto risk free.

Per chi ne avesse la curiosità, rinvio agli articoli redatti nella calda estate del 2023 e, più in particolare, alla lunga intervista che ho rilasciato a Virgilio Violo sul canale YouTube della Freelance International Press.

 video 1 e video 2

 

Lascerei protagonisti e fatti della Tempesta perfetta a quella riunione a porte chiuse nell'hotel esclusivo di Manhattan perché penso che quanto avvenne quella sera non fu che il prodromo delle decisioni che portarono al "sacrificio" di Lehman Brothers sull'altare della fine del principio del Too Big to Fail, un sacrificio che coinvolse pure altre entità del panorama finanziario a stelle e strisce, rinviando chi è interessato alla letture delle prime annate del "Diario della crisi", il mio blog di Google che godeva di un grande seguito alla luce del semplice fatto che prediceva, a volte con largo anticipo come nel caso di Lehman, quanto poi sarebbe più o meno puntualmente avvenuto (diariodellacrisi.blogspot.com).

Mi sembra, invece, utile tornare alla fase invero convulsa che intercorse tra le dimissioni alquanto "spintanee" di Antonio Fazio e la nomina di Mario Draghi quale Governatore della Banca d'Italia, ma, e forse soprattutto, sui padrini dichiarati e quelli soltanto e faticosamente intuibili di una nomina che, come in quel caso, non andava a premiare una luminosa carriera in quel di Via Nazionale.

Ovviamente l'indicazione del nome del prescelto era nelle prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri, all'epoca Silvio Berlusconi (tralascio volutamente i passaggi istituzionali che rendono tale nomina effettiva perché del tutto ininfluenti), ma vi fu un altro personaggio politico, fortemente assiso in quel della Prima Repubblica che ebbe tre anni dopo a rendere nota sia l'influenza sulla decisione di Berlusconi che il forte pentimento per quel suo endorsment e, cioè il più volte ministro e due volte premier nonché Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga.

Questo personaggio, dichiaratamente interno alla struttura di Stay Behind, per sua stessa ammissione utilizzatore dei servigi di Licio Gelli anche se per una causa meritoria quale quella del rintracciamento di desaperecidos di origine italiana in Argentina, grandissimo amico del Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Armando Corona, nella già citata intervista a Luca Giurato nella popolare trasmissione Uno mattina del 2008, si attribuì un ruolo determinante nella decisione salvo poi aggiungere che di poche sue azioni si era pentito come di quella, definendo Draghi "un vile opportunista" e sottolineando i suoi legami con "i suoi amichetti" di Goldman Sachs, nonché gettando palate di fango sulla sua opera nel settore delle privatizzazioni avvenute nel corso degli anni Novanta e ventilando che avrebbe potuto toccare anche le aziende di un settore al quale il Presidente Emerito era particolarmente affezionato che sono quelle del settore della Difesa e dintorni.

La quasi contestualità dell'intervento a gamba tesa di Cossiga, come altre iniziative verbali o meno, viene ascritta dai più ad aspetti caratteriali al limite del patologico con il forte impegno di Draghi nel fronteggiare gli alti marosi della Tempesta Perfetta, tesi che poco condivido anche perché vengo da una terra dove si dice che Pulecenella pazziando pazziando ricette a verità, ma credo invece che i suoi espliciti riferimenti agli incontri sul panfilo Britannia (gentilmente prestato dalla casa regnante britannica) fossero tutt'altro che casuali e lasciassero intendere che i veri padrini della nomina di Mario Draghi al vertice di Bankitalia fossero gli stessi con i quali aveva, efficientemente aggiungo io, per privatizzare banche, industrie dei settori più disparati e non mi soffermo sull'elenco sterminato di aziende di ogni ordine e grado efficacemente riportato nel breve saggio della ricercatrice che ho avuto modo di citare in una delle puntate precedenti.

Pur essendo certo che non si arriva a vendere "roba" per qualcosa meno di 200 mila miliardi delle vecchie lire non essendo riconosciuto come valido e affidabile interlocutore dalle grandi e grandissime banche d'affari è, tuttavia, altrettanto certo che quello di Draghi fosse un nome, come si diceva ai tempi del Sessantotto, conosciuto al potere e pressoché sconosciuto alle "masse".

Non dimenticherò mai quello che ebbe a dirmi il mio capo all'ufficio studi della BNL, l'ex direttore del Sole 24 Ore e vicedirettore del Corriere della Sera ai tempi di Di Bella, Alberto Mucci, a proposito di quel Carlo De Benedetti che era allora un mio idolo, quasi come poi lo sarebbe divenuto Warren Buffett, definendolo spietato e senza scrupoli, pur avendo il suo numero personale diretto in un'agenda nella quale erano presenti tutte le persone che allora contavano nel panorama economico italiano.

E' peraltro evidente che l'idea che la gigantesca finanza globale fosse un gigante con i piedi di argilla non era, in quella fine di dicembre del 2005, nota soltanto in Goldman Sachs, era presente all'attenzione del Gotha della finanza mondiale, così a quell'antagonista storico di Berlusconi e al suo braccio operativo in politica, intendo Carlo De Benedetti e Romano Prodi, il che induce a ritenere che la nomina di Draghi avesse l'avallo sia del Governo che dell'opposizione, con i rispettivi punti di riferimento nella finanza nazionale e internazionale.

Del sollievo dei colleghi Governatori delle banche centrali al di là e al di qua sia dell'Oceano Atlantico che di quello Pacifico ho già avuto modo di parlare, un sollievo che si è presto tradotto nella decisione pressoché unanime dei suoi nuovi colleghi di investirlo della presidenza del comitato (questo comitato cambierà denominazione nel corso della crisi finanziaria ma avrà sempre alla presidenza Mario Draghi) e, risolte in breve tempo le beghe legate alla ristrutturazione di Bankitalia, Draghi si dedicherà a questo gravoso compito in modalità full immersion.

Come sta facendo in questi mesi (per la precisione dell'autunno del 2023), Warren Buffet e come lui molti altri grandi investitori stanno facendo esattamente quanto fecero nei mesi precedenti l'avvio della Tempesta Perfetta, e cioè stanno trasformando i loro investimenti azionari in liquidità, per lo più investita in titoli a brevissimo termine, così come ora ed allora le grandi Investment Bank e le banche più o meno globali stanno invertendo le loro posizioni, lasciando i piccoli investitori in balia della scarsa attitudine ad adottare efficaci sistemi di take profit e di disinvestimento in presenza di predeterminati livelli di perdita.

Respingendo la tentazione di fare un salto nel presente discutendo del voluminoso rapporto di Mario Draghi sulla competitività dell'Unione Europea rispetto al gigante statunitense e a quello (alquanto ammaccato in verità) cinese, cercherò di concentrarmi nella prossima puntata sulla crisi del debito che vedrà la definitiva consacrazione di Draghi sia come candidato pressoché indiscusso alla presidenza della Banca Centrale Europea sia come risolutore della più grave crisi che l'area dell'euro (ma non solo) ha dovuto affrontare nella sua relativamente breve vita.

(segue)

 

 
Nella puntata precedente siamo rimasti a quella sera nell'albergo di Manhattan nella quale i potenti Chairman e CEO delle banche più o meno globali furono chiamati ad ascoltare la lezione del Professor Mario Draghi, seduto al fianco del suo ex capo in Goldman Sachs, Hank Paulson, Segretario di Stato al Tesoro pro tempore degli Stati Uniti d'America e, come ho già detto, pur non esistendo verbali della suddetta riunione, non è azzardato presumere che Hank lasciò il compito di relatore a quello che allora era, almeno sulla carta, soltanto il Governatore di una banca centrale dell'area dell'euro, peraltro svuotata della funzione di politica monetaria e delle funzioni di vigilanza sulle banche italiane di grandi dimensioni, il tutto accentrato in quella Banca Centrale Europea della quale poco più tardi di un triennio dopo lo stesso Draghi sarebbe stato chiamato al vertice.
 
A differenza di un normale Governatore, come ad esempio il Presidente della Fed, Bernanke (che nel Diario della crisi solevo appellare Greenspan), Draghi aveva dalla sua non solo un solido background accademico e una forte esperienza di merchant banker acquisita nel corso delle decennale esperienza presso il Tesoro della Repubblica italiana, ma anche una conoscenza specialistica acquisita, come più volte ricordato, come Managing Director per l'Europa e poi membro del comitato esecutivo globale della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, una conoscenza molto utile per sbrogliare gli impicci e le diavolerie escogitate dagli apprendisti stregoni delle Investment Bank e delle fabbriche prodotto delle banche più o meno globali.
Un esempio legato all'attualità può essere di aiuto ed è fornito da quella che viene indicata come una delle principali cause del crollo del mercato azionario di Tokyo del 5 agosto di quest'anno e cioé l'impetuoso sviluppo dell'attività di carry trading che in estrema sintesi consiste nel prendere a prestito in paesi con tassi molto bassi ed investire in paesi che offrono una remunerazione molto più elevata, se a questo si aggiunge poi una debolezza della valuta in cui ci si indebita rispetto a quella nella quale si investe possiamo dire che il gioco è fatto. E' bastato che la Bank of Japan portasse i tassi ufficiali da zero a 0,25 e che, contestualmente, lo yen riprendesse forza nei confronti del dollaro che un numero imprecisato di posizioni venissero chiuse e che, anche sulla base degli algoritmi, si scatenasse un'ondata di vendite sul mercato azionario giapponese e poi di conserva sui principali mercati azionari statunitensi.
 
Ebbene, stando a quanto riferisce la stampa specialistica, nessuno sa, autorità monetaria a quanto pare incluse, l'esatta entità di questo tipo di operazioni che almeno stando a quanto ho cercato di sostenere nel mio alert del giugno del 2023 è andato ad impattare su un terreno estremamente propizio legato alla fragilità del sistema creditizio gravato All Over the World da una caterva di obbligazioni pubbliche e private emesse nella lunghissima fase dei tassi zero, da multipli di capitalizzazione, in particolare nel mercato a stelle e strisce e nel comparto Hi Tech, per non parlare della oramai scoppiata bolla immobiliare cinese che tanto è già costata ai sottoscrittori di bond delle due principali società cinesi del settore.
Scusandomi per la digressione e tornando al redde rationem di quella sera newyorkese, avrei voluto essere una mosca per assistere alla reprimenda del Professor Draghi ai massimi vertici di J.P. Morgan-Chase, Bank of America, Merril Lynch, Goldman Sachs (beh c'erano anche loro anche se un'idea di quello che sarebbe stato detto potevano intuirlo), Deutsche Bank, BBVA, Santander, BNP Paribas e via discorrendo; anche se un'idea me la sono fatta perché Draghi la sua ipotesi di riforma (parziale si intende) delle regole aveva iniziato a prepararla sin dal conferimento dell'incarico di presidente del comitato istituito dalle principali banche del mondo occidentale, Giappone e Australia ovviamente inclusi.
La differenza rispetto al momento dell'elaborazione delle linee guida per la riforma elaborate presumibilmente a partire da fine 2006 e prima parte del 2007 sta tutta nella disponibilità dell'uditorio di quella sera e nel fatto che da semidei dell'Olimpio finanziario globale quegli stessi banchieri erano oramai terrorizzati e disponibili a mettere anche mano radicalmente a prassi che, per quanto spesso al limite del lecito, erano consolidate da molto, molto tempo.
 
Nello stesso tempo, quello che ormai molti iniziano a chiamare Super Mario diventa sempre di più il punto di riferimento delle Cancellerie occidentali, a loro volta terrorizzate delle conseguenze economiche e sociali di una Tempesta Perfetta della quale non si intravvede la fine e che solo tre anni dopo acclameranno Draghi come primo e vero banchiere alla guida della Banca Centrale Europea dopo la non esaltante prova di Jean Claude Trichet.
Ciò accade quando naturalmente e quasi inevitabilmente la crisi finanziaria si trasforma in una crisi del debito che minaccia in primo luogo l'unione monetaria europea che è ancora relativamente giovane (sono passati solo dieci anni circa dall'introduzione dell'euro come moneta fisica) ma questo sarà oggetto di una puntata di là da venire, mentre ora siamo ancora agli esordi della Tempesta Perfetta. (segue)

 

Proprio mentre stiamo passando dai sinistri scricchiolii del sistema finanziario globale che ho segnalato in un mio articolo del giugno 2023 e che ora si stanno manifestando sempre più nelle avvisaglie di una nuova Tempesta Perfetta, è utile ripercorrere fasi e modalità della crisi finanziaria avviatasi nell'estate del 2007, pienamente deflagrata nel corso del terribile 2008 e che poi ha lasciato pesanti strascichi negli anni successivi.

Quella che è stata definita la crisi dei mutui subprime è in realtà un fenomeno più vasto favorito dalla quasi totale assenza di regole del mercato globale dovuta alla selvaggia deregulation dell'era Clinton, un fenomeno che, unito ad una globalizzazione altrettanto senza regole chiare e certe ha permesso che le ondate della Tempesta Perfetta investissero in pieno navi e navigli della finanza più o meno globale con conseguenze che prescindevano del tutto o in parte dalle dimensioni dei soggetti coinvolti.

Come dicevo nella precedente puntata, alla base del fenomeno non vi erano tanto i prodotti escogitati dagli apprendisti stregoni delle Investment Bank o dalle divisioni CIB delle banche più o meno globali, quanto l'abbandono di quello che è quasi un presupposto dell'attività creditizia e che consiste nella attenta valutazione del merito del richiedente una qualsivoglia forma di finanziamento ed è esattamente quello che è accaduto quando l'erogazione di mutui e finanziamenti collegati al credito al consumo sono state di fatto appaltate dalle banche a società finanziarie che concedevano mutui e prestiti non guardando troppo per il sottile tanto i destinatari finali di questi mutui e finanziamenti sarebbero stati acquisiti dalle banche di ogni ordine e grado previa trasformazione degli stessi in pacchetti che, grazie all'aggiunta di un po' di Treasury bond avrebbero ricevuto la tripla A dalle molto compiacenti agenzie di rating.

Sembrava un meccanismo perfetto e numerose sono le evidenze che queste stesse finanziarie sollecitassero i futuri mutuatari con contatti di vario tipo e che spingevano quelli che allora erano affittuari ad impegnarsi per un mutuo che spesso aveva lo stesso importo dell'affitto che stavano pagando in precedenza.

Questa sottovalutazione del rischio era mitigata da clausole contrattuali che impegnavano le suddette finanziarie a riprendere in carico i mutui in presenza di un predeterminato livello di default.

Come spesso accade il diavolo si nasconde appunto nei dettagli e così accadde che in un giorno di settembre del 2007 la quasi totalità delle finanziarie a stelle e strisce fecero simultaneamente ricorso alla protezione del Chapter 13 della legge fallimentare statunitense e ciò impedì alle banche di rivalersi sulle stesse finanziarie anche se va detto che il fenomeno aveva raggiunto dimensioni tali che tale travaso sarebbe stato del tutto impossibile.

La contromossa delle banche a stelle e strisce peggiorò le cose perché, a differenza di quelle britanniche che, grazie anche alla pressione di Governo e banca centrale acconsentirono di riprendersi le case trasformando gli ormai ex proprietari in affittuari, si affrettarono a mettere all'asta le case dei moltissimi che non riuscivano più a tenere fede agli impegni presi, determinando un crollo verticale dei prezzi delle abitazioni.

E' illuminante il caso di Newark, località molto ambita per la relativa vicinanza dalla metropoli statunitense che divenne a seguito delle procedure esecutive delle banche un vero e proprio deserto.

Non voglio con questo esaurire il discorso sui problemi perché, oltre ai subprime e i finanziamenti per il credito al consumo (e non sottovalutando l'enorme impatto delle micidiali carte di credito revolving) vi era stata una proliferazione di titoli tossici questi sì dovuti alle alchimie dei sovramenzionati apprendisti stregoni di Investment Bank e di fabbriche prodotto delle divisioni di Corporate &Investment Banking delle banche più o meno globali.

A tutto questo si aggiunga che nel diritto statutinitense esiste la fattispecie del fallimento delle persone fisiche e che lo stesso toccò in sorte in quella dramma ad un numero sterminato di persone, creando peraltro le basi per quel sentimento di rabbia che nel 2016 ha avuto grande parte nell'elezione a Presidente degli Stati Uniti d'America di un politico altrimenti improbabile come Donald Trump.

Credo che siano pochi quelli che hanno dimenticato le drammatiche scene degli assalti agli sportelli della britannica Northern Rock, motivati da qualcosa di più serio che la bella favoletta narrata in Mary Poppins della bambina che chiede indietro al presidente della banca i suoi due pence.

Al crollo immobiliare, sempre negli States, fece seguito quello delle auto più o meno di lusso, con auto del valore di decine di migliaia di dollari che si vendevano ad un quarto se non ad un quinto del valore.

Pur disponendo come Segretario al Tesoro di una vecchia volpe come Hank Paulson che le magagne strutturali del sistema finanziario a stelle e strisce e di quello globale, il presidente Bush lasciò che le cose seguissero il loro corso, mandando in soffitta l'antico adagio del Too Big to Fail con il clamoroso e devastante fallimento di Lehman Brothers, vero e proprio agnello sacrificale in omaggio alla teoria del laissez faire e fu solo con l'avvento di Obama e il quasi contestuale licenziamento di Paulson che si aprì la strada a quella che forse era l'unica via di salvezza possibile, aprendo presso le varie sedi della Fed enormi "discariche" per decine di migliaia di miliardi di titoli più o meno tossici, con l'impegno delle banche a restituire appena possibile quanto ricevuto.

Molto diversa è la posizione di Mario Draghi che, come ho sottolineato più volte, oltre ad essere il Governatore della Banca d'Italia era anche il presidente della commissione istituita tra le banche centrali per riscrivere le regole del mercato finanziario globale ed è in questa veste che indice una riunione a porte chiuse in un noto albergo di Manhattan con tutti i banchieri globali e anche se non esistono verbali del suo discorso i giornalisti in attesa all'esterno raccontarono di un clima post riunione tutt'altro che allegro.

(segue)

 

 

 

 

La nomina di Draghi al vertice di Bankitalia precede di soli sei mesi quella di Hank Paulson al dicastero del Tesoro a stelle e strisce, nomina fortemente voluta dal presidente in carica George W Bush che si trovava allora nella seconda parte del suo secondo mandato presidenziale.

Come ho avuto più volte modo di sottolineare nelle puntate precedenti, quella di Paulson fu una scelta molto dolorosa sul piano personale e questo sia sotto il profilo reddituale (come Chairman e CEO della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs guadagnava infatti 100 milioni tondi di dollari l’anno) sia sotto quello del potere effettivo.

Va, inoltre, sottolineato che il ruolo delle Big Five le cinque grandi Investment Bank a stelle e strisce, così come quello di alcune delle maggiori Corporation le collocava (e in qualche modo le colloca tuttora) ben al di sopra dei governi di tutto l’orbe terracqueo, Stati Uniti pienamente inclusi.

Ma il “sacrificio” di Mario Draghi prima e del suo ex capo solo sei mesi dopo aveva ben solide radici nel sempre più traballante mondo della finanza globale, a causa ma non solo delle crescenti degenerazioni nell’operativita’ delle fabbriche prodotto delle banche più o meno globali e delle stesse Investment Bank che sono di per sé fabbriche prodotto.

Nel corso del mio intervento al Convegno sulla crisi finanziaria svoltosi nel 2008 al residence Ripetta (gli altri relatori erano i professori Luigi Spaventa, Paolo Leon ed Elsa Fornero) cercai di offrire uno spaccato dell’ operatività delle fabbriche prodotto anche perché la Direzione Finanza della BNL nella quale operavo come economista si era trasformata, dopò l’acquisizione da parte di BNP Paribas in una appendice della Corporate&Investment Banking della Casa Madre.

Tutti ricorderanno gli scricchiolii del primo trimestre del 2007, ma, come ho già ricordato, che il re fosse nudo lo certificarono il 7 agosto di quello stesso anno le più importanti banche del mondo partecipanti al mercato dell’EURIBOR rifiutando di applicare le altre banche per il semplice motivo che nessuna su fidava delle altre e la situazione senza precedenti si sblocco’ solo dopo un intervento in extremis della BCE che inietto’ nel corpo rigido del sistema interbancario globale un’iniezione di svariate centinaia di miliardi di euro.

A quel punto fu chiaro ai più quello che sino a quel momento era evidente solo ai massimi regolatori del sistema finanziario globale e cioè che i partecipanti di ogni ordine e grado avevano realmente esagerato e che quelle stesse agenzie di rating che avrebbero dovuto certificare la bontà dei prodotti avevano compiuto azioni letteralmente incredibili e per le quali furono costrette molto successivamente a pagare sanzioni multimiliardarie, ma fu altresì chiaro ai più che oramai la frittata era fatta.

Uno degli errori più comuni in cui si incorre nella analisi ex post di quella terribile fase denominata sin da subito ed a ragione la Tempesta Perfetta consiste nel ritenere che alla base della più grave crisi finanziaria dopo quella del 1929 vi siano state operazioni molto complesse elaborate da quelli che nelle puntate del “Diario della crisi” ho definito gli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle CIB delle banche più o meno globali e certamente questi si sono dati molto da fare nell’ escogitare prodotti molto astrusi, ma alla base dell’ondata ci fu un’operazione molto semplice ma non per questo meno delittuosa, ma di questo parlerò nella prossima puntata.

(segue)

 

 

Quando Mario Draghi oltrepassa l'ingresso della sede centrale della Banca d'Italia è ben consapevole di essere un corpo estraneo per quella istituzione con la quale aveva avuto solo un rapporto di consulenza successivo al lunghissimo periodo di formazione post laurea al MIT di Cambridge, Massachussets (periodo nel quale aveva molto probabilmente usufruito di una borsa di studio Stringher o Mortara, dettaglio tuttavia non chiarito nel suo curriculum desuto da Wikipedia o dalla Treccani) e quando era già professore ordinario presso l'Università degli studi di Firenze.

C'era stato in passato il precedente di Guido Carli, Ministro per il Commercio Estero prima di approdare in Via Nazionale, ma si trattava di un personaggio che aveva, direttamente o indirettamente vigilato sul delicato tema degli scambi valutari quando gli stessi erano soggetti ad esplicita autorizzazione governativa.

Come ho già avuto modo di notare nella puntata precedente, la Banca d'Italia nella quale Draghi assume la posizione di vertice era ben diversa da quella nella quale avevano operato i suoi predecessori, differenze sostanziali avvenuti dopo la creazione della Banca Centrale Europea e dopo l'ingresso della lira nell'euro, circostanze queste che privavano Via Nazionale delle funzioni di politica monetaria e, cosa non certo meno rilevante alla luce del fortissimo processo di concentrazione avvenuto negli anni precedenti delle stesse funzioni di Vigilanza sugli istituti di credito di maggiori dimensioni che da soli rappresentavano oltre il sessanta per cento del totale dell'attivo del sistema.

Ma vi era un'altra sostanziale differenza con le banche un tempo vigilate ed era rappresentata dal fatto che i sindacati interni di Bankitalia non erano, a differenza dei loro colleghi delle banche italiane di ogni ordine e grado, stati travolti dalle incisive innovazioni contrattuali del "contratto di svolta" del 1999, un contratto che mise la parola fine alla categoria dei funzionari, diluì significativamente l'impatto dell'anzianità e creò una dirigenza di ingresso caratterizzata da un livello retributivo inferiore a quello dei funzionari di maggiore livello e anzianità.

Questa differenza aveva fatto sì che le previsioni contrattuali e i trattamenti retributivi dei dipendenti della Banca d'Italia venissero ad avere quelle caratteristiche distintive rispetto alle banche del sistema rafforzando il concetto di Istituzione con livelli di autonomia simile a quelli dei dipendenti di Camera e Senato, Presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale, Corte dei Conti e via discorrendo.

Draghi non disponeva quindi di un armamentario non solo economico ma anche, e soprattutto, normativo che aveva consentito ai neo formatisi grandi gruppi bancari di accompagnare la loro ristrutturazione e concentrazione ottenuta pressoché senza colpo ferire grazie alla estrema disponibilità delle sigle sindacali di settore, disponibilità che le sigle sindacali interne a Bankitalia rifiutarono fermamente di prestare.

E' importante questa sottolineatura per comprendere come mai il nuovo Governatore fu costretto a profondere parecchie energie per far passare il suo progetto di riforma della sede centrale e di quelle periferiche della banca centrale, mettendo in campo quella capacità di ascolto che sedici anni più tardi gli avrebbe consentito di varare un Governo con un sostegno di larghissima parte delle alquanto riottose forze politiche italiane.

Qui torniamo all'importanza del percorso formativo di Draghi, con particolare riferimento al periodo trascorso in quella vera e propria fucina di premi Nobel che è il Massachussets Institute of Technology, una fase nella quale evidentemente apprese l'arte di comprendere fino in fondo le posizioni degli interlocutori mantenendo comunque le sue posizioni, doti che gli furono fondamentali nel decennio in cui riuscì a vendere in modo brillante i "gioielli di famiglia" dello Stato italiano, contribuendo ad abbassare di dieci punti il rapporto debito/PIL, avendo come controparti banche di affari, potentati economici italiani e internazionali e dovendo rispondere a Premier e Ministri dell'Economia che si susseguivano a raffica.

L'altra caratteristica distintiva di Draghi è stata, nel tempo, la capacità di individuare collaboratori cui delegare parte del lavoro e sfido chiunque dal ricordarne i nomi, a parte quelli dei Sottosegretari alla Presidenza del Consiglio nei diciotto mesi del suo Governo.

Come ho, peraltro, avuto modo di dire nella puntata precedente, Draghi da un lato e Hank Paulson dall'altro erano, in tempi leggermente diversi e con responsabilità differenti chiamati ad un compito ben più importante e che era quello di rabberciare le sempre più evidenti falle nei velieri della finanza più o meno globale che si stavano preparando ad affrontare gli alti marosi della Tempesta Perfetta, ufficialmente iniziata il 7 agosto del 2007, ma che i cui prodromi erano perfettamente chiari agli uomini ai vertici della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs.

Ma di questo argomento che mi ha visto impegnato per dieci anni nella redazione quotidiana del "Diario della crisi" un blog di Google seguito da lettori di 92 paesi del mondo parlerò più diffusamente nelle prossime puntate. (segue)

 

 

E’ la fine di dicembre del 2005 quando Mario Draghi è nominato Governatore della Banca d’Italia al posto dell’indagato Antonio Fazio ed è possibile dire che l’istituzione un tempo faro della politica monetaria e occhiuta vigilatrice della politica economica dei governi con vita media di diciotto mesi è ormai al livello reputazionale più basso della sua lunga storia.

Prescindendo dalla ovvia constatazione che, al pari delle banche centrali dei paesi dell’area dell’euro, non dispone più della potestà in materia monetaria e non ha diretta autorità in materia di vigilanza sulle banche di maggiori dimensioni (in virtù del rapido processo di concentrazione nel settore creditizio ciò significa che oltre il sessanta per cento del totale dell’attivo delle banche italiane e’ direttamente sotto la vigilanza di Francoforte), ma il problema in quel di Via Nazionale è molto più grave e complesso.

L’uscita di Carlo Azeglio Ciampi divenuto Presidente del Consiglio dei Ministri a seguito del collasso del sistema dei partiti della prima Repubblica conseguente al fenomeno di Tangentopoli aveva, infatti, innescato un gioco di veti incrociati di cui furono vittime sia il Direttore Generale Lamberto Dini che il membro del Direttorio Padova Schioppa e quindi la nomina di Antonio Fazio fu in larga parte il risultato di questa conventio ad escludendum e forse determinata dal carattere un po’ incolore dell’uomo di Alvito.

Non sarà questo il primo ne’ l’ultimo caso di palese sottovalutazione della pericolosità del cosiddetto uomo tranquillo che muta aspetto nel momento in cui assurge ad una carica di tal potere.

Come economista della Direzione Finanza della BNL, ho avuto modo di sentire di persona i dubbi del Governatore in sede degli incontri annuali del Forex sulla possibilità dell’ingresso della lira nell’euro sin dalla fase del suo avvio, l’ultimo di tali interventi a ridosso della notte in cui vennero stabilite le parità fisse e irrevocabili tra le valute partecipanti.

Come ho avuto modo di sottolineare in quattro articoli sull’argomento, la lira aveva recuperato ma aveva ancora molto spazio di recupero nei confronti delle principali valute europee ma occorreva da dodici a diciotto mesi almeno, ma la mia era la posizione di un economista aziendale e non quella del Governatore della Banca d’Italia che avrebbe dovuto agire in sintonia con il Governo e, in questo caso, la presidenza della Repubblica, carica peraltro ricoperta allora dal suo autorevole predecessore in Via Nazionale.

Le cose dette sopra inducono a più di un dubbio sulla convenienza per Mario Draghi di accettare un incarico che lo avrebbe costretto a rinunciare ad una posizione d’oro in Goldman Sachs, inclusa la doverosa necessità di costituire in fretta e furia un blind trust delle sue rilevanti posizioni personali, ma forse c’è una risposta a questo interrogativo ed è data dal fatto che ai livelli cui operava Draghi (da circa un anno era stato cooptato nel comitato esecutivo mondiale di Goldman Sachs) era perfettamente in grado di percepire i rischi presenti nel mercato finanziario globale e, come il numero uno della potente ma ancor più preveggente Goldman, Hank Paulson, che lascia una posizione da 100 milioni di dollari per andare a fare il Segretario di Stato al Tesoro per poche centinaia di migliaia di dollari.

Non è d’altra parte un caso se da neo nominato Governatore tutti i suoi colleghi al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico e di quello Pacifico si trovano pressoché totalmente d’accordo nel ritenerlo la persona più indicata per ricoprire l’incarico di presidente di un importante organismo incaricato di riscrivere le regole del mercato finanziario globale che i li a poco più di un anno andrà letteralmente a carte quarantotto. (segue)

 

Alla vigilia del suo novantaquattresimo compleanno, il Leone di Omaha ha avuto la soddisfazione di vedere la sua creatura, Berkshire Hathaway, raggiungere e superare la soglia del trilione di miliardi di dollari, unica società estranea al mondo Hi Tech a raggiungere un tale livello di capitalizzazione.

Eppure il nostro ha fatto parlare di sé per un altro motivo e cioè per la sua decisione di uscire gradualmente da buona parte dei suoi investimenti azionari, partecipazioni affatto secondarie (si pensi alla rilevante partecipazione in Apple, società nella quale pur avendo dimezzato la quota rimane socio al nove per cento o a quella in Bank of America).

D’altra parte, l’anziano investitore non è nuovo al quasi totale abbandono del mercato azionario, lo ha fatto alla vigilia di almeno quattro delle ultime crisi finanziarie, inclusa quella profondissima del 2007-2008, la cosiddetta Tempesta Perfetta, ma l’entità delle attuali “uscite” (non è modo di sapere se terminate) presenta dimensioni tali da far sì che il suo fondo e’ divenuto il primo possessore di Treasury Bills a un mese, superando addirittura la Federal Reserve e nelle sue comunicazioni ai partecipanti comunica la sua piena soddisfazione per il rendimento elevato dovuto anche all’attuale inversione della curva dei rendimenti, situazione che gli garantisce un reddito risk free di 12 miliardi l’anno.

Un giornalista con cui ho parlato della mossa di Buffett, faceva risalire il suo comportamento all’età dell’Oracolo di Omaha ma poi ho scoperto che era nato nello stesso anno del mio figlio minore e ho capito perché quella vecchia volpe di Carlo De Benedetti se ne era prontamente liberato!

 

Quello del 5 agosto scorso è stato uno shock quasi paragonabile a quello vissuto dal mercato dell’ EURIBOR il 7 agosto del 2007 (per gli smemorati e’ quando le banche partecipanti al sistema smisero

di prestarsi i soldi l’un l’altra e dovette intervenire la BCE inondando il mercato per centinaia di miliardi di euro).

Improvvisamente tutti i commentatori e gli analisti si sono affrettati a spiegare quello che da mesi era più che chiaro e che aveva indotto gli investitori più accorti ad uscire dal mercato e diventare “liquidi”.

Ma quello che è più comico se non fosse tragico è che nei giorni successivi, a fronte di un parziale rimbalzo, gli stessi commentatori e analisti gridavano allo scampato pericolo e diffondevano ottimismo a piene mani, il tutto dimenticando un particolare che è però grande come una casa.

E cioè che negli anni delle vacche grasse corporation e banche hanno fatto approvare dalle rispettive assemblee degli azionisti corposi, a volte corposissimi, piani di buy back e che ora sono costrette a renderne pubblica l’esecuzione.

Così veniamo a scoprire che in un mercato sottile, quale è quello agostano, aziende e banche di quasi ogni ordine e grado stanno acquistando a man bassa le proprie azioni anche se con risultati tutto sommato alquanto modesti, circostanza che ci fa ben comprendere il “reale moto di fondo” del mercato!

 

L'estradizione in Italia di Danilo Coppola, protagonista insieme a Stefano Ricucci e altri della stagione dei "furbetti del quartierino" ci porta dritti dritti a quella bancopoli che vede le tentate acquisizioni della Banca Nazionale del Lavoro da parte del Banco Bilbao Vizcaja y Argentaria e della banca Antonveneta da parte dell'olandese banca ING, due operazioni ostacolate in modo quasi spudorato dall'allora Governatore di Bankitalia Antonio Fazio e dal dirigente centrale addetto alle autorizzazioni di operazioni di simile natura.

Alla prima di tali operazioni si opposero Coppola, Ricucci e l'allora patron di Unipol, Giovanni Consorte, mentre per sbarrare la strada agli olandesi si mosse, facendo il possibile e l'impossibile, l'allora dominus della Banca Popolare di Lodi, Gianpiero Fiorani che non faceva mistero della amicizia con Antonio Fazio.

Successive e tempestive indagini di diverse procure portarono a bloccare l'acquisizione dell'Antonveneta da parte della Popolare di Lodi (nel frattempo ribattezzata Banca popolare Italiana) e all'arresto del suo presidente e allo scioglimento degli organi societari della banca nel frattempo acquisita, mentre per la BNL, ritiratosi il BBVA, vi fu l'acquisizione da parte del colosso creditizio francese Bnp Paribas.

Le indagini della magistratura investirono anche il Governatore Fazio e il suo dirigente centrale con l'accusa di aggiotaggio per la quale sarà successivamente condannato con sentenza confermata in cassazione, ma il caso sollevò tali e tante reazioni politiche trasversali da indurre il Governatore a rassegnare le sue dimissioni il 19 dicembre del 2005, dimissioni che portarono contestualmente ad una riforma che prevedeva che la carica non fosse più senza scadenza ma fosse limitata a sei anni rinnovabili una sola volta.

L'allora Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, fu quasi costretto dal clamore delle due vicende, in particolare di quella relativa a BNL (si ricordi la famosa telefonata nella quale Piero Fassino chiede all'uomo al vertice di Unipol: "Allora abbiamo una banca?") a chiamare Mario Draghi al vertice della Banca d'Italia, considerando l'economista allora in forza alla potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs un altissimo tecnocrate non schierato politicamente.

Del pentimento di Francesco Cossiga abbiamo già parlato, ma certamente l'evoluzione futura della carriera di Draghi da Bankitalia al vertice della Banca Centrale Europea con annesso memorandum inviato al Governo italiano che costrinse Berlusconi a rassegnare le dimissioni verso la fine del 2011, aprendo la strada al Governo tecnico di Mario Monti, un personaggio che, seppur per strade diverse, presenta parecchie affinità con Mario Draghi.

Prima di Fazio, solo una volta Bankitalia aveva dovuto subire, ma allora si trattava di una manovra giudiziaria del tutto pretestuosa, che toccò l'allora Governatore Paolo Baffi e il Direttore Generale Mario Sarcinelli che ottennero entrambi giustizia, ma ben diverse erano le accuse mosse ad Antonio Fazio, accuse che, come detto, trovarono conferma in caso in via definitiva e nel secondo grazie alla prescrizione.

Anche Fazio, come dopo di lui, Draghi, aveva frequentato l'MIT con Franco Modigliani, ma la sua permanenza si limitò ad un solo anno contro i sei di Draghi e anche il suo corso di studi è stato ben diverso in quanto Fazio si è diplomato geometra e non ha certo frequentato il liceo Massimo. L'unico punto di contatto è la laurea in Economia presso la Sapienza di Roma.

Va, inoltre, ricordato che Draghi era un corpo estraneo a Bankitalia con la quale aveva solo un rapporto di consulenza e non aveva certo percorso tutti i gradini della carriera in Via Nazionale e ciò è ben dimostrato dal fatto che all'inizio i suoi progetti di riforma dell'istituto sia a livello centrale che periferico incontrarono un forte resistenza da parte degli agguerriti sindacati del personale, sindacati che godevano di una forte autonomia all'interno delle rispettive sigle di appartenenza, ma in questo, come in altri casi, Draghi dimostrò una rapidissima capacità di adattamento e una sagace scelta dei più stretti collaboratori.

Ma c'è un aspetto che non è stato, almeno a quanto mi risulta, molto sottolineato ed è rappresentato dal fatto che sin da neonominato Governatore assurge alla Presidenza del comitato istituito tra le banche centrali, comitato incaricato di sorvegliare il mercato finanziario globale e, in particolare dopo la crisi del 2007-2008 riscriverne, in modo anche radicale, le regole di funzionamento.

Un incarico (mantenuto anche quando il comitato mutò denominazione) che lo portò a radunare, nella fase più calda della crisi finanziaria, a convocare una riunione a porte chiuse in un albergo di Manhattan i massimi esponenti delle banche più o meno globali per esporre le linee guida di quelle nuove regole rispetto ad un'operatività che ben conosceva dall'esperienza triennale in quella che forse è la più grande Investment Bank al mondo e il cui Chairman e CEO sedeva, dopo aver lasciato un incarico da 100 milioni di dollari, al vertice del Tesoro a stelle e strisce (un incarico che prevedeva un appannaggio di poche centinai di migliaia di dollari. (segue)

 

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